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Ambiente, società e tecnologia

Multa a Google: 100 milioni di euro per concorrenza sleale

L’antitrust italiana, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, ha recentemente inflitto una sanzione di oltre 100 milioni di euro a Google (Alphabet Inc., Google LLC e Google Italy S.R.L.) per abuso di posizione dominante.

 

Google vs Enel X Italia

Google LLC è una società multinazionale interamente posseduta e controllata da Alphabet Inc, la quale è presente anche in Italia tramite Google Italy S.R.L., impresa controllata.

Google LLC è altersì la holding, ovvero la società che detiene la maggioranza delle azioni e il controllo in un gruppo di imprese, a cui Android, Android Auto, Google Play e Google Maps fanno capo.

Il sistema operativo Android comprende l’app store Google Play e Android Auto, un’applicazione che consente l’uso dello smartphone all’interno dell’automobile tramite comandi vocali, comandi manuali o l’uso dello schermo digitale se presente, in modo tale da guidare senza il rischio di distrarsi. Google lo ha annunciato il 25 Giugno 2014 rendendolo disponibile poi a Marzo 2015.

All’interno di questa vicenda troviamo come parte coinvolta il Gruppo Enel che opera nella mobilità elettrica tramite Enel X Italia S.R.L., il quale fornisce ai clienti finali tali servizi.

Enel X Italia è lo sviluppatore dell’applicazione JuicePass (denominata Enel X Recharge), disponibile da Maggio 2018 sull’app store Google Play, che consente di gestire i servizi di ricarica dei veicoli elettrici, in particolare quelli di ricerca di colonnine di ricarica, navigazione, prenotazione e pagamento. Quest’ultima però non è disponibile su Android Auto.

 

Google ha favorito per due anni il suo prodotto: Google Maps

Tutto ha avuto inizio nel 2019, quando è stato avviato il procedimento da Enel X Italia nei confronti di Google. A seguito di una richiesta diretta e formale, in quanto Google non ha mai consentito di rendere disponibile sulla piattaforma Android Auto l’applicazione JuicePass sviluppata da quest’ultima.

La questione di fondo sta proprio nel fatto che Google, grazie al controllo che ha su Android Auto e Android, ha il potere di decidere quali applicazioni devono essere pubblicate o meno sull’app store. In questo modo Google ha ingiustamente limitato le possibilità per gli utenti di utilizzare tale applicazione e in particolare il Garante ha ritenuto che abbia invece favorito, in questi 2 anni, l’utilizzo di un suo prodotto ovvero Google Maps, il quale fornisce servizi per la ricarica dei veicoli elettrici quali la ricerca e la navigazione, ma non ancora la prenotazione e il pagamento.

Secondo l’Autorità “attraverso il sistema operativo Android e l’app store Google Play, il motore di ricerca Google detiene una posizione dominante che le consente di controllare l’accesso degli sviluppatori di app agli utenti finali”, in particolare in Italia: “circa i tre quarti degli smartphone utilizzano Android. Google è un operatore di assoluto rilievo, a livello globale, nel contesto della cosiddetta economia digitale e possiede una forza finanziaria rilevantissima”.

 

L’abuso di posizione dominante

La condotta messa in atto da Google, di ostacolo alla pubblicazione dell’app sviluppata da Enel X Italia sulla piattaforma Android Auto, rientra nell’ambito dell’articolo 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea che così disciplina: “È incompatibile con il mercato interno e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo.”

Si ritiene che Google abbia abusato della sua posizione dominante nel mercato, indiscussa, essendo potenzialmente idonea a pregiudicare il commercio all’interno dell’Unione Europea.

Tale abuso si concretizza quindi quando un’impresa sfrutta il proprio potere dominante per impedire l’accesso al mercato anche agli altri concorrenti rendendo nulla la concorrenza.

Si è anche messo in luce il fatto che egli detiene una quota di mercato della concessione di licenze pari al 96,4%, in tal senso è deducibile che il confronto con altre società è quindi impossibile.

Si è quindi imposto a Google di porre fine ai comportamenti distorsivi della concorrenza messi in atto e di astenersi dal compierne altri nel futuro.

 

La diffida dell’Autorità

In tal senso oltre che l’irrogazione della sanzione pecuniaria, l’Autorità ha poi indicato nella diffida il comportamento che Google dovrà tenere per porre fine a tale abuso e per evitare ulteriori effetti negativi nei confronti di Enel X Italia. Gli è stato quindi imposto di mettere a disposizione di quest’ultima gli strumenti necessari per la programmazione di applicazioni che permettono l’interazione con Android Auto. È stata anche prevista un’attività di vigilanza, da parte di un esperto nel settore, per poter verificare l’effettiva e corretta attuazione di tali obblighi imposti.

 

Google in disaccordo

“Siamo rispettosamente in disaccordo con la decisione dell’AGCM, esamineremo la documentazione e valuteremo i prossimi passi”. Questo è quello che è stato affermato da un portavoce di Google. “La priorità numero uno di Android Auto è garantire che le app possano essere usate in modo sicuro durante la guida. Per questo abbiamo linee guida stringenti sulle tipologie di app supportate sulla base degli standard regolamentari del settore e di test sulla distrazione al volante.”

Secondo Google ciò costituirebbe una giustificazione oggettiva al proprio comportamento. Inoltre, rivendica anche di aver provato in buona fede a proporre ad Enel X delle soluzioni ulteriori che potessero soddisfarla ma esse non furono accettate.

 

Una vittoria per Enel

Per Enel invece questo rappresenta uno stimolo per l’innovazione e per fronteggiare la concorrenza con i fornitori di servizi di mobilità. Ha così affermato: “Vogliamo arrivare a mappare 200mila punti di ricarica fra Europa e Stati Uniti e a Ottobre avremo la funzione Trip Planning, che permette di calcolare il percorso da un punto a un altro tenendo conto dell’autonomia dell’auto e delle colonnine di ricarica presenti sull’itinerario”. Gli obiettivi sono forti e chiari dovuti anche alla netta vittoria su Google.

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Emission Trading Scheme, uno strumento per la lotta al cambiamento climatico

Secondo analisi condotte dalla NASA, il 2020 è stato l’anno in cui si è registrata la più alta temperatura media globale della superficie terrestre e secondo gli scienziati del Goddard Institute for Space Studies (GISS), la temperatura media globale nel 2020 è stata di 1,02 gradi Celsius più calda della media di riferimento 1951-1980 e di oltre 1,2 gradi Celsius più alta dei dati della fine del XIX secolo. È praticamente innegabile: siamo nel bel mezzo di un cambiamento climatico.

Negli ultimi anni la lotta al cambiamento climatico è stata sia un fatto mediatico sia un tema politico e in questo ultimo ambito l’Europa vorrebbe imporsi con il ruolo di guida puntando a realizzare un continente a impatto climatico zero entro il 2050, in linea con l’accordo di Parigi.

Sono moltissimi gli strumenti che il vecchio continente sta cercando di integrare per il raggiungimento degli obiettivi climatici, tra questi ne abbiamo alcuni più noti, come il Green Deal, e altri che lo sono meno come l’Emission Trading Scheme (ETS).

ETS: in cosa consiste?

L’ETS, ossia il sistema di scambio di quote di emissione dell’Unione Europea, è – afferma l’Europa – “uno strumento essenziale per ridurre in maniera economicamente efficiente le emissioni di gas a effetto serra e rappresenta il primo mercato mondiale della CO2”. Nasce nel 2005 con lo scopo di limitare il volume totale delle emissioni di gas a effetto serra prodotte dagli impianti e dagli operatori aerei ritenuti responsabili di circa il 50% delle emissioni di gas a effetto serra dell’UE e, ad oggi, copre le emissioni di molte centrali elettriche, molti impianti industriali e parte delle emissioni del traffico aereo tra i 31 paesi aderenti.

L’ETS è basato su un principio definito “cap-and-trade” e procede mediante la fissazione di una quantità massima di emissione, definita tetto, successivamente la quantità individuata viene divisa in singole unità. Ciascuna di queste unità è incorporata in un singolo certificato che dà loro il permesso di emettere una certa quantità di gas serra in atmosfera. Alla fine di ogni anno le società devono possedere un numero di quote sufficiente a coprire le loro emissioni se non vogliono subire pesanti multe. Se un’impresa riduce le proprie emissioni, può mantenere le quote non utilizzate per coprire il fabbisogno futuro oppure venderle a un’altra impresa che ne sia a corto. La vendita dei certificati avviene su un mercato borsistico costruito ad hoc dall’Unione Europea ma non tutte le quote finiscono in borsa, infatti, parte delle stesse vengono assegnate alle attività aprioristicamente dall’UE in base alle emissioni degli anni precedenti.

I certificati di inquinamento, per svolgere correttamente il loro lavoro, dovrebbero essere mantenuti a un prezzo medio-alto affinché vengano favoriti gli investimenti in tecnologie a basso rilascio di CO2. Un’altra caratteristica del mercato ETS è che il tetto di emissioni viene ridotto progressivamente nel tempo di modo da favorire la diminuzione delle emissioni totali. Il sistema ETS è un modo molto alternativo dell’applicazione del principio “chi inquina paga” e in particolare la sua attuazione avviene attraverso un meccanismo incentivante: chi inquina poco, non solo è virtuoso ma può rivendere le quote assegnategli e trarne profitto.

ETS: le fasi di sviluppo

Il mercato ETS ha conosciuto finora 3 fasi.

La prima di queste fasi, durata solo due anni, rappresentava una prova, in preparazione della fase successiva, ed era caratterizzata da 3 elementi.

Innanzitutto, essa si limitava a considerare le emissioni di CO2 provenienti dagli impianti energetici e dalle industrie che utilizzavano in modo intensivo l’energia.

Secondo, le quote di emissione, quasi tutte, erano assegnate alle imprese a titolo gratuito e, ultimo aspetto, le sanzioni previste in caso di mancato rispetto degli obblighi, corrispondevano a 40 euro per tonnellata. In termini di obiettivi raggiunti, attraverso la fase 1 si è riusciti a stabilire il prezzo per la CO2, il libero scambio di quote di emissione in tutta l’UE e l’infrastruttura richiesta per controllare, comunicare e verificare le emissioni dei soggetti interessati. Aspetto rilevante e non trascurabile della fase 1 riguarda la mancanza di dati attendibili sulle emissioni. Condizione, questa, che ha portato al dover fissare i tetti di riferimento sulla base di stime. La conseguenza diretta risiede nel fatto che la totalità di quote assegnate superava le emissioni, facendo scendere il valore delle quote, arrivando a zero nel 2007.

La seconda fase (2008-2012) corrisponde con il primo periodo d’impegno del protocollo di Kyoto e possiede molteplici caratteristiche.

Innanzitutto, si è verificata un’estensione, sia in termini di nuovi paesi aderenti (Islanda, Liechtenstein e Norvegia) sia di sistema, attraverso la considerazione delle emissioni di ossido di azoto e del settore aereo (quest’ultimo inserito il 1° gennaio 2012).

Altri elementi che caratterizzano la fase 2 sono le proporzioni di quote assegnate a titolo gratuito, leggermente ridimensionate a circa il 90%, l’organizzazione di aste da parte di diversi paesi, l’aumento del valore delle sanzioni (da 40 a 100 euro per tonnellata), la sostituzione dei registri nazionali con un registro dell’Unione e la sostituzione del catalogo indipendente comunitario delle operazioni (CITL) con il catalogo delle operazioni dell’Unione europea (EUTL).

Nella fase 2 erano presenti i dati verificati sulle emissioni della fase 1, permettendo così di fissare i tetti sulle quote sulla base delle emissioni effettive. Tetti che risultavano essere inferiori del 6,5% rispetto a quelli del 2005. All’interno della fase 2, la crisi economica del 2008 ha provocato una riduzione importante delle emissioni rispetto alle previsioni, generando un eccesso di quote e di crediti, che ha pesato molto sul prezzo della CO2 per tutta la fase 2.

Nella terza fase (2013-2020) si è verificato un cambiamento importante riguardo il tetto delle emissioni. Nei due periodi precedenti, ogni paese fissava il proprio limite, a partire da questa fase, invece, è stato imposto il fatto che il tetto di emissioni venga fissato unicamente a livello europeo. Oltre a questo cambiamento, è stato introdotto il metodo autoctioning per l’allocazione dei certificati che, in questo modo, possono essere acquistati mediante un vero e proprio meccanismo d’asta. Inoltre, sono stati coinvolti nuovi settori e sono stati depositati circa 100 milioni di certificati all’interno di una riserva, chiamata “new entrants”, utilizzata per finanziare la predisposizione per le implementazioni di tecnologie innovative attraverso un programma europeo.

All’interno della terza fase, più precisamente nel 2018, è stata rivista la cornice normativa della fase successiva, che va dal 2021 fino al 2030, per garantire la riduzione delle emissioni in funzione degli obiettivi per il 2030 e nell’ambito del contributo dell’UE rispetto all’accordo di Parigi. La revisione ha riguardato 4 aspetti.

Innanzitutto è stato aumentato, a partire dal 2021, il ritmo delle riduzioni del tetto massimo annuo al 2,2%, in maniera tale da rafforzare il sistema ETS come stimolo agli investitori. In questo senso, oggetto di rafforzamento è stato anche la riserva stabilizzatrice del mercato. Si è inoltre stabilito di proseguire con l’assegnazione gratuita di quote a garanzia della competitività dei settori industriali risultanti a rischio di rilocalizzazione delle emissioni di CO2, mantenendo regole mirate e in linea con il progresso tecnologico per l’assegnazione gratuita di tali quote. Ultimo aspetto, si è deciso di supportare, attraverso meccanismi di finanziamento (Fondo per l’innovazione e Fondo per la modernizzazione), l’industria e il settore energetico, in maniera tale da consentirgli di affrontare le sfide dell’innovazione e degli investimenti richiesti dalla transizione verso un’economia a basse emissioni di CO2.

Aspetti critici e prospettive future

 

Una delle poche critiche che si può muovere al sistema ETS è che non sempre riesce a mantenere livelli di prezzo dei certificati sufficientemente alti da disincentivare l’inquinamento. Ad esempio, all’apertura del mercato, nel 2005, emettere una tonnellata di gas serra costava circa 30 euro, dopo poco il prezzo dei certificati è improvvisamente dimezzato. Con la crisi dei debiti sovrani, nel 2010, il prezzo è tornato a scendere vertiginosamente, fino a rasentare la soglia dei 5, e talvolta 3 euro a tonnellata. Il prezzo da pagare per inquinare era talmente basso che per molte nazioni la soglia di convenienza per generazione elettrica si è spostata verso il carbone. Il crollo del prezzo fu anche dovuto al fatto che, diminuita la produzione, post-crisi le imprese disponevano di moltissimi certificati inutilizzati e l’abbondanza degli stessi sul mercato non consentiva la risalita del prezzo nemmeno dopo la stabilizzazione della situazione in uno scenario post-crisi.

Solo nel 2019 i prezzi si erano nuovamente stabilizzati sui livelli pre-crisi ma tutto ciò era stato reso possibile solo grazie al grande sforzo dell’Unione europea che, ridisegnando le regole dell’asta, ha permesso nuovamente. Purtroppo il 2020 è stato teatro di una pandemia mondiale che ha nuovamente inflitto una battuta d’arresto alla produttività europea con conseguente crollo dei prezzi dei certificati. Non ci resta che rimanere aggiornati, nella speranza che, nel momento in cui l’economia tornerà a crescere, il sistema ETS possa rispondere al meglio a questi cambiamenti.

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L’agricoltura diventerà verticale? Limiti e vantaggi del vertical farming

Secondo le statistiche riportate da Our World in Data, ad oggi circa il 57% della popolazione mondiale vive in aree urbane.  Questo dato è destinato a crescere: nel 2050 infatti il 68% degli abitanti del pianeta Terra vivrà nelle città, seppur con notevoli distinzioni tra paesi diversi. Senza contare che, entro lo stesso anno, saremo oltre 9 miliardi: l’attuale sistema di coltivazione industriale dovrà diventare al contempo più efficiente nel rispondere a esigenze crescenti e più sostenibile. E se una delle strade possibili per l’agricoltura fosse conquistare la terza dimensione? Non si parla di fantascienza ma di vertical farming, ovvero coltivazioni basate su “serre verticali”. A Cavenago, in provincia di Milano, è in corso la realizzazione di un progetto di PlanetFarms per la costruzione di uno stabilimento che dovrebbe ospitare serra di oltre 9000 metri quadrati. Questo progetto, come molti altri, si basa su un modello tecnologico e produttivo in cui gli ortaggi vengono coltivati non sul piano di un singolo campo, ma su molteplici livelli: un concetto molto ampio che presenta però alcuni punti critici.

Che cosa sono le serre verticali?

Sebbene il modello possa essere declinato e adattato in molti modi, notiamo alcuni comuni denominatori che permettono di distinguerlo: ritroviamo infatti quasi sempre, secondo la stessa definizione data da Vertical Farm Italia, “un ambiente chiuso, completamente controllato, indipendente da quello esterno per tutti i parametri ambientali (come umidità, luce, ossigenazione e temperatura)”, a cui si aggiunge la necessità che l’ambiente scelto sia abbastanza grande da poter ospitare una produzione su larga scala.

Tra le tecniche più diffuse ci sono l’idroponica e l’aeroponica: entrambe hanno come obiettivi principali l’utilizzo e la distribuzione intelligente delle sostanze nutritive destinate alle piante. Se nell’idroponica le piante affondano le proprie radici non più nel terreno, ma direttamente in acqua, nell’aeroponica vengono lasciate a contatto con l’aria, sospese e periodicamente spruzzate con una soluzione di acqua e nutrienti. Questi obiettivi sono importanti alla luce delle previsioni sulla diminuzione della terra coltivabile pro capite a livello globale: secondo FAO, nel 2050 sarà ridotta a un terzo rispetto al 1970.

I vantaggi dell’agricoltura in verticale

Secondo Vertical Farm Italia, le serre verticali raggiungono un risparmio d’acqua del 90% e, secondo i dati riportati da eitFood, permetterebbero di coltivare, grazie ai piani posizionati uno sopra l’altro lungo scaffali, torri o pareti, molte più piante rispetto all’agricoltura in campo aperto; nel caso della lattuga ci sarebbe una resa per metro cubo di circa 20 volte superiore. In un mondo che si muove verso una più pervasiva urbanizzazione, coltivare su più livelli in edifici, grattacieli o capannoni all’interno delle stesse città potrebbe essere una risorsa per accorciare la distanza che separa il luogo in cui viene effettivamente coltivato un prodotto e i consumatori finali che vivranno nelle aree urbane: il risultato sperato è una filiera che si avvicini all’obiettivo “chilometro 0”.

Un modello perfetto? Assolutamente no: i difetti del vertical farming

Non dobbiamo però farci trarre in inganno dal desiderio di pensare che un possibile strategia per fronteggiare la crisi ambientale sia la soluzione definitiva. In campo agricolo, questo è un modello imperfetto sotto punti di vista molto rilevanti. È infatti costoso per i produttori (e di conseguenza per i consumatori); può funzionare a livello economico per una varietà limitata di specie vegetali, come piccoli ortaggi a foglia verde, erbe aromatiche e bacche da frutto, ma attualmente non per cereali e legumi, alimenti fondamentali nella nostra dieta. Soprattutto, richiede molta energia.

Serre costruite su più livelli sovrapposti infatti raramente possono dipendere dalla luce solare. La tecnologia più diffusa per garantire l’illuminazione costante si basa sui LED, che per quanto siano stati migliorati negli ultimi anni, non possono far sì che la maggior parte dell’energia luminosa da essi erogata venga utilizzata efficacemente dalle piante per la fotosintesi. Questo svantaggio, sommato alla necessità di rendere automatizzati molti dei processi e di mantenere costanti i parametri vitali per le piante in modo artificiale, fa sì che mediamente il costo energetico per un chilogrammo di prodotto superi di 30-176 chilowattora quello per la stessa quantità coltivata in una serra tradizionale. Il problema energetico diventa ancora più grande se le fonti da cui la serra dipende sono fossili e quindi non rinnovabili.

Le serre verticali nel mondo

Sebbene il termine “vertical farming” sia stato coniato nel 1915 dal geologo Gilbert Ellis Bailey, bisogna tornare nel 2012 a Singapore per trovare la prima vera e propria serra verticale già competitiva sul mercato: SkyGreens, che ha cercato di risolvere il problema dell’illuminazione attraverso un sistema di rotazione dei suoi 38 piani che funziona grazie all’energia idraulica: ogni pianta può ricevere la luce solare, anche se non in modo costante. Un’altra azienda, AeroFarms, tra le più grandi attualmente, è stata lanciata nel 2004. Incentrata sulla ricerca nel campo dell’aeroponica, ad oggi possiede serre nel New Jersey, ad Abu Dhabi e a Danville, in Virginia.

Se da una parte le serre verticali sembrano un mercato in crescita e possono rispondere ad alcuni problemi ambientali, come lo spreco di acqua e di suolo, dall’altra ne creano di nuovi e non sono ad oggi potenzialmente capaci di rimpiazzare i metodi più tradizionali: saranno quindi i risultati futuri della ricerca e l’effettiva applicazione di questo sistema a decidere se il vertical farming sia una buona strada possibile per innovare l’agricoltura e se i suoi benefici riescano a compensare i suoi costi.

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Guida alle piattaforme di streaming: quale scegliere?

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un proliferare senza tregua di piattaforme di streaming di video on demand. Tanto che, a ormai sei anni dall’arrivo di Netflix in Italia, approcciarsi a questa “nuova televisione” è diventato quantomeno complesso per i neofiti. Proprio per questo, noi di iWrite abbiamo deciso di pubblicare questa guida per dare a voi lettori una sorta di fotografia di tutta l’offerta disponibile in Italia, dalle piattaforme più generaliste e conosciute come Amazon Prime Video e RaiPlay a quelle più settorializzate come Dazn e Crunchyroll. Iniziamo!

Netflix

Nonostante il leggero rallentamento di questo trimestre, dovuto anche al consolidarsi della concorrenza e alla fine dei lockdown, Netflix rimane di gran lunga la piattaforma di streaming on demand più conosciuta e iconica. Sulla piattaforma dell’omonima società è possibile trovare serie tv, film, anime e documentari di ogni genere. Oltre che l’offrire un’interfaccia chiara e alla sua brand identity ormai radicata nella cultura popolare, il punto di forza di Netflix sono sempre stati i suoi contenuti originali, spesso realizzati in collaborazione con case di produzione locali: da “The Crown” a “Bojack Horseman”, da “L’isola delle Rose” a “Alice in Bordeland”, molte delle serie tv e film che hanno fatto parlare di sé negli ultimi anni sono state prodotte e, di conseguenza, pubblicate solamente su Netflix. Non stupisce, quindi, che la grande N dello streaming sia la piattaforma con più iscritti sia in Italia, 3.8 milioni a gennaio, sia nel mondo, 250 milioni di clienti. A oggi è possibile sottoscrivere tre diversi abbonamenti a Netflix:

  • Base: €7.99 al mese con definizione standard e accesso da un solo dispositivo alla volta
  • Standard: €11.99 al mese con definizione FULL HD e accesso da due dispositivi contemporaneamente
  • Premium: €15.99 al mese con definizione UltraHD/4K e accesso da quattro dispositivi contemporaneamente

Amazon Prime Video

Similare all’offerta di Netlix è quella di Amazon Prime Video che, a gennaio, contava 2.3 milioni di sottoscrittori. Prime Video offre anch’essa una vasta libreria di film, serie tv, anime e documentari tra cui scegliere. Esattamente come su Netflix, molti di questi sono prodotti in esclusiva da Amazon stessa, tra le produzioni di maggior successo citiamo “The Boys” e “The man in the high castle”. Punto forte della piattaforma è, senza dubbio, il prezzo: vi basterà sottoscrivere un abbonamento a Amazon Prime per soli €36 euro all’anno (€18 se siete studenti universitari) ed avrete accesso a tutti i contenuti video, oltreché agli altri benefit previsti dall’abbonamento. Da notare, anche, come Amazon sembri molto più attenta di Netflix ai gusti dello spettatore medio di programmi televisivi classici, basti pensare allo smisurato successo che ha avuto “LOL: Chi ride è fuori” tra il pubblico generalista e al fatto che lo stesso format, nato in Giappone, sia stato riproposto con successo in ben 8 paesi. È probabile che nei prossimi anni vedremo molti più contenuti di stampo “televisivo” sulle piattaforme di streaming e il fatto che Amazon sia stata pioniera di questa tendenza potrebbe far pensare a un suo futuro sorpasso verso la vetta della classifica delle piattaforme con più iscritti, quanto meno in Italia.

Infine, oltre allo store dove acquistare film non disponibili per lo streaming, è possibile sottoscrivere anche degli abbonamenti aggiuntivi, chiamati “Amazon Channels”, che permetto di accedere ai contenuti di altre piattaforme, alcune di queste non disponibili in Italia, direttamente dall’app di Prime Video:

  • Infinity Selection: €6.99 al mese, una selezione di film italiani ed internazionali
  • Starzplay: €4.99 al mese, il canale con tutte le serie STARZ disponibili in contemporanea con gli Stati Uniti
  • HistoryPlay: €3.99 al mese, canale dedicato ai contenuti dedicati alla storia del celebre canale televisivo americano History
  • Noggin: €3.99 al mese, un canale didattico per bambini
  • Juventus TV: €3.99 al mese, il canale dedicato alla Juventus
  • Mubi: €9.99 al mese, una selezione di film d’autore
  • Raro Video: €3.99, una selezione di film d’autore
  • Midnight Factory: €4.99 al mese, un canale dedicato ai contenuti horror
  • Full Moon TV: €3.99 al mese, un canale dedicato ai contenuti action
  • ShortsTV: €3.99 al mese, un canale dedicato ai cortometraggi
  • Qello: €4.99 al mese, un canale dedicato ai concerti più famosi
  • Mezzo: €2.99 al mese, un canale dedicato alla musica classica, jazz e dance

Disney+

Tra i big, Disney+ è la piattaforma più giovane, il suo debutto in Italia risale solamente a questo novembre. L’offerta di Disney+ prevedeva, in origine, contenuti dedicati solamente ai brand Disney, Pixar, Marvel, Star Wars e National Geographic ma si è ora espansa includendo anche Star, sezione dedicata a film e serie TV non collegate in alcun modo ai cinque brand citati come “Grey’s Anatomy” e “Lost”. Ciò nonostante, è innegabile che l’attrattiva di Disney+ rimanga indissolubilmente legata alle sue produzioni di punta e non è un caso che gran parte delle serie esclusive che sono e saranno prodotte sono collegate agli universi di Star Wars e, soprattutto, della Marvel. A partire da questo gennaio con “WandaVision”, infatti, si susseguiranno una dopo l’altra decine di serie più o meno spin-off Marvel/Star Wars con episodi, scelta interessante e in controtendenza rispetto a Netflix, pubblicati settimanalmente. Modello, questo, che si è già rivelata vincente con serie come “The Mandalorian” e “The Falcon & The Winter Soldier”.

Considerato che la piattaforma è ancora relativamente giovane, Disney+ ha già ottenuto un ottimo successo tra il pubblico raggiungendo il milione di iscritti questo gennaio, prima dell’introduzione di Star. L’abbonamento a Disney+ costa 8.99 al mese (6.99 prima che venisse aggiunto Star) ma è possibile anche scegliere la sottoscrizione annuale a €89.90. L’emergenza covid e la chiusura dei cinema ha, inoltre, spinto Disney ad aggiungere la possibilità, debuttata con il film live-action Mulan, di sottoscrivere un ulteriore abbonamento “Accesso VIP” da €21.99 che consente di vedere in streaming i film Disney, Pixar, Marvel e Star Wars in contemporanea con l’uscita nei cinema o, comunque, prima della loro aggiunta nel catalogo Disney+.

RaiPlay

Finora abbiamo osservato solamente piattaforme SVOD (Subscription Video On Demand) tuttavia, in Italia, esistono anche servizi di streaming AVOD (Advertising Supported Video On Demand) che non richiedono alcun pagamento e vengono monetizzate tramite i classici advertising. Il caso più celebre e riuscito disponibile nel nostro paese è, ovviamente, quello di RaiPlay. La piattaforma della TV di Stato è, infatti, accessibile gratuitamente ed include tutti i contenuti Rai prodotti nel corso dei decenni e, talvolta, persino dei programmi esclusivi come “Viva RaiPlay!” di Fiorello, che totalizzò in breve tempo il record di visualizzazioni della piattaforma nel 2019, o “L’altro Festival”, trasmesso in concomitanza con il Festival di Sanremo di quest’anno. La Rai ha, insomma, già dimostrato di credere molto nella sua offerta streaming e ciò si è anche riflesso in una maggiore produzione di contenuti seriali di alta qualità negli ultimi anni: per esempio, le serie di stampo storico “I Medici” e “Leonardo” o la serie tratta dal capolavoro di Umberto Eco “Il nome della rosa”.

Mediaset Play Infinity e Discovery+

Un ibrido tra il sistema SVOD e AVOD è quello presentato dalle piattaforme dedicate ai network di Mediaset e Discovery. Sia Mediaset Play che Discovery+ presentano, infatti, alcuni contenuti visibili gratuitamente ma anche la possibilità di sottoscrivere. In entrambi i casi, i programmi disponibili gratuitamente sono, essenzialmente, quelli andati in onda sui rispettivi canali televisivi. Per quanto riguarda i servizi a pagamento, invece, la situazione delle due piattaforme è differente.

Su Mediaset Play è possibile abbonarsi, al prezzo di €7.99 mensili, a Infinity (che, come forse ricorderete, fino a qualche mese fa era una piattaforma SVOD indipendente) tramite il quale si può avere accesso a una variegata selezione di film e serie TV. Da tenere a mente, però, che non sono presenti contenuti originali della piattaforma.

Su Discovery+, invece, è possibile sottoscrivere due abbonamenti: “Discovery+” e “Discovery+ e Eurosport”. Il primo offre, per €3.99 mensili, l’accesso a contenuti originali, canali esclusivi, la WWE, documentari e anteprime dei programmi televisivi. Il secondo aggiunge al pacchetto, portando il prezzo dell’abbonamento mensile a €7.99, diversi contenuti sportivi. Entrambi gli abbonamenti, inoltre, rimuovono tutte le pubblicità dai contenuti free.

Now TV

Now TV è la piattaforma di streaming on demand di Sky. Di per sé, sarebbe pienamente assimilabile alle altre SVOD se non fosse per la presenza di programmi ed eventi sportivi e per la possibilità di sottoscrivere diversi abbonamenti in base ai contenuti desiderati. I pacchetti attualmente disponibili sono:

  • Pass Sport: al costo di €14.99 al giorno o di €29.99 al mese, da accesso alle partite di Serie A, Champions League, Europa League, Premier League, Bundesliga ma anche alla MotoGP, Formula1, ATP Masters 1000, NBA e ai canali Eurosport
  • Pass Cinema e Intrattenimento: al prezzo di €3 per il primo mese e di €14.99 per i successivi, permette di accedere ai film, serie tv e agli show di Sky in HD

Chili

Chili, invece, è una piattaforma di streaming TVOD (Transactional Video On Demand) e, similmente a quanto avviene sugli store Google Play e Apple, consente di acquistare o noleggiare singoli film o serie tv. I prezzi di ogni contenuto variano ma, essenzialmente, si aggirano tra i €2.99 e i €14.99 per il noleggio e tra i €7.99 e i €19.99 per l’acquisto. A questi prezzi va aggiunto €1 in più se si desidera visionare il film o la serie tv scelta in alta risoluzione. Da segnalare, inoltre, che su Chili sono presenti dei contenuti gratuiti con pubblicità anche se, oggettivamente, abbastanza marginali.

DAZN

DAZN è una piattaforma streaming che si discosta da tutte le altre analizzate fino ad ora in quanto esclusivamente focalizzata sullo sport. Particolarmente forte la sua offerta relativa al calcio: vi basti pensare che, questo marzo, DAZN si è aggiudica i diritti di tutte le partite di serie A per il triennio 2022-2024. Il costo dell’abbonamento mensile è di €9.99.

Crunchyroll e VVVVID

Infine, chiudiamo con due piattaforme di nicchia ma ben conosciute dal loro pubblico target: Crunchyroll e VVVVID. Crunchyroll è interamente dedicata agli anime e ai durama giapponesi mentre VVVVID ha un target più ampio che include anche film cult, serie tv e programmi originali.

Crunchyroll, sebbene sia accessibile con diverse limitazioni anche gratuitamente, offre due possibili abbonamenti:

  • Fan: al prezzo di €4.99 al mese da accesso a tutto il catalogo della piattaforma (più di trentamila episodi) e rende disponibili i nuovi episodi solamente un’ora dopo dalla messa in onda in Giappone
  • Mega Fan: al prezzo di €6.99 al mese aggiunge la possibilità di scaricare gli episodi e di accedere da quattro dispositivi contemporaneamente.

VVVVID, invece, è accessibile gratuitamente ma è possibile rimuovere ogni pubblicità sottoscrivendo un abbonamento mensile da €4.99.

Speriamo che questa guida vi sia stata utile a trovare la vostra piattaforma di streaming on-demand preferita.

Buona visione!

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Cancel culture: di nome e di fatto?

Se si volesse pensare a una disciplina i cui organi istituzionali fossero esplicitamente volti a disconoscere lo status legittimo degli studiosi del colore, non si potrebbe fare di meglio di ciò che hanno fatto i classici” (Dan-el Padilla Peralta professore associato di classici, a Princeton) e ancora “Film che, quando non ignora gli orrori della schiavitù, si ferma solo per perpetuare alcuni dei più dolorosi stereotipi sulle persone di colore” (lo sceneggiatore e regista John Ridley parlando di Via Col Vento).

Queste sono solo due delle numerose frasi che puntano il dito contro qualcosa o qualcuno che ha perpetuato discriminazione (a volte anche in modo non così evidente) contro i più deboli; affermazioni poi seguite dall’esplicita richiesta di cancellare materialmente le opere in oggetto, opere che hanno “plasmato” la cultura mondiale.

Si parla, appunto, di Cancel Culture ovvero di quell’“atteggiamento di colpevolizzazione, di solito espresso tramite i social media, nei confronti di personaggi pubblici o aziende che avrebbero detto o fatto qualche cosa di offensivo o politicamente scorretto e ai quali vengono pertanto tolti sostegno e gradimento” (come spiega la Treccani).

Eppure questo nuovo modo di porsi è il risultato di azioni passate, che lo hanno visto in vesti “diverse” e sotto altri appellativi (che renderò noti più avanti).

Quindi, sono lecite perplessità del tipo: come si è arrivati a ciò e perché proprio in questi ultimi anni? E come mai si fanno promotori del cambiamento, persone, anche del settore, che fino a poco tempo fa non si erano mai espresse a gran voce (o, almeno, così pare)?

E’ possibile dare delle risposte ma solo attraverso la “controversa” cultura

Tale contributo arriva da tre studiosi in particolare, ovvero da Max Weber noto sociologo, filosofo, economista e storico tedesco (18641920), dal sociologo statunitense Charles Wright Mills (19161962) e, infine, da Jane H. Hill, un’antropologa e linguista americana (19392018).

Il primo autore citato fa chiarezza sulle cause grazie alla creazione di un modello storico-culturale di riferimento, mentre gli ultimi due autori interpretano i contenuti del modello stesso per adattarli alla realtà che andava dagli anni ‘60 agli anni ’80 circa.

Partiamo quindi dal lavoro di Weber. La teoria oggetto di analisi porta il nome di “idealtipo” o “tipo ideale” e spiegato con le parole dello studioso (come si poteva dedurre dalla spiegazione poc’anzi) esso “rappresenta un quadro concettuale il quale non è la realtà storica, e neppure la realtà vera e propria, ma tuttavia serve né più né meno come schema in cui la realtà deve essere sussunta come esempio; esso ha il significato di un puro concetto-limite ideale, a cui la realtà deve essere misurata e comparata, al fine di illustrare determinati elementi significativi del suo contenuto empirico”; per meglio intenderci, si tratta di un modello di interpretazione dei fenomeni costruito attraverso i dati storici e basilari degli stessi raccolti attraverso l’analisi di differenti realtà (tutto finalizzato ad una migliore comprensione della realtà storico-culturale).

In relazione al tema oggetto dell’articolo e quindi alla conseguente violenza di genere, torna utile analizzare l’idealtipo “potere”.

Il modello creato da Weber mostra come il concetto di “potere” sia strettamente collegato alla legittimazione (ma in ambito strettamente politico) e alla religione (relativamente alla sua influenza nello sviluppo economico).

Nel primo caso, Weber elenca tre forme di legittimazione del potere, ovvero “l’autorità della legalità” (basata sull’etica della responsabilità, ovvero sull’osservanza delle leggi e della moralità), “l’autorità tradizionale” (basata sull’etica dell’intenzione e il più delle volte su dogmi religiosi, ove il potere è nelle mani dei discendenti di una dinastia) e “l’autorità del carisma” (basata sulla capacità di agire in modo non razionale).

Risulta evidente come le prime due rappresentino i poteri forti, quelli decisionali, mentre l’ultima sia quella capace di cogliere i problemi delle minoranze e darne voce facendosi strada nella cultura dominante per cercare di influenzare la politica e lasciare il segno (arrivando o meno ad ottenere il vero potere).

Per quanto riguarda l’aspetto religioso ed economico, invece, Weber rintraccia il tema dello “spirito del capitalismo” ovvero di quell’agire umano volto a raggiungere risultati economici sulla base dei principi sanciti dalla propria religione.

Sulla base della teoria di Weber appena illustrata, è possibile comprendere le cause che hanno avuto come effetto la Cancel Culture attraverso due differenti interpretazioni.

Prima interpretazione: boicottaggio culturale a vantaggio dei più forti

Tale interpretazione si fonda sui dati storici legati alla sfera socio-linguistica: la cultura dominante, ovvero quella che detiene il potere, legittima la sua posizione attuando un boicottaggio linguistico per primeggiare sugli altri.

Dati che è stato possibile trovare e comprendere grazie all’antropologia linguistica e, in particolare, al terzo paradigma nato proprio alla fine degli anni ‘80 e che si basa “sulle indagini delle identità personali e sociali, sulle ideologie condivise e sulla costruzione di interazioni narrative tra individui”.

Ed è così che entra in gioco la linguista Jane H. Hill che parla di una forma di Cancel Culture chiamata “appropriazione linguistica”: essa viene condotta dal gruppo dominante per dimostrare di poter avere il controllo su qualsiasi idioma e di poter creare pregiudizi, indicizzare un’etnia e fomentare l’odio verso e per marginalizzare i gruppi etnici minoritari (e, così, affermare l’identità bianca). “I gruppi dominanti decidono, infatti, quando e se certe parole valgono l’appropriazione, quando e come le parole dovrebbero essere usate, e poi quando la parola diventa cliché, abusata e quindi passé”. Un agire che ha evidenziato come molte lingue siano a rischio di “estinzione”, ma senza toccare particolarmente gli animi dei “bianchi”. Solo un cambio di rotta avvenuto negli anni 2000 (grazie ai continui effetti della globalizzazione sulle culture) ha fatto sì che venisse posto un freno e venisse creata una legislazione specifica come forma di tutela.

Seconda interpretazione: call-out a vantaggio dei più’ deboli

La seconda interpretazione è più di carattere sociale, questo perché Mills rivede, nella società statunitense in particolare, quanto affermato da Weber: la politica è sempre luogo di scontro e non di moralità, ogni azione è volta a contrastare l’avversario; si punta, così, ad aumentare il potere economico, politico e militare delle élite istituzionali e a fomentare la politica reazionaria (ma non a beneficio delle minoranze).

Quindi, la Cancel Culture pensata da Mills prevedeva che gli intellettuali costruissero un “apparato di comprensione pubblica” e di “coscienza collettiva” per contrastare l’influenza della politica sul popolo (se i dominati scelgono i dominanti, è giusto che lo si faccia con rigore logico).

Mills dà così inizio ad una nuova ideologia di sinistra, la “New Left”, focalizzata su problematiche maggiormente personali come “l’alienazione, il disagio, l’autoritarismo e altri mali della società moderna”.

Tra le controculture che la caratterizzarono ci fu lo Students for a Democratic Society (SDS, Studenti per una Società Democratica) che chiedeva una democrazia molto più partecipata all’interno delle università stesse; ancora, il baby boomer, nato alla fine della seconda guerra mondiale, che generò un numero sempre più crescente di giovani insoddisfatti della propria situazione di “quieto benessere” e quindi desiderosi di modificare la direzione delle società. Infine, il Free Speech Movement (FSM, Movimento per la Libertà di Parola) nato nel 1964 nei campus dell’Università della California, a Berkeley. Movimento sorto in risposta alle restrizioni sulle attività politiche imposte nei campus universitari.

Ciascuno di questi movimenti (e altri non citati) ebbe vita breve proprio perché frutto di un potere carismatico: quando la persona carismatica perde credibilità o autorevolezza, viene abbandonata e sostituita; di conseguenza l’attivismo (l’unica arma in possesso di chi detiene il potere carismatico) perpetrato da quella persona, non diventato legge, finisce nel dimenticatoio assieme al perché della sua creazione.

Dimenticare non è mai stato così semplice

Guardando ai fallimenti e ai conflitti generati da chi adottava la vecchia versione della Cancel Culture, si capisce perché ad ora si sia arrivati a compiere atti ancora più estremi: nessun confronto con l’altro, nessuna possibilità, da parte dell’incriminato, di comprendere l’errore commesso e magari di scusarsi e di cambiare idea.

Si guarda all’errore anche per buttare fuori il rancore verso noi stessi, un rancore generato dall’aver commesso lo stesso errore oggetto di denuncia (ma che ci siamo perdonati per n motivi validi): riconoscere pubblicamente l’imperfezione e l’ipocrisia umana permetterebbe al potere forte di avere una chance di rivalsa, di sfruttare l’imperfezione umana a proprio vantaggio.

Quindi, la persona influente (solo se tale perché detiene l’autorità carismatica) e non in grado a priori di imparare dai suoi errori, è giusto che venga “distrutta” psicologicamente per essere certi che non ve ne sia più traccia (anche del suo passato) e affinché nessuno possa, un giorno, trarne ispirazione: i nuovi pensieri devono essere la base univoca di ogni cittadino.

Inoltre, per coloro che vorrebbero ma non sono ancora in grado di esercitare il potere carismatico, devono perseguire una correttezza politica (sia nella sfera privata che pubblica) anche a costo di non crederci veramente.

Vivere nell’utopia della perfezione ti fa sentire al sicuro, al sicuro dalla cattiveria umana.

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Ambiente, società e tecnologia

Le città del futuro tra smart city e borghi

L’ultimo anno ci ha costretto a ripensare alle nostre abitudini, al modo di vivere la vita quotidiana e il nostro lavoro. La pandemia ci ha tolto spazi in cui incontrarci e svagarci, ma ci ha dato un nuovo luogo dove vivere: la nostra casa e il nostro quartiere. Il lavoro da remoto ha svuotato le grandi città portando a un calo dei consumi, ma anche al calo del traffico e dell’inquinamento. A Milano nel mese di settembre (periodo in cui rispetto alla pandemia abbiamo vissuto una quasi-normalità) le prenotazioni nei ristoranti sono calate del 25% rispetto all’anno precedente, il trasporto privato si è ridotto del 15% e il trasporto pubblico del 50% (fonte: Il Sole 24 Ore). Ora, con la campagna vaccinale che procede ci si chiede come sarà la nostra vita quando la pandemia sarà finita. In particolare, come sarà la vita nelle grandi città? Sono destinate a sparire in favore di una vita nei borghi?

Un futuro tra il fisico e il digitale

Carlo Ratti, architetto e docente di Urban Technologies al MIT di Boston, durante l’intervista per l’anteprima dell’evento FORUM PA 2021 che si svolgerà a giugno, afferma che secondo lui “la forza magnetica che ci porta nelle città tornerà come prima, se non più di prima, alla fine della pandemia”. Ratti ritiene che il futuro delle città sarà ibrido, tra il fisico e il digitale, sia per la socializzazione che per il lavoro. Ci sarà grande flessibilità e soprattutto le città di medie dimensioni, ma ben collegate ad altre, avranno una nuova opportunità: le persone potranno vivere e lavorare da casa per la maggior parte del tempo in queste città e andare nella sede centrale nella città più grande solo alcuni giorni a settimana. L’attenzione deve essere posta proprio in questa direzione, verso quelle tecnologie che permettono di lavorare in modalità digitale e fisica.

Stefano Boeri, architetto e urbanista, come riportato nell’intervista pubblicata da Repubblica, ritiene che la fuga dalle grandi metropoli non sarà irreversibile ma ci saranno aspetti che saranno reversibili e altri, quelli che hanno migliorato la vita delle persone, che non torneranno come prima. Come Ratti, Boeri parla di un modo di vivere lavorare ibrido, per la maggior parte del tempo in un borgo e solo qualche giorno in città. Tornare a vivere nei borghi, per lui, non vuol dire porre fine alle città ma anzi significa continuare a farle vivere: “città che diventano arcipelaghi di borghi e borghi storici che tornano a essere piccole città”. Per riportare in vita i borghi sono necessarie tre condizioni. La prima riguarda la connessione digitale, cioè la banda larga. La seconda è l’accessibilità: infatti affinché il modello ibrido funzioni è importante che i borghi non siano troppo distanti da una città che abbia tutti i servizi che invece un piccolo paese non può avere, come l’ospedale specializzato, l’università e luoghi di cultura. La terza condizione, invece, è urbanistica. Occorre, infatti, riadattare gli spazi alle esigenze della società moderna, senza danneggiare il patrimonio naturale in cui i borghi si trovano.

Qualunque sia la direzione che prenderemo, è chiaro che la tecnologia avrà un ruolo fondamentale. Stiamo assistendo a una vera e propria rivoluzione: la tecnologia è entrata in ogni ambito della nostra vita e in molti luoghi delle nostre città, dalle nostre case alle nostre strade. Le ultime innovazioni tecnologiche sono partite dalle grandi città e stanno raggiungendo anche quelle più piccole. Per definire la nuova città più tecnologica si sceglie di utilizzare il termine smart city (o città intelligente). Il termine viene utilizzato per la prima volta negli Stati Uniti per indicare il punto di vista di una città ideale legata alla automazione. Ma cosa sono le smart city oggi? Quali tecnologie utilizzano e in quali dimensioni della vita cittadina?

Smart city: cosa sono e quali tecnologie

L’Unione Europea definisce una città intelligente come un luogo in cui la rete e i servizi tradizionali sono resi più efficienti grazie all’uso delle tecnologie digitali e delle telecomunicazioni a beneficio dei suoi abitanti e delle imprese. Non si limita all’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT, dall’inglese Information and Communications Technology) per un migliore impiego delle risorse e una riduzione delle emissioni ma riguarda la città nella sua totalità. In una smart city le reti del trasporto urbano sono sostenibili e tecnologiche e l’approvvigionamento idrico ed energetico è potenziato ed efficiente.

Smart city significa anche avere un’amministrazione cittadina più interattiva e reattiva per migliorare la qualità dei servizi, spazi pubblici più sicuri ed essere in grado di soddisfare le esigenze di tutta la popolazione venendo incontro alle sue necessità. Tutti questi aspetti sono inclusi in sei grandi dimensioni di azione interconnesse che coinvolgono persone, governo, economia, stile di vita, mobilità e ambiente. La città è al servizio del cittadino e il suo obiettivo finale è migliorare la qualità della vita dei suoi abitanti.

Le principali tecnologie che consentiranno di rendere smart le città sono la tecnologia 5G e la tecnologia Internet of Things (o in italiano Internet delle Cose). Il 5G permette di garantire elevate prestazioni e servizi grazie alla sua maggiore velocità di trasmissione dei dati, alla bassa latenza e alla capacità di gestire un numero elevato di dispositivi. È il mezzo che permetterà alla città la connettività degli “oggetti connessi”, cioè dell’Internet of Things (IoT). Infatti, gli ambiti applicativi dell’IoT sono molti: dal trasporto urbano all’agricoltura ma anche all’interno delle nostre case per migliorarne la sicurezza, la comodità e ridurne i consumi. In questa ottica è fondamentale lo sviluppo di sensori e l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per ricavare e rielaborare il grande numero di dati necessari per la gestione dei servizi della città intelligente.

Digitalizzazione e pandemia

La pandemia e il lockdown hanno dato una forte accelerazione al processo di digitalizzazione del Paese, modificando i comportamenti delle persone e permettendo di vivere le proprie abitudini anche se in modo differente. Secondo uno studio condotto da Deloitte, infatti, 26 milioni di italiani hanno dichiarato di essere riusciti a svolgere le proprie attività regolarmente durante il lockdown grazie all’innovazione tecnologica. Ma non sono mancate le difficoltà. 1 italiano su 2 riporta complicazioni nell’accedere ai servizi scolastici erogati da remoto e un limitato accesso a una connessione veloce. Inoltre, il 36% degli italiani ritiene che il processo di digitalizzazione non consideri sufficientemente l’aspetto umano. Secondo Deloitte, i risultati della ricerca evidenziano la necessità di cambiare il modo di vedere l’innovazione per rispondere meglio alle esigenze delle persone: occorre applicare un nuovo modello di innovazione antropocentrica che metta al centro l’uomo e i suoi bisogni. Anche in questo caso si parla di un’innovazione bilanciata, tra la dimensione digitale e quella fisica.

Smarter Italy: il progetto

Per rendere l’innovazione tecnologica accessibile e in grado di soddisfare tutti i bisogni dei cittadini è necessaria una digitalizzazione diffusa e occorre rendere il Paese sempre più smart in tutte le dimensioni della vita cittadina. In questa ottica nell’aprile 2020 ha preso l’avvio il progetto Smarter Italy.  Smarter Italy nasce con il Decreto del MISE del 31 gennaio 2019 e diventa operativo con l’appoggio dell’Agenzia per l’Italia digitale, del MUR e del Ministero per l’Innovazione tecnologia e la digitalizzazione. Vede protagonisti 11 centri urbani, le cosiddette “Smart Cities” e 12 piccoli comuni (al di sotto 60.000 abitanti), che costituiscono i “Borghi del futuro”, per realizzare servizi innovativi nei settori di mobilità, salvaguardia dell’ambiente, beni culturali e benessere delle persone. I comuni scelti diventeranno laboratori di appalti innovativi per imprese, centri di ricerca e startup che saranno invitati a cercare nuove soluzioni per rinnovare i settori.

È chiaro quindi che non è più sufficiente che solo le grandi città siano il luogo di tutte le innovazioni ma è importante che queste vengano pensate e adattate anche alle necessità dei piccoli comuni. Quello che succederà realmente quando la pandemia sarà finita non lo possiamo sapere ma sappiamo che occorre lavorare affinché i progressi fatti non vadano persi.

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Ambiente, società e tecnologia

Ricehouse, la soluzione per un’architettura sostenibile: intervista a Tiziana Monterisi

Sul nostro magazine oggi vogliamo riportarvi l’intervista a Tiziana Monterisi, CEO e Co-fouder di Ricehouse, startup innovativa e società benefit impegnata nel settore della bioedilizia con l’obiettivo di sviluppare prodotti e servizi attraverso la valorizzare degli scarti del processo di coltivazione del riso.

Tiziana, com’è nata l’idea e da quanto tempo siete attivi sul mercato?

Ricehouse è stata costituita a fine 2016 ed è entrata sul mercato, quasi con esattezza, un anno dopo, con la prima fiera che abbiamo fatto, CasaClima 2018, dove ci siamo presentati al mercato con i primi 3 prodotti. In realtà l’idea è nata molto prima. Fin dall’università mi sono sempre occupata di architettura sostenibile e di cercare soluzioni alternativa sia a livello di materiale sia a livello di tecnologie.

Successivamente, tra il 2010 e il 2012, ho iniziato a pormi delle domande rispetto a quello che vedevo bruciare all’interno dei campi di riso, e da lì è nata tutta la mia ricerca legata agli scarti del riso, l’uso della paglia (anche in architettura) e il mancato impiego della paglia di riso rispetto, invece, ad altre tipologie di paglie.

Prima della nascita della nostra startup è stata svolta un’analisi all’interno del mio studio di architettura legata alla ricerca dei materiali naturali e alla sperimentazione, anche nei miei cantieri. In questo discorso si inserisce anche la casa in cui viviamo, costruita nel 2013 e che rappresenta il nostro esperimento costante. Da queste fasi abbiamo compreso di avere un materiale molto interessante dal punto di vista tecnico-scientifico, per le sue prestazioni, e soprattutto dal punto di vista dell’impatto ambientale. A tutto questo si unisce la consapevolezza da parte nostra di avere realmente in mano una situazione che davvero potrebbe cambiare il settore dell’edilizia, il terzo più impattante che l’uomo realizza tutti i giorni. La mia volontà consisteva nel portare quello che avevamo fatto in maniera artigianale e in quantità molto piccola, a livelli industriali.

Da qui decidiamo di fondare Ricehouse, io e il mio compagno (50-50%), dove, per 4 anni, assieme ai miei colleghi dello studio di architettura, abbiamo da un lato, in maniera parallela, mantenuto e continuato la progettazione, dall’altro abbiamo cominciato a cercare partner industriali per rendere industriale il prodotto che avevamo fatto a livello artigianale. Abbiamo pertanto brevettato delle ricette e trovato dei partner industriali. Oggi lavoriamo con 5 produzioni diverse, non ci limitiamo ad un solo prodotto. Quello che abbiamo fatto, e che continuiamo a fare costantemente, è la ricerca su come è possibile sostituire alcuni materiali dell’edificio attraverso lo scarto del riso. Nello specifico, lo scarto del riso rappresenta la componente principale mentre il legante è quella piccola parte che però, per noi, è molto importante perché sia sempre naturale, formaldeide free, che a fine vita mi possa permettere di: compostare il materiale, riciclarlo al 100% per rifare lo stesso materiale oppure riciclarlo per ottenere altre cose come i sottofondi stradali o altro.

Ad oggi il team è composto da 16 persone, lo studio è stato completamente integrato all’interno della startup e ci occupiamo di 3 grandi tematiche basate sui concetti di economia circolare e di valorizzazione dello scarto di riso.

Abbiamo l’unità progetto, all’interno della quale sviluppiamo progetti che facciamo realmente in maniera totale, a partire dalla pratica fino ad arrivare alla realizzazione.

La seconda area è l’unità prodotto, incentrata sulla ricerca e lo sviluppo di prodotti che, attraverso i partner industriali, produciamo per venderli in maniera diretta. Ad oggi non abbiamo una rete commerciale, non abbiamo negozi e rivendite, vendiamo in maniera diretta tutto: mattone, pittura, intonaco, sottofondo, pannello. Tutto ciò che serve per comporre un edificio a impatto zero, esclusivamente fatto con materiale derivante dallo scarto del riso, ad esclusione del materiale per la struttura. Questa può essere di 3 tipologie: cemento armato classica, acciaio oppure in legno. Noi prediligiamo quella in legno assemblata a secco con tutta l’innovazione tecnologica ma di fatto i nostri materiali possono essere usati da chiunque, sia per nuove costruzione sia per ristrutturazioni.

La terza unità è l’open innovation che si occupa di ricerca e sviluppo, sia per nuovi prodotti che vogliamo portare sul mercato, sia con altre (anche grandi) aziende interessate a collaborare per cercare di capire come il nostro scarto possa valorizzare la loro produzione e renderla sostenibile.

Oggi Ricehouse è sì una startup innovativa ma, di fatto, ha 3 grandi unità che vanno dal chi vuole il “chiavi in mano” in casa di riso progettata da noi, a chi vuole solo il prodotto, a chi invece collabora con noi per svolgere continuamente ricerca e sviluppo.”

Come funziona il vostro modello di economia circolare e quali servizi e prodotti offrite?

“Abbiamo analizzato la filiera del riso e ciò che ci ha spinto a capire che era molto stimolante, riuscendo a vedere una risorsa all’interno della risaia, risiede nel fatto che, innanzitutto, l’Italia rappresenta il primo produttore in Europa di riso (e noi siamo finiti con il vivere a Biella, il paese più a nord che produce riso), ma questo è presente in tutti e 5 i continenti, in più di 100 paesi, e la stessa materia prima è presente annualmente, anzi, in Asia, ad esempio, fanno 2 raccolti all’anno, a volte anche 3. Lo scarto rappresenta circa il 30% della produzione. Noi valorizziamo solo ed esclusivamente questo scarto che si compone principalmente di paglia e di lolla (la pelle del chicco), gli elementi più importanti che oggi vengono letteralmente bruciati, emettendo CO2. Da qui, produciamo materiali naturali al 100%, attraverso l’impiego di leganti diversi, come amidi, magnesite, argilla. A fine vita avranno destinazioni diverse.

Per me, ripeto, l’impatto ambientale è sempre stato molto importante, pertanto il discorso alla base è: oggi lo produco, generando un impatto, poi verrà usato dall’operaio per 40 anni, generando su se stesso un impatto molto forte, e, a fine vita, l’impatto dovrà essere zero.

Ecco perché la nostra ricerca è sempre stata nel legante, che a volte è quel 5-10% ma che è molto importante, perché, se fosse un legante chimico, il prodotto non sarebbe più riciclabile o compostabile. I nostri materiali invece, a seconda del legante, hanno 3 destinazioni.

Possono essere riciclati, per ottenere lo stesso prodotto, o vengono triturati, per fare sottofondi stradali (abbiamo un legante che rende inerte lo scarto), oppure vengono messi in un biodigestore, quelli compostabili, producendo energia elettrica e termica e ottenendo un fertilizzante che può tornare direttamente al campo di riso. Ecco perché la filiera è veramente chiusa, senza la produzione di nessun tipo di rifiuto.

Oltretutto, aspetto molto importante, attiviamo una nuova filiera. Ricehouse è al centro di questa filiera (una sorta di snodo) che parte dall’agricoltore, il primo soggetto che opera sul campo, da quale compriamo la paglia, che così non viene bruciata. Nello specifico, non paghiamo tanto per lo scarto, quanto la lavorazione che l’agricoltore fa per noi, quindi la raccolta, lo stoccaggio, l’imballaggio. Deve seguire un protocollo che per noi è fondamentale per rendere quel sottoprodotto agricolo un prodotto industriale per le costruzioni. In questo modo loro hanno una nuova microeconomia e un risparmio. Il risparmio è dato dal fatto di non dover più bruciare, dal non dover pagare multe (molto salate) a livello regionale perché non devono più entrare nel campo a trinciare, quindi risparmiano gasolio e manodopera. In più hanno una nuova economia, perché fisicamente noi li paghiamo.

Da un altro lato, lavoriamo con diversi partner industriali italiani che producono riso. In questo caso, facciamo arrivare lo scarto, lo lavoriamo se deve essere lavorato, perché, ad esempio, la paglia e la lolla in alcuni prodotti vengono usati tali e quali, in altri abbiamo invece la necessità, per esempio, di macinarli, di sfibrarli, di ridurli. Quindi noi facciamo fare al terzista questa lavorazione e poi arriva al processo industriale. Per esempio abbiamo messo a punto una miscela di lolla che serve per la stampa 3D dove stampiamo oggetti di design. Ovviamente lì la pelle del chicco non può essere tale e quale perché è grande circa 5 mm, ma viene micronizzata, quindi noi facciamo fare al terzista prima questa lavorazione e poi viene mandata alla stampa in 3D dove facciamo l’altra miscela. Quindi noi gestiamo tutta la filiera. Quando il prodotto è pronto, viene commercializzato e arriva all’impresa edile che realmente lo utilizza nel suo cantiere.”

Quali risultati avete ottenuto in termini di edifici costruiti, collaborazioni e riconoscimenti?

“In termini di edifici costruiti, ad oggi abbiamo più di venti case interamente progettate e costruite da noi e più di 90 cantieri che hanno utilizzato i nostri prodotti, a volte alcuni, a volte tutti, dipende dalle situazioni. Grazie all’incentivo del Governo del superbonus per il decreto crescita avremo un esplosione, perché solo quest’anno stiamo progettando 20 nuovi cantieri di cui 4 grandi condomini (uno a Milano, molto grosso, che porteremo a energia zero attraverso un cappotto fatto di lolla).

Prima di parlare dei riconoscimenti ottenuti, vorrei dire che inizialmente abbiamo provato su di noi, in maniera artigianale fatto in cantiere, all’interno del quale ero il direttore dei lavori e pertanto poteva prendermi le responsabilità. L’abbiamo provato con diversi clienti. Una delle prime case è stata costruita nel 2016 a Chamois, in alta Valle d’Aosta, ed è stata premiata anche come casa sostenibile nel 2017. Il cliente, in quel caso, era ben consapevole del fatto che erano tutti materiali sperimentali ma era molto illuminato e intenzionato nel volere una casa di riso, senza riscaldamento, e si è affidato alla nostra progettazione. Da quel momento abbiamo capito che potevamo davvero fare la differenza nel mondo dell’edilizia industrializzando qualcosa che in realtà è sempre stato usato in antichità, perché non ho inventato niente, lo trovavo nelle cascine e nelle ristrutturazioni di case storiche. Utilizzavano questi materiali perché erano quelli che avevano a disposizione.

Il poter fare il passaggio e renderlo industrializzabile, dialogabile realmente con i macchinari, con la manodopera, con le logiche del cantiere di oggi, è sicuramente stato, ed tutt’oggi, un grande impegno nel quale noi crediamo e investiamo, perché potremmo davvero ridurre l’impatto dell’edilizia in maniera drastica perché, di fatto, la materia prima è presente in quantità infinita e si rinnova ogni anno, quindi non abbiamo problemi di materia prima. Dall’altro, se riuscissimo ad aumentare le produzioni, potremmo veramente fare la differenza sul mercato.

I riconoscimenti sono stati davvero tanti dal 2018, quando ci siamo presentati a CasaClima, la fiera più importante in Italia sull’edilizia sostenibile. Abbiamo ottenuto un doppio riconoscimento in termini di innovazione di prodotto, perché sostenibile ed efficace, e di impresa. Abbiamo ottenuto diversi premi come progetto imprenditoriale legato al concetto di economia circolare e di impatto, sia livello ambientale che sociale, pur essendo una società profit che vuole fare business. A livello societario, dall’anno scorso ci siamo trasformati in una società benefit e abbiamo fatto la certificazione B Corp perché, voglio sottolineare, la nostra intenzione è sì quella di fare profitto ma ponendo massima attenzione all’ambiente e all’ambito sociale. Quando ne parlavamo quasi dieci anni fa eravamo visti come dei matti, oggi in realtà sono tante le aziende, anche quelle molto grandi, che parlano e tornano a definire un’etica del business. Oggi lo si può fare anche a livello societario, dove essere una società di capitale (S.r.l. o S.p.A.) può essere anche una S.B., società benefit, dove, a fine anno, è presente non solo un bilancio economico ma anche a livello di impatto ambientale e sociale. Per noi rappresentano i pilastri della nostra startup.

A livello di numeri, siamo passati da 4 persone a 16. Abbiamo avuto una grande evoluzione, soprattutto negli ultimi 7 mesi, perché fino a settembre eravamo in 6, da settembre ad oggi sono entrate 10 persone nuove. Non è semplice perché da un lato c’è tanto lavoro e dall’altro c’è l’inserimento di tante nuove persone.

Tutto era nato proprio dal fatto di aver costruito questa casa, anche molto grande, ma noi effettivamente siamo soltanto in 3 (io, il mio compagno e nostra figlia). Da qui, la decisione di mettere l’ufficio al suo interno, perché ci rappresenta. Il problema è che oggi siamo in 16 e quindi c’è questa grande commistione, quasi un po’ comunitaria, soprattutto perché da un anno non usciamo più. Però di fatto ci ha davvero molto rappresentato. Le persone che vengono qui, nel momento in cui vedono con i loro occhi il fatto che la casa non ha riscaldamento, non ha condizionatore, è isolata e rifinita con i nostri materiali, è sempre stata una carta vincente, e ci rappresenta realmente. Adesso però non ci stiamo più perché siamo oggettivamente troppi quindi stiamo immaginando una nuova sede.

Anche a livello numerico abbiamo sempre raddoppiato il fatturato: l’anno scorso abbiamo chiuso a 345 mila euro e quest’anno pensiamo di decuplicare il fatturato, quindi arrivare a quasi 3 milioni di euro.”

Durante il vostro percorso quali difficoltà avete riscontrato e che impatto ha avuto il Covid-19 sulla vostra attività?

15 anni fa, quando ho iniziato a utilizzare questi materiali e parlarne, non c’era veramente consapevolezza. I pochi clienti erano veramente molto illuminati dal punto di vista alimentare, quindi più legati al concetto di salute e ad una alimentazione biologica e sana. Quindi una serie di aspetti, provenienti da altri ambiti, che li portava ad avere un edificio “sano”. Oggi, soprattutto con il Covid, si è verificato un grande cambio epocale, a livello proprio di consapevolezza in quanto, a causa del fatto di dover rimanere nelle proprie abitazioni, si è capito che forse le nostre case non sono così sane. Soprattutto per chi vive in ambienti piccoli, senza un giardino, un terrazzo e non potendo uscire.

Anche dal punto di vista imprenditoriale si è verificato un cambiamento. 15 anni fa, quando disegnavo le mie filiere a ciclo chiuso (non si chiamava economia circolare) e i metanodotti che portano il petrolio dall’Arabia a qui, la gente mi guardava veramente molto stranita, perché secondo loro il business era altro e quella lì sarebbe rimasta una nicchia. Oggi invece non è una nicchia.

Oggi però bisogna parlare di economia circolare seria”, perché, purtroppo, ancora viene associata al concetto di riciclo ma il riciclo non è economia circolare. Questo non vuol dire che bisogna partire sempre e solo dalla natura. Io non sono contro la plastica e la chimica, sono per provare delle soluzioni che veramente possano chiudere quel cerchio e quindi, se parto da un polimero, devo poter tornare a quel polimero. Il problema della nostra generazione risiede nel fatto che siamo cresciuti 4 volte rispetto alla popolazione mondiale ma il nostro consumo di materia è cresciuto 12 volte, quindi utilizziamo in maniera esponenziale tutto ciò che è prodotto (dentifricio, spazzolino, macchina, scarpe, qualsiasi cosa noi utilizziamo ogni giorno).

Oggi abbiamo tutti molto chiaro la questione ambientale. L’Europa ce l’ha chiaro, la Cop21 a Parigi ha dettato dei parametri molto precisi per arrivare al carbon zero e, per arrivarci, dobbiamo fare una scelta davvero molto drastica oggi, dal punto di vista di “smetto l’economia lineare per l’economia circolare”, ognuno nel suo ambito, perché la materia è molto facile da capire ed è chiaro che ci sono i sacchetti di plastica in mare ma, per esempio, l’uso del digitale, non ce ne rendiamo conto, ha un impatto a livello di CO2 elevatissimo. Mandare un’email emana non so quanti kg di CO2 e i server Google per essere raffrescati hanno bisogno di tutta una tecnologia che emana CO2, quindi anche quello che è la materia che non possiamo percepire, che non è tangibile, ha un impatto ambientale molto elevato. Ripensare il nostro stile di vita in maniera veramente sostenibile è ormai un’esigenza costante, non possiamo più farne a meno. Ognuno nel suo ambito, perché ovviamente non è che tutto può essere giusto se è naturale. Se taglio un albero e non lo rimpianto, può essere considerato naturale ma sto facendo una cosa sbagliata. Quindi è veramente il riuscire a guardarsi da fuori e ripensare i nostri modelli di business, perché noi viviamo su delle economie, e domandarsi allora se può essere davvero sostenibile un’economia, dal punto di vista economico, sennò non è business, dal punto di vista sociale e ambientale. Se riusciamo davvero a fare questo, i giovani avranno un futuro davanti, altrimenti la vedo davvero molto drastica. Anche se io sono molto positiva e cerco delle soluzioni, queste però vanno volute da tutti, non più da una nicchia.”

Avete recentemente ottenuto un finanziamento di 600 mila euro, come saranno investite le risorse ottenute e quali sono i vostri obiettivi per il futuro, sia dal punto di vista nazionale che internazionale?

“L’anno scorso abbiamo vinto B-Heroes, un programma di accelerazione per startup. Quella vincita ha fatto sì che decidessimo appunto di aprire la società a un round di investimento, perché la società è stata fondata da me e il mio compagno, ma abbiamo ritenuto che eravamo abbastanza forti per aprire una società e diventare grandi in qualche modo. Sono entrati degli importanti soci come Riso Gallo, Jean-Sébastien Decaux, il Fondo Avanzi, un fondo di Giordano Dell’Amore, e Banca Etica che investe sull’impatto ambientale e l’impatto sociale. Riteniamo che con quella parte di investimento riusciamo a solidificare, in maniera scientifica, la veridicità dei nostri prodotti. Stiamo pertanto attivando tutta una serie di certificazioni, a livello proprio di prodotto, oltre all’investimento in nuovi prodotti, ad oggi non impianti, perché crediamo di poter continuare a lavorare con partner industriali, e abbiamo la visione di poter veramente interfacciarci con il mercato non solo italiano, dove ovviamente questo 110 ci da un aiuto in termini di sviluppo, ma soprattutto con i mercati europei, per quanto riguarda il nostro prodotto venduto lì, e i mercati asiatici, per quanto riguarda l’esportazione di tutto il know-how e di tutta la filiera.”

Ultima domanda: quali consigli daresti a chi, come voi, è mosso dalla volontà di innovare?

“Sicuramente il credere in se stessi, provare davvero a sviscerare l’idea e con caparbietà, se si crede in quell’idea, di non mollarla. Se penso a me un anno fa, quando tutti mi dicevano “ma tanto sei un architetta che fa case di paglia”, in realtà no, io credevo e credo nella sostenibilità. L’aver tenuto l’asticella sempre molto alta e la mia visione molto chiara, mi hanno permesso di arrivare oggi a fare la differenza sul mercato, quindi sicuramente credere in se stessi, credere nell’idea e non aver paura di fallire, perché il fallimento fa parte della crescita e quello che oggi può sembrare un fallimento invece magari è un insegnamento pazzesco che ti permette di fare un salto di qualità. Io prima di aprire Ricehouse ho avuto per 10 anni un’impresa edile che commercializzava materiali naturali prodotti all’estero, ovviamente non avevamo clienti, non commercializzavamo proprio a nessuno perché non era proprio il momento. Quindi, con dispiacere, abbiamo chiuso questa società ma, di fatto, è stata una grandissima esperienza che mi ha permesso di scegliere qual era il materiale e aprire Ricehouse. Forse se non avessi fatto quell’esperienza, oggi non sarei stata qui. Quindi bisogna vedere il fallimento non come un aspetto negativo, cosa che per gli italiani non è così, ma sempre come un grande momento di crescita.”

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Marketing & Social Media

Influencer Virtuali: like o unfollow?

L’Influencer è diventato ormai una figura che abitualmente seguiamo sui social: si tratta di personaggi del web che attraverso la propria immagine e con il supporto di un team dedicano quotidianamente tempo e lavoro alla crescita della propria community, con lo scopo di creare contenuti in grado di coinvolgere molte persone anche ricavando somme di denaro.

Una novità che nell’ultimo periodo è diventata più frequente e non ha lasciato indifferenti è rappresentata proprio da loro, gli Influencer Virtuali, una nuova categoria di Influencer nata grazie ai progressi avvenuti nel campo della grafica computerizzata e dell’intelligenza artificiale.

Come mai questi insoliti Influencer sono tanto speciali? Se prima si metteva in dubbio la loro autenticità sui social adesso possiamo avere finalmente la certezza che questa categoria non lo sia affatto, appunto perché non si tratta nemmeno di esseri umani.

Cosa sono gli Influencer Virtuali?

Gli Influencer Virtuali a primo impatto potrebbero sembrare ragazzi e ragazze dall’aspetto perfetto, magari dovuto a qualche filtro in più, ma in realtà sono completamente diversi da quelli ai quali siamo abituati: si tratta infatti di avatar creati al computer (definiti anche CGI Influencer, ovvero computer generated imagery), identici nell’aspetto agli esseri umani e in grado di replicare alla perfezione gli stessi comportamenti ed espressioni.

Vengono creati da esperti di grafica computerizzata e resi reali e molto simili agli umani attraverso l’uso dell’Intelligenza Artificiale, sempre più utilizzata in molti ambiti.

Questi avatar sono creati per comportarsi e apparire come degli Influencer, per questo motivo sui social interpretano il ruolo di modelli e tester e si presentano come figure che possono avere un impatto positivo e influenzare i follower che li seguono.

Nel concreto sponsorizzano brand, partecipano a campagne ideate da aziende reali, mostrano o provano prodotti che gli vengono “inviati” e possono anche partecipare ad eventi.

Soprattutto su Instagram, questi nuovi e inaspettati personaggi si stanno facendo conoscere attraverso collaborazioni con grandi aziende conosciute in tutto il mondo, le quali vedono in questi nuovi protagonisti un’opportunità per attirare un target più giovane e difficile da sorprendere.

Quali sono i più seguiti?

Gli Influencer Virtuali sono già presenti in gran numero sui social, soprattutto su Instagram, ma quali sono i più conosciuti di questa nuova e inaspettata categoria?

In testa alla classifica per numero di follower, esattamente 3 milioni su Instagram, 30.000 su Twitter e 267.000 su Youtube, c’è Lil Miquela, una creazione dalla startup americana Brud, apparsa per la prima volta su Instagram nel 2016 e considerata dal Time tra le persone più influenti su internet nel 2018.

Miquela Sousa si presenta come una diciannovenne di origini spagnole e brasiliane, ed è all’apparenza una giovane ragazza con una forte personalità, appassionata di moda e musica, che nella vita è Influencer, modella e anche cantante; nel 2017 il suo singolo “Not Mine” è diventato virale su Spotify, collocandosi ottavo nella classifica dei brani più ascoltati della piattaforma.

Il suo curriculum vanta già diverse collaborazioni con brand molto importanti, tra cui Prada, Gucci, Diesel, Calvin Klein, Samsung e molti altri.

Miquela però non è solo un’artista di successo o una modella che presta la sua immagine per sponsorizzare i prodotti dei brand che chiedono di collaborare con lei, ma è innanzitutto una figura in grado di comunicare con la propria community attraverso una sua personale voce.

Su Youtube ha un canale molto attivo attraverso il quale si rivolge direttamente ai propri fans e dove discute di personaggi reali, come le Kardashian, come se il suo mondo non fosse in realtà virtuale.

Sui social ha anche postato diverse fotografie assieme a persone reali, famose e influenti come, per esempio, con la star di Netflix Millie Bobbie Brown, quasi per evidenziare il progressivo abbattimento del limite tra ciò che è reale e ciò che non lo è.

Posta con frequenza anche su Twitter e prende posizione su importanti temi di attualità, come, per esempio, il movimento Black Lives Matter.

In passato ha inoltre rilasciato diverse interviste in cui si è espressa su diversi temi proprio come se fosse un normale personaggio influente del web.

In un’intervista rilasciata a Business of Fashion, Miquela ha affermato “sono un’artista e spesso le mie opinioni personali mi hanno anche fatto perdere follower. Voglio essere tutto, anche più di quello che i miei fan si aspettano”.

Potrebbe sembrare il normale pensiero di un Influencer, se non fosse che dietro a queste parole in realtà ci sia un team di esperti di comunicazione e non semplicemente una diciannovenne di successo.

La verità è che nonostante sia una creazione finta realizzata a computer, per molti Miquela è molto più vera e autentica di molte Influencer in carne ed ossa.

Bermuda, con 287mila follower, è l’amica virtuale di Miquela, un esempio di personalità del web da non imitare per la sua superficialità e poco ammirata a causa delle sue trascorse posizioni politiche a favore dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump. È interessante dunque vedere come le agenzie si siano impegnate a realizzare degli avatar quanto più realistici possibili, e a volte con lo scopo di sfavorire un personaggio per avvantaggiarne un altro, come in questo caso rispettivamente con Bermuda e Lil Miquela.

Blawko, creato dalla stessa agenzia americana di Lil Miquela, è conosciuto invece per essere l’ex fidanzato virtuale di Bermuda e molto amico della regina degli Influencer Virtuali.

Le sue caratteristiche fisiche sono i tatuaggi che gli ricoprono tutto il corpo, lo stile e l’abbigliamento hip hop e la mascherina che gli copre sempre il volto. È diventato famoso soprattutto dopo aver partecipato a un DJ set per NTS Radio e oggi è seguito da ben 152mila persone su Instagram.

La modella Shudu ha fatto il suo debutto nel 2017 e oggi il suo profilo conta più di 200mila follower.

La creazione del fotografo di moda Cameron James-Wilson è diventata famosa dopo essere stata testimonial per Fenty Beuty, la linea di make-up firmata Rihanna.

All’inizio tanti erano convinti che fosse una modella reale, e ammaliati dalla sua bellezza hanno scoperto solo in seguito e con grande sorpresa che non lo era affatto.

Oggi collabora ancora con numerosi brand nel campo dell’alta moda.

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Infine, Imma è la creazione dell’agenzia Modeling Cafe Inc Di Tokyo, nata nel 2019 e attualmente seguita da 328mila follower. Dalla sua biografia si legge che è appassionata di arte, film e cultura giapponese, e il suo scopo come Influencer è proprio quello di condividere e mostrare attraverso i social le sue passioni.

Caratterizzata dall’acconciatura rosa a caschetto e dai tratti orientali, Imma potrebbe essere tranquillamente scambiata per una vera modella giapponese, tanto che oltre ad essere molto attiva su Instagram realizza numerosi video su TikTok nei quali si mostra sempre naturale e spontanea.

Un aspetto curioso legato a Imma è il fatto che la sua testa è virtuale mentre il corpo appartiene ad una ragazza reale: in questo modo è molto più semplice farla sembrare una vera modella e farla muovere nello spazio con più naturalezza.

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Ciò che accomuna tutti questi personaggi più o meno influenti è la capacità dei loro creatori di attribuire a loro una personalità definita e unica per renderli quanto più veri e realistici.

Ognuno ha un proprio stile, un carattere, un modo di posare differente e addirittura opinioni personali, tanto che probabilmente molti tra i loro follower non si sono ancora resi conto di seguire degli avatar creati al computer.

 

Perché le aziende sono incentivate a lavorare con loro?

I vantaggi di lavorare con gli Influencer Virtuali sono parecchi, tanto che sempre più aziende scelgono di collaborare con loro.

Innanzitutto, i costi sono decisamente inferiori rispetto a quelli reali, ciò è dovuto al fatto che le aziende non devono regalare ogni volta i prodotti ma semplicemente venderne i diritti di sfruttamento d’immagine. In più, non è necessario sostenere costi in merito a pernottamenti, viaggi o condizioni degli stessi Influencer in quanto essendo virtuali possono apparire ovunque, in qualsiasi momento e oltretutto in più posti contemporaneamente.

Inoltre, essi non sono condizionati dai bisogni fisiologici, non si ammalano mai, sono sempre in forma e non invecchiano.

Ma soprattutto fanno e dicono esattamente ciò che vuole l’agenzia, quindi il loro campo d’azione è limitato mentre il controllo da parte dell’azienda nettamente maggiore.

In un periodo di pandemia e incertezze, gli Influencer Virtuali rappresentano per le aziende la sicurezza che i propri progetti e strategie possano essere portate a termine in qualsiasi circostanza.

Le aziende che hanno creato i propri Influencer Virtuali

Molte aziende hanno deciso di non affidarsi ad agenzie esterne per l’utilizzo di Influencer Virtuali ma di creare i propri.

Tra queste, KFC ha scelto di portare in vita proprio il Colonnello Sanders, storico volto del marchio di pollo fritto. Il colonnello, ormai qualche anno fa, aveva preso il controllo dei canali social del brand, con il compito di sponsorizzare il marchio in modo originale e insolito per una catena di fast food.

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Lo stesso ha fatto Puma con Maya, modella virtuale seguita da 8mila follower.

È stata creata appositamente per l’azienda con lo scopo di rivolgersi al sud-est asiatico attraverso campagne mirate, e dato che si tratta di una regione talmente vasta, Maya è risultata la sola in grado di prestare la propria immagine senza limiti spazio-temporali legati alla sua persona fisica.

Vantaggi e perplessità

I motivi per i quali le aziende potrebbero preferire una collaborazione con gli Influencer Virtuali non sono quindi pochi, allo stesso modo sono molte le perplessità dei competitor del settore e non solo.

Alcuni li trovano addirittura inquietanti perché nonostante la somiglianza con gli esseri umani in realtà non lo sono, ma cercano solamente di imitarli alla perfezione.

I follower di un Influencer solitamente tendono a imitarlo e copiare il suo stile di vita, perciò un fattore fondamentale che dovrebbe essere presente in chi lavora in questo settore è senz’altro la capacità di ispirare fiducia e di diventare un punto di riferimento per la propria community.

Ciò che manca a questi avatar è proprio il lato umano, le emozioni che solamente una persona in carne ed ossa potrebbe trasmettere. Può essere dunque rischioso essere influenzati da avatar apparentemente perfetti che nella realtà non esistono, perché si cercherebbe di imitare qualcosa di irraggiungibile.

Inoltre, dietro agli Influencer Virtuali non c’è una persona, ma un team di esperti che hanno il compito di sfruttare l’immagine di un personaggio, in questo caso creato al computer, per ottenere collaborazioni con aziende e successivamente un guadagno economico.

Forse in futuro queste personalità verranno riconosciute per quello che secondo molti sono veramente, ovvero veri e propri strumenti di pubblicità.

In futuro seguiremo sempre più Influencer Virtuali?

I numeri parlano chiaro, nei prossimi anni le aziende utilizzeranno ancora strategie di influencer marketing per le proprie campagne sui social network.

Secondo i dati esposti nel report dell’Influencer Marketing Hub del 2021, nel corso di quest’anno è prevista una crescita dell’industria dell’influencer marketing fino a raggiungere quasi 14 miliardi di dollari, mentre il 90% degli intervistati della ricerca è convinto dell’efficacia di queste strategie sui social.

Bisogna capire quali metodi verranno scelti dalle aziende per portare avanti le proprie campagne di marketing, se attraverso l’utilizzo dei classici Influencer o meno.

Sicuramente conteranno anche le opinioni degli utilizzatori di Instagram, liberi di seguire l’una o l’altra categoria soprattutto in base all’autenticità e reputazione del personaggio stesso.

Non ci resta che attendere e vedere le reazioni degli utenti dei social, che potranno restare sempre più affascinati dagli Influencer Virtuali finti ma sempre più autentici, o rimanere fedeli a quelli umani ma facilmente considerabili più falsi.

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Economia, StartUp e Fintech

Crypto art e NFT: intervista ad Andrea Concas

In queste ultime settimane gli NFT sono stati associati a qualsiasi settore, hanno avuto una crescita esponenziale e i prezzi dei token macinano record su record.

Tra i campi di applicazione più interessanti vi rientra a pieno titolo l’arte. Vediamo in questa intervista quali sono i cambiamenti che gli NFT possono portare in questo settore e come si sta muovendo l’imprenditore Andrea Concas, fondatore delle startup Art Backers e Art Rights e creatore, tra le altre, di AB Gallery, una rete di gallerie che propone un nuovo concetto di arte attraverso una selezione di opere d’arte di artisti e fotografi contemporanei e storicizzati.

Ciao Andrea, ti chiedo di presentarti ai nostri lettori con un focus sul tuo percorso di studio e quanto esso abbia effettivamente influenzato le tue scelte future.

“Sono Andrea Concas e sono un imprenditore, un art tech entrepreneur. Mi occupo di come le tecnologie possano supportare il mondo dell’arte e i suoi player, prima di tutto gli Artisti. Lo faccio con una startup innovativa, Art Rights, che si occupa della certificazione delle opere d’arte e sono docente e keynote speaker di tematiche legate al Marketing Culturale e Digital Innovation legate all’imprenditoria nel mondo dell’arte. Quindi, in questo campo, buona parte di me è anche divulgativa, affrontando a 360 gradi queste tematiche: Arte, Innovazione e Tecnologia.

Dal punto di vista formativo ho una laurea in Marketing del turismo, poi mi sono specializzato in Management dei beni e servizi culturali e successivamente un master di specializzazione all’Harvard University legato alla digital innovation, quindi, dedicato ai mercati innovativi.”

Da dove nasce il tuo interesse nell’arte? C’è stato un episodio che ti ha avvicinato a questo mondo?

“Ho avuto la fortuna di nascere in mezzo all’arte. Mio padre è uno Storico dell’Arte e Museologo ed è stato direttore di Musei Statali, per questo fin da bambino ho vissuto da vicino questo settore. Di pari passo avevo un interesse verso le tematiche del marketing e del turismo e poi mi sono specializzato nel management dei beni e servizi culturali.

Avendo avuto la fortuna di vivere fin da bambino il mondo dell’arte e lavorando con mio padre, da lì è stato naturale proseguire e trovare la mia strada.”

Perché, secondo te, gli NFT non sono una moda passeggera e cos’è “Art Rights”?

“È ancora presto per dire che gli NFT NON siano una moda passeggera. Gli NFT sono un’applicazione di una tecnologia. È molto difficile in questo momento, in cui per giunta c’è grande interesse derivante dalle grandi movimentazioni di mercato, prevedere gli sviluppi futuri.

Quello che posso dire è che sicuramente non sarà una moda la tecnologia Blockchain, che offre la possibilità di rendere le informazioni incorruttibili e immodificabili perché registrate su una rete di database distribuiti. In tal senso, nel mondo dell’arte, come in altri settori, essa può rientrare a vario titolo: nella gestione dei contratti, nella gestione dei diritti primari o secondari legati alle opere d’arte, e nel mercato.

Gli NFT sono un fenomeno di assoluto interesse. Art Rights, in tal senso, ci sta lavorando da molto tempo, ma la visione è quella di lavorare, paradossalmente, per l’autenticazione e la certificazione delle opere d’arte fisiche dove avvengono la maggior parte degli scambi sul mercato.

Gli NFT sono una declinazione, derivata dall’utilizzo di questa tecnologia, per le opere digitali. Lì è perfetta, ma in questo momento il mercato dell’arte digitale ha dei numeri relativamente bassi.
È vero che sono stati transati oltre 400 milioni di dollari negli ultimi mesi, ma il mercato dell’arte ne vale 50 miliardi secondo l’ultimo Report di UBS e Art Basel, quindi ancora non stiamo parlando di cifre rilevanti e, per giunta, dei 400 milioni, non tutte sono transazioni di crypto arte.”

Pensi che gli NFT possano democratizzare il mondo dell’arte permettendo a tutti di poter pubblicare le proprie creazioni e, in futuro, portare l’arte digitale al pari di quella fisica?

“In realtà no, nel senso che non saranno la Blockchain o gli NFT a ricoprire il ruolo di panacea dei mali dell’arte. Oggi chiunque può creare un’opera d’arte, nessuno lo vieta. Il problema sarà venderla, sarà trovare una valenza culturale, e anche gli NFT avranno i medesimi problemi. Quindi, quello che potrà portare in questo momento è un nuovo mercato e, di conseguenza, nuova linfa economica.

Ma in questo momento, questo mercato non ha nulla a che fare con il mondo dell’arte, se non per il passaggio di Christie’s dell’opera di Beeple da quasi 70 milioni di dollari.

Il mondo degli NFT è basato su regole del mondo crypto, quindi crypto economie e criptovalute, che hanno dinamiche proprie. Cosa diversa è, invece, quello dell’arte. A tutti piace pensare che la tecnologia possa risolvere le problematiche generali del mondo dell’arte, ma in questo mondo l’innovazione è di processo e non tecnologica. La tecnologia può supportare i cambiamenti, a patto che siano accettati dagli stessi player del settore.

Sicuramente gli NFT danno una possibilità ad alcune categorie di artisti di trovare il proprio spazio nel mercato (cosa che già i social network permettevano di fare). Infatti, oggi ci sono artisti che godono di grande attenzione da parte del proprio pubblico e riescono a vendere le opere senza passare dai canali canonici di validazione e vendita delle opere quali case d’asta o gallerie, ma vendendo direttamente al pubblico.

Quindi gli NFT, in tal senso, vanno a tagliare una serie di intermediari i quali, però, non sono solo dei distributori, ma portatori di valore, di validazione e di collaborazioni, andando a contribuire anche per quanto riguarda il valore culturale di un’opera. Noi non possiamo pensare ad un mondo dell’arte senza queste validazioni.

Poi, che si voglia disegnare su un foglio o creare un file digitale, non c’è nessuna legge che lo vieta.”

Qual è, secondo te, il fattore chiave che permette di diventare dei crypto artist? Cosa distingue artisti come Beeple rispetto a uno sconosciuto che fa un collage di 5000 immagini?

“Chiunque può tagliare una tela, ma ciò non vuol dire che questa sia un Lucio Fontana. Non è esclusivamente l’atto in sé o il collage. Beeple non è un classico artista ma un illustratore, non ha mai avuto un percorso di validazione nel mondo dell’arte. Questo è stato lo shock, il corto circuito, più grande.
Beeple è il terzo artista più venduto nel mondo pur non avendo uno storico, un curriculum. Ha certamente lavorato per grandi marchi, ma come illustratore. Le sue opere non sono state esposte al MoMA o battute all’asta prima di quel fatidico 11 marzo 2021. Con gli NFT se hai carta e penna o se hai un computer con Photoshop, con tecnica e una visione, puoi creare delle opere.

Ma, per rispondere alla tua domanda, innanzitutto bisogna dire che Beeple, al contrario, non era affatto uno sconosciuto nel settore crypto. Fu, anzi, uno dei primi a usare questa tecnologia, fin dal 2014, vendendo delle opere singole a 6 milioni. La novità è stata il mutamento della community che in quest’ultimo caso è al di fuori del mondo crypto. In questo momento ci sono regole precise nel mondo cripto: terminologia e linguaggio, tone of voice e dinamiche di acquisto tra i collezionisti (come del resto avviene anche nel mondo fisico).

Semplicemente lui aveva tutti i requisiti richiesti da questo nuovo tipo di community. Beeple godeva del supporto della community, chi ha partecipato all’asta di Christie’s e poi chi si è aggiudicato l’opera erano tutti collezionisti di crypto art, portatori di ingenti capitali, reali e non virtuali.

C’è da fare un’importante distinzione tra l’arte e i collectibles. Spesso le opere di cui si parla sono semplicemente delle immagini che la gente compra per collezionarle e non opere d’arte nel senso canonico del termine.

Ad oggi la piattaforma di vendita fa la differenza e, dove il mercato è completamente libero, pubblicare la propria opera su una di queste piattaforme determina, quasi automaticamente, il successo dell’opera e del suo artista.
Quindi, paradossalmente, la piattaforma valida l’artista al pari di un museo o di una galleria.

Tutti vorremmo sentirci dire che questa tecnologia rivoluzionerà il mondo e che tutti potranno diventare artisti milionari ma bisogna guardare con occhio critico e, nonostante come società e startup avrei tutto l’interesse, al momento, a mio avviso, ci sono delle problematiche a livello sociale, fiscale, culturale e deontologico.”

Quali sono i tuoi progetti futuri e qual è la visione di Art Rights?

“Nel nostro caso, che condividiamo il fatto che anche la crypto avrà il suo ruolo, il progetto sarà quello, da un lato, di supportare artisti, collezionisti, professionisti e galleristi nella certificazione delle proprie opere e del corredo documentale affinché ci sia più fiducia in questo mondo e, dall’altro, continuare a implementare la piattaforma di Art Rights, anche attraverso gli NFT, ma selezionando gli artisti a monte, lavorando sulla curatela e assicurandoci che le opere da loro prodotte abbiano sia il diritto di essere tokenizzate sia che abbiano il diritto di “firmare” l’opera a nome loro e che, quindi, effettivamente gli utenti siano verificati.

Creando una community verificata, possiamo utilizzare gli NFT e la crypto art usando le regole del mondo dell’arte ma applicando la tecnologia Blockchain alla base degli NFT. Si crea, in questo modo, un circolo virtuoso in cui l’opera fisica e l’opera digitale possono essere accompagnate da un corredo di verifica di chi e come le abbia fatte e che possa permettere loro anche di guadagnare da questo aspetto.”

Come vedi il mondo dell’arte nei prossimi 10 o anche 20 anni (vista la “lentezza” del settore)?

“Quello che è successo con la crypto ha smosso le acque perché nel momento in cui arrivano grandi case d’asta, come Christie’s e Sotheby’s, sicuramente gli operatori sono obbligati, perché lo sta imponendo il mercato, ad aggiornarsi.

Questo è un momento di grande fermento in cui le tecnologie potranno avere un ruolo sempre più importante. Ora bisogna essere in grado di spiegare ai player quali potrebbero essere i benefici che possono trarre dall’utilizzo. Il mondo dell’arte, che era già affaticato da altre situazioni, come un mercato più chiuso, sta cercando nuove soluzioni e queste soluzioni, legate anche al digitale, potranno dare nuova linfa e accogliere nuovi protagonisti. Il problema starà nell’applicazione di queste regole.

Il mondo dell’arte è capace di prendere tutto questo e sviluppare le sue dinamiche come del resto sta facendo la crypto. Perché è sbagliato associare il mondo crypto a quello dell’arte, che ha le sue regole e dinamiche. Quello che si sta cercando di fare ora è di applicare queste regole al settore della cripto.
Unendole alle opere fisiche, cercando di capire il ruolo delle gallerie, delle fiere d’arte o dei musei.

Per fare questo servirà del tempo e molte di queste riflessioni saranno oggetto di discussione nei prossimi anni: l’unione del fisico e del digitale, delle nuove possibilità di mercato derivate da un pubblico più ampio e, anche, di nuovi collezionisti provenienti dalla crypto art o dagli NFT.”

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Ambiente, società e tecnologia

Giornata mondiale della Biodiversità

Oggi, 22 maggio 2021, si celebra la 21° Giornata Mondiale della Biodiversità. Infatti, questa è stata istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in ricorrenza dell’adozione della “Convenzione sulla Diversità Biologica”. Il termine biodiversità fu coniato proprio durante questa cosa conferenza che aveva come temi centrali l’ambiente e lo sviluppo.

Cos’è la biodiversità?

L’errore più comune che si compie quando si parla di biodiversità è quello di associare questo termine a qualche idilliaco paesaggio insulare da cui svettano gioiosi animali che, in città bene che vada, si incontrano solo nel primo servizio di Superquark. Ma la realtà è un’altra. Secondo la definizione ufficiale “la biodiversità, o diversità biologica, è ogni tipo di variabilità tra gli organismi viventi, compresi, tra gli altri, gli ecosistemi terrestri, marini e altri acquatici e i complessi ecologici di cui essi sono parte. Essa comprende la diversità entro specie, tra specie e tra ecosistemi“.

Sono dunque riconosciuti tre ordini gerarchici di diversità che rappresentano aspetti abbastanza differenti dei sistemi viventi: la diversità genetica, quella specifica e quella ecosistemica. Questo significa che ciascun essere vivente, animale o vegetale che sia, rappresenta un importante tassello per la diversità biologica.

Quanta ne abbiamo?

Tuttavia la biodiversità, intesa nel senso più classico del termine, è quella che risponde alla domanda “quante specie vivono insieme a noi su questo Pianeta?” a cui poi segue il secondo interrogativo “siamo sicuri di conoscerle tutte?”. Certo, la biodiversità tassonomica nota alla scienza è già di per sé molto ampia ma non sarebbe corretto avere la presunzione di conoscere già tutto. Le specie note e descritte ammontano a poco meno di 2 milioni e per di più, tra questi, abbiamo un milione di specie che appartengono alla categoria tassonomica degli insetti, o più correttamente agli artropodi (Phylum Arthropoda).

Per capire come sia possibile tutto questo, basta andare in giardino. A colpo d’occhio potreste ammirare: le farfalle, che fin da subito, inondano la vostra visuale e, in fondo al giardino, un albero da frutto sul quale un tenero uccellino si diletta nell’arte canora. Avvicinandovi di soppiatto potreste notare, tra la verde chioma dell’albero, una coccinella intenta a fare colazione con dei gustosissimi afidi. Poco più in là, anche un’ape sta consumando il suo pasto su un meraviglioso fiore appena sbocciato mentre vi godete tutto questo arriva una mosca a importunarvi e così decidete di rientrare in casa dove anche il vostro gatto reclama la colazione. In non più di due minuti avete incontrato: una pianta, 2 vertebrati e ben 5 esponenti del gruppo degli artropodi.

La più nota delle stime di biodiversità risale al 1995, secondo la stessa il numero totale delle specie si dovrebbe aggirare attorno ai 10 milioni, mentre le stime condotte sulle evidenze tratte dagli artropodi, allungano le ipotesi portando queste cifre fino a 50 milioni. Se così fosse, questo significherebbe che, ad oggi, è noto solo lo 0,04% della biodiversità.

Inoltre la biodiversità non è sempre stata la stessa durante la storia della vita, possiamo parlare di vera e propria evoluzione della diversità biologica nel tempo. La biodiversità è stata promossa da fattori di competizione che hanno visto come vincente la soluzione di trovare risorse alternative a quelle utilizzate dagli altri organismi, per questo diciamo che la diversità biologica è evoluta secondo un processo dinamico.

Perché la biodiversità è così importante?

Come viene affermato da un importante studio, le società umane sono interamente costruite sulla biodiversità in quanto questa permette all’uomo di soddisfare i propri bisogni, siano essi primari o putativi. Se ne deduce che la biodiversità è sempre stata parte integrante dell’esperienza umana.

Ciò che è meno riconosciuto, o meglio sul quale non è ancora stata posta la giusta attenzione, è che la diversità della vita sulla terra è “drammaticamente influenzata” dalle alterazioni antropiche le quali, a loro volta, possono influenzare il benessere umano. Questo significa che a causa delle nostre azioni potremmo presto veder venir meno delle risorse che gratuitamente la natura mette a nostra disposizione.

È proprio in questo tipo di situazione che viene coniato il termine “servizi ecosistemici”. I servizi ecosistemici sono quell’insieme di beni e di processi dai quali gli esseri umani traggono un diretto vantaggio. Data questa definizione appare chiaro come la perdita di biodiversità si presenti come una grande minaccia per il benessere delle società umane. Generalmente i servizi ecosistemici vengono suddivisi in servizi di fornitura, servizi di regolazione, e servizi di supporto e servizi culturali.

Con servizi di fornitura si intende la messa a disposizione di materie prime come ad esempio il legno, l’acqua o in generale il cibo, mentre nella seconda tipologia annoveriamo servizi come la regolazione del clima, il mantenimento delle concentrazioni chimiche dell’oceano o dell’atmosfera. Tra i servizi di supporto più importanti abbiamo il riciclo di nutrienti e la formazione dei suoli, ultimi ma non ultimi si hanno i servizi culturali ossia tutti quei servizi che hanno a che fare col valore estetico-religioso che risiede intrinsecamente nella natura.

Il valore dei servizi ecosistemici è stato poi riconosciuto anche da un progetto internazionale che si chiama “The Economy of Ecosystems and Biodiversity” il cui scopo è quello di assegnare un valore economico, in dollari, ai servizi ecosistemici. Questo permette di considerare, nelle valutazioni economiche, i servizi ecosistemici alla pari di tutti gli altri servizi.

Un servizio ecosistemico che ci è costato molto caro

Tutti i servizi ecosistemici sono beni non patrimoniali ma patrimonialmente rilevanti e il controllo delle malattie infettive umane è proprio uno di quei servizi strettamente correlati alla conservazione della biodiversità. L’intensificarsi della comparsa di agenti patogeni infettivi ha molte ragioni di fondo, ma quasi tutte hanno in comune il crescente impatto antropico sulla natura. L’intensificazione di questo tipo di emergenza può essere attribuita a un tasso crescente di contatti tra fauna selvatica e uomo.

Alcuni studi condotti sull’argomento hanno mostrato che il numero di zoonosi è aumentato in tutto il pianeta negli ultimi decenni, aumentando la probabilità di epidemie e pandemie nella popolazione umana. Infatti, il 75% dei patogeni umani emergenti sono zoonotici, il che significa che hanno un’origine animale. I patogeni sono una componente importante in natura e sono lo strumento attraverso il quale la natura si autoregola. Infatti, le malattie portano alla morte solo degli individui più deboli, meno adattati, rendendo la popolazione rimanente più adatta all’ambiente in cui abita. La crisi causata dal coronavirus (COVID-19) è l’esempio più ovvio e urgente di un patogeno zoonotico emergente. Secondo la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo, l’ammontare dei danni economici dovuti alla pandemia è di 10 trilioni di dollari, in un certo senso questo è il costo che il mondo ha pagato per non aver considerato la biodiversità.

La perdita di biodiversità non è solo scienza ma anche società!

La vita sulla terra è in continua evoluzione ed è sempre stato così; tuttavia negli ultimi decenni gli scienziati hanno registrato un rapido aumento del tasso di estinzione: si estinguono molte più specie di quelle che si formano. Nel 1992 Willson ha condotto uno studio su una stima di 10.000.000 specie e ne dedusse ogni anno venivano perse più di 25.000 specie circa 3 ogni ora. Tali tassi sono circa 10.000 volte più elevati rispetto al tasso di estinzione naturale tanto che un recente rapporto dell’IPBES (Intergovernamental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services dell’ONU) li definisce senza precedenti.

La perdita di biodiversità non può essere circoscritta all’interesse scientifico, infatti, da essa scaturiscono una serie di problematiche sociali. Esistono delle persone che dipendono maggiormente dai servizi ecosistemici, come gli agricoltori di sussistenza e le persone appartenenti alle società tradizionali che a causa del loro basso potere economico e politico non possono sostituire i benefici perduti con beni e servizi acquistabili.

Ad esempio, le società più povere non sono in grado di acquistare acqua sicura quando la qualità dell’acqua si deteriora a causa dell’eccessivo uso di fertilizzanti e pesticidi da parte dell’agricoltura industriale. Allo stesso modo, i meno abbienti non saranno in grado di accaparrarsi la giusta quantità di nutrienti quando le proteine e le vitamine provenienti da fonti locali diminuiscono diminuiranno a causa della perdita di habitat.

La perdita di servizi ecosistemici dipendenti dalla perdita biodiversità diviene così un problema sociale di cui tutti siamo chiamati a farci carico, infatti ad oggi essa è una delle prime cause di accentuazione della disuguaglianza e l’emarginazione. Il cambiamento e la perdita di biodiversità sono profondamente legati alla povertà, la più grande minaccia, identificata dalle Nazioni Unite, per il futuro dell’umanità.

Purtroppo solo tardi si è presa coscienza delle relazioni tra ecosistemi e benessere umano e di conseguenza tardi è arrivato il contributo da parte delle istituzioni che hanno riconosciuto soggetti plurali come portatori dell’interesse ambientale favorendo la nascita della disciplina ambientale del diritto. Uno degli interventi più consistenti circa il contrasto della perdita di biodiversità è stato quello della Comunità europea.

In particolare l’Europarlamento si è mosso chiedendo la stipulazione di accordi legalmente vincolanti a livello sia locale che globale, al fine di aumentare le ambizioni riguardo alla tutela e al ripristino della biodiversità. Inoltre è stato proposto l’aumento delle aree naturali che dovrebbero costituire il 30% del territorio UE entro il 2030 affinché gli ecosistemi danneggiati possano essere ristabiliti. Per poter garantire finanziamenti sufficienti, il Parlamento propone che 10% del prossimo Bilancio a lungo termine dell’UE sia destinato alla salvaguardia della biodiversità. Il Parlamento ha anche chiesto una migliore protezione degli impollinatori, tra cui le api, la cui Giornata mondiale procede solo di due giorni quella dedicata alla biodiversità.

Nell’occasione della Giornata mondiale della biodiversità dovremmo riflettere sul fatto che molti servizi ecosistemici sono sostenuti dalla biodiversità. Affinché possa iniziare una concreta inversione di marcia per quanto riguarda la perdita della biodiversità è necessario che per la prima volta da quando è apparso sulla Terra, l’uomo si astenga dal fare ciò che è nelle sue possibilità perché è ormai evidente che l’incidenza che egli ha sulle risorse e sull’ambiente non è più sostenibile.

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Ambiente, società e tecnologia

I nuovi luoghi della politica: dall’agorà al feed Instagram, tra influencer e prese di posizione

Sarebbe anacronistico continuare a negarlo: le notizie oggi viaggiano velocemente, ancora di più quando sono false, mentre i nostri feed di instagram sono invasi dai più svariati contenuti.

Rimbalziamo tra video shock, post-denuncia e sponsorizzazioni di prodotti, completamente assuefatti da iconografiche colorate e reels divertenti.

Questo mondo fatto ad hoc per noi utenti, personalizzato a puntino da contenuti consigliati e inserzioni pubblicitarie mirate, è però dominato da una (ormai non tanto nuova) figura mediatica ed imprenditoriale di cui assorbiamo, direttamente o indirettamente, contenuti, opinioni e consigli: l’influencer.

Alcuni di loro scelgono di parlare della loro vita personale, altri di cosa accade nel mondo o di argomenti a cui sono particolarmente interessati (oppure che fanno semplicemente trend).

È un continuo minestrone di persone famose, politici e tuttologi improvvisati: ognuno sente il bisogno di dire la sua, con le migliori intenzioni, ma questo spesso genera il caos.

Fuori dalla nostra bolla dei social però, quanta importanza hanno veramente gli influencer nel manovrare l’opinione pubblica? E quali sono i nuovi spazi del dibattito politico?

Influencer, brand e woke washing

Innanzitutto, il termine “influencer” è utilizzato in ambito pubblicitario per indicare “tutte quelle persone che, essendo determinanti nell’influenza dell’opinione pubblica, costituiscono un target importante cui indirizzare messaggi pubblicitari, al fine di accelerarne l’accettazione presso un pubblico più vasto”, come riportato dal Glossario Marketing.

Nell’era social, accade spesso che utenti del web riescano gradualmente ad affermarsi, accumulando migliaia di followers e costruendo così la propria credibilità. Questi iniziali “fruitori” diventano allora a tutti gli effetti dei micro (o macro) influencer, cioè personalità capaci di condizionare il proprio pubblico rispetto a specifiche tematiche di interesse, ma non solo.

Talvolta si preferisce definirli “content creator“ perché il loro lavoro online non si limita ad influenzare passivamente il pubblico ma si propone di produrre dei contenuti che possano raggiungere quanti più utenti possibile in modo convincente, interessante, utile e credibile.

È così che questa categoria dalle mille sfaccettature diventa il bersaglio principale dei brand, che vogliono sfruttarne l’ampia platea di fedeli seguaci per pubblicizzare ed affermare i loro prodotti.

Ciò che però accade spesso è che gli influencer (così come i marchi che rappresentano) decidono di cavalcare l’onda dell’hype di alcune tematiche diventate improvvisamente virali. Quando accade, i feed dei social si riempiono in pochi giorni degli stessi post con le stesse grafiche mentre nelle stories troviamo le stesse facce note che si esprimono in maniera ridondante, utilizzando solitamente slogan clickbait privi di sostanza.

Questo meccanismo, ormai appurato, può avere in generale due effetti: se da un lato incentiva il vasto pubblico a prendere consapevolezza di una determinata questione, dall’altro può arrivare a compromettere la stessa tematica, svuotando di ogni credibilità e consistenza i valori in nome dei quali si sta lottando e riducendoli meramente a likes, numero di condivisioni e visualizzazioni.

Questo diffuso comportamento, secondo cui gli influencer iniziano a perorare una causa particolarmente calda ma che in precedenza non avevano mai trattato sulla piattaforma, ha un nome: il woke washing, cioè il camuffamento dietro a determinati valori etici senza una reale adesione alle battaglie sponsorizzate. Il woke washing è insomma un altro modo di definire quell’ipocrisia che le personalità conosciute utilizzano per parlare al grande pubblico, spacciando per interesse la necessità di ricevere consensi su larga scala. A seconda dell’argomento, si parlerà di “greenwashing” se la maschera è l’ambientalismo, o di “pinkwashing” se ci si presenta come paladinə di lotte femministe in cui però non si crede fino in fondo.

L’autorevolezza e la grande cassa di risonanza di cui godono gli influencer è quindi un’arma a doppio taglio che va saputa usare bene, in particolar modo quando ci si sta schierando per una giusta causa.

The Ferragnez: nasce, cresce, si schiera

Nell’ultimo anno, la coppia più pop del web (ovvero Chiara Ferragni e Fedez, noti come i “Ferragnez”) ha sicuramente intrapreso una crescita sorprendente per quanto riguarda il supporto a battaglie sociali ed etiche sia sui social che nella “vita reale”. In un momento in cui siamo ancora soggiogati da una pandemia verace, la rete è la migliore alternativa all’opposizione fatta “col corpo”, cioè in maniera concreta fuori dalle mura di casa.

Nelle scorse settimane, Fedez si è personalmente fatto carico di spiegare al grande pubblico cosa stesse accadendo in parlamento con il DDL Zan, cioè il disegno di legge proposto dal PD contro discriminazioni e violenze per orientamento sessuale, genere, identità di genere e abilismo. A più riprese su Instagram, Fedez si è preoccupato di chiarire significato, importanza ed osteggiamenti al DDL Zan da parte di determinate personalità politiche, tra cui il presidente della Commissione di Giustizia Ostellari (Lega).

Dopo aver lanciato petizioni e parlato in diretta con lo stesso Zan (PD), Fedez ha concluso la sua battaglia portando direttamente sul palco del 1° Maggio Roma l’urgenza della calendarizzazione del disegno di legge, leggendo un lungo e diretto discorso in cui si citavano anche alcuni (dei moltissimi) commenti omofobi da parte dei rappresentanti dei partiti di destra.

La vicenda, che in sé rappresenta un grande atto di coraggio e di presa di coscienza, ha però poi perso il suo focus originario, andando a mescolarsi con il caso della censura da parte della Rai e la vuota idolatria verso un rapper privilegiato che ha saputo però ben sfruttare le potenzialità della propria posizione.

Fedez ha sicuramente agito da buon cittadino, riconoscendo dal suo status di privilegio la necessità di lottare e schierarsi a favore di battaglie importanti anche se non ci riguardano direttamente. L’intento era chiaro ed è stato espresso in maniera diretta e concisa, facendo entrare nelle case di milioni di italiani di tutte le età un messaggio semplice: il disegno di legge Zan contro omobitransfobia, misoginia ed abilismo va subito calendarizzato, perché queste categorie subiscono violenze quotidiane e perciò vanno tutelate, lottando affinché certe discriminazioni non avvengano più.

D’altro canto, il discorso è risultato comunque superficiale e riduttivo, anche perché Fedez parla solo di uomini gay trascurando del tutto le altre categorie tutelate dal DDL (donne, disabili e le altre persone dello spettro lgbtq+).

Involontariamente, il centro del dibattito si è spostato dalle tematiche del disegno di legge per focalizzarsi sull’odio folle e cieco di alcuni parlamentari di destra, sfociando rapidamente in polemica e shitstorm.

Ma dopotutto, cosa potevamo pretendere da Fedez? Un rapper (ed un padre) con milioni di followers che si interessa di tematiche sociali è sicuramente cosa positiva, perché ha risvegliato (almeno in superficie) una coscienza collettiva che pretende la tutela dei diritti di tutti gli individui. Adesso però sta agli addetti ai lavori (i politici), e non certo a Fedez, il compito di attuare ciò che è stato richiesto a gran voce.

Anche Chiara Ferragni ha utilizzato la piattaforma per sensibilizzare i suoi seguaci a tematiche delicate ed ancora molto stigmatizzate, come l’allattamento al seno in pubblico o la rivendicazione di essere un’imprenditrice digitale e madre (per la seconda volta). Ferragni, avvolta costantemente da una fitta coltre di giudizi per quanto riguarda l’utilizzo del proprio corpo ed il suo ruolo di genitrice, si era già schierata apertamente a favore di precedenti battaglie per i diritti delle donne e l’emancipazione femminile. Dal revenge porn, alla denuncia della società patriarcale e maschilista in cui viviamo, fino alle manifestazioni del BLM, Chiara Ferragni si è spesso presentata in prima liea, dimostrandosi coerente con il proprio pensiero e soprattutto contribuendo a rendere certe battaglie urgenti e necessarie.

Come lei, anche Aurora Ramazzotti ha deciso di rompere a la bolla di vetro condividendo un fatto che le è accaduto recentemente (ma che subisce costantemente nel quotidiano): l’ennesimo atto di catcalling, cioè molestia verbale. Il suo video di denuncia è rimbalzato ovunque sui social, scatenando un’onda anomala di rivendicazioni ed opinioni a riguardo che hanno fatto diventare la tematica virale in pochissime ore. È bastato sentirlo raccontare da Ramazzotti per permettere che moltissime altre donne e ragazze si sentissero finalmente comprese in questa umiliazione e violenza continua, troppo spesso sminuita o anche reputata sopportabile. In molte, grazie a ciò, hanno deciso di rivendicare il proprio diritto sul loro corpo e hanno acquistato la forza ed il coraggio di condannare violenze del genere: sforzi che speriamo non si riveleranno inutili visto l’infelice intervento di Pio e Amedeo.

Le nuove piazze social, tra politica e social network

Negli anni ci siamo preoccupati di tracciare una linea sempre più netta tra svago e politica. Anche sui social, siamo convinti che l’utente medio non abbia alcuna intenzione di confondere i due mondi. O forse no?

In un’era digitale in cui ogni tipo di dibattito si sviluppa e struttura principalmente sul web, anche gli influencer hanno (ovviamente) il diritto di esprimere il loro pensiero, esattamente come noi. L’unica differenza è che lo fanno davanti ad un pubblico sicuramente più ampio rispetto ai nostri soliti quattro amici. Ciò che è certo, è il fatto che sia che si esprimano o si esimano dallo schierarsi, gli influencer verranno sempre criticati. Polemizzare attorno ai loro comportamenti però si rivela tanto inutile quanto ipocrita perché (cosa banale ma che a volte ci dimentichiamo) sono persone come tutti (già, non sono ologrammi) e hanno il diritto, se vogliono, di divulgare la loro opinione.

Al contrario di alcuni content creator che scelgono di schierarsi esplicitamente per cause specifiche, c’è anche chi rivendica il totale disinteresse alle dinamiche sociali della realtà che ci circonda, rifiutando ogni contatto con il “mondo della politica”. È il caso di Luis Sal, youtuber con oltre 2 milioni di followers, che più volte ha dichiarato di non voler prendere posizione sul web in merito a battaglie etiche o sociali. La domanda però sorge spontanea: è veramente possibile non essere “politici” e quindi scegliere di “non-scegliere”?

Sicuramente ognuno deve essere libero di esprimersi, sia nel pubblico e nel privato, secondo le modalità che ritiene più opportune (sempre nel rispetto dell’altro ovviamente). Resta di fatto però che anche ammettendo di non dichiarare esplicitamente la propria posizione riguardo uno specifico argomento, tutti noi agiamo, pensiamo e parliamo creando una nostra gerarchia di valori, definendo involontariamente cosa sia giusto e cosa sbagliato. Di conseguenza, i nostri gesti e le nostre azioni non possono fare a meno che riflettere la nostra visione del mondo. Sebbene sia possibile scegliere di non esporsi in maniera esplicita, non possiamo evitare di veicolare (anche indirettamente) un qualche tipo di messaggio che sarà sempre specchio del nostro pensiero, seppure in minima parte.

Ciò che a volte non è chiaro è il concetto secondo cui fare politica non significa solo schierarsi per un partito. Nel senso più generale del termine, ogni nostra opinione o azione è necessariamente politica in quanto si inserisce in un orizzonte collettivo senza il quale l’individuo non avrebbe ragione di esistere. Per quanto possiamo rifiutarci di prendere parte ad essa, in realtà facciamo continuamente delle scelte ponderate e ben schierate in relazione alla nostra personale visione del mondo.

In ultima analisi, si può dire che ciò che sta accadendo negli ultimi anni non è che un fatto fisiologico: gli influencer stanno ricoprendo le grandi lacune del dibattito politico, generate dalla mancata presenza sul campo (che sia il web o la piazza) dei politici stessi.

Non dobbiamo stupirci se anche gli influencer hanno un’opinione. Quello che dovrebbe stupirci è come a livello popolare una battaglia tanto importante ed urgente come quella del DDL Zan o del catcalling sia completamente sfuggita dal controllo di chi lavora nel mondo della politica (e dovrebbe interessarsene per primo), finendo nelle mani di personalità pubbliche il cui massimo potere rimane quello di fare pressione e risvegliare superficialmente una coscienza collettiva…per qualche giorno, almeno finché non finisce l’hype.

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Marketing & Social Media

Come TikTok sta cambiando l’industria musicale

Fonte: https://newsroom.tiktok.com/en-us/tiktok-launches-musician-program-tiktok-spotlight-to-support-independent-artists-starting-with-japan-and-korea

Secondo una survey TikTok è diventata la piattaforma numero uno che le persone utilizzano per scoprire nuova musica superando le ben note Youtube e Apple Music, se si tiene conto della crescente quantità di artisti che registrano canzoni appositamente per i trend di questo nuovo social, si comprende quanto stia cambiando il mondo dell’industria musicale.

Cos’è TikTok: la storia e i dati

TikTok è il giovane social network cinese che in poco tempo ha superato ogni record affermandosi come app più scaricata del 2021 arrivando a 800 milioni di utenti attivi nel mondo. La piattaforma come la conosciamo oggi nasce nel 2017 dal rebranding di un altro social: Musical.ly, il quale consisteva in brevi video lip-sync dove gli utenti sceglievano la canzone e inventavano dei balletti. Con l’acquisizione da parte del colosso cinese che si occupa di piattaforme digitali, Bytedance, Musical.ly si è trasformato in un social innovativo che mette al centro la creatività degli utenti con lo slogan “make every second count” ovvero “fai che ogni secondo conti”.

Quali novità porta: cosa lo distingue dagli altri social

Le novità apportate da questo social network sono diverse: i video verticali, la grafica semplice, l’algoritmo, le modalità di interazione, ma soprattutto il suono. Su TikTok ancor più che su altre piattaforme, quest’ultimo è fondamentale, si potrebbe dire sia music-based dato che ogni video deve avere una canzone o almeno un sound on, perché senza l’esperienza viene vissuta a metà. Bytedance sin dal giorno zero ha puntato proprio su questa peculiarità portando un’altra innovazione: il copyright delle canzoni sulla piattaforma. I suoi predecessori Instagram e Facebook bannavano i video quando questi venivano caricati con una canzone coperta da copyright come sottofondo e l’unico modo per avere musica sotto i video era comprare i diritti o mettere musica non coperta da diritto d’autore. TikTok fa esattamente il contrario: acquista i diritti della maggior Labels come Warner Music Group, Sony Music, Universal Music Group facendo si che i suoi utenti possano scegliere queste canzoni da un ampio catalogo e metterle nei video permettendo quindi a chiunque di scoprire continuamente nuovi brani, salvarli e riutilizzarli in una propria versione di quella challenge o trend. Ma non finisce qui: sono le stesse etichette discografiche che oramai, avendo compreso il potenziale di queste piattaforme, le utilizzano per cercare talenti e proporre loro dei contratti, promuoversi e vendere in un mondo che vede sempre di più lo streaming (80% degli ascolti in Italia) come forma di fruizione prediletta.

Come sta rivoluzionando l’industria musicale

La notizia che ha fatto scalpore nel mondo musicale è quella dello studio condotto dal sito internet Onlineroulette.org secondo il quale TikTok è diventata la prima piattaforma digitale che le persone (il 60% di quelle studiate) utilizzano per scoprire nuova musica superando le già affermate Youtube e Apple Music; inoltre metà di queste affermano che la piattaforma influenzi i loro gusti musicali. Se si prende in considerazione il fatto che tra le quattro canzoni più ascoltate su Spotify nel 2020, tre avevano una cosa in comune, ovvero essere andate virali su TikTok, viralità che dagli artisti viene sempre più spesso ricercata registrando canzoni ad hoc, si comprende quanto stia effettivamente rivoluzionando questo tipo di industria.

 

 

Esempi di viralità in tutto il globo

Diversi sono gli esempi di persone normali che sono riuscite a far conoscere il loro primo pezzo e la loro musica a moltissime persone arrivando a firmare con le più grandi etichette discografiche che dopo il successo le hanno notate, perché grazie a questi strumenti siamo nell’epoca in cui, se si ha un’idea, si può diventare famosi producendo e cantando una canzone semplice e orecchiabile ma soprattutto facilmente ballabile e riproducibile: è il caso di “Old Town Road” la canzone mix tra country e trap di Lil Nas X che è diventata il primo caso eclatante di canzone scritta da un ragazzo qualunque che ha comprato la base per qualche dollaro ed è arrivato a battere il record di settimane consecutive al primo posto della Billboard Hot 100.

Ma non finisce qui, questo è stato solo il primo di una lunga serie: il rapper australiano Powfu con “Death Bed”, Nathan Evans un postino scozzese che con “The Wellerman” ha creato una hit che incrocia novità e tradizione e che è stata replicata da migliaia di persone grazie al meccanismo dello stitch che permette di continuare il video di un’altra persona e condividerlo sul proprio profilo.

Non mancano gli esempi italiani: il 18enne Matteo Romano che prima ancora di scrivere una canzone ha cantato una sua breve composizione di 15 secondi al pianoforte che sono bastati per fare il giro di TikTok Italia e che l’hanno portato a scrivere per intero “Concedimi” brano con 4 milioni di streaming su Spotify. E infine Pietro Morello prodigio di diversi strumenti musicali che oltre ad aver fatto uscire alcuni singoli tra cui “Filo(sofia)”, porta quotidianamente la musica che i follower gli propongono di replicare.

Proprio per questo motivo è oramai quasi imprescindibile per un artista pubblicare sui social in particolare TikTok per farsi conoscere, data la grande visibilità che questa piattaforma ancora concede: perché non solo i nuovi cantanti in erba, ma anche quelli già affermati possono ritrovare la fama e tornare sulla cresta dell’onda grazie ad un pezzo virale sul social cinese (uno studio di Uswitch ha calcolato l’effettivo impatto sul guadagno degli artisti). È stato il caso di Jason Derulo che dopo cinque anni di “silenzio artistico” è tornato in cima alle classifiche con un brano che è diventato un balletto famosissimo (creato sulla base di un artista 17enne: Joshua Stylah) e uno dei pezzi più ascoltati e utilizzati nella storia di TikTok: “Savage Love”. Lo stesso ha fatto il cantante canadese Justin Bieber che grazie a “Peaches” ma soprattutto “Yummy” è tornato al centro dell’attenzione: milioni di persone le hanno usate come suono base dei loro brevi video prima sulla piattaforma cinese e poi anche negli Instagram Reels.

Non è la prima volta che succede: Despacito e Gangnam Style

A differenza di quanto si possa pensare, questo non è un fenomeno nuovissimo e guardando indietro nel tempo si possono trovare alcune canzoni che potrebbero essere note ai più e che sono nella top 3 dei video più visti su Youtube in assoluto: “Despacito” di Luis Fonsi e Daddy Yankee con 7,3 Mrd di visualizzazioni e “Shape of You” del cantante inglese Ed Sheeran con 5,3 Mrd visualizzazioni.

Prima ancora di loro, la mamma per così dire, delle canzoni virali è un brano che ha fatto ballare il mondo intero nel 2012 ovvero “Gangnam Style” di Psy, un rapper sudcoreano che grazie a questa hit si è fatto conoscere a miliardi di persone rimanendo al primo posto come video più visto sulla piattaforma fino al 2017 quando è stato spodestato dalla più recente Despacito.

In futuro? Prospettive e critiche tra chi crede che si stia rovinando la musica e chi vede in ciò la democrazia culturale

Questi esempi e numerosi altri stanno dividendo l’opinione pubblica tra chi pensa che questa sia per tutti una possibilità di esprimersi e far conoscere la propria arte e chi invece denuncia un abbassamento della qualità dovuto al fatto di dover trovare la hit ripetitiva e a malapena orecchiabile ma che sia perfetta per i vari duetti e che quindi diventi virale su TikTok, concetto che vale sia per gli aspiranti performer che per gli artisti già affermati (Justin Bieber stesso è stato accusato adi aver creato Yummy apposta per la viralità social). A questo si aggiunge l’accorciamento della lunghezza delle canzoni in media dovuto al fatto che gli artisti preferiscono arrivare velocemente al “dunque” causa l’abbassamento della soglia dell’attenzione dovuto proprio all’utilizzo delle canzoni sui social media.

Se c’è una cosa che non si può negare è però la democratizzazione della musica: ora infatti è possibile realizzare i propri sogni più facilmente che in passato senza dover per forza passare per un intermediario difficile come un’etichetta discografica oppure aspettare di essere abbastanza famosi da passare in radio o televisione, ora non si deve attendere nessuno per far fare il giro del mondo al proprio pezzo, e allo stesso modo anche gli spettatori hanno maggior potere decisionale: come in una sorta di “televoto 2.0” sono le persone stesse a far risaltare o pubblicizzare una canzone a seconda dei like che mettono, degli shares e dei duetti che intraprendono decidendo, in pratica, quali canzoni ascoltare tutto il giorno dato che saranno le stesse a finire anche nelle classifiche di Spotify e nei Per te di TikTok.