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Ambiente, società e tecnologia

Gli insetti sulle tavole dei consumatori occidentali: quali sono le ragioni per inserirli nella nostra dieta?

Il 2021 si apre con la valutazione scientifica completa condotta da EFSA, l’Autorità Europea per la sicurezza alimentare, sulla possibilità di introdurre sul mercato a scopo alimentare larve essiccate di Tenebrio molitor (comunemente chiamate tarme della farina), appartenenti alla famiglia dei Coleotteri. Sarà la prima di una lunga lista di future valutazioni sui novel foods, ovvero prodotti “privi di una storia di consumo significativo in UE” che ancora aspettano di ricevere l’autorizzazione dalla Commissione Europea. Molti di questi sono a base di insetti: potrebbero essere i primi piccoli passi verso un cambiamento delle nostre abitudini alimentari? Ma quanto sono effettivamente desiderabili, per noi e per il pianeta, questi cambiamenti? E soprattutto, ci sono i presupposti affinché questo accada?

Allevare insetti per l’alimentazione umana: una scelta sostenibile

Perché dovremmo vincere il naturale disgusto verso gli insetti e inserirli nella nostra dieta? I motivi principali, sostenuti da dati riportati nel documento redatto da FAO Edible insects: future prospects for food and feed security”, riguardano la loro maggiore sostenibilità a livello ambientale rispetto ad altri prodotti animali tipici della cultura culinaria occidentale. Per allevare un chilogrammo di grilli servono circa 1.7 chilogrammi di mangime: una quantità notevolmente minore rispetto ai 10 chilogrammi necessari per ogni chilogrammo di peso acquistato da un bovino, o rispetto ai 5 chilogrammi necessari per i maiali e ai 2.5 chilogrammi per i polli. Inoltre, se fossero allevati su larga scala, gli insetti produrrebbero minori emissioni di gas serra e rappresenterebbero una risorsa contro lo spreco di acqua, grazie alla loro elevata resistenza alla siccità.

Potremmo pensare che, poiché in alcuni paesi il consumo di insetti è una tradizione consolidata, lo sia anche il loro sistema di allevamento industriale: invece, a livello mondiale, solo il 2% degli insetti destinati all’alimentazione umana viene prodotto grazie a queste tecniche. Se visitassimo uno di questi stabilimenti (esperienza virtualmente possibile ad esempio attraverso un mini-documentario girato nello stabilimento “Grubs Up”, in Australia) potremmo convincerci del perché possono essere considerati un modello di sostenibilità: gli insetti infatti vengono cresciuti in unità contenitrici separate (solitamente catini in plastica o contenitori simili), disposte e impilate in modo da occupare meno spazio possibile e ridurre lo spreco di suolo. In particolare, per l’allevamento dei grilli è importante che i contenitori siano arricchiti, per esempio, con i cartoni delle uova, che secondo la “Guidance on sustainable cricket farming” aumentano la superficie disponibile per gli insetti e la loro possibilità di movimento.

Inoltre il substrato necessario alla sopravvivenza degli insetti è costituito da materiale organico e biomassa di scarto, una pratica in linea con uno dei principi fondamentali dell’economia circolare: trasformare i rifiuti in risorse riutilizzabili.

Una fonte alternativa di nutrienti

Sebbene non sia corretto pensare agli insetti come a un “supercibo” dalle incredibili proprietà, i prodotti da loro derivati sono considerati una buona fonte proteica, di grassi, di fibre e di alcuni micronutrienti come ferro e zinco; la quantità di proteine però cambia sia tra specie diverse, sia a seconda del mangime con cui sono stati nutriti, sia rispetto al metodo di lavorazione della materia prima. Anche EFSA, nella sua opinion scientifica sulle larve di Tenebrio molitor, avverte che i metodi di analisi più utilizzati possono portare a sovrastimarne il contenuto proteico. La motivazione? Per quantificarlo solitamente si misurano i livelli di azoto, un elemento contenuto nelle proteine e quindi indice della loro presenza, ma, nel caso degli insetti, anche in una molecola che costituisce il loro esoscheletro, la chitina: non si tratta di una proteina, ma di un polisaccaride che non siamo in grado di digerire.

Insetti per (quasi) tutti i gusti

Per quanto gli insetti siano da sempre l’unica alternativa alla carne in molti paesi del mondo, il profilo nutrizionale non è l’unica cosa che conta: saremmo in grado, soprattutto noi consumatori occidentali, di superare l’avversione verso gli insetti e di considerarli come cibo? Una strategia efficace già esiste: trasformare un alimento all’apparenza inappetibile in un prodotto che ricordi il meno possibile la sua origine. Così gli stessi grilli che possono essere venduti arrostiti come snack pronto possono essere trasformati in polvere da aggiungere al “Dukkha” (uno dei prodotti dell’azienda Grubs Up), un mix di spezie arricchito. Basta visitare il sito di 21bites, uno dei primi e-commerce in Europa a proporre prodotti a base di novel foods, per capire come gli insetti possano essere un ingrediente versatile: si possono acquistare grilli ricoperti di cioccolato, chips, muesli per la colazione, pasta e molto altro. Per di più, ogni specie ha un sapore diverso: si va da quelle che ricordano la frutta secca, come le tarme della farina, a quelle che hanno un retrogusto piccante o persino dolce.

Se considerati da questi punti di vista, gli insetti potrebbero essere un buon alimento da inserire nella nostra dieta, un prodotto sostenibile e, una volta che ne sia stata accertata la sicurezza (come è avvenuto per le larve di Tenebrio molitor), non preoccupante dal punto di vista tossicologico. Quel che resta da scoprire è se arriveranno sulle nostre tavole e se diventeranno, un giorno, un alimento comune anche per i consumatori occidentali.

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PotatoPlastic: dalla padella al packaging

Il consumo di plastica è ormai al centro del dibattito ambientale da molti anni. La produzione di oggetti di plastica ( in particolare quelli monouso) è infatti tra le maggiori cause dell’inquinamento del nostro Pianeta e rappresenta una delle minacce principali per il nostro ambiente.

Secondo un recente studio pubblicato sul Science Advance, l’Italia conquista (a malincuore) la top-ten tra produttori di plastica procapite, aggiudicandosi un 9° posto nella classifica globale che vede in vetta gli USA con una produzione di plastica per ogni cittadino di circa 105kg l’anno.

Secondo i dati del 2020, un italiano medio produce 56kg di plastica l’anno, il che significa generare circa 1kg di rifiuti di plastica alla settimana.

I dati italiani sono sicuramente allarmanti in quanto ci mostrano chiaramente come, negli ultimi decenni, ci siamo trasformati sempre di più in un popolo di consumatori seriali. Abbiamo gradualmente perso ogni tipo di rispetto sia per la Natura, che ci ospita la nostra specie da secoli, che per noi stessi. Come se non bastassero i danni ambientali da noi causati fino ad ora, continuiamo a guardare all’incombente crisi climatica con scetticismo ed indifferenza, ignorando o screditando ogni possibile impegno in merito ad una sua risoluzione e condannando così, in totale inerzia tra un sospiro e l’altro mentre compriamo l’ennesima bottiglietta di acqua minerale al supermercato, la Terra ad una morte precoce e sofferente.

Secondo un’indagine del national Geographic, ogni anno circa 8 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica finiscono negli oceani, dove spesso perdurano fino a 400 anni prima di degradarsi.

Tutti questi dati erano sicuramente noti a Pontus Törnqvist, studente svedese di 24 anni, e al team con cui ha realizzato il progetto della “Potato Plastic”: il nuovo materiale biodegradabile a base di fecola di patate che potrebbe sostituire gli oggetti monouso in plastica.

Il progetto e l’ingrediente segreto: la fecola di patate

L’obiettivo del progetto è semplice nella sua straordinarietà: sostituire la plastica, poco durevole ma molto inquinante, con un altro materiale innovativo, biodegradabile e 100% Bio-based, cioè totalmente a base biologica: la fecola di patate.

La fecola di patate è attualmente utilizzata in più ambiti del settore industriale e trova in particolar modo applicazione nel mondo della cosmesi e dei prodotti per la cura della persona.

Proprio da questa consapevolezza nasce l’idea innovativa che ha portato il team, composto da Pontus, Hanna Johanssona e Elin Tornblad, a vincere l’edizione svedese del James Dyson Award, concorso internazionale di design che ispira le prossime generazioni di ingegneri a realizzare idee innovative, volte a stimolare il problem-solving dei partecipanti.

La PotatoPlastic è un materiale termoplastico, composto da fecola di patate ed acqua. Questi due componenti, se opportunamente mescolati e riscaldati, possono dare origine ad un composto compatto che si rivela essere un efficiente alternativa alla comune plastica.

Come emerge dal loro sito (di cui vi invito a dare un’occhiata), la finta plastica a base di patate è costituita da ingredienti esclusivamente naturali. La sua produzione parte infatti dall’utilizzo di scarti del tubero ed il prodotto finito è completamente organico e compostabile.

Lo scopo principale dell’invenzione è quello di sostituire la plastica tradizionalmente utilizzata per gli articoli monouso, fornendo un’alternativa non dannosa che possa contribuire a diminuire l’inquinamento causato dalla plastica a livello globale.

La questione dell’utilizzo di oggetti monouso infatti si è spinta ai limiti del paradossale: prodotti come piatti e posate in plastica hanno una vita media di soli 15-20 minuti ma un tempo di smaltimento di circa 450 anni. Occorre quindi chiederci, ne vale veramente la pena?

In un’ottica realistica in cui queste evidenze sono ormai inaccettabili, l’utilizzo della PotatoPlastic si rivela essere sempre di più una scelta vincente, specie se si considera che dal 2021 la nuova direttiva dell’Unione Europea vieta i prodotti di plastica monouso.

Perciò, se ancora non si vuole rinunciare alla comodità del monouso, occorre allora trovare delle alternative valide ecosostenibili alla cara, vecchia e dannosa plastica.

In questa prospettiva, la Potato Plastic si dimostra essere sicuramente un fulmine a ciel sereno.

La lotta alle microplastiche

Anche sulla homepage del sito, il Potato-team puntualizza che questo nuovo biomateriale non si trasformerà mai in microplastiche, cioè minuscoli pezzi di materiale plastico, generalmente inferiori ai 5 millimetri, rilasciate nell’ambiente e dagli effetti potenzialmente tossici.

Da dove viene però quest’impellente necessità di contrastarne la diffusione?

Nel novembre del 2020 è stata portata alla luce una scoperta sconcertante: sono state ritrovate delle microplastiche nelle placenta umana, cioè l’interfaccia tra madre e feto, il luogo più sacro e incontaminato che ha il compito di nutrire e supportare la nuova vita che si sta sviluppando nel grembo materno. Ma come è potuto accadere?

Il meccanismo che si instaura dal momento in cui la plastica finisce in mare è una sorta di catena di contaminazione alimentare. I raggi UV, gli agenti atmosferici ed i batteri presenti nei mari contribuiscono infatti alla frammentazione della plastica in particelle sempre più piccole che possono essere facilmente ingerite dagli animali marini che poi entrano nella catena alimentare. É così che, alla fine, il cibo contaminato finisce sulle nostre tavole.

A rincarare la dose e velocizzare la nostra trasformazione in “cyborg”, contribuisce anche il fatto che spesso i cosmetici che utilizziamo, come creme, prodotti per l’igiene del corpo e make-up, sono a base di plastiche che rilasciano agenti chimici in grado di penetrare la nostra pelle ed entrare in circolo nel nostro organismo. Le microplastiche possono quindi innestarsi nei nostri tessuti e nei nostri organi, entrando letteralmente in simbiosi con noi stessi. Ciò che  più spaventa della questione, è che i loro effetti sulla salute dell’essere umano non sono ancora del tutto noti.

Spesso inoltre il materiale plastico contiene additivi, come bisefenoli e ftalati (utilizzati per conferire flessibilità al prodotto), che interferiscono con il nostro sistema endocrino e possono avere delle serie ripercussioni sullo sviluppo dell’individuo.

La plastica è un materiale macromolecolare composto da vari polimeri, una sorta di miscela di molte sostanze diverse. Alcune di queste, come il Pvc (cloruro di polivinile) ed il poliuretano, hanno un livello di tossicità così alto da essere vietati nelle bottigliette e negli imballaggi, come riportato dalla ricerca pubblicata sulla rivista Environmental Science and Technology. Lo stesso vale per i prodotti di cosmesi, troppo spesso saturi di derivati del petrolio potenzialmente tossici che negli anni possono penetrare nel nostro organismo.

Dallo studio condotto dai ricercatori dell’Ospedale Fatebenefratelli di Roma e dall’Università politecnica delle Marche sulle placente di neo-mamme è emerso che l’organo placentare, una volta prelevato ed analizzato tramite tecniche spettroscopiche, conteneva ben 12 tipologie di microplastiche. Sono stati ritrovati infatti piccoli frammenti di plastica pigmentati in 4 placente sulle 6 totali studiate.

É la prima volta nella storia della sperimentazione scientifica che si trovano particelle artificiali nella placenta, il luogo più sacro e incontaminato dell’essere umano, o meglio della donna, tramite cui avviene l’unione vitale tra madre e feto. Da questi risultati si deduce che le microplastiche, una volta penetrate perché ingerite con gli alimenti o attraverso l’utilizzo di altri prodotti contenenti plastica, possono entrare in circolo e diffondersi in tutto il corpo tramite i vasi sanguigni, raggiugnendo la placenta e, da lì, anche il feto.

Un’altra constatazione emersa dallo studio è inoltre che la presenza di particelle artificiali nel nostro corpo può alterare la risposta del nostro sistema immunitario. Le cellule deputate alla difesa del nostro organismo, che si occupano di eliminare eventuali parassiti e di proteggerci da agenti estranei riconoscendo il “self” dal “not-self”, cioè ciò che appartiene al nostro organismo da ciò che è estraneo, hanno iniziato a riconoscere come “self” anche ciò che non è organico: la plastica.

Stiamo quindi iniziando ad assimilare il materiale plastico che, lentamente, sta diventando parte del noi.

Dopo essere entrata nelle nostre vite in modo prorompente, conquistando ogni oggetto della nostra quotidianità, la plastica è lentamente e silenziosamente penetrata dentro il nostro corpo, facendo sembrare sempre più realistica quella prospettiva fantascientifica dell’uomo-macchina. Di questo passo, la verità è che ci stiamo lentamente trasformando in “cyborg” e nessuno se ne sta accorgendo.

Il progetto di PotatoPlastic si propone proprio di invertire la rotta di questo meccanismo per ricondurre ognuno di noi ad un’esistenza quanto più salutare possibile e rispettosa nei confronti dell’ambiente.

La soluzione: più patate meno spreco

Il primo passo verso un minor consumo della plastica è sicuramente informarsi e prendere consapevolezza della gravità della situazione. Se nell’ultimo anno sono state prodotte 310 milioni tonnellate di plastica e la terra sta implodendo su se stessa, la colpa non può che gravare sull’essere umano e sull’utilizzo sconsiderato che fa delle risorse di cui dispone.

In una visione un po’ Leopardiana, l’essere umano si rivela comunque debole ed impotente di fronte a Madre Terra ed alle varie calamità naturali, riflesso di una natura che si ribella ai soprusi sofferti per decenni. Ciò è ampiamente dimostrato dalla crisi climatica attualmente in atto che sta mettendo in ginocchio una larga fetta della popolazione mondiale (basti pensare agli incendi che hanno dilaniato l’Australia o alla recente crisi causata dal freddo polare in Texas).

Occorre quindi ridurre l’inquinamento da plastica, aumentarne il riciclo ed incentivare lo sviluppo di proposte alternative, come la PotatoPlastic.

Secondo un’indagine di GreenPeace, queste nuove misure potrebbero ridurre il carico di plastica nei rifiuti di circa il 57%: si parla di ben 188 milioni di tonnellate di plastica in meno ogni anno. Coadiuvando ciò allo sviluppo del riciclo e del riutilizzo, si implementerebbe anche una nuova economia basata sulla plastica ecosostenibile, che porterebbe oltre 1 milione di posti di lavoro nel settore della rilavorazione dei rifiuti.

La PotatoPlastic rappresenta sicuramente un primo passo valido verso la riduzione dell’inquinamento causato dalla plastica ma la strada da fare verso uno stile di vita ed una società ecosostenibile è ancora molta.

Se è vero che un individuo da solo non potrà risolvere la crisi climatica, Greta Thunberg, l’attivista Svedese sedicenne impegnata nello sviluppo sostenibile e creatrice del movimento degli “scioperi per il Clima”, ci insegna che lottare per una giusta causa con impegno porterà sempre a dei risultati.

Occorre quindi sforzarci nel nostro piccolo per condurre una vita più rispettosa nei confronti dell’ambiente e parallelamente incentivare la ricerca ecosostenibile, richiedendo strette e regolamentazioni sull’inquinamento. Solo così potremo efficacemente contrastare l’inevitabile tracollo climatico che noi stessi abbiamo causato.

La Terra non può più aspettare.

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Food delivery: verso una regolamentazione del lavoro dei riders

Source: https://about.glovoapp.com/en/press/

La sempre maggiore digitalizzazione della nostra società ha portato alla nascita e allo sviluppo, specialmente negli ultimi anni, di un nuovo modello economico, la “gig economy”, che non si basa più su prestazioni lavorative continue e a tempo indeterminato, ma sul lavoro on demand, cioè a richiesta, in cui domanda e offerta sono gestite da apposite piattaforme online o app.

Un esempio di gig economy è rappresentato dal settore dell’online food delivery, cioè la consegna a domicilio di cibi e bevande ordinate dai clienti di bar e ristoranti direttamente da internet e che vengono consegnati a casa o in ufficio tramite i riders, ossia i fattorini che si occupano del trasporto dei prodotti ordinati a bordo delle loro biciclette o motocicli.

Il lavoro dei riders

I riders, rientrando nella categoria dei “gig workers”, son stati considerati fin dalla loro comparsa nel mercato del lavoro come lavoratori autonomi, che svolgono questa occupazione a tempo perso come seconda fonte di sostentamento, per incrementare il proprio reddito. Il loro veniva classificato come “lavoretto”.

Per questo la loro attività lavorativa è rimasta a lungo priva di una qualsiasi tutela e regolamentazione normativa, anche per la difficoltà di inquadrare questo nuovo fenomeno economico nelle categorie classiche.

Nel corso degli ultimi anni però, sia in seguito all’incremento dell’online food delivery con il conseguente aumento di richiesta di fattorini da parte delle aziende che si occupano della consegna a domicilio, sia per esigenze economiche legate anche alla crisi portata dalla pandemia, sempre più persone hanno iniziato a svolgere il lavoro di rider a tempo pieno, come principale fonte di sostentamento.

Questo ha portato l’insorgere di forti discussioni e proteste da parte dei ciclofattorini, che chiedono di non essere più considerati come lavoratori autonomi, ma come veri e propri dipendenti delle aziende di food delivery per le quali lavorano (essendo di fatto queste a determinare le modalità di esecuzione della prestazione di lavoro), di avere un salario minimo pagato a ore invece di essere pagati a cottimo e il riconoscimento di una tutela sanitaria in caso di malattia o infortuni.

Verso una regolamentazione del lavoro dei riders

Negli ultimi anni sono stati fatti passi avanti per il riconoscimento di alcune tutele e diritti dei fattorini delle aziende del food delivery.

Il primo è stato il Decreto legge 101 del 2019, convertito poi in legge il 2 novembre 2019, che ha introdotto alcune tutele per “i lavoratori impiegati nelle attività di consegna di  beni per conto altrui, in ambito urbano  e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore, anche attraverso piattaforme digitali”, non dando però una definitiva risposta al problema.

Questa normativa stabilisce anzitutto l’impossibilità di prevedere una retribuzione interamente a cottimo, cioè in base alle consegne effettuate, ma deve essere previsto un compenso minimo orario, anche se poi rimanda ai contratti collettivi la definizione dei criteri per stabilire i compensi. Inoltre, prevede per i prestatori di lavoro la copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

Il 16 settembre 2020 è stato raggiunto un accordo tra il sindacato UGL e Assodelivery, l’associazione italiana dell’industria del food delivery alla quale aderiscono Glovo, Deliveroo, SocialFood e Uber Eats, che hanno sottoscritto un contratto collettivo nazionale volto a tutelare il lavoro dei riders, primo in tutta Europa, il quale ha previsto un compenso minimo di 10 euro l’ora, con il riconoscimento di un ulteriore indennizzo nel caso in cui le condizioni meteorologiche siano particolarmente sfavorevoli, durante le ore notturne e i giorni festivi, nonché la possibilità dei riders di accedere a delle attività di formazione professionale.

Tuttavia, questo accordo è stato oggetto di forti critiche da parte dei ciclofattorini, che hanno organizzato diverse proteste in varie città italiane. A suscitare le lamentele è stata soprattutto l’affermazione della natura autonoma e non subordinata del lavoro dei rider, che preclude a quest’ultimi il riconoscimento di una serie di diritti di cui gode chi è dipendente, come ad esempio le ferie e la malattia.

Particolarmente importante è poi stata la sentenza del tribunale di Palermo del 20 novembre 2020, che ha affermato per la prima volta il diritto di un fattorino che lavorava per l’azienda di food delivery spagnola Glovo il diritto di essere assunto come lavoratore dipendente a tempo indeterminato.

Ultimo e forse più significativo provvedimento è stato quello dello scordo 24 febbraio con il quale la procura di Milano, al termine di una maxi indagine sulle condizioni di lavoro dei riders estesa a livello nazionale, ha stabilito la notifica ad alcune imprese di food delivery (Deliveroo, Just Eat, Glovo e Uber Eats) di verbali che impongono di assumere i ciclofattorini con contratto di lavoro coordinato e continuativo, con conseguente passaggio da lavoratori autonomi a parasubordinati.

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Neutralità climatica: cos’è e perché non la raggiungeremo nel 2050

Nonostante sia ormai da mezzo secolo che gli esperti parlano di “cambiamento climatico”, si sono rese necessarie due cose affinché questo argomento riuscisse ad affermarsi come attuale: il quinto rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) e un impermeabile giallo. Il primo è servito al processo di affermazione giudiziaria del cambiamento climatico in quanto per la prima volta volta sono state fornite le prove scientifiche circa l’esistenza dello stesso e della sua origine antropica; mentre il secondo lo ha reso finalmente un fatto mediatico, degno di essere sulla bocca di tutti.

Perché è necessario raggiungere la neutralità climatica

L’IPCC, che dal 1988 si occupa di cambiamenti climatici, stima la probabilità di accadimento del riscaldamento globale tra il 95 e il 100%, e gli attribuisce una serie di conseguenze quali: l’innalzamento del livello del mare, l’incremento delle ondate di calore e dei periodi di intensa siccità, ai quali seguirebbero poi violente alluvioni, e un aumento in numero delle tempeste e degli uragani.

Mantenere l’innalzamento della temperatura media globale al di sotto del dato stimato non è solo necessario ma vitale; ed è per questo che è nato il concetto di neutralità climatica, un concetto con il quale si intende l’azzeramento delle emissioni nette, ossia il pareggio nel bilancio tra le emissioni in atmosfera e la quantità di gas che il Pianeta riesce ad assorbire. La neutralità climatica, tra l’altro, è ben lontana dal poter essere considerata una garanzia protettiva rispetto all’imminente catastrofe dato che, almeno per ora, tutto ciò che è stato emesso in passato continua a rimanere in atmosfera e perciò a esercitare inesorabilmente la sua azione “riscaldante”.

Della situazione venutasi a creare, l’opinione pubblica ha finalmente preso coscienza e ciò ha costretto le forze politiche a intervenire sul tema: a partire dal 2015 sul piano internazionale e sul piano sovranazionale è iniziato un processo di fissazione degli obiettivi, forse un po’ troppo ambiziosi, a tutela del pianeta terra che hanno poi portato l’Europa a poter ipotizzare il miraggio della neutralità climatica entro il 2050.

Perché non sarà raggiunta entro il 2050

Proprio con questi obiettivi la Commissione Europea, guidata da Ursula von der Leyen, ha promosso il Green Deal Europeo: una vera e propria tabella di marcia ricca di linee guida e suggerimenti per rendere sostenibile l’economia UE e migliorare lo stile di vita dei cittadini.

Nel comunicato ufficiale, il Green Deal viene definito come “una strategia che mira a trasformare l’Unione Europea in una società giusta e prospera, con un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva in cui non ci sono emissioni nette di gas a effetto serra nel 2050 e in cui la crescita economica è disaccoppiata dall’uso delle risorse.

Il raggiungimento di obiettivi così ambiziosi e significativi è tuttavia ostacolato da diverse problematiche; prima fra tutte la vastità ed eterogeneità di Stati coinvolti.

Come affermato da Andrea Quaranta nel suo articolo, il perseguimento dell’azzeramento delle emissioni avrà costi e tempi diversi per i vari paesi dell’Unione. Gli stati dell’Unione Europea differiscono infatti per cultura, tradizione, sfondo economico e risorse a disposizione, pertanto sarà necessario individuare procedure e strategie attuabili da tutti gli stati, in modo da fornire a tutti un’opportunità di trasformazione.

Secondo GreenPeace, le misure attualmente indicate sono “troppo deboli o hanno ancora bisogno di essere cucite insieme”.

Alle problematiche di individuazione di misure europee si affiancheranno presto complicazioni nella definizione di un iter legislativo e di misure a garantire l’applicazione delle stesse, operazioni che restano a discrezione dei singoli stati.

Un altro ostacolo è sicuramente l’elevato numero di finanziamenti necessari all’attuazione di tali progetti. Come spiegato da Simona Rizza sull’Eco Internazionale, il Green Deal Europeo sfrutterà InvestUE: uno strumento finanziario per la raccolta di finanziamenti pubblici e privati. Si stima un raggiungimento di un bilione di euro, fondi tuttavia considerati insufficienti dall’analisi di le monde, riportata da Insideover.

Nello stesso articolo vengono inoltre evidenziati risvolti negativi che potrebbero essere introdotti dall’applicazione di un cambiamento economico così forte: l’aumento dei prezzi in risposta all’introduzione di regolamenti stringenti ed una mancata crescita produttiva potrebbero portare a gravi conseguenze a sfavore dell’Europa nelle logiche commerciali internazionali.

La sfida: la rinuncia al petrolio

Un ulteriore motivo per il quale non raggiungeremo la neutralità climatica è che a pesare maggiormente sulle nostre emissioni in atmosfera è il comparto fossile seguito a distanza dagli allevamenti intensivi; questo è un bel problema se si pensa che, sebbene non tutta la popolazione può definirsi onnivora, ormai quasi tutti gli ospiti del Pianeta sono energivori.

Come ricorda il Professor Nicolazzi nel suo libro “Elogio del petrolio. Energia e disuguaglianza dal mammut all’auto elettrica”, l’energia, per l’Homo Sapiens, è stata la vera guida al successo evolutivo. Inizialmente l’uomo disponeva solo di se stesso come convertitore di energia, poi ha addomesticato altre specie e all’energia propria ha affiancato quella animale. In seguito, l’uomo ha compreso come catturare l’energia dalla natura e ha costruito i mulini: strutture che pur senza nutrirsi, sono in grado di svolgere il lavoro di 60 persone. Infine, sono arrivate le fonti fossili e il petrolio. A questo punto la qualità della vita è migliorata così tanto che sembra impossibile separarsene.

Ad oggi più del 60% delle emissioni in atmosfera sono dovute al fossile e, per quanto la nascita del Ministero della transizione ecologica ci faccia pensare, e sperare, che quella energetica sia vicina, rimane una serie di problemi che ci separano dall’agognato obiettivo “fossile zero”. Primo tra tutti la sua sostituzione nel campo della produzione industriale particolarmente in tutti quei settori in cui si renda necessario il raggiungimento di elevate temperature.

Il secondo grande quesito della separazione dal fossile sta proprio nella produzione di energia pulita. Infatti, a differenza di quanto comunemente si pensi, il problema non risiede solo nel raggiungimento di una densità elettrica utile a svolgere il lavoro che fino a oggi ha egregiamente svolto il fossile, ma risiede anche nel posizionamento delle strutture che generino la nuova energia pulita tenendo conto che l’offshore non può rappresentare la totale soluzione.

Ammesso che si trovi il sistema per produrre l’energia green, per puntare alla neutralità climatica entro il 2050 si renderebbe necessaria una rivoluzione della rete energetica integrata con un ottimizzato sistema di accumulo, i cui costi sono molto più elevati di quelli derivati dalla lavorazione del vecchio amico petrolio. Infatti, per quanto si trovi lo spazio per posizionare le strutture necessarie, possibilmente senza disboscare, è necessario fare i conti con l’intermittenza nell’erogazione dell’energia. Il petrolio, una volta estratto è sempre pronto ad entrare in azione: delle fonti rinnovabili si può dire lo stesso? Se si alimentasse la propria casa esclusivamente con l’energia solare, tutte le docce fatte dopo il tramonto sarebbero piacevoli come secchiate d’acqua gelida: non è esattamente quello che ci si aspetta al termine una giornata impegnativa.

Indissolubilmente legata alla tematica del petrolio, abbiamo quella dei trasporti dove, anche in questo caso, l’immaginario comune a volte sembra ben lontano dall’aver fatto i conti con l’oste. Visto che il comparto navale e quello aereo sono ancora ben lontani dalla possibilità di un’alimentazione green essendo improponibile, specie per il trasporto navale, la rinuncia al fossile, ci limiteremo ad accennare solo al settore automobilistico. Il 12% delle auto immatricolate in Italia nel 2020 appartiene alla categoria “vetture elettriche pure o ibride plug-in”, ma questo non rappresenta un dato confortante. Infatti per quanto una vettura elettrica o ibrida in funzionamento elettrico non immetta anidride carbonica in atmosfera, l’impianto che ha generato l’energia con la quale l’auto si è mossa quasi sicuramente lo ha fatto. Uno scenario del genere non prevede la riduzione delle emissioni in atmosfera ma solo la loro delocalizzazione nello spazio e nel tempo. Quanto appena descritto non vuole essere una profezia di Cassandra, piuttosto è ciò che può essere dedotto dal  rapporto TERNA riferito al mese di Gennaio, secondo cui solo un terzo della domanda energetica del Belpaese è soddisfatta da energia derivante da fonti alternative.

Tra miraggio e realtà

Quasi sicuramente il 2050 non rappresenterà l’anno del raggiungimento della neutralità climatica ma questo non significa affatto che impegnarsi al suo perseguimento sia uno sforzo vano. Il cambiamento climatico e le sue dannose conseguenze sono praticamente dati per certi e imminenti e, piuttosto che non fare nulla, è sempre meglio agire pur correndo il rischio che quanto fatto non sia bastato. Il susseguirsi di azioni concrete non migliorerà da subito la situazione del Pianeta, ma siamo chiamati ad agire adesso nel rispetto delle generazioni future, perché non siano private dei benefici di cui i loro predecessori hanno goduto, e purtroppo abusato.

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Perché potrebbe essere possibile raggiungere la neutralità climatica nel 2050

Negli ultimi 40 anni l’umanità ha sempre più preso coscienza della realtà dei cambiamenti climatici e dell’impatto devastante che hanno (e avranno). Una consapevolezza che è cresciuta fino ad arrivare nel 2015 agli accordi di Parigi, il più importante impegno internazionale per tutelare l’ambiente: oggi ne fanno parte 197 Paesi.

Seguendo l’ammonimento della scienza, vuole contenere il riscaldamento del pianeta a 2 gradi rispetto all’era preindustriale, soglia considerata critica e di non ritorno per raggiungere la neutralità climatica.

Grandi obiettivi a lungo termine che non ammettono perdite di tempo, ma riusciremo a metterli in pratica concretamente e partendo adesso?

Alcuni si riferiscono al periodo che stiamo vivendo come una nuova rivoluzione industriale, che ponga la questione ambientale al centro e riveda il concetto di produzione da lineare a circolare, quanto più possibile. L’Unione Europea in questa rivoluzione ambisce al ruolo di protagonista, perché con il suo Green Deal si è posta obiettivi importanti volti al raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050.

La crisi causata dal Covid-19, contrariamente alle aspettative di qualcuno, non solo non ha fermato i progetti della commissione europea, li ha addirittura rafforzati. Di fronte a una forte crisi le società sono maggiormente disposte a cambiamenti drastici nei loro piani.

Basti pensare al recovery fund e all’ingente parte di questo dedicato agli investimenti green da attuare nei vari stati membri.

Certo è che non possono rimanere promesse vaghe, c’è bisogno di una governance competente e coordinata tra i paesi membri che si ponga obiettivi raggiungibili e misurabili nel breve periodo.

Anche gli USA sono in campo per giocarsi un ruolo di primo piano, dopo l’amministrazione Trump notoriamente negazionista della questione climatica. Biden ha infatti promesso un piano di investimenti da 1,7 trilioni di dollari in energia pulita nei prossimi dieci anni, per creare nuovi posti di lavoro e convertire gli attuali impiegati nel settore energetico dei combustibili fossili. Non è da meno la Cina, che dall’altra parte del mondo intensifica i suoi sforzi specialmente per migliorare la qualità dell’aria, ponendosi obiettivi e controlli quinquennali.

Ci sono 4 settori in particolare che sono responsabili di gran parte delle emissioni di gas serra: energia, trasporti, edilizia e filiera alimentare.

Alimentazione

La filiera alimentare è un enorme contribuente al cambiamento climatico, specialmente quella degli allevamenti intensivi di bovini. Questi sono responsabili di emissioni di metano più che di anidride carbonica, per non parlare del consumo di suolo e acqua. “Se la popolazione delle mucche nel mondo fosse considerata come un paese, sarebbe uno tra i primi tre al mondo per emissioni di gas serra”, è l’ammonimento di Kimberly Henderson, esperta di sostenibilità e partner di McKinsey.

Segnali incoraggianti però arrivano dalle aziende, che stanno mettendo a punto e perfezionando varie tecniche di riduzione delle emissioni di metano (qui l’approfondimento de Il Post) ma anche dai consumatori, sempre più consapevoli dell’impatto delle loro scelte a tavola. Ridurre il consumo di carne e acquistare prodotti a KM0 sono entrambi trend in crescita.

Trasporti

Il settore automobilistico è responsabile del 15% delle emissioni di CO2 e ha dunque un ruolo centrale per la lotta al riscaldamento globale su due fronti, quello delle emissioni di scarico e le emissioni dei materiali dei veicoli. Le prospettive sono positive: le vetture elettriche stanno prendendo sempre più piede e c’è una crescente pressione per aumentarne ancora di più la quota di mercato, sia dagli investitori che dalle autorità. Sta anche facendo progressi l’industria delle batterie al litio, che diventa sempre più efficiente e circolare (è da poco nata Reneos, la piattaforma europea di raccolta e riciclo delle batterie esauste in grado di recuperarne la maggior parte dei componenti). Aziende come Tesla, poi, stanno studiando nuovi metodi per la produzione di batterie, come le LFP.

Le innovazioni nei trasporti più in senso lato corrono veloci: prosegue la sperimentazione di Hyperloop e si studiano nuovi combustibili, come l’idrogeno per gli aerei.

Energia

Il settore energetico costituisce la chiave di volta per la decarbonizzazione del nostro pianeta, a fronte di una richiesta energetica destinata ad aumentare. L’utilizzo di fonti esclusivamente rinnovabili non sarà una sfida facile.

Se, infatti, i combustibili fossili sono in grado di produrre energia 24 ore al giorno, le rinnovabili sono per lo più vincolate alle condizioni atmosferiche: di notte o in una giornata nuvolosa il solare non sarà sfruttabile, così come l’eolico in una giornata senza vento.

Sono in corso numerosi studi su come immagazzinare l’energia proveniente da queste fonti, magari in giga batterie, ma al momento si tratta di soluzioni estremamente costose.

Un ruolo molto importante potrebbe essere giocato dal nucleare, ma in assenza di un effettivo reimpiego delle scorie nucleari si tratterebbe solamente di spostare il problema.

C’è poi la questione del consumo di suolo: una “wind farm”, ad esempio, richiede un territorio molto più ampio rispetto a una centrale tradizionale, a parità di energia prodotta. E le dighe necessarie alla produzione di idroelettricità hanno il loro impatto sul territorio circostante.

In questo senso vengono in aiuto tecnologie come l’eolico offshore, di cui la Danimarca è leader, e nuove tecnologie in grado di sfruttare l’energia incessante delle onde marine, con impatto pressoché nullo sugli ecosistemi in cui vengono inserite.

E in realtà come l’Europa, la maxi-rete energetica interconnessa permetterebbe di sfruttare al massimo l’energia pulita dei vari paesi: eolico della Danimarca, solare dei paesi mediterranei, nucleare francese, geotermico italiano e così via.

Edilizia

La produzione di cemento è una delle attività più inquinanti, ma il settore dell’edilizia sostenibile (incentivato, ad esempio, dal Green Deal europeo) è in rapidissima ascesa: si stima che entro 6 anni raggiungerà un valore di mercato (mondiale) di oltre 180 miliardi di dollari, con una crescita dell’8,6% annuo.

Alcuni elementi chiave della nuova edilizia sono il prefabbricato con ampio uso di legname proveniente da foreste gestite in modo sostenibile e con certificazioni green.

Oltre al ripensamento dei materiali, il fatto di avere case prefabbricate aiuta a migliorare l’isolamento, con conseguente ottimizzazione dei consumi energetici.

Altro elemento chiave per il raggiungimento di questa ottimizzazione è l’intelligenza artificiale e l’indipendenza energetica, con il crescente utilizzo di pannelli solari e sistemi di domotica intelligente.

Questi sono solo gli aspetti più importanti che la nuova edilizia deve tenere d’occhio, ma certamente non gli unici. Se le previsioni saranno rispettate, il settore edilizio contribuirà a ridurre del 40% le emissioni di CO2 entro il 2030.

Mercati

Tutta questa questione di new economy e piani per il clima si basa su previsioni future dall’esito molto incerto, e altrettanto volatili sono i mercati. Proprio su questi possiamo tentare di indagare per scoprire il destino (almeno nel breve termine) dello sviluppo sostenibile.

Tesla, la cui mission è “accelerare la transizione del mondo verso l’energia sostenibile” ha avuto un boom in borsa ed il suo CEO è attualmente l’uomo più ricco del mondo, con super investimenti in vari campi di innovazione tecnologica.

Gli investimenti in energia rinnovabile sono sempre di più, da governi e privati, e nello scorso anno il settore automobilistico a 0 emissioni è cresciuto enormemente rispetto alla controparte a combustione interna, anche in Italia. Sembrerebbe, dunque, che la sostenibilità stia vincendo.

Alla luce di tutto questo, con così tante variabili in gioco e così tanta incertezza, risulta veramente difficile affermare con certezza se le emissioni verranno azzerate nel 2050 o qualche anno dopo. La rapidità con cui il mercato sta cambiando in pochi anni, però, non può che lasciarci fiduciosi.

Un altro fattore che ci rende ottimisti è la ricerca di metodologie per catturare i gas serra già presenti nell’atmosfera, a partire dal più semplice e naturale di tutti: la riforestazione. Oltre a ciò, alcuni personaggi influenti della scena internazionale (come Bill Gates ed Elon Musk) stanno incentivando la ricerca per metodi artificiali di carbon capture technology e sensibilizzando l’opinione pubblica sull’importanza di agire.

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Marketing & Social Media

Il successo di Clubhouse e dei formati audio: intervista a Mario Moroni

© Max Bertoli | Source: www.mariomoroni.it

In queste ultime settimane tra i dispositivi provvisti di sistemi iOS c’è stata l’esplosione di un nuovo social network: si chiama Clubhouse e si basa sulla creazione di stanze virtuali nelle quali si può comunicare con gli altri utenti solamente attraverso l’audio.

Si tratta di un’applicazione che ha suscitato molta curiosità e di cui in effetti si conosce ancora poco, motivo principale per cui spesso all’interno delle “room” l’argomento centrale di cui si discute è proprio Clubhouse!

Molte personalità del web vi partecipano quotidianamente in maniera molto attiva, in modo tale da sfruttare al massimo questo nuovo social e con l’intento di crearvi una community.

Per approfondire questo tema e scoprire le potenzialità legate alla piattaforma abbiamo fatto affidamento sul parere di chi della sua voce ne ha fatto uno strumento di lavoro: Mario Moroni, creatore del podcast quotidiano “Il caffettino” e autore del libro “Startup di merda”, il quale spesso organizza interessanti room a tema su Clubhouse.

Mario, in Italia i podcast vengono ascoltati sempre di più, mentre in queste ultime settimane c’è stato il boom di Clubhouse. Secondo te, a cosa è dovuto questo enorme successo dei formati audio?

“Il mondo dei podcast sta funzionando già da diversi anni perché i contenuti letti oppure visti attraverso i video hanno una fruizione che viene lasciata allo smartphone e al computer, quali i video di Tik Tok e i reels, contenuti ai quali però non si riesce a prestare molta attenzione se si sta facendo altro.

I contenuti audio stanno funzionando da diverso tempo perché le persone hanno la possibilità di svolgere altre attività nello stesso momento come, per esempio, correre, fare commissioni, magari viaggiare (quando si poteva viaggiare).

Nell’ultimo periodo, Clubhouse ha avuto una vera e propria esplosione, a differenza di altri social del mondo audio che abbiamo avuto modo di conoscere in passato, anche durante la pandemia, i quali non hanno riscontrato lo stesso successo.

I creatori di Clubhouse hanno fatto leva su due argomenti principali: il primo l’esclusività, il fulcro fondamentale del social è infatti il fatto di potervi accedere grazie a un invito e che all’interno del social ci siano determinate persone. Lo stesso vale per l’esclusività tecnica, dato che per il momento è disponibile solamente per sistemi iOS.

Il secondo riguarda il fatto che Clubhouse sia stato in grado di rimettere una netiquette, parola che nel mondo del digital si è sentita all’epoca dell’inizio web. Essa consiste in una sorta di regolamento non scritto, la buona educazione che noi professionisti, imprenditori o anche utenti utilizziamo come early adopter, ovvero come utilizzatori iniziali di qualsiasi piattaforma.

Questo sui social non c’è più da un po’ di tempo: su Tik Tok si viene invasi dai video mentre si scorre la home, e lo stesso accade anche sui vecchi Facebook e Instagram dove tutto è ormai un po’ alla mercé di tutti.

Dunque, il fatto che ci sia una sorta di esclusività e ordine delle cose ha attirato molto l’attenzione dei più grandi e dei più importanti.

Anche se ad ora iniziano già a vedersi le prime crepe…”

Sia Clubhouse che i podcast lavorano attraverso l’audio, ma, nonostante ciò, presentano delle importanti differenze. Quali sono le potenzialità di Clubhouse che i podcast non hanno, o viceversa?

“Innanzitutto, Clubhouse è un mondo social, avrà e ha quindi le stesse dinamiche di tutti i social network. Le piattaforme social di norma funzionano sempre tutte così e Clubhouse è identica a tutte le altre: fa arrivare gli early adopter, i più scaltri diciamo, che vedono tutto gratis e con una portata organica altissima. Su un nuovo social quando si fa qualcosa si viene ascoltati da moltissime persone, il che incentiva a farci rimanere di più sulla piattaforma, più si rimane sulla piattaforma più si è premiati dai likes, dai followers, e dai contenuti, e infine piano piano tutta l’esaltazione iniziale diminuisce, come una droga. Come la classica regola metaforica della rana bollita, la quale si trova in una pentola d’acqua che si riscalda gradualmente, per cui nel momento in cui la temperatura diventa troppo alta la rana muore senza accorgersene.

Questa è la stessa situazione, in qualche maniera siamo inconsapevolmente presenti a questo cambio di paradigma.

Il livello successivo sarà la monetizzazione di Clubhouse, che ad oggi è un po’ un mistero, però accadrà, dato che i creatori del social sono attualmente in perdita.

I podcast invece non sono dei social, sono contenuti che non si devono usufruire necessariamente in diretta, come accade invece per Clubhouse, dove se non si arriva al momento giusto si perde la live e il contenuto perché non lo si può rivedere in un momento successivo. Il contenuto di Clubhouse arriva infatti a un limitato numero di persone alla volta, non è determinato da una scalabilità.

Per il momento i podcast sono one to many, mentre Clubhouse è composto da piccole-micro community, com’è oggi il trend dei social.

Nei podcast c’è anche una qualità sonora superiore, a differenza di Clubhouse sul quale si utilizzano microfono e cuffie del cellulare.

I podcast hanno fatto la loro fortuna sulla lentezza, sui contenuti medio-lunghi, sugli approfondimenti e su una qualità alta.

Essendo poi contenuti e non social, possono stare su diverse piattaforme, come Spotify, Apple Podcasts, Google Podcasts o altre app di podcasting senza curarsi di algoritmi o fattori che invece determinano il successo delle singole piattaforme.

Chiaramente la similitudine sta nel fatto che entrambi siano contenuti audio e che in qualche maniera siano frutto del lavoro dei content creator; dietro non c’è un’intelligenza artificiale, ma ci sono degli esseri umani che comunicano sempre con altri esseri umani.”

Per chi è adatta una piattaforma come Clubhouse?

“Clubhouse è adatta a qualsiasi persona o azienda.

Abbiamo già visto delle aziende fare delle room per i propri clienti, aziende che vogliono avere un contatto diretto e in questo momento molto naturale con gli eventuali ascoltatori.

Questo social differisce dai podcast in quanto vi è la possibilità di aprire un dialogo con gli altri utenti, che salendo sul palco virtuale delle room di Clubhouse hanno l’occasione di esprimersi e confrontarsi tra di loro. Questo è il lato bello del social.

Inoltre, si possono creare stanze differenti in base alle esigenze e agli obiettivi che si vogliono raggiungere: si può creare una room aperta al pubblico, una room social solo per le persone che mi seguono o una room chiusa, accessibile solo tramite un invito.

C’è differenza anche tra room e club: la room è una sorta di evento che c’è in quel momento mentre il club è una sorta di pagina Facebook. Ad oggi le room sono aperte a tutti mentre i club non lo sono, bisogna fare richiesta ed essere accettati.

I test che ho visto svolgere dalle aziende in queste settimane sono stati sia positivi che negativi: positivi per quelle aziende dinamiche e al passo con i tempi che sperimentano tantissimo e che non hanno necessità di monetizzare subito, negativi per coloro che vorrebbero ricavare un guadagno immediato, dato che per il momento le persone sono su Clubhouse solo per comunicare.”

In questi ultimi giorni sono state create delle stanze virtuali con il solo scopo di aumentare i propri follower. Secondo te, si sta perdendo l’interesse verso la creazione delle conversazioni?

“Questo è un “escamotage” che viene utilizzato su tantissimi social e che è mutuato da altri social, come i gruppi di scambio like o la classica pratica del “follow unfollow”.

È un’ottica di scorciatoia tra chi nel 2021 non ha ancora capito come funzionano i social: il numero dei follower non è importante, questa è solamente un’ottica di vanità, una vanity metric, perché non ha nessun effetto che io abbia 10.000 follower o 1.000 follower.

L’ottica consiste nel capire chi sono quei follower e perché ti seguono!

Se arrivano notifiche che ci riguardano a profili che non interagiscono con noi, non facciamo altro che dare una comunicazione negativa al social, che pensa che i nostri contenuti non interessino a nessuno.

La verità è che la maggior parte delle persone che seguo stanno andando nella direzione completamente opposta, impegnandosi nella creazione di contenuti utili e di qualità.

In questo modo le persone sono più attratte da quello che diffondiamo e ricordano il nostro obiettivo, che da professionisti e utenti è quello di stare sui social spendendo del tempo per ottenere o dare qualcosa che ci è utile.

Può darsi che per la maggior parte delle persone che seguono il social ci sia una “decadenza del contenuto”, ma in realtà non è così, dato che vediamo benissimo che quando le cose vengono fatte bene le persone rispondono e ci sono.

Non dobbiamo mai avere l’ottica di creare il contenuto perfetto, perché quello non c’è mai, e soprattutto su un social nuovo si fa fatica a misurare i risultati, dato che è ancora sperimentale e le statistiche per il momento non ci sono. È tutto ancora molto all’inizio.

Chiudo dicendo che effettivamente il modo in cui noi stiamo vivendo questo social è molto più veloce rispetto a quello che abbiamo visto in passato per app come Snapchat, Tik Tok o prima ancora anche per Instagram e Facebook; tutto quello che sta accadendo adesso in soli tre mesi in molti social del passato l’abbiamo visto accadere in sei mesi, in un anno o in cinque anni. È solo cambiata la velocità di trasformazione, però non è cambiato nient’altro.”

In futuro le persone continueranno ad utilizzare Clubhouse o si tratta semplicemente del trend del momento?

“Se lo sapessi investirei o non investirei in azioni!

Quello che posso fare è prevedere due strade: la prima, che è quella più interessante secondo me, è che Facebook stia creando il clone di Clubhouse. Bisogna quindi capire se lo strumento Clubhouse funziona perché funziona bene Clubhouse o solo perché funziona la sua funzionalità. E se fosse così, quale sarà il suo futuro?  Si trasformerà in Snapchat, che in seguito all’introduzione delle storie da parte di Instagram è stato dimenticato, quindi la copia di Facebook andrà a buon fine, oppure accadrà come nel caso di TikTok in cui Instagram ha replicato la funzionalità di creazione dei video attraverso i reels ma nessuno la utilizza?

Una seconda ipotesi da tenere in considerazione potrebbe essere il fatto che in qualsiasi caso Clubhouse diventi una sorta di LinkedIn, ovvero una piattaforma per poche persone che si rivolge soprattutto a un target over 25.

Bisogna vedere come sarà l’evoluzione.

Dubito che la funzionalità di Clubhouse sia l’unico punto a favore di Clubhouse, perché in passato altri social audio hanno fatto anche meglio, ma sono finiti in tragedia in pochi mesi.

Per il momento non c’è nessuna novità nel modello di business, per cui quando il progetto verrà totalmente reso pubblico bisognerà capire quali saranno le reazioni delle persone.

Se a inizio marzo Clubhouse sarà disponibile anche per i dispositivi Android scopriremo in pochissimi giorni quali saranno i risultati.

Ciò che è certo è che una sfida come questa mancava da tempo.

L’importante è continuare a creare contenuti, in modo tale da capire come funziona il gioco e se ha senso portarlo avanti!”

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Entertainment, videogame e contenuti

Il fallimento di Google Stadia: non siamo ancora pronti per il cloud gaming?

Immaginate poter videogiocare titoli di qualità ovunque e con prestazioni da console di ultima generazione, magari di iniziare una partita sul televisore del soggiorno e continuarla qualche ora dopo in metropolitana sullo smartphone. Immaginate di poter fare tutto questo scegliendo da un’ampia galleria di titoli non più acquistati singolarmente ma inclusi in unico abbonamento. Tutto ciò senza dover acquistare alcun device o console in particolare. Senza dubbio il sogno di qualsiasi giocatore. Eppure qualcosa non sta funzionando. Il progetto di cloud gaming di Google, la sua Stadia, è fallito dopo poco più di un anno di servizio. Perché? Ha sbagliato qualcosa la compagnia della Silicon Valley o, più semplicemente, è troppo presto per questa nuova concezione di videogioco?

Il cloud gaming: cos’è? Quali sono i vantaggi?

Ma facciamo un passo indietro, il cloud gaming è una tecnologia sperimentale che consente di videogiocare in streaming da qualsiasi device si desideri, indipendentemente dalle caratteristiche tecniche di quest’ultimo. Il gioco in sé, infatti, viene eseguito sui PC di fascia alta presenti nei vari server (di proprietà dell’emittente del servizio) e riprodotto sullo schermo che il giocatore sceglie di utilizzare e da cui invierà i comandi. Ciò permette di godere di prestazioni elevate senza dovere acquistare alcun computer o console e, di conseguenza, elimina tutte le spese per i vari aggiornamenti hardware. Spesso, inoltre, questi servizi di cloud gaming offrono un’ampia galleria di videogiochi inclusi nell’abbonamento rendendo il tutto particolarmente economico (anche se, come vedremo, nulla viete di vendere singoli titoli giocabili solamente in cloud). Insomma, quello a cui si mira, fedelmente alle tendenze degli ultimi anni, è la creazione di una “Netflix dei videogame”. Da notare, però, come sia, per forza di cose, necessaria una buona connessione vista la mole di dati che il dispositivo deve scambiare con i PC che riproduce il gioco in remoto. Sicuramente, questo fattore sta influendo molto negativamente sulla diffusione di questo genere di servizi, soprattutto nel nostro Paese, e potrebbe essere uno dei motivi per cui neppure un gigante come Google non è riuscito a sfondare. Ma non è certo il solo né il principale.

La fallimentare incursione di Google

Google ha, quindi, provato a fare il suo ingresso nell’industria videoludica offrendo il suo servizio di cloud gaming: Google Stadia. La missione di Google era quella di scatenare una vera e propria rivoluzione che scardinasse il classico recinto del gaming su console/computer. Al modico costo di 9.99 euro mensili, con il primo mese di prova gratuito, Stadia offre prestazioni elevate tramite, appunto, il gioco in cloud e una discreta, vera nota dolente, galleria di titoli inclusi nell’abbonamento. Nonostante io creda non ci sia nulla da eccepire a livello tecnico – pur utilizzando una connessione a 30 mbps non sto avendo nessun problema di lag o simili – il vero problema di Stadia è la scarsità di contenuti. Con il solo abbonamento, infatti, i titoli giocabili senza ulteriori spese sono, al momento, solamente 24 e, tra questi, si contano sulle dita di una mano quelli “di spessore”. Tutti gli altri giochi, invece, sono disponibili a pagamento e, come se non bastasse, a prezzo pieno. Insomma, più che una “Netflix del videogioco”, Google Stadia si rivela essere una console smaterializzata ad abbonamento. Console che, oltre al vantaggio economico (sul breve periodo) e la possibilità di giocare su più device, non offre veramente nulla in più di una PlayStation o di un Xbox ma, anzi, presenta uno store decisamente scarno e con mancanze di titoli di richiamo (basti pensare che non sono disponibili due titoli mainstream come Fortnite e Fifa 21) che, francamente, faccio fatica a spiegarmi. Aggiungiamoci che, qualche giorno fa, Google ha deciso di chiudere i battenti ai suoi due team addetti allo sviluppo di titoli in esclusiva per capire che il fallimento della piattaforma è tutto meno che dovuta alla diffusione della banda larga o all’immaturità tecnologica del pubblico.

Amazon punta alla luna

Nonostante il ridimensionamento delle aspettative di Google riguardo il cloud gaming, anche Amazon si sta preparando a entrare nel mercato con Amazon Luna. Quest’ultimo è un servizio attualmente disponibile in early access solamente negli Stati Uniti ed ha tutte le carte in regola per riuscire dove Stadia ha fallito. Innanzitutto il prezzo è decisamente più contenuto, circa 6 dollari, e l’abbonamento offre l’accesso a tutti i giochi disponibili senza alcun acquisto extra. Tutti i titoli saranno riproducibili in 4K (cosa che Stadia aveva promesso ma non mantenuto e per cui è in corso una class-action contro Google) e sarà possibile giocare su due dispositivi nello stesso momento. Acquistabile separatamente sarà, invece, l’apposito controller che, tramite l’integrazione con Alexa, consentirà l’utilizzo dell’assistente vocale per navigare tra l’amplio ventaglio di videogame disponibili. Sicuramente è ancora presto per parlare di esperimento riuscito ma la reazioni da oltreoceano sembrano essere, nonostante si tratti ancora di una versione early access, decisamente ottimistiche e le potenzialità sembrerebbero esserci tutte.

Sony, Microsoft e Nintendo: cosa faranno?

Vista la natura “smaterializzante” del cloud gaming resta da chiedersi quale destino spetta ai tre storici player dell’industria console. Sony e Microsoft sono già in partita con i loro servizi di cloud gaming – PlayStation Now (700+ titoli ma non di ultima generazione, 9.99 euro al mese) e Xbox Game Pass Ultimate (100+ titoli anche in download, 12.99 euro mensili) – disponibili in tutto il mondo, mentre Nintendo, come ormai un po’ per tutto, sembra essere abbastanza refrattaria verso questa nuova tecnologia. Tuttavia nemmeno Nintendo Switch, la console ibrida della compagnia di Kyoto, è rimasta immune da contaminazioni del cloud gaming: diversi titoli disponibili nello store virtuale sono acquistabili solamente nelle loro “Cloud Version” per sopperire alle mancanze tecniche della console. Indice, questo, di come il cloud si stia già radicando nel mercato e, probabilmente, sarà destinato a sconvolgerlo indipendentemente dalla volontà dei “big player”.

C’è un luogo e un momento per ogni cosa! Ma non ora?

Tutto considerato, è quindi difficile rispondere alla domanda che ci siamo posti a inizio articolo. O, meglio, forse è semplicemente troppo presto per farlo. Il cloud gaming è una tecnologia che è stata resa disponibile al grande pubblico solamente da un paio di anni e che non ha ancora avuto la possibilità di esprimere completamente il suo potenziale. Inoltre, tutti i servizi citati in questo articolo hanno, al momento, avuto una scarsa pubblicizzazione presso il pubblico generalista che, a mio avviso, è quello verso cui dovrebbero puntare. Dico ciò non solo per l’ovvio motivo che sarebbe un pubblico più ampio ma perché molto spesso i videogiocatori “hardcore” che utilizzano console di ultima generazione o PC (a cui, per esempio, Stadia si rivolgeva) sono molto fidelizzati e affezionati al concetto di possesso sia dell’hardware in sé che dei singoli giochi. Di conseguenza, il vantaggio economico non credo sia attrattivo per quel pubblico mentre, invece, credo sarebbe più facile convincere gli utenti “casual” che, magari, giocano su smartphone o su vecchi device ad avvicinarsi a titoli più elaborati tramite questo genere di servizi, decisamente più economici rispetto a qualsiasi cambio di hardware, soprattutto se si pensa ad Amazon Luna, ma non inferiori a livello di prestazioni. Insomma, quella del cloud gaming è una partita ancora tutta da giocare e un mercato da tenere d’occhio.

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Marketing & Social Media

Clubhouse potrebbe cambiare la nostra società? Tutto quello che avreste voluto sapere sul social audio del momento

È il social del momento, funziona solo via audio ed è estremamente esclusivo, dato che ci si può accedere solo per invito. Di cosa stiamo parlando? Di Clubhouse, ovviamente.

Fondato a marzo 2020 dalla startup Alpha Exploration, Clubhouse è guidato dall’imprenditore Paul Davison e dall’ex ingegnere di Google Rohan Seth: il lancio effettivo è stato tra aprile e maggio 2020, solo negli Stati Uniti.

Nonostante i soli 1500 utenti iniziali, la valutazione di Clubhouse si è aggirata da subito attorno i 100 milioni di dollari, ottenendo un investimento di 12 milioni di dollari da parte di Andreessen Horowitz, una delle maggiori società di venture capital.

In appena 10 mesi sono stati raggiunti i 5 milioni di iscritti e nelle ultime settimane è stata registrata una crescita esponenziale, che ha portato i followers a 6 milioni. A tutto questo si affianca il recente finanziamento di 100 milioni di dollari erogato sempre da Andreessen Horowitz, il supporto di oltre 180 nuovi investitori e una valutazione quantitativa/monetaria pari al miliardo di dollari.

Perché ClubHouse piace così tanto?

Ma qual è il segreto del suo successo? I motivi sono tanti. Innanzitutto l’elemento su cui si fonda, l’uso della voce, è allineato al trend registrato in questi ultimi anni, soprattutto nel periodo della pandemia, cioè la crescita, riprendendo le parole di Gaia Passamonti, di tutto ciò che ha come elemento centrale l’audio: “il fenomeno dei podcast, l’uso degli smart speakers e dei comandi vocali”.

Altri elementi chiave, afferma sempre Gaia Passamonti, riguardano l’autenticità e la spontaneità che ancora risultano presenti sul social e la possibilità di potersi trovare nella stessa stanza con personaggi di rilievo, come Elon Musk, e poterci parlare come se fossero persone qualunque.

Proprio su quest’ultimo aspetto si basa un altro elemento di successo: la strategia in fase di lancio negli Stati Uniti. L’applicazione, infatti, era riservata a poche celebrità (come Drake, Kevin Hart, Oprah Winfrey) e attraverso la meccanica degli inviti, nel corso del tempo, il social network è stato circondato da un’aura di esclusività, alimentando e accrescendo l’interesse verso un prodotto sperimentato da pochi. Interessante e determinante il fatto che questa meccanica degli inviti non sia mai stata abbandonata, riuscendo, a livello di marketing, ad aumentare l’engagement e i nuovi iscritti.

Come funziona?

La registrazione avviene tramite l’invito di chi è già presente su Clubhouse e solo attraverso il numero di cellulare. Una volta ricevuto, occorre abilitare l’accesso alla propria rubrica, inserire nome, cognome, immagine del profilo e selezionare gli argomenti e le persone di interesse, così da permettere all’algoritmo della piattaforma di generare una homepage personalizzata.

Nella parte superiore della schermata principale ci sono una serie di icone, più la sezione legata al proprio profilo. Due di queste consentono di ricercare/esplorare all’interno della piattaforma e visualizzare le notifiche. Le altre due, invece, permettono di visualizzare la propria rubrica, gli inviti posseduti e gli eventi sul calendario: tutti quelli imminenti, quelli solo per noi (in base alle aree di interesse selezionate) oppure i propri eventi.

Per quanto riguarda il profilo, al suo interno è presente la biografia che lo descrive (rappresenta l’unica sezione testuale), il numero di persone che si segue e che ci seguono, il collegamento al proprio profilo Twitter e Instagram, la data in cui si è entrati su Clubhouse e la persona che ci ha invitati.

Considerando invece la parte centrale della schermata principale, è qui che vengono visualizzate in maniera verticale le “room”, stanze virtuali create da amministratori/moderatori e all’interno delle quali avviene l’interazione vocale in tempo reale; inoltre, grazie al sistema di calendarizzazione e di indicizzazione, l’utente viene facilitato nella ricerca delle room.

Possono essere di tre tipi (open, social, closed), in base al livello di accesso, e sono costituite da 3 figure di utenti: moderatori, speaker e ascoltatori.

I primi, oltre ad essere i creatori delle room, gestiscono la conversazione, possono invitare gli speaker, conferire o togliere la parola ed espellere dalla stanza altri utenti. I secondi, gli speaker, sono gli utenti che dalla “platea” hanno “alzato la mano” (attraverso l’apposito pulsante), sono stati accolti sul “palco” dai moderatori e, come suggerisce il nome, stanno parlando. Infine, gli ascoltatori sono tutti coloro che partecipano in maniera passiva, limitandosi ad ascoltare con il microfono in muto.

All’interno delle room, oltre al tasto per alzare la mano e chiedere di parlare, sono presenti altri due pulsanti, il simbolo “+” e “leave quietly”. Attraverso il primo è possibile invitare i propri followers nella stanza in cui ci si trova oppure condividere il link della stessa. Il secondo, invece, permette di abbandonare la stanza.

Le teorie sociologiche che spiegano l’evoluzione dei social

Per arrivare a capire come Clubhouse stia riuscendo a farsi strada in questa “alluvione comunicazionale”, diventa necessario ripercorrere le tappe che illustrano i cambi di potere nell’informazione e che spiegano le dinamiche sull’insediamento dei social e il conseguente mutamento sociale del mondo contemporaneo.

L’analisi in oggetto ha inizio con la crisi della modernità caratterizzata dal passaggio da un capitalismo marxista ad un capitalismo industriale fordista e prefordista improntato alla produzione di denaro per mezzo delle merci, un cambiamento che ha stravolto tutti gli ambiti legati alla sfera pubblica e privata dell’individuo.

Le cause sono da imputare ai mezzi di comunicazione che, come ha affermato Harold Innis, storico dell’economia canadese e sociologo della comunicazione, vanno a “determinare il nascere, l’affermarsi e il declinare degli imperi, in quanto chiavi del processo economico e politico”; infatti, nel concreto, i mezzi di comunicazione definiscono le coordinate spazio-temporali della società ovvero quelle che fanno capo “alle forme di organizzazione, alla distribuzione del potere tra i gruppi (in particolare a livello socioculturale con la nascita di nuove classi sociali) e ai tipi di conoscenza accumulata dal popolo (grazie, per esempio, alle nuove tecnologie)”.

Puntando la lente di ingrandimento sui mezzi di comunicazione in esame (televisione, radio e rete internet), è possibile vedere il meccanismo che permette loro di avere “tutto questo potere”.

Questo meccanismo è strutturato in quattro stadi, come spiega il sociologo e studioso della comunicazione britannico Denis Mcquail, e porta il nome di “stadi della frammentazione del pubblico“: nel primo si vede come l’introduzione di nuovi mezzi per la diffusione di informazione, caratterizzati da un piccolo “ventaglio di canali comunicativi” (ne è un esempio la televisione), rappresentavano per il pubblico un’alternativa e un’aggiunta ai tradizionali mezzi di comunicazione. Ma essendo novità ancora ad un livello primitivo di “performance”, il pubblico al quale si rivolgevano era un pubblico indistinto (quindi non vi era la necessità di dare vita a più programmi a seconda dei gruppi di audience esistenti).

Il progresso permette l’entrata nel secondo stadio ovvero in quello del pluralismo, caratterizzato da una maggiore diversificazione interna nella cornice unitaria (i vertici della comunicazione, infatti, restano le public interest intermediaries). Si assiste, così, alla nascita di programmazioni day-time, di quelle notturne e di quelle regionali, in quanto più persone possono permettersi di toccare con mano le nuove tecnologie.

Si arriva al modello che rappresenta la nostra epoca ovvero quello denominato centro periferia. Esso è caratterizzato da un’offerta mediatica più ampia che porta con sé valori come “l’autonomia e l’indipendenza, l’etica della condivisione e della trasparenza, lo stile immediato, personale e posizionato, la dislocazione e l’allargamento dello spettro delle fonti e la bi-direzionalità”; conseguenza della presa di coscienza degli individui di avere una maggiore possibilità di diversificazione, nonché della volontà degli stessi, di non essere più un pubblico passivo ma prosumer.

Si attiva, così, una reazione tecnologica a catena definita “domestication” da Roger Silverstone: una maggiore scelta porta gli individui ad integrare le tecnologie nella vita di tutti i giorni ed ad adattarle alle proprie necessità.

Una “dieta mediatica“, quindi, dettata dal senso di appartenenza al proprio ambiente culturale e al proprio gruppo di interazione: ed è qui che entra in gioco l’abilità strategica di ogni impresa di diventare la guida mediatica di quei gruppi che sono vicini al brand in un modo quasi mistico. Riuscire a creare una relazione intima con loro (come fa per esempio la RedBull con gli eventi di sport estremo) darà all’impresa il materiale che le serve per migliorarsi e conquistare anche una fetta di mercato più ampia (applicazione delle logiche tribali). L’ambiente circostante viene inevitabilmente a modificarsi portando tutti gli individui ad un ulteriore adattamento.

Uno schema da non sottovalutare dato che si arriverà ad un punto in cui ciascun individuo si affiderà completamente alla tecnologia: nell’ultimo stadio, infatti, si assisterà ad una totale frammentazione del nucleo centrale (non ci sarà più un punto comune di partenza o di fruizione delle informazioni), con conseguente scelta dei canali mediatici senza l’uso di schemi prefissati e con esperienze molto sporadiche di ascolto condiviso.

Non essere al quarto stadio non devi farci dimenticare che siamo ormai entrati nell’era del capitalismo cognitivo-post fordista, ove la produzione di ricchezza non si fonda più esclusivamente su una produzione materiale ma anche su quella immateriale, ovvero su quella della conoscenza (e, in particolare, della conoscenza codificata).

Differenziazione social: dalle necessità dei primi anni 2000…

Definito il quadro teorico, è possibile entrare nel dettaglio delle tematiche social più di nostro interesse.

Gli anni 2000 sono caratterizzati da investimenti nell’ambito delle tecnologie della comunicazione, col fine di garantire lo sviluppo di piattaforme innovative incentrate non più solo sulla scrittura ma anche sulla diffusione e condivisione di immagini, video e audio, che hanno permesso ai fruitori di averne traccia sui propri sistemi digitalizzati (a differenza di quanto poteva accadere con la radio, la televisione o con il telefono stesso).

Un’importante novità è stata messa a punto nel 2011 in Italia, dove gli investimenti in campo tecnologico erano minimi, soprattutto se paragonati a quelli fatti da colossi come Cina e Stati Uniti.

Si sta parlando del social media creato da Sonia Topazio ovvero FreeRumble; esso permette la condivisione di file audio di qualsiasi formato e argomento, in tempi rapidi. Tutto questo, nel rispetto totale della privacy di ciascun utente: una volta compilato un form, il profilo dell’utente può rimanere nell’anonimato senza necessità di mostrare foto o dati sensibili.

Una svolta significativa nel contesto digitale, ma che purtroppo non è riuscita a riscuotere il successo mediatico sperato. Una spiegazione valida di questo “insuccesso” è possibile ritrovarla proprio grazie all’esame approfondito della storiografia dei social network: l’impatto di ciascuno di essi piuttosto che il loro utilizzo, dipende dal contesto socioculturale degli individui che ne fanno uso. E al tempo, la dimensione digitale era improntata su una condivisione volta a generare un’interazione e un confronto immediato e per questo necessitava dell’uso di messaggi o mail istantanei, piuttosto che di immagini o video personali e formativi per mostrare a tutti le proprie potenzialità o i propri sprazzi di vita quotidiana. Si dava così più valore alla vanità e all’apparenza, relegando i valori più profondi alla sfera privata (in quanto considerati una debolezza o una stranezza). Pochi anni prima, infatti, erano nati Facebook e Youtube, a cui ancora non ci si era abituati.

… alle necessità dei nostri giorni

Il progresso tecnologico accelera a velocità mai viste prima e, come già anticipato con la teoria di Mcquail, arriva a cambiare le nostre abitudini permettendoci di poter assistere ad alcuni momenti di vita quotidiana da remoto. Una possibilità che sembra calzare a pennello con l’arrivo della pandemia da Covid-19.

Eppure quel progresso tecnologico tanto stimato, sembra far crollare i sistemi valoriali cardine delle nuove tecnologie di comunicazione e portare con sé la necessità e il desiderio degli utenti di ritrovare quel senso di umanità e semplicità, ormai perduti.

Sulla base di quanto affermato poc’anzi, si vede come Clubhouse sia nato per essere una nuova e migliorata versione dei social moderni: prima di tutto perché porta al centro l’individuo (spogliato dei filtri e delle barriere sociali), mettendogli a disposizione la forma più spontanea e diffusa di comunicazione, ovvero la conversazione. E considerando l’epoca in esame, queste conversazioni devono tener conto del linguaggio e del contesto socioculturale (che, come affermava Duranti, sono facce della stessa medaglia) di ciascun individuo; da questo la possibilità di creare stanze sui più svariati argomenti e nell’idioma desiderato.

Per far sì che tale esperienza si avvicini ancora di più alla realtà, l’ordine di interazione è lasciato in mano ai soggetti interessati che così seguono le logiche e le strutture comunicative tipiche di una conversazione orale (escludendo, perciò, la possibilità di prenotarsi o di scrivere in una chat apposita).

Continuando nella logica di un rimando alle conversazioni dal vivo, ciascun soggetto è libero di scegliere l’argomento di discussione, tra quelli offerti, o di proporli come in una classica uscita tra amici, rispettando logiche temporali diverse a seconda della “situazione in esame”.

“Ciò che hai da dire” si fonda su saperi che fino ad ora erano stati appannaggio della conoscenza codificata: si parla, infatti, della conoscenza personale che, come affermato da Von Hayek, è un rimando al valore intrinseco di ogni persona, e della conoscenza sociale che è collegata al concetto marxiano di general intellect, cioè di quell’insieme di saperi e competenze frutto della condivisione tra persone.

La possibilità di non dover rincorrere l’argomento di tendenza e di non incappare nelle echo-chambers dei social media, permette all’utente di formarsi e/o poter approfondire qualsiasi tema in tempo reale (senza rimandi ad altri link) e di confrontarsi con esperti piuttosto che attingere da testimonianze dirette.

Viene dato spazio all’humor, alle comunicazioni emotive (nella forma dell’entusiasmo, dell’indignazione o della critica) e a quelle giocose, ma anche alle comunicazioni serie; uno spazio concesso a chiunque, in grado di livellare le disparità legate al potere visivo: non ci sono più maschere.

Ultimata la conversazione, non ne rimane più traccia ma solo un ricordo legato a quegli istanti, legato alla memoria di ciascuno di noi; senza possibilità di condividere quanto detto su tutta la rete, non è possibile sapere se e a chi arriveranno queste parole, si dà un valore diverso alla comunicazione, un valore più personale e libero dall’interferenza mediatica.

Dalla società all’individuo: la psicologia dietro al nuovo social

Se da un lato questo social può essere usato per conversare con le persone in “piazza” come ai vecchi tempi, una novità la aggiunge: si può arrivare a parlare direttamente con il VIP di turno, evento che non capita proprio tutti i giorni.

I social network hanno da sempre permesso di avvicinare l’individuo comune ai “grandi”; e se un tempo era una cosa straordinaria riuscire anche solo a salutare e ricevere un autografo dal proprio idolo limitandosi per il resto del tempo ad ammirarlo attraverso uno schermo televisivo, ad oggi non è strano ricevere una risposta sporadica ad un messaggio o ad un commento inviato a qualcuno “con tanti followers”. Ma Clubhouse è andato oltre, arrivando quasi ad annullare quella distanza e completando, così, quello che si può definire l’avvicinamento dei miti.

Il fatto di essere così meritocratico facilita questo processo dato che non conta quanto si è famosi, se si ha qualcosa di intelligente da dire si possono avere i due minuti di “gloria”, intervenire e tutti stanno ad ascoltare in modo democratico.

Questa cosa piace talmente tanto che una delle frasi maggiormente ripetute da chi lo sta sperimentando è proprio: “armati di tempo perchè ne occorre molto e può creare dipendenza”.

Creare dipendenza: lo sa fare bene

Il fatto curioso è che Clubhouse non ha metriche, a parte il numero di followers e i relativi seguiti (che non si vedono durante la prima interazione nella stanza con una persona ma è necessario cliccare sul profilo), non ci sono like, dislike, reazioni e quant’altro, le cosiddette vanity metrics accusate da sempre di essere la causa dei problemi di dipendenza legati ai social, qui non esistono… e allora, cosa crea dipendenza?

Si ipotizzano due ragioni: il bisogno di avere interazioni con altri esseri umani in questo periodo così delicato, ma soprattutto la FOMO.

FOMO è un acronimo che sta per “fear of missing out” ovvero la paura di perdersi qualcosa, teorizzata nel 2004 da Patrick J. McGinnis, un fenomeno sociale evidente ancora prima di Clubhouse, ma è con quest’ultimo che viene ancora più accentuata; può risultare faticoso uscire da determinate stanze nelle quali vengono trattati argomenti di interesse che quindi non si vogliono perdere, anche se queste dovessero durare per ore.

Inoltre, ad accentuare ulteriormente questo fenomeno è il fatto che ciò che viene detto su Clubhouse, rimane su Clubhouse, non essendo possibile registrare (è contro il regolamento) ed è per questo che la FOMO diventa saliente; le storie di Instagram sono visualizzabili per 24 ore, una foto su Facebook tendenzialmente rimane per sempre, ma ciò che non riesci ad ascoltare da una conversazione su Clubhouse, lo hai perso per sempre.

Passare il tempo in una stanza e cosa si “guadagna”

Sicuramente ci sono degli aspetti a cui fare attenzione come il fatto di trascorrere molto tempo sulla piattaforma, ma non mancano di certo i lati positivi: in primis molte persone sostengono di aver trovato dei gruppi in cui si discute di aspetti legati alla sfera affettivo-personale, dove persone si confrontano e confortano a vicenda su temi anche molto delicati.

Clubhouse può anche diventare un luogo dove passare del tempo in maniera piacevole con le persone, sentirsi meno soli ed evadere dalla quotidianità.

Non dovrebbe sorprendere questo fenomeno di supporto psicologico di gruppo che si sta verificando in molte stanze, il termine stesso “clubhouse” infatti non è stato inventato di recente: le clubhouse sono nate nell’America degli anni ‘50, luoghi creati in alternativa ai disumanizzanti manicomi, dove i malati si davano aiuto reciproco trascorrendo del tempo insieme.

Non solo intrattenimento: qui si studia

Aggiungendo il fatto di poter ascoltare esperti dei più svariati settori che spiegano argomenti interessanti, ecco che si ottiene pure il fine educativo della piattaforma che potrebbe realmente diventare una miniera di conoscenza per i più curiosi desiderosi di imparare qualcosa in una versione in diretta del podcast.

Le opportunità per usarlo bene sono parecchie, si può persino migliorare una lingua parlando con dei native, se lo si desidera. Non resta dunque che capire come evolverà in futuro, si continuerà ad utilizzarlo in maniera educata come molte persone stanno riferendo, o tenderà a “sporcarsi” velocemente come spesso succede?

Prospettive future: come potrebbe evolversi il modello di business ma non solo

Come si evolveranno i rapporti umani e il digitale in futuro? quello che è certo è che la “rivoluzione vocale” è stata lanciata e non si può più tornare indietro, sia che Clubhouse vada avanti sulle proprie gambe sia che venga acquisita da altri, dato che gli early adopters stanno apprezzando questo nuovo modo di comunicare, molto più personalizzato e meritocratico.

Di sicuro  le altre “Big” non si limiteranno a guardare, in primis Zuckerberg, il cui detto nel mondo digital “Mark o copia o compra” si conferma nuovamente: Facebook ha già annunciato l’idea di introdurre delle features audio.

Ora che la startup ha passato il primo round di finanziamenti, va definito come si potrà evolvere sul piano commerciale dato che per il momento non sta fatturando non essendoci un vero e proprio business model. Gli esperti come Marco Montemagno ipotizzano degli scenari futuri per monetizzare, tra cui introdurre stanze a pagamento come se ci fosse un ticket di partecipazione ad una conferenza oppure aggiungere pubblicità.

Non è tutto così semplice: rimangono delle questioni aperte

La prima è legata alle privacy policy: lo Stanford Internet Observatory ha scoperto che Clubhouse collabora con la startup cinese Agora cioè colei che fornisce la struttura back-end all’app stessa, nonché l’ente al quale giunge la trasmissione in chiaro di metadati rilevanti e che ha potenzialmente la possibilità di intercettare, prelevare e conservare anche frammenti di registrazioni. Tali registrazioni possono quindi arrivare al governo della Repubblica Popolare (che in questi giorni ha bloccato il social nel paese). Questo è possibile, come spiegato nel rapporto della Observatory, perché il codice ID univoco di ogni utente, oltre che quello delle varie room, viene regolamentato da una crittografia obsoleta che consentirebbe la facile intercettazione di tutto ciò che accade nelle stanze. L’unico modo per impedire ad Agora di avere accesso all’audio grezzo, consiste nell’utilizzo, da parte di Clubhouse, di un metodo di crittografia personalizzato (end to end): sebbene ciò sia possibile, richiederebbe al social network di distribuire le chiavi pubbliche a tutti gli utenti, cosa non immediata da implementare.

Ma non finisce qui: l’app richiede l’accesso alla rubrica per poter mandare gli inviti (mandarli non è obbligatorio, ma se li hai, è inevitabile che qualche amico te li chieda) e quindi può “vedere” tutti i contatti salvati, procedura che va contro il GDPR europeo; infatti, in merito a questi problemi si è mosso, in questi giorni, anche il Garante italiano della privacy al fine di far luce sulla questione. La startup americana, però, mette le mani avanti: “stiamo rinforzando le misure di sicurezza per impedire all’azienda cinese di prelevare dati, creando diversi blocchi nell’applicazione stessa”.

La seconda invece è che per il momento non c’è nessun reale controllo, se non quello arbitrario dei moderatori delle stanze, meccanismo che potrebbe diventare pericoloso: stanze create da estremisti di ogni genere in grado di generare degli hate speeches di stampo razzista o omofobo. Allo stesso tempo è più semplice che in altri social fingere di essere qualcuno che non si è semplicemente registrandosi con nome e foto altrui si può parlare e quindi esprimere idee che vengono collegate a quella persona non presente invece che a colui che ha “rubato l’identità”, quasi nessuno sarebbe in grado di riconoscere la voce, rendendo tutto molto credibile e rischioso per la “vittima”. Se a questo ci aggiungiamo il fatto che nonostante il regolamento vieti di registrare, ci siano persone che lo facciano comunque, fa ben capire quanto lavoro ci sia ancora da fare in materia di sicurezza.

Infine, la terza questione è legata al fatto che per il momento il social esiste solo per il sistema operativo iOS, anche se questo problema è destinato a risolversi a breve: i founder hanno già annunciato di essere al lavoro sulla versione per Android che verrà rilasciata quanto prima permettendo così ai “momentaneamente esclusi” di registrarsi (infatti la maggior parte dei dispositivi mobili, ha sistema Android).

Riflessioni

È ancora presto per giungere a conclusioni affrettate, Clubhouse è rivoluzionario, promettente e in certe questioni anche un po’ controverso, ma allo stesso tempo molto giovane: le possibilità di evolversi sono praticamente infinite.

L’unico modo per sapere di più è aspettare e vedere che succede, nel frattempo non resta che godersi lo spettacolo rimanendo con il dubbio: riuscirà a diventare il nuovo Facebook coinvolgendo “vocalmente” tutto il mondo?

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Marketing & Social Media

Influencer Marketing, raccontato da Matteo Pogliani

Chiunque possieda un profilo social avrà sperimentato, come utente, l’influencer marketing. Quanto però conosciamo davvero questa realtà e le relazioni che intercorrono tra brand, influencer e pubblico? Ce le racconta attraverso questa intervista Matteo Pogliani, Head of Digital per l’agenzia Open-Box e professionista che si occupa da molti anni di comunicazione, soprattutto nel mondo online.

Come potremmo definire l’influencer marketing?

Si tratta di un tipo di marketing basato sul coinvolgimento di figure che, grazie a un’attività di personal branding, hanno guadagnato autorevolezza e una forte reputazione online. Queste persone sono centrali all’interno del network e rappresentano un medium e un plus per la comunicazione aziendale, perchè le loro qualità vengono prese in prestito dal brand. È una strategia efficace: gli influencer hanno naturalmente un appeal rispetto ai propri follower e, a differenza di quanto accade nel marketing tradizionale, vengono eliminate le sovrastrutture commerciali. La comunicazione così è più leggera e ha un impatto maggiore sull’utente. Bisogna fare attenzione a scegliere le persone giuste, perchè “il chi vale quanto il cosa”: solo così gli influencer riescono a essere driver per relazioni con gli utenti finali, accorciando la distanza tra brand e utente grazie all’affinità con i propri followers.

Da quando è nato si sta evolvendo?

Un’evoluzione c’è stata: già negli anni 50’ si parlava degli “opinion leader” come di figure che avevano un impatto sulle persone. Per sfruttare questa influenza però bisognava avere accesso ai mezzi di comunicazione di massa. Le prime vere e proprie forme di influencer marketing si sono sviluppate sui blog, mentre ora che queste attività non sono più rare il canale principale è Instagram. Il valore del contenuto sta tornando centrale: lo testimonia il fatto che ora si parli sempre di più di “content creator” e non solo di influencer. Ciò si riflette anche in un altro aspetto: se una volta era l’influencer a far produrre per sé un contenuto da pubblicare, ora le aziende stanno sfruttando la capacità dei creator di creare contenuti per il brand stesso (ne sono un esempio i ragazzi di “Casa Surace” e i “The Jackal”)

Che caratteristiche ha un progetto di influencer marketing efficace?

L’elemento decisivo per giudicare l’efficacia di un progetto è il suo risultato, anche se per arrivare a un buon risultato ci sono dei criteri generalmente validi. Bisogna aver chiaro il concept del progetto nel momento in cui si seleziona l’influencer più adatto e considerarne il pubblico in base a dati come l’età, il sesso e le affinità con il creator. Un errore frequente infatti è la scelta basata unicamente sull’ampiezza della fanbase, o sulla fama. Questo tipo di marketing è di principio uno strumento trasversale e quindi adatto anche ad aziende più piccole, che riescono però a raggiungere una nicchia di interesse. È importante che non ci sia contrasto di stile, mood e tono tra il brand e l’influencer: limitarsi a inviare un prodotto all’influencer per vederlo condiviso nelle stories di Instagram spesso può rivelarsi un errore. Non bisogna considerare solamente l’affinità tra la fan base e il creator, ma anche quella tra il creator e il prodotto stesso. Una cosa importante da considerare per l’azienda è che l’influencer marketing è uno spot che si accende sul brand: se la sua presenza online non è perfetta si vedranno le crepe del progetto.

Come nasce un progetto di influencer marketing?

Si parte dal colloquio con l’azienda: bisogna conoscerne gli obiettivi legati al business, per esempio il lancio di un prodotto ( un obiettivo di business infatti non può essere il raggiungimento di un certo numero di follower). Da un briefing iniziale nasce il concept di progetto, l’idea creativa alla base. Si sceglie allora il canale migliore per realizzarlo e in base a questo si attiva la fase di influencer outreach: si fanno valutazioni profonde sulle collaborazioni passate di un influencer, sulla sua performance nella collaborazione con i brand e sulla sua reputation, per verificare che non abbia scheletri nell’armadio. Una volta individuata la persona giusta, viene comunicata una linea guida del progetto da seguire, senza però imporle uno stile comunicativo. Dopo la pubblicazione si fa un monitoraggio per capirne l’impatto: si analizza la conversazione online prima e dopo la pubblicazione, uno dei pochi strumenti sia qualitativi sia quantitativi per valutare l’impatto della campagna. Anche il valore equivalente, un concetto del marketing tradizionale che si applica anche ai social, è importante: per esempio, quando si analizza la performance di un’attività di influencer marketing su Instagram considerandone le interazioni che ha generato e il reach ci si chiede quante risorse si sarebbe dovuto mettere in campo se si fosse investito per lo stesso progetto in advertising di Instagram.

Esistono linee guida che influencer e aziende devono seguire?

Sì, esistono e sono consultabili da tutti: lo I.A.P ( Istituto per l’autodisciplina pubblicitaria)  le ha inserite in un documento pubblico, la Digital chart. Il principio fondamentale è la riconoscibilità della non spontaneità di un qualsiasi contenuto frutto di una collaborazione tra influencer e brand. L’utente può accorgersene grazie a dei disclaimer, come #adv o #ad seguiti dal nome del brand, che devono essere inseriti nella prima parte del post. Lo stesso principio vale anche nel caso di un prodotto spedito come regalo, che deve essere segnalato dall’hashtag #gifted; non è ritenuto sufficiente dallo stesso I.A.P invece l’uso dell’opzione “branded content” su Instagram. Le multe per chi non rispetta queste regole ci sono e si inaspriscono nel caso in cui non si informino gli utenti sui rischi per la salute. In Italia però non è mai stata comminata una: nella maggior parte dei casi la segnalazione di un contenuto che non rispetta le regole finisce in una cancellazione o in un’integrazione del contenuto stesso, quando però il danno nei confronti degli utenti è già stato fatto.

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Economia, StartUp e Fintech

Dogecoin, Reddit ed Elon Musk: quando un meme rende milionari

Il mercato delle criptovalute non è più quello di anni fa dove piccoli investimenti in Bitcoin hanno trasformato in milionari migliaia di persone. Tuttavia molte criptovalute stanno vivendo una “nuova giovinezza” e, specialmente nelle ultime settimane, la fiducia nei vari asset pare essere alta. Tra tutte le cripto, decisamente singolare è la vicenda attorno al recente picco raggiunto dal Dogecoin, una criptovaluta nata come meme che gli utenti di Reddit con il supporto dei tweet di Elon Musk, che l’ha definita più volte “the people’s crypto”, hanno “spinto” per ben due volte #ToTheMoon. Un’operazione che ha avuto del miracoloso: vi basti pensare che il valore di un Dogecoin a inizio gennaio era di circa 0.004$ e che, a fine mese, ha toccato i 0.0875$ (raggiunti di nuovo qualche settimana dopo), rimanendo, poi, essenzialmente stabile tra i 3 e i 6 centesimi di euro. Un aumento di circa il 2000%, il che significa che un investimento di 50 mila euro vi avrebbe reso milionari nel giro di qualche giorno. Come è stato possibile? Da cosa nasce il Dogecoin? Cerchiamo di fare chiarezza con questo articolo.

[1]La variazione del valore nominale di Dogecoin negli ultimi mesi

Da meme a criptovaluta

Sicuramente molti di voi avranno già visto da qualche parte il tenero cagnolino in copertina, questo perché, in effetti, il Doge nasce come soggetto e base per meme – più o meno divertenti – nel 2013. Ai tempi non vi era alcuna correlazione tra l’iconico cane di razza shiba e il mondo della speculazione finanziaria, tant’è che si trovano ancora online articoli d’epoca che lo incoronano “meme dell’anno”. Ma allora a cosa devono i loro guadagni i “fortunati” che hanno investito in Dogecoin a gennaio? Dogecoin nacque anch’esso nel 2013, cinque anni dopo la creazione di Bitcoin. Jackson Palmer e Billy Markus, i due programmatori che li hanno ideati, dissero di averlo fatto per gioco, come parodia di tutte le varie criptovalute dalla dubbia credibilità che stavano nascendo in quegli anni. Insomma, non avevano la minima idea di cosa farne in futuro. Basti pensare che, inizialmente, ne venivano regalate anche centinaia di migliaia di unità più o meno casualmente (pensate se qualcuno le avesse messe da parte fino ad oggi!) e, per un certo periodo, fu usata come “criptovaluta didattica” per chi volesse approcciarsi a quel mondo senza rischiare grossi capitali. Il Dogecoin ebbe un leggero picco di notorietà, suo malgrado, a causa di alcune operazioni di hacking subite nel natale 2013 e nel 2014 per la fine del sistema di bonus con cui venivano regalati. I due creatori, forse per noia o perché convinti che il loro scherzo sarebbe rimasto tale, vendettero tutti i loro Dogecoin nel 2015, si narra che Markus utilizzo la somma guadagnata per comprarsi una Honda Civic di seconda mano. Da quel momento in poi, escludendo il picco di valore del 2017 (nel pieno del boom generale delle criptovalute), Dogecoin è rimasto in un limbo tra l’anonimato e il meme. O almeno, fino a gennaio.

To the moon

Che vi interessiate o meno al mondo della finanza e degli investimenti, ricorderete senza altro il caso GameStopZing di qualche settimana fa. Anche in quel caso tutto è partito da Reddit, più nello specifico dal subreddit r/wallstreetbets che oggi conta 9 milioni di utenti, tramite il quale centinaia di migliaia di utenti si sono coordinati per comprare azioni della famosa catena di negozi di videogiochi, facendone salire il valore di circa il 275%. Per il Dogecoin è successa la stessa identica cosa subito dopo ma con un obiettivo ben più grande, portare il valore nominale a $1, portarlo #ToTheMoon. Essenzialmente la corsa all’acquisto è partita da un singolo utente che ha postato “Facciamo del DOGECOIN un fenomeno. Tutto qui, questo è il post”. L’effetto del delirio collettivo redditiano potete vederlo da voi nel primo grafico di questo articolo, qualcuno esclamerebbe “stonks!”. Tuttavia il primo picco è stato decisamente effimero ed è durato solamente poche ore. È intervenuto allora il multimiliardario Elon Musk, che si era già mostrato a favore della speculazione attorno a GameStop, iniziando una serie di tweet-shitposting in cui, appunto, inneggiava all’arrivo sulla Luna del Dogecoin e al suo luminoso futuro come “The future currency of the Earth”. Così il picco è stato raggiunto di nuovo qualche giorno dopo e, sebbene in calo, la criptovaluta sembra mantenere un valore comunque decisamente più alto di quello che aveva a dicembre 2020. Senza considerare che, a oggi, il subreddit dedicato esclusivamente all’impresa ha superato il milione di iscritti e che Musk continua a twittare a favore del Dogecoin, il che porta, ogni volta, a uno balzo in alto del valore della moneta.

E ora?

Per quanto sia divertente ed emozionante osservare tutto l’entusiasmo che si è creato attorno ai Dogecoin su Twitter e su Reddit, è opinione comune che l’obiettivo di far arrivare il valore a 1$ sia irraggiungibile nella pratica vista la completa assenza di servizi legati alla moneta e alla scarsa attività del team di sviluppo che c’è dietro. La crescita di valore di queste settimane è, infatti, strettamente collegata alla sua natura di meme e, si sa, prima o poi, per quanto divertenti, i meme passano di moda. Ed essendo, al momento, l’andamento dei Dogecoin interamente basato sull’hype scaturito dai tweet di Elon Musk va da sé che la cosa non può durare a lungo.

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Ambiente, società e tecnologia

Come l’uomo più ricco del mondo vuole spendere i suoi soldi e salvare il pianeta

L’8 gennaio di quest’anno Elon Musk è diventato l’uomo più ricco del mondo con un patrimonio di quasi 190 miliardi di dollari, superando persino Jeff Bezos proprietario di Amazon; Tesla, la sua azienda più redditizia vale più di Facebook ed è il CEO di altre 3 realtà altrettanto futuristiche: Space X, Neuralink e The Boring Company. Nei suoi tweet dichiara come vuole utilizzare quei soldi: per salvare l’umanità.

Quando ha saputo della notizia, ha riflettuto solo un secondo, per poi replicare: “bene, torniamo al lavoro”, Elon Musk è il tipico genio che lavora sodo e negli ultimi tempi si è fatto conoscere da tutto il mondo per i grandi risultati ottenuti: ben 26 missioni spaziali nell’anno del Covid-19, le azioni di Tesla che salgono del +500% in un anno, il suo Falcon 9 che si conferma come miglior razzo riutilizzabile esistente, il progetto “LaunchAmerica” con il quale gli Stati Uniti sono tornati a decollare dal suolo americano grazie alla Crew Dragon – la prima navicella commerciale – e la recente acquisizione di due piattaforme petrolifere per lanciare i razzi. Ciò che desta ancora più scalpore sono le sue intenzioni future che puntualmente dichiara tramite degli enigmatici e a volte folli tweet: da creare una sorta di treno velocissimo (1220 km/h) denominato Hyperloop a levitazione magnetica che in poco tempo permette di viaggiare tra le grandi città del mondo, ad impiantare un chip nel cervello umano che consenta la cura di malattie neurodegenerative e il movimento di arti robotici con il pensiero per aiutare chi ha subito amputazioni, fino alla Tequila marcata Tesla.

Tuttavia è noto da anni che l’obiettivo principale del CEO visionario è, tra tutti, colonizzare Marte per dare all’umanità una seconda casa.  Secondo il co-founder di PayPal l’uomo metterà piede su Marte nel 2025. Ci vorranno una ventina d’anni e circa 1000 Starships per costruire la prima città sostenibile sul pianeta rosso; su questo progetto è pronto a scommettere gran parte dei suoi soldi.

Negli ultimi giorni si è però aggiunta una novità: “donerò 100 milioni di dollari come premio per la miglior tecnologia di cattura del carbonio” recita il tweet a cui ha fatto seguito un secondo in cui promette maggiori informazioni durante la settimana successiva. Un sistema in grado di catturare l’anidride carbonica dall’atmosfera terreste e trasformarla è una delle possibili soluzioni per contrastare il cambiamento climatico, in linea con questa proposta c’è persino il presidente Joe Biden che oltre ad aver firmato per rientrare negli accordi di Parigi, ha intenzione di prendere dei provvedimenti per accelerare lo sviluppo di questa tecnologia.

Un sistema simile esiste già e viene utilizzato in alcuni impianti industriali: catturare la CO2 alla fonte stessa prima che venga emessa nell’atmosfera e trasportarla in una struttura apposita per essere stoccata (sistemi chiamati Ccs). I problemi principali però sono 2: i costi elevati e il rischio per la sicurezza: eventi geologici o problemi interni, potrebbero danneggiare gli impianti di stoccaggio e una fuoriuscita improvvisa di questo gas può avere importanti effetti di cui già si sono registrati casi di vittime in passato. Per ovviare a ciò sono state fatte delle proposte di sistemi alternativi detti Ccu (Carbon Capture and Utilization) che catturano anidride carbonica e invece di immagazzinarla, la utilizzano trasformandola in sostanza utile. Un’altra problematica che bisogna affrontare è il fatto che il biossido di carbonio non può essere comodamente catturato dal camino di un qualsiasi impianto industriale, bensì direttamente dall’atmosfera terrestre la quale, oltre a rendere difficile un sistema di cattura e separazione delle componenti, contiene molta CO2, ma in maniera estremamente diluita.

La proposta di alcuni è prendere spunto dagli organismi che sono maestri in questo tipo di attività di cattura e trasformazione dell’inquinante: gli alberi, il come però rimane una sfida a cui alcuni laboratori stanno già lavorando; non ci resta che aspettare il genio che farà la miglior proposta guadagnandosi i 100 milioni di Elon Musk…basterà questo per salvare il pianeta?

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Ambiente, società e tecnologia

Disney censura i suoi capolavori: una scelta giusta?

Negli ultimi giorni si è fatto un gran parlare di una scelta che Disney ha deciso di operare sulla sua piattaforma di streaming Disney+, ovverosia quella di “vietare” alcuni classici – Dumbo, Peter Pan e gli Aristogatti – agli spettatori con meno di 7 anni di età.

Una scelta, senza dubbio discutibile ma che pone le sue radici, per quanto possa sembrare un controsenso, nell’identità stessa della compagnia.

È stata una scelta giusta? Perchè Disney ha deciso di agire in questo modo?

La Storia

Prima di affrontare l’approccio del colosso americano alle tematiche sociali è necessario, però, ripercorre brevemente la sua storia.

Come ogni storia americana che si rispetti, tutto ebbe inizio a seguito di diversi fallimenti di Walter Elias Disney (1901- 1966). Così, in serie difficoltà economiche, Walt iniziò a fare degli esperimenti con una cinepresa in un garage.

Esperimenti di successo che, nel 1923, portarono il fratello Roy a invitarlo in California per fondare insieme la “Disney Brothers Cartoon Studio”.

Fra alti e bassi i due contribuirono alla creazione di vari cortometraggi animati fino a quando, grazie al personaggio di Topolino, nel 1928, i problemi economici si attenuarono (nonostante la casa di produzione non riuscì, ancora, a rendersi indipendente dalle altre società di Hollywood).

Nel 1932, l’uso del colore diede un ulteriore slancio in avanti ed è in quegli anni che vediamo la prima apparizione di Paperini ne “La Gallinella saggia”.

L’uscita nelle sale, poi, del lungometraggio d’animazione “Biancaneve e i sette nani” fece fare il vero balzo in avanti all’azienda, generando incassi per 4,2 milioni di dollari, che portarono alla quotazione in borsa nel 1940.

E’ in questi anni che vediamo l’uso della camera multipiano, tecnica con la quale si riuscì a dare profondità alle riprese nonostante l’utilizzo di immagini a due dimensioni. Tale strumento rinnovò profondamente il settore e fu una tecnica chiave utilizzata poi per i i film d’animazione più riusciti come Pinocchio, Bambi e Peter Pan.

Scoppiata la guerra, e non più accessibile il redditizio mercato europeo, l’esercito requisì l’esercizio trasformando i Walt Disney Studios in una base militare e, così, i disegnatori dovettero realizzare volantini di propaganda e di educazione militare.

Nel 1950, su richiesta dell’azienda radiotelevisiva NBC, Disney iniziò a distribuire dei corti d’animazione con protagonisti i personaggi di Topolino, Pippo e Paperino. Nello stesso anno vediamo la produzione dei primi film di cui il primo in assoluto fu “L’isola del tesoro”.

Successivamente Walt iniziò a concepire l’idea del parco a tema Disneyland. Il primo fu inaugurato a Los Angeles ne 1955 rivelandosi poi un successo, tanto che, ad oggi, ne esistono 5 nel mondo: in Florida, in Giappone, in Francia e in Cina.

Nel 1961 fu aperta l’azienda di distribuzione, Walt Disney Studios Motion Pictures, per gestire i diritti delle licenze dei vari personaggi.  Nel 1966 Walt Disney morì di cancro ai polmoni e così l’azienda, ormai con un grande capitale finanziario, passò al fratello Roy il quale cercò di perseguire la rotta che il fratello aveva dato.

Varie aziende e film uscirono negli anni successivi fra questi ricordiamo Un maggiolino tutto matto e la creazione della Walt Disney Educational Productions per la produzione di materiali didattici.

Alla morte di Roy Disney, nel 1970, il nuovo CEO, Card Walker, promosse vari progetti di Walt ma la sua spinta presto iniziò ad esaurirsi e così vediamo l’apertura di una filiale in Giappone (conseguente all’inaugurazione del parco di DisneyLand a Tokyo), il rilascio del film Tron, e il lancio del canale Disney Channel.

Nel 1984, la creazione del marchio Touchstone Pictures ampliò il mercato Disney ad un pubblico più adulto.

Gli anni ’90 per Disney furono denominati “l’era del rinascimento” in cui nella stragrande maggioranza di aree ottenne grandi successi con film quali: La Bella e la Bestia, Aladdin e Il Re leone. L’azienda ampliò il proprio raggio d’azione con la compagnia di navigazione Disney Cruise Line, la catena alberghiera dei DisneyLand Hotels o i complessi commerciali dei Disney Springs.

Agli inizi degli anni duemila la Disney subì un rallentamento causato da vari fattori e che costrinse l’azienda a dover cedere la partecipazione dell’azienda di canali sportivi quali Eurosport e delle squadre Los Angeles Angels e Anaheim Ducks rispettivamente di football americano e hockey sul ghiaccio.

Nonostante ciò la ripresa fu molto veloce grazie anche all’espansione in paesi quali Cina e Russia.
L’acquisizione prima di Pixar e poi di Marvel e LucasFilm diedero nuovo slancio e il successo a livello globale di Disney gli permise di espandersi nel campo on demand, con l’acqusizione di Hulue di BAMTech i quali permisero di acqusire il know how necessario per la creazione di un servizio streaming lanciato poi nel 2019 con il nome di Disney+.

E’ relativo al 2017, invece, l’accordo con cui l’azienda acquista molte divisioni della Fox quali gli studi cinematografici 20th Century Fox, Fox Searchlight Pictures e Fox 2000 e gli studi televisivi fra cui ricordiamo: 20th Century Fox Television, Fx Networks, National Geographic Partners, Fox Sports Regional Networks e Sky.

La mission: essere d’ispirazione

Per capire la scelta di Disney, tuttavia, è necessario indagare, innanzitutto, la parte istituzionale del sito ufficiale.

Come ogni grande compagnia, infatti, anche The Walt Disney Company dedica una pagina del suo sito a raccontare sè stessa, e quindi alla sua identità e ai suoi obiettivi.

Il primo contenuto che è possibile visionare visitandola è anche il più interessante: la mission, ovverosia il fine ultimo dell’impresa e ciò che la contraddistingue dalla concorrenza, una sorta di dichiarazione di intenti.

Nella poche righe che la compongono Disney enuncia le tre parole chiave del suo operato: “informare, intrattenere e ispirare”. In questo modo, viene messa in luce fin da subito la responsabilità sociale e morale di cui Disney si fa carico – quella di ispirare le future generazioni – chiarendo, subito dopo, di rivolgersi a “tutte le persone del mondo”.

Non stupisce, quindi, la recente attenzione della compagnia sulle tematiche sociali e la sensibilità sul razzismo.

La domanda che, una volta letta la mission, ci si potrebbe porre è: The Walt Disney Company è stata sempre coerente?

Sarebbe impensabile credere che in un lasso di tempo così ampio i valori e le tradizioni restino invariati, da ciò è derivata una continua necessità di rinnovamento strategico.

Ciò nonostante, la multinazionale è stata capace di adattare la sua strategia d’impresa in maniera coerente, ricercando elementi di innovazione ma mantenendo sempre salda la sua fede nel volontariato e nella dedizione alla responsabilità sociale, vista come un vantaggio competitivo e non solo come metodo promozionale.

I fatti concreti

Ma in quali campi Disney ha effettivamente lavorato per il bene comune? Alcuni di questi sono i seguenti:

  • Volontariato: nel 2018 l’azienda firma un piano quinquennale del valore di cento milioni di dollari per creare dei programmi che alleviano ai bambini la degenza in ospedale, con l’aiuto dei Disney Imagineers. Il programma è stato avviato presso il Children’s Hospital di Houston. Disney ha, inoltre, fondato l’organizzazione “Disney Voluntears” con la quale si occupa di assistere e aiutare le altre associazioni benefiche con cui collabora in tutto il mondo.
  • Sostenibilità ambientale: “conservation isn’t just the business of a few people. It’s a matter that concerns all of us” questa è l’opinione di Walt Disney riguardo la tematica. L’azienda ha dato il suo contributo mettendo a disposizione un impianto ad energia solare nel suo parco a tema di Orlando, riuscendo ad alimentare i vari parchi tematici con l’energia generata in questo modo. Altri esempi possono essere l’utilizzo di generatori elettrici sui set televisivi, le politiche aziendali volte a ridurre gli sprechi, cercare di evitare lo spreco d’acqua, la creazione di aree protette per le specie in via d’estinzione.
  • Welfare aziendale: Disney ha lanciato il suo “programma ILS” per garantire a tutti i dipendenti della multinazionale condizioni lavorative dignitose e migliorarle ove possibile

L’attenzione alla diversità

Più di recente, la multinazionale si è posta come obiettivo principale permettere agli spettatori di potersi rispecchiare nelle sue produzioni, di massimizzare il coinvolgimento personale di ognuno di loro nei contenuti che crea. Per fare ciò è emersa la necessità di disporre di team il più possibile variegati a livello culturale ed etnico.

Gli storytellers hanno, così, piena libertà creativa e la maggior multiculturalità dei team pone le basi per lavori più vicini al mondo “reale”. A tal proposito, l’azienda vanta settanta Business Employee Resource Groups in tutto il mondo che, insieme a lei, hanno il compito di plasmare un ambiente lavorativo che consenta ai dipendenti di accrescere ed esprimere appieno le loro potenzialità.

Un’ambiente che sia, quindi, un contesto aperto, dove vi sia un clima di fiducia e positività e in cui tutti si sentano rispettati senza alcuna discriminazione. Secondo Disney, tutto ciò stimola la creatività e consente di creare un’ampia proposta di potenziali nuovi prodotti innovativi.

Disney, inoltre, pone un’attenzione a 360° sulle tematiche sociali e, di conseguenza, è anche sostenitrice della comunità LGBTQ, impegnandosi per porre eliminare ogni possibile discriminazione riguardante l’identità di genere e sessuale tra i suoi dipendenti. L’impegno sociale su questi temi si è tradotto in azione più volte.

Di recente, Bob Chapec, il CEO di Disney, ha annunciato in una intervista del 3 giugno 2020, a seguito dell’episodio della morte di George Floyd, la donazione di cinque milioni di dollari a supporto delle organizzazioni no profit come la NAACP che promuovono il tema della giustizia sociale cercando di eliminare le disparità e le discriminazioni razziali e attuando programmi di difesa ed istruzione.

Negli anni Disney ha mostrato solidarietà lavorando a stretto contatto con gruppi cherafforzano le comunità di colore negli Stati Uniti, dando vita a sovvenzioni volte ad aiutare gli studenti ad accedere all’istruzione superiore e politiche aziendali attraverso cui i dipendenti possono donare prodotti direttamente alle comunità locali.

La corporate utilizza tutte le risorse di cui dispone, non solo in termini monetari ma anche creativi per produrre contenuti che sensibilizzino gli spettatori affrontando le tematiche a lei care.

Revisione della libreria di contenuti

Ad oggi Disney sta portando avanti un meticoloso processo di revisione della sua intera libreria di contenuti, avvertendo gli spettatori qualora rischiassero di trovarsi davanti a tematiche che si allontanano dal suo orientamento strategico di fondo come la violenza o la discriminazione.

Importante specificare che non si sta parlando di eliminazione di questi contenuti, ma di un’azione fatta per salvaguardare la sensibilità della propria audience, inserendo i contenuti non ritenuti in linea coi valori semplicemente in categorie separate, in modo che i bambini non possano venire a contatto con quelli ritenuti non idonei dall’azienda.

Ciò spiega la scelta dietro il cambio di categoria di film come Dumbo, Peter Pan e gli Aristogatti che, come abbiamo detto, non sono più suggeriti ai bambini sotto i 7 anni.

Per quanto, lo ammettiamo, parlare di razzismo all’interno di contenuti destinati ai bambini di decenni fa possa sembrare ridicolo, bisogna sforzarsi di capire che Disney è un’azienda americana. Gli Stati Uniti sono, infatti, la nazione multietnica per eccellenza, dove il tema dell’identità è centrale e cruciale non solo nel dibattito pubblico ma anche nella vita di tutti i giorni.

Ciò che qui in Europa, e specialmente in Italia dove l’omogeneità etnica è particolarmente calcata, può sembrare assurdo, negli Stati Uniti è all’ordine del giorno ed è perfettamente normale. Se, poi, tutto ciò sia giusto o sbagliato, semplicemente, non sta noi a deciderlo. Sicuramente dietro a queste operazioni ci sono ragioni economiche e comunicative, come abbiamo visto Disney vede la responsabilità sociale come un asset strategico, tuttavia è innegabile che per il gigante americano sia pratica comune farsi porta bandiera del pensiero dei suoi connazionali.

Disney ha, da sempre, esercitato il suo soft-power in tutto il mondo per veicolare e diffondere gli ideali e i valori in cui credeva e, di riflesso, in cui credevano e che più premevano agli americani. Ieri era la libertà, oggi è l’anti-razzismo e la parità.