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Economia, StartUp e Fintech

I 4 modi di fare crowdfunding

Negli ultimi anni sta prendendo piede un nuovo metodo di finanziamento, che si sta affiancando agli istituti di credito, alle Pubbliche Amministrazioni e agli enti locali, che  da sempre considerati  punti di riferimento per le concessioni di capitali, il cosiddetto crowdfunding.

Il crowdfunding (parola che nasce dall’unione dei termini “crowd“, folla, e  “funding”, finanziamento), costituisce un metodo alternativo di ricezione di fondi: potremo dire essere una sorta di “finanziamento dal basso” o “finanziamento della folla”.

In pratica, tutto si basa sul concetto di capitale sociale: a prestare i capitali non sono più le banche o le imprese, ma i singoli risparmiatori che si uniscono riuscendo a diventare una fonte di capitale.

Ma a chi vengono prestati i capitali?

Semplice: a chi ha un’idea e vuole svilupparla (sì, stiamo parlando delle startup).

Cosa si può finanziare? Tutto: da un servizio a un prodotto. L’aspirante imprenditore definisce una cifra che gli serve, la propone alla folla e se raggiunge il traguardo realizza la sua idea.

Per diventare di massa, il Crowdfunding ha dovuto far proprie alcune meccaniche virali tipiche del web: non per nulla, è stato attraverso la Rete che il finanziamento dal basso ha permesso a moltissimi aspiranti imprenditori di realizzare la propria impresa.

Oggi sono moltissime le piattaforme online dedicate al Crowdfunding (le più famose sono Kickstarter e Mamacrowd) ovviamente regolate dagli organismi di controllo che tutelano chi vuole investire denaro e chi è in cerca di capitali per rendere realtà il proprio progetto.

Per richiedere liquidità tramite il finanziamento collettivo i crowdfunders -coloro che fanno crowdfunding-devono  creare  una pagina personale in una delle  piattaforme online attraverso cui possono presentare  il proprio progetto ai potenziali finanziatori che decidono se avviare il finanziamento oppure declinare. Naturalmente, prima che i crowdfunders presentino il progetto alla folla, le piattaforme valutano le campagne proposte prima di poterle inserire nel sistema.

Un aspetto da sottolineare è che non esiste un solo modo di fare Crowdfunding: anzi, a dirla tutta ci sono quattro diversi modelli che sono applicabili.

  1. DONATION BASED CROWDFUNDING:  com’è intuibile dal nome, questo modello di Crowdfunding si basa su un principio di solidarietà. Infatti, la forza motrice che permette agli investitori di erogare liquidità secondo questo approccio è riflessa nella volontà di sposare valori etici e morali che vengono presupposti dai progetti presentati dai crowdfunders. In altre parole, considerata la natura solidale del modello, i finanziatori donano  il proprio denaro senza  fini speculativi e senza ottenere una ricompensa in cambio. Per definizione, il crowdfunding che  si basa sulle donazioni viene adottato perlopiù da aziende no profit, da associazioni benefiche o volontariato e da ONG. Per fare un esempio, nel 2017 il comitato di Susa regalò alcuni defibrillatori con una campagna di donation based crowdfunding.
  2. REWARD BASED CROWDFUNDING:  è uno dei più popolari e ha come principio la ricompensa. I donatori  erogano somme di denaro e in proporzione all’entità del finanziamento stesso ricevono una ricompensa che però ha un valore simbolico e non finanziario. Anche in questo caso, è la condivisione dell’ideale e degli scopi le determinanti di questo modello. Kickstarter e Indiegogo sono le piattaforme dove è più semplice trovare questo tipo di progetti.
  3. LENDING BASED CROWDFUNDING: il modello lending, come da definizione, prevede l’impiego di prestiti e interessi scambiabili tra privati. Questa tipologia di crowdfunding permette ai privati di prestare capitale ad altri privati o aziende che, dopo un lasso temporale,  è prevista la restituzione del prestito maggiorato di un tasso di interesse. In Italia, queste piattaforme devono essere autorizzate da Banca d’Italia.
  4. EQUITY BASED CROWDFUNDING:  è la forma di crowdfunding che più si avvicina al concetto di investimento. Attraverso l’immissione di capitale nel progetto, ci si assicura il diritto ad avere una quota nell’azienda che nascerà in caso di raggiungimento dell’obiettivo. Chiaro che ci assumerà così anche i rischi (ma si avrà diritto a eventuali dividendi). Nel caso di aziende non quotate è possibile partecipare al progetto in regime di crowdfunding solo se i  progetti, prima di essere effettivamente lanciati, risultino essere autorizzati dalla Consob.

Il viaggio di iWrite nel mondo del crowdfunding è appena cominciato: nelle prossime puntate faremo un’esplorazione di alcuni progetti che la redazione riterrà interessanti e curiosi, cercando di spaziare fra i quattro modelli che abbiamo presentato.

Volete unirvi a noi?

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Ambiente, società e tecnologia

Qual è lo stato del settore vinicolo nel post COVID-19?

L’Italia è il paese che possiede la produzione vinicola più ampia e diversificata del mondo, grazie ai differenti climi e ai diversi terreni che la compongono. Non a caso, i primi ad apprezzare gli aromi e i sapori del vino sono gli stessi abitanti del “Bel Paese”.

Durante il lockdown, gli italiani sono stati costretti a restare tra le mura domestiche, ma non per questo hanno rinunciato alla “vita sociale”. Gli aperitivi virtuali hanno aperto una breccia nel cuore di molte persone che si sono ritrovate con un calice in mano, davanti a un PC a trascorrere il tempo con i propri amici, scoprendo che basta una buona connessione internet per coprire le distanze che ci separano.

Secondo i dati IRI nei primi 3 mesi e mezzo del 2020 le vendite di vino nella GDO (grande distribuzione organizzata) sono aumentate del 7,9% rispetto al 2019, con una preferenza per le etichette DOC e IGT. L’aumento nelle vendite di vino tra i privati va però accostato ad un minor, se non nullo, consumo del vino fuori casa: di conseguenza bisognerà aspettare la fine dell’anno per capire esattamente quanto la pandemia abbia inciso sull’economia del settore vinicolo.

Le difficoltà di un periodo come questo non hanno però fermato le idee e la voglia di puntare sempre più in alto, sia fra le aziende vinicole sia fra chi ha pensato a sviluppare strumenti per godersi al meglio l’esperienza di consumo.

Un caso interessante arriva dalla provincia di Bari, e precisamente dalla cantina Colli della Murgia è riuscita a dare un valore aggiunto ai propri prodotti attraverso l’utilizzo di un chatbot. Sfruttando l’intelligenza artificiale, la cantina pugliese fa in modo che il suo vino non solo respiri, ma addirittura parli. Il consumatore potrà inquadrare il QR code presente sull’etichetta della bottiglia per poter iniziare una conversazione con un assistente virtuale che sarà in grado di fornirgli informazioni sull’iter di produzione del vino che sta sorseggiando, consigliare abbinamenti gastronomici e permettere di prenotare delle degustazioni ad hoc.

Non tutti i vini riescono però a parlare da sé.

Un aiuto arriva dai wine influencer, sempre più richiesti nel settore per la loro capacità di arrivare ai più giovani. Grazie al clima di fiducia che si instaura nella community, il follower tende a vedere sotto una luce positiva il brand sponsorizzato. La peculiarità del wine influencer, e ciò che lo distingue da un sommelier è la capacità di saper parlare in modo semplice a tutti gli utenti, creando così una comfort zone in cui anche i non esperti possano farne parte.

Per chi invece non ha uno spiccato lato social ma tende comunque ad essere digitale è stata creata l’app Combivino, scaricabile su dispositivi Android e iOS, in grado di abbinare vini e cibo in maniera corretta e divertente.

Grazie ad un’ampia selezione di etichette, divise in 6 categorie e 45 tipologie, l’applicazione riesce a sposare un vino non solo ad un determinato piatto ma a tutto un menù grazie alla sezione “Abbinamento Multiportata”.  Se invece si preferisce organizzare una serata alternativa si può sfruttare la “Opzione Degustazione” che mostrerà il corretto ordine di degustare più vini partendo dal nostro preferito.

Grazie ad una sempre maggior sensibilizzazione ambientale ed alla ricerca verso lo sviluppo sostenibile è nata nel Regno Unito, dalla società Frugalpac, il primo packaging per vino composto al 94% da carta riciclata.  Con un peso di 83g e una capacità di 75 cl la Frugal Bottle è in grado di  mantenere fresco il vino più a lungo di una normale bottiglia in vetro.

In Italia la Cantina Goccia è stata la prima ad adottarla per imbottigliare il suo vino 3Q, un blend di Sangiovese, Merlot e Cabernet Sauvignon. Attualmente è acquistabile solo online ma in un prossimo futuro potrebbe essere comune trovare vini con un packaging simile nel commercio al dettaglio.

Il vino italiano è tra i più amati sul mercato e la ricerca dell’innovazione è un tassello importante nel valorizzarne appieno la qualità e diversità per poter fare la differenza sul mercato globale: anche -e soprattutto- in un periodo di crisi.

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Ambiente, società e tecnologia

Urban Mask: la mascherina intelligente della startup milanese Narvalo

Sareste interessati a una mascherina che vi protegge non solo da un virus come il COVID-19 ma anche da batteri, inquinamento e agenti allergeni?

Se la risposta è sì è in arrivo una nuova mascherina intelligente, che farà al caso vostro: è la Urban Mask del progetto Narvalo e sarà disponibile dal 10 luglio con annesse funzionalità smart.

L’idea nasce dalla mente del giovane designer Ewoud Westerduin del Politecnico di Milano. Il primo collaboratore è il suo relatore Venanzio Arquilla che attualmente ricopre la posizione di Co-founder e President. All’interno del team abbiamo anche Costantino Russo nella posizione di CEO.

L’idea di Westerduin risulta essere così interessante che nel novembre del 2018 viene incubata da POLIHUB attraverso il programma Switch2Product mentre ad aprile 2019 viene selezionata come “talent in residence” in POLIFACTORY.

 

Prima dell’emergenza COVID-19 la startup Narvalo era partita dalla progettazione di una mascherina anti-smog di cui aveva preventivato il test per i primi 50 esemplari dal 24 gennaio 2020. I filtri di queste mascherine sono stati progettati insieme a BLS, azienda boutique milanese specializzata nella progettazione e produzione di maschere e dispositivi di protezione delle vie respiratorie.

Al momento del test la mascherina della startup Narvalo presentava già le seguenti caratteristiche: tessuto 3D, valvola di espirazione che massimizza il deflusso dell’aria evitando l’accumulo di calore e l’umidità, filtri sostituibili della durata di un mese e idrorepellenza della parte esterna del filtro.

Il sistema filtrante ha garanzia BLS e il filtro è composto da 5 strati che bloccano virus, batteri, polveri e odori in quanto uno degli strati contiene carbone attivo. La protezione garantita è infatti pari al 99,9% contro tutti i nemici invisibili dell’aria e risulta quindi più efficace di una FFP3.

Il claim di Narvalo è Air of Change, una promessa verso la sostenibilità e contro l’ inquinamento caratterizzata da un modello di business improntato sull’economia circolare attraverso il riutilizzo dei filtri esausti.

L’emergenza COVID-19 ha portato Narvalo a implementare nella sua mascherina, oltre alle già citate caratteristiche, un tappo “anti-Covid” che blocca la fuoriuscita di goccioline anche durante l’espirazione e si può rimuovere quando non necessario. Inoltre la parte di sviluppo si è evoluta al punto da permettere la versione IoT della Urban Mask che prevede l’uso di un app; grazie al dialogo tra app e mascherina è possibile monitorare non solo chi la indossa ma anche l’ambiente circostante in modo da creare un ecosistema connesso.

Nella vision di questa startup c’è l’intento di formare una mobile community di Narvalo’s people: persone che indossando la mascherina monitorano l’ambiente, avendo cura di se stessi e per il prossimo.

Chi indossa questa mascherina diventa quindi consapevole dei propri comportamenti e di quelli degli altri: essere Narvali significa acquisire la possibilità di cambiare il mondo in meglio.

Siete pronti a diventarlo anche voi?

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Ambiente, società e tecnologia

Le parole dell’Europa: una mini guida per muoversi fra le scelte dell’UE

Negli ultimi mesi si è discusso molto di come l’Europa potrebbe superare la crisi finanziaria post Coronavirus: fin da subito è stato chiaro che sarebbe stato necessario adottare misure precauzionali al fine di limitare i danni economici e finanziari che gravano sulle economie europee, con l’obiettivo di preparare l’Unione al meglio una ripresa che si speri il più rapida possibile.

Da quanto emerge dalle riunioni della Commissione Europea non si è ancora raggiunto un accordo, ma si sono messe in tavola differenti opzioni: il MES, o Meccanismo Europeo di Stabilità, i Coronabond (o Eurobond, molto richiesti dall’Italia) e infine il Recovery Fund.

È però necessario fare chiarezza su cosa sono questi strumenti e come possono essere utilizzati dai vari Stati Membri per poter affrontare questa crisi.

Perché c’è stato bisogno di un fondo salva-Stati?

 

La storia dell’UE è piena di esempi dove Stati Membri si sono trovati in crisi economica.

Gli Stati dell’Unione non potevano agire in loro soccorso (secondo quanto riporta l’art. 123 dei Trattati), in quanto un Paese che avrebbe ricevuto un aiuto economico sarebbe poi stato obbligato a prestare protezione a quel Paese che inizialmente gli aveva prestato aiuto, creando cosi una rete di vincoli che nell’Unione non devono esserci.

Per ovviare al problema, è stato creato un fondo temporaneo diventato nel luglio del 2012 permanente: il MES, un’organizzazione internazionale nata come fondo finanziario europeo che si propone di mantenere la stabilità finanziaria della zona Euro. Ad oggi conta una capacità di oltre 650 miliardi di euro e ha sede in Lussemburgo. La sua gestione è affidata a un Consiglio di Governatori costituito dai ministri delle finanze dell’UE, un consiglio di Amministrazione nominato proprio dai Governatori, un Direttore Generale e due osservatori.

Utilizzato più volte per soccorrere paesi come Portogallo, Grecia, Spagna o Cipro, ha scatenato molte polemiche tra economisti e politici per la sua regolamentazione: gli impegni previsti dal dispositivo sono molto rigidi sia dal punto di vista economico che politico per lo Stato che ne intende beneficiare. Chi riceve i prestiti è obbligato ad approvare un memorandum -un programma- che definisce con stretta precisione quali misure dovrà rispettare e quali obiettivi raggiungere, come ad esempio i tagli al debito pubblico.

Come funziona e chi lo gestisce?

 

L’assistenza sarà fornita solo successivamente ad un iter che lo Stato in difficoltà dovrà seguire:

  1. Lo stato dell’UE che necessita di aiuto, deve, insieme alla Commissione e alla Banca centrale europea, valutare il suo fabbisogno finanziario.
  2. Sottoporre alla Commissione una bozza, in cui si espone il proprio programma economico-finanziario di aggiustamento.
  3. Nel caso in cui venga accettata la richiesta, la linea di credito dovrà essere accompagnata da tali informazioni: le modalità dell’assistenza finanziaria, le condizioni generali di politica economica, legate all’assistenza finanziaria UE, alle quali lo Stato dovrà attenersi ed infine l’approvazione del programma di aggiustamento predisposto dal paese destinatario.
  4. La Commissione verifica poi a scadenze regolari che la politica economica del paese beneficiario sia conforme con il programma di aggiustamento presentato ed alle condizioni stabilite dal Consiglio, così da poter continuare ad erogare l’aiuto finanziario.

Come verrà impiegato?

 
Il MES era e rimane tutt’ora l’organizzazione più simile ad un “prestatore di ultima istanza”, con l’obiettivo di soccorrere i paesi in difficoltà finanziaria. La pandemia ha obbligato a rivederne l’applicazione con un fondamentale criterio di novità: la sua adozione è senza condizioni.

Con la nuova riforma questo ruolo sarà più semplificato, infatti il fondo assumerà la funzione di backstop (paracadute finale): nel momento in cui una o più banche dovessero trovarsi in situazioni di estrema difficoltà, il MES agirà da garante stanziando 70 miliardi sotto forma di linea di credito; un’ulteriore novità è l’introduzione di un percorso semplificato per poter godere dei finanziamenti del Meccanismo. Parliamo però di una riforma non ancora approvata: la votazione è stata posticipata per dare priorità alle problematiche date dalla pandemia.

Cos’è il Recovery Fund?

 

Il Recovery Fund è un fondo di recupero richiesto fortemente dagli stati del Sud Europa, per cercare di limitare al massimo i danni creati da questa pandemia.

La prima proposta sul fondo, avanzata da Francia e Germania, si basava su concessioni esclusivamente a fondo perduto; successivamente è stato poi presentato dalla Commissione Europea un ulteriore progetto che prevedeva sia finanziamenti che concessioni a fondo perduto.

Come Funziona il Recovery Fund?

 

Con la proposta dei francesi, il Recovery Fund aveva il compito di emettere Recovery Bond, quindi titoli di debito pubblico Europeo garantiti dagli stessi bilanci UE, cosi da poter condividere il debito e il rischio senza dover affrontare una vera mutualizzazione.

Cos’è un titolo di debito pubblico, obbligazione o bond?

 

Il titolo di debito pubblico è un prestito che gli investitori, quindi imprese e famiglie, danno allo Stato per un determinato periodo di tempo, al termine del quale otterranno indietro il capitale prestato maggiorato degli interessi. Quindi è un prestito a favore dello stato, che assumerà quindi l’obbligo (“o l’obbligazione”) di restituire tale somma ottenuta maggiorata degli interessi maturati nel tempo.

Quanti fondi saranno a disposizione e in che forme?

 

750 miliardi di euro: 500 saranno distribuiti come sovvenzioni, quindi contributi finanziari a fondo perduto (che non prevedono ne la restituzione dei capitali, ne degli interessi), e 250 come prestiti agevolati.

La differenza tra prestiti e sovvenzioni è in merito alla restituzione dei capitali ottenuti: le sovvenzioni dovranno essere ripagate da tutti gli Stati, indipendentemente da quanto e se ne avranno ricevuto una parte; i prestiti invece dovranno essere restituiti applicando tassi di interesse bassi solo da coloro che ne usufruiranno entro il 2058, anno in cui dovranno essere restituiti.

Chi potrà beneficiare del Recovery fund?

 

I 750 miliardi verranno ripartiti tra i vari Stati in base alle necessità di ciascuno Stato, infatti l’Italia sarà il maggior beneficiario ottenendo 172,7 miliardi di euro: 81,8 miliardi saranno sotto forma di sovvenzioni e 90,9 miliardi come prestito agevolato. Dopo l’Italia c’è la Spagna con 140,4 miliardi totali, la Polonia e successivamente la Francia.

E gli Eurobond, cosa sono?

 

Non è la prima volta che gli Eurobond entrano nelle discussioni della Comunità Europea: erano già stati proposti nel 2011/12 durante la crisi dell’Eurozona, ma bocciati dalla forte opposizione della Germania e dei suoi alleati per gli stessi motivi che ne bloccano tutt’ora l’applicazione.

Gli Eurobond sono un altro strumento finanziario che permetterebbe agli Stati UE di poter condividere il debito: ha incontrato forti resistenze dalla Germania e dagli Stati del Nord, in quanto questi ultimi hanno bilanci e conti in ordine, quindi senza debito pubblico, cosa che non li accumuna ai Paesi del Sud; la preoccupazione è che attraverso questo strumento, si possano condividere i debiti con l’Europa, rischiando di squilibrare anche i conti degli altri Stati membri.

I Coronabond, fortemente richiesti durante le trattative per superare la crisi post-COVID, sono obbligazioni del tutto simili agli Eurobond che nascono espressamente per far fronte alle spese legate alla pandemia. Questi bond potrebbero essere emessi o da un’istituzione europea o da un singolo Paese Membro.

 Differenza tra Coronabond e Recovery Bond?

 

Si può pensare che i due strumenti siano uguali: sono titoli di debito pubblico europeo entrambi, emessi per fronteggiare la crisi post Coronavirus e danno interessi a coloro che prestano i loro soldi all’UE.

La sostanziale differenza tra queste due soluzioni riguarda il modo in cui il debito è condiviso tra i vari membri dell’Unione: scegliendo il Coronabond uno Stato condivide tutti i propri debiti contratti precedentemente con gli altri Stati (ad esempio spese per l’innovazione) mentre con i Recovery Bond -che ricordiamo, sono i bond emessi dal Recovery Fund- i debiti condivisi con gli altri Stati Membri saranno solo quelli contratti nel periodo post pandemia: un bel danno per i Paesi più indebitati.

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Ambiente, società e tecnologia

Piccola guida all’app Immuni

Dal 15 giugno è definitivamente disponibile l’app Immuni, lo strumento scelto dalle istituzioni italiane per gestire il contact tracing e contrastare così l’epidemia da COVID-19.

Scaricare l’app è semplice e gratuito: l’installazione dura pochi secondi e non richiede l’inserimento di dati personali.

L’utilizzo non è obbligatorio ma fortemente consigliato, anche se ad oggi non tutti i telefoni sono abilitati a scaricare l’app: l’applicazione funziona solamente su sistemi operativi Android 6 o Ios 13.5 e seguenti, perché opera grazie a un aggiornamento della tecnologia Bluetooth che Google e Apple hanno dovuto apportare per permettere proprio la tracciabilità “anonima”.

Il rischio è quindi che vengano tagliati fuori dalla possibilità di scaricare l’app e quindi di tracciare eventuali contagi le fasce della popolazione più basse, come anziani e indigenti, che generalmente non posseggono smartphone aggiornati.

Le strutture sanitarie, nel caso in cui un utente dovesse risultare positivo al Covid.19, inseriranno in un database il codice anonimo agganciato all’app; in questo modo, sarà Immuni a inviare una notifica agli altri utenti entrati in contatto nei 14 giorni precedenti con il soggetto risultato positivo.

Lo sviluppo dell’app Immuni

Il compito di sviluppare materialmente l’app è stato affidato alla società italiana Bending Spoons, in collaborazione con il Centro medico Sant’Agostino.

Per lo sviluppo, l’azienda milanese ha avuto due alternative: utilizzare un sistema decentralizzato (il quale permette al server di immagazzinare solo i codici anonimi dei device risultati positivi), come avviene in moltissimi paesi europei, oppure optare per un sistema centralizzato, che si differenzia da quello decentralizzato per la raccolta sul server centrale di codici identificativi non solo dei soggetti risultati positivi, ma anche dei loro contatti.

La scelta è ricaduta sul sistema decentralizzato, ritenuto più sicuro per la tutela della privacy degli utenti.

Privacy e gestione dei dati

Il Ministro dell’Innovazione tecnologica ha spiegato che Bending Spoons non gestirà i dati personali degli utenti né avrà alcun ruolo attivo nel processo di conservazione degli stessi, ma fornisce esclusivamente i codici sorgente: tutte le informazioni degli utenti saranno gestiti da un soggetto pubblico – il Ministero della Salute -, e raccolti da Sogei, società completamente controllata dal Ministero di Economia e Finanze.

I dati verranno trattati fino al 31 dicembre 2020, e gli utenti potranno chiederne la cancellazione anticipata in qualsiasi momento. Ancora non è certo però cosa accadrà se la situazione di emergenza dovesse perdurare oltre questa data.

L’obiettivo

Già nel primo giorno di lancio si sono raggiunti i 500.000 download: oggi sono circa 2 milioni i device tracciati da Immuni. Se il trend rimarrà questo, l’app sarà abbastanza diffusa da garantire una copertura sufficiente per contrastare l’epidemia.

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Ambiente, società e tecnologia

Lo Spazio: una nuova frontiera del business (e del turismo)

Lo scorso 30 maggio alle ore 15:22 (21:22 italiane) la capsula Crew Dragon, di proprietà dell’azienda SpaceX, è partita dalla storica rampa statunitense del Kennedy Space Center, in Florida, ed ha portato i due astronauti americani, Bob Behnken e Doug Hurley, sulla SSI (Stazione Spaziale Internazionale).

Così, a quasi un decennio dall’ultima missione dello Space Shuttle Atlantis (mandato in pensione nel 2011), grazie al “Commerical Crew Program” che ha selezionato aziende private a cui appaltare la costruzione dei suoi “mezzi spaziali”, la NASA è tornata a lanciare una missione dal proprio suolo natio, non essendo più costretta a pagare costosi “passaggi” sulle Sojuz dei rivali russi.

La missione Demo-2 è entrata nella storia quindi per essere il primo lancio di un vettore nello spazio effettuato da un privato con astronauti a bordo: un traguardo non solo per gli Stati Uniti, ma per il mondo intero, che anche la NASA ha sottolineato con un tweet eloquente: “History is made” (“Abbiamo fatto la storia).

Non è un caso che il primo a essere riuscito in quest’impresa così straordinaria sia stato il visionario CEO di SpeceX, Elon Musk, il quale da tempo aveva scelto di accettare questa sfida. Già nel settembre del 2016, durante l’International Astronautical Congress tenutosi in Messico, aveva dichiarato che l’umanità dovrà “diventare una specie multiplanetaria” per garantire la propria sopravvivenza nel lungo termine.

SpaceX però non è solo ricerca e filantropia. Musk ha proposto anche diversi ambiziosi progetti rivolti al grande pubblico (ma accessibili alle tasche di pochi): dall’organizzazione di tour spaziali intorno alla Luna (per i quali ha venduto i primi biglietti al miliardario giapponese Maezawa nel 2018), alla colonizzazione di Marte fino all’utilizzo dei razzi di SpaceX per spostarsi tra le città molto distanti sulla Terra in circa mezz’ora.

Progetti ambiziosi, che possono sembrare remoti: tuttavia, ad oggi, SpaceX ha già dato prova delle proprie capacità. Si è da tempo guadagnata il ruolo di “fattorino interplanetario” occupandosi di numerose consegne di satelliti e rifornimenti in orbita per la SSI ed altre aziende private; inoltre, è l’unica finora ad essere riuscita nell’intento di riportare sulla Terra le parti recuperabili dei propri razzi per poterle riutilizzare, con notevoli vantaggi in termini economici.

D’altro canto, l’ingresso di un privato nelle missioni spaziali significa anche cambiare completamente l’approccio alla cosa, come è stato evidente anche durante l’organizzazione di Demo-2, in cui nulla è stato lasciato al caso. Ne sono un esempio l’arrivo degli astronauti sul luogo del lancio a bordo di una Tesla (l’automobile elettrica prodotta dall’omonima azienda, sempre di proprietà di Musk), il design completamente modernizzato in perfetto stile futuristico sia dell’interno della navicella che delle tute indossate dai protagonisti del lancio (disegnate dal costumista holliwoodiano Jose Fernandez), oltre che il lancio (questo solo a scopo promozionale), due settimane prima della data della missione, del gioco online che simula l’attracco della Crew Dragon alla SSI.

A cogliere la portata mediatica di questo evento è stato anche il Presidente Donald Trump, che ha sfruttato l’occasione per mostrarsi in pubblico e provare a dare smalto alla propria immagine, colpita duramente per le proteste anti-razziste seguite all’omicidio di George Floyd.

Sottolineando i meriti della sua politica fortemente a favore delle missioni spaziali, Trump ha affermato “Non saremo secondi in niente”, dichiarando le intenzione degli US: mandare la prima donna sulla Luna e lo sbarco su Marte. Traguardi ambiziosi che probabilmente anche la Russia e la Cina vorranno fare propri. E chissà che a competere, questa volta, non ci sia anche una società per azioni.

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Ambiente, società e tecnologia

C’è chi dice no: IBM, Amazon e Microsoft dicono “stop” al riconoscimento facciale

L’intelligenza artificiale, e in particolare il facial recognition tornano a far discutere: in seguito all’omicidio di George Floyd e le proteste scoppiate negli USA, tre delle più importanti aziende al mondo, IBM, Amazon e Microsoft, hanno consapevolmente scelto di fare un passo indietro consapevoli che il riconoscimento facciale ad oggi può dirsi non idoneo come supporto per le forze di polizia.

IBM è stata la prima a dichiarare pubblicamente l’intenzione di sospendere l’erogazione del servizio ai governi e alle forze dell’ordine. Le parole dell’amministratore delegato Arvind Krishna non lasciano spazio a dubbi: “IBM si oppone fermamente e non perdonerà l’uso di alcuna tecnologia di riconoscimento facciale, comprese quelle offerte da altri fornitori, per la sorveglianza di massa, la profilazione razziale, le violazioni dei diritti umani e delle libertà o a qualsiasi fine che non sia coerente con i nostri valori e principi di fiducia e trasparenza”.

Poco dopo, Amazon ha seguito l’esempio di IBM, vietando alla polizia l’utilizzo del suo Rekognition da qui a un anno.

Infine Microsoft che, in seguito all’esplicita richiesta da parte dei ricercatori del MIT, ha dichiarato, nel corso di una conferenza virtuale organizzata dal Washington Post lo stop alla vendita della tecnologia fino a quando non verrà varata una legge nazionale rispettosa dei diritti umani relativa a tale tecnologia.

Gli stessi studiosi del MIT, insieme all’Intelligence Team di Google, hanno infatti più volte denunciato l’inadeguatezza dei sistemi di riconoscimento facciale con particolare attenzione verso il bug riguardante la tecnologia di screening della melatonina, che non funzionerebbe adeguatamente su persone con la pelle più scura.

Inoltre, fa discutere anche l’utilizzo dei software in sinergia con le fotografie “prelevate” dai profili sui social network: un polverone che si era già sollevato durante il recente scandalo riguardante la startup Clearview AI.

Tecnologia ed etica: quando il business non può superare il valore delle persone

Sono tanti i dubbi che hanno accompagnato l’adozione su vasta scala dell’intelligenza artificiale per il riconoscimento facciale, e la scelta di adottare questa particolare tecnologia anche per gestire l’ordine pubblico, in un periodo di forti tensioni sociali, non ha che accentuato i dubbi anche etici sulla sua applicazione.

Il problema legato all’utilizzo del riconoscimento facciale è relativo alla possibilità che si possa trasformare in un dispositivo di sorveglianza di massa e di profilazione delle minoranze. La città di San Francisco aveva già vietato espressamente  l’utilizzo di questi software nel 2019, poiché ritenuti ancora acerbi e poco regolamentati per un utilizzo continuativo che non violi inevitabilmente i diritti e le libertà dei cittadini.

Il problema però non è solo statunitense.

Già nel 2018 l’Unione Europea aveva iniziato la stesura di un codice volto a prevenire situazioni in cui l’utilizzo di intelligenze artificiali in grado di riconoscere il volto delle persone potesse rivelarsi pericoloso per le libertà e lesivo per i diritti umani, a maggior ragione considerando che questi sistemi si basano su algoritmi che presentano ancora falle importanti per quanto riguarda il riconoscimento di donne, bambini e minoranze etniche.

La domanda quindi resta: ci possiamo affidare all’intelligenza artificiale per “farci riconoscere”? Al momento, la risposta sembra essere no: e non per colpa delle  macchine.

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Ambiente, società e tecnologia

Lo stato dell’arte dell’agricoltura 4.0: da trend a necessità per uscire dalla crisi

Come sta evolvendo l’agricoltura?

È una domanda che ci si potrebbe porre, a maggior ragione osservando come tutti i settori produttivi stiano cambiando, secondo una logica incentrata su metodologia Agile, ampio impiego dei dati e digitalizzazione spinta.

Il settore primario non fa eccezione, anzi: si parla proprio di agricoltura 4.0 per indicare l’impiego di nuove tecnologie per innovare i processi di coltivazione e il conseguente miglioramento dello stato dei lavoratori.

La ricerca condotta dall’Osservatorio Smart Agrifood nel 2017 ha offerto un quadro chiaro della situazione  dell’innovazione in agricoltura. L’Osservatorio ha individuato più di 220 soluzioni nel campo dell’agricoltura 4.0 offerte da più di 70 aziende. Alcune di queste soluzioni sfruttano i Big Data Analytics, altre i sistemi software di elaborazione e dell’interfaccia utente e altre ancora l’Internet of Things.

Una ricerca che, pur datata, dimostra come già tre anni fa le aziende puntassero sull’innovazione per il settore agricolo.

La pandemia ha accelerato il processo: un recente studio condotto dalla banca Monte dei Paschi di Siena e SWG, individua l’agricoltura 4.0 come essenziale per una rapida ripresa dalla crisi del settore agricolo innescata dall’emergenza COVID-19.

I punti chiave sono sempre l’innovazione e la sostenibilità, ritenuti entrambi importanti dalla maggioranza delle imprese: l’innovazione da opzione diventa un driver per crescita e sviluppo e di questo ne sono convinti l’85 % degli imprenditori. Inoltre il 76% dei produttori ritiene che l’investire nell’innovazione possa accelerare l’uscita dalla crisi.

Tra i principali fattori che concretizzano l’agricoltura 4.0 abbiamo banda larga, energie rinnovabili, sensoristica, piattaforme digitali e strumenti per magazzini intelligenti.

Dalla ricerca di MPS e SWG risulta inoltre che sono circa l’85% gli imprenditori che ritengono la sostenibilità dei modelli di produzione essenziale in vista del superamento dell’attuale crisi: questa comprende sia l’attenzione nel ridurre l’impatto sull’ambiente sia il rispetto dei diritti dei lavoratori. Un trend di cui tener da conto e che può diventare traino per nuove formule sempre più innovative di organizzazione e produzione agricola: in questo senso è interessante il progetto lanciato da OfficineMps, il laboratorio permanente di Banca Monte dei Paschi di Siena: un contest sull’agroalimentare per cercare di creare un’unione tra il settore agrifood e l’innovazione.

Insomma, i dati ci mostrano come ci sia una presa di coscienza e una rinnovata consapevolezza da parte delle imprese nell’orientarsi sempre di più verso un modello di produzione green 4.0.

Non resta che augurarci un’agricoltura sempre più innovativa e sostenibile possa anche essere un fattore di competitività aggiunta per uscire dalla crisi economica che si sta affacciando sull’Europa (e conseguentemente, sull’Italia).

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Ambiente, società e tecnologia

L’UE e il tortuoso percorso per fronteggiare l’emergenza Covid-19

Da febbraio la pandemia del Covid-19 e la successiva crisi economico-sanitaria hanno colpito -e stanno tutt’ora colpendo- anche se in misure differenti tutti i paesi dell’Unione Europea.

Le istituzioni comunitarie stanno mettendo a punto diverse manovre per contrastare la diffusione del virus e stimolare la ripresa economico-sociale degli stati membri, fra cui ovviamente l’Italia.

Sotto il profilo sanitario e di ricerca le iniziative sono tantissime: il principale obiettivo della Commissione Europea è fornire un costante supporto ai sistemi sanitari nazionali: a marzo l’organo esecutivo guidato da Ursula von der Leyen ha dichiarato di sostenere lo sviluppo di un vaccino attraverso l’operato della società CureVac. Sono stati investiti 137,5 milioni di euro a sostegno della ricerca che si sommano a 164 milioni per finanziare startup e imprese tecnologiche che siano intenzionate a sviluppare metodi innovativi per contrastare il virus.

I provvedimenti economici sono quelli che hanno maggiormente lasciato adito a critiche e discussioni, mettendo a rischio per un momento la credibilità della stessa Unione: alcuni stati, soprattutto nel periodo più critico, hanno recriminato a proposito del deficit di aiuti da parte delle istituzioni dell’Unione. La proposta del piano “Next Generation Eu”, presentato ufficialmente dalla presidente Ursula Von Der Leyen il 27 maggio 2020, ha sanato un po’ la situazione limitando le polemiche.

Il piano, riconducibile a tutti gli effetti al meccanismo di Recovery Fund, è l’ultimo e forse più efficace step del lungo percorso avviato dall’Europa per mitigare gli effetti letali del virus verso le economie continentali.

La manovra, che dovrà prima essere approvata, ha il valore 750 miliardi di euro di cui si stima circa 173 miliardi saranno destinati all’Italia.

La parte più innovativa consiste nel fatto che la Commissione sta progettando nuove forme di pagamento attraverso cui i paesi coinvolti possono risanare il debito. La presidente della Commissione ha ipotizzato tasse che potrebbero essere imposte ai giganti del mondo digitale e legate alla sostenibilità ambientale, come una imposta sulle emissioni di CO2.

Prima del Recovery Fund sono state già approvate una serie di misure volte ad aiutare l’Italia e gli altri paesi membri dell’Unione che si trovano in difficoltà, tra cui lo stop del patto di stabilità e il “Pandemic Emergency Purchase Programme ” istituito dalla Banca Centrale Europea a fine marzo.

Nel nostro paese ci sono state tuttavia una serie di polemiche e opinioni discordanti riguardo alla proposta di creare una nuova linea di credito del MES, presentata e approvata il 23 aprile scorso dalla Commissione Europea. Le prese di posizione contrarie al MES derivano dall’idea che, per usufruire dei finanziamenti, i paesi membri abbiano l’obbligo di sottostare a rigide condizioni tra cui la sorveglianza rafforzata. Ciononostante nei primi giorni del mese di maggio, l’Eurogruppo è riuscito a trovare un accordo in grado di rendere il MES uno strumento più idoneo a questo periodo di crisi economico-sanitaria: ogni stato potrà usufruire di prestiti a tassi agevolati e l’unica condizione a cui dovrà sottostare è destinare i soldi derivanti dal MES unicamente a spese sanitarie. È stato poi concordato che gli stati membri possono ricevere finanziamenti fino al 2% del proprio PIL.

I partiti politici italiani restano distanti rispetto all’accettare o meno gli aiuti europei, e anche a livello europeo ci sarà molto da fare per trovare una quadra rispetto alle tante idee che si stanno discutendo. Il lavoro della Commissione sembra comunque già a buon punto, e la sensazione è che l’Europa possa fronteggiare finalmente in maniera unitaria la crisi economica che prepotentemente si sta affacciando.

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Ambiente, società e tecnologia

Il futuro della formazione? Passa (anche) dall’Edutainment

La digitalizzazione ha portato ad un profondo cambiamento nel mondo dell’educazione, favorendo l’apprendimento ovunque ed in qualsiasi momento. Non si tratta solo di un miglioramento dell’erogazione di corsi online, bensì di un’evoluzione del modo di apprendere attraverso il coinvolgimento attivo dei soggetti.

Si parla in questi casi di Edutainment, cioè l’imparare divertendosi attraverso attività divertenti e coinvolgenti come videogiochi, programmi TV o software multimediali.

Un fenomeno molto in crescita: il mercato dell’edutainment raggiungerà un CAGR (Compound Annual Growth Rate) del 16,1% tra il 2018 e il 2028 arrivando a toccare i 11.348,9 milioni di dollari in termini di entrate. Non è un caso che le aziende si siano aperte a queste formule, a maggior ragione durante la pandemia, in cui si è dovuto completamente riconfigurare il paradigma della formazione.

Gli esempi interessanti non mancano anche nel nostro Paese.

Attraverso i canali social e il sito web, ad esempio Gardaland propone diverse attività per i più piccoli: si passa dai video tutorial per imparare a disegnare la mascotte Prezzemolo e le diverse specie di pesci del SEA LIFE ai quiz per scoprire curiosità sugli animali che i bimbi hanno imparato a disegnare.

Arriva invece da Matera l’idea di una piattaforma online gratuita e sicura, “l’Accademia degli Stracuriosi”, che attraverso il linguaggio video-teatrale, digitale e il linguaggio del gioco riesce a parlare ai più piccoli e accendere la loro curiosità. La piattaforma ha lo scopo di introdurre i bambini, in modo semplice, a temi e discipline più svariati attraverso otto diversi giochi che puntano a stimolare i giovani in diversi modi, usando il movimento del corpo, i numeri, le parole o le forme.

Una nuova piattaforma basata sui principi di Edutainment è “H-FarmPlus”, la quale avrebbe dovuto debuttare a settembre 2020, ma causa lockdown ha deciso di rendere fruibili i propri contenuti prima del previsto.

Il suo catalogo è ricco di contenuti originali tra cui video tutorial in cui gli educatori spiegano l’elettronica creativa, la robotica e il tinkerin (cioè l’imparare svolgendo una specifica attività: il termine indica in particolare gli aspiranti maker) utilizzando oggetti di uso comune. La piattaforma H-FarmPlus comprende nel suo catalogo anche eventi, webinar, talk e open day dedicati ad un pubblico più maturo.

Discostandoci dallo scenario italiano e andando oltre i nostri confini, e precisamente negli Stati Uniti, è nato a Seattle dall’idea di un professore di geografia il progetto “Zombie Based Learning” basato sulla gamification.

Gli studenti dovranno essere in grado di sfuggire ad un’apocalisse zombie e costruire una nuova civiltà attraverso conoscenze, sia basilari che avanzate, di sociologia, economia e geografia

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Marketing & Social Media

TikTok si apre agli inserzionisti (e le aziende si preparano)

Fino a un anno fa chiedere cosa fosse TikTok a qualcuno che avesse superato gli anni dell’adolescenza non poteva che condurre a un silenzio imbarazzato.
Oggi l’app cinese di microvideo è invece sulla bocca di tutti: con più di 800 milioni di utenti attivi (in continua crescita), possiamo dire anzi che sia il nuovo fenomeno social.
La pandemia non sembra aver impattato su questo percorso di crescita: il boom dei download (e il conseguente aumento di valore) è stato continuo.

Visto il successo ottenuto, era solo questione di tempo che le aziende cominciassero a chiedersi come sfruttare il network che abita il colosso di ByteDance. Per questa ragione, TikTok ha cominciato a studiare come perfezionare il proprio sistema di advertising, aprendosi agli inserzionisti.

TikTok: ads tra limiti e potenzialità

Di recente si è sentito parlare di recessione pubblicitaria e della necessità di provare nuove strategie, tipi di contenuto e di target. TikTok è certamente una delle strade più promettenti per il suo DNA innovativo: la piattaforma di mini-video si avvicina all’ideale di “Marketing umanistico” incentrato sul contenuto e sulla fiducia, e proprio per questo in grado di raggiungere un pubblico sempre più eterogeneo (anche se il vero Eldorado della piattaforma sta nell’utenza riconducibile alla Generazione Z, i consumatori di domani, che corrispondono anche alla maggior parte dei suoi utilizzatori).

Al momento però non è semplicissimo investire su TikTok: essendo il sistema in fase di testing, l’accesso per l’Europa è riservato a pochi fortunati che sono stati invitati.

In secondo luogo, il costo. Per essere efficaci, le campagne adv sulla piattaforma cinese richiederanno un vasto budget a disposizione: la tariffa minima sembra essere 20 euro al giorno per la pubblicità day by day (con risultati se si desume essere decisamente contenuti), mentre per lo strategie a lungo termine l’investimento minimo sarà di 500 euro.
Insomma, ben diverso dalle formule a costo irrisorio messe a disposizione da GoogleAds o Facebook.

Altre barriere che sembrano esserci sono la rigidità dei criteri dell’app per approvare una campagna pubblicitaria (ancora da capire limiti e opportunità) e l’ambiguo algoritmo del feed, che presenta meccaniche un po’ discutibili: sembra infatti che TikTok promuova tutto ciò che è coinvolgente, virale, conducendo gli utenti verso i cosiddetti “loops” in cui lo stesso video viene visto e rivisto più volte.

L’unica certezza sta nel come dovrà essere confezionato il contenuto: i video sponsorizzati dovranno essere originali, accattivanti, efficaci, brevi, ma soprattutto coerenti con lo spirito della piattaforma.

Per questo gli inserzionisti sono incoraggiati a mettere in campo tutta la loro creatività, a informarsi sui trend del momento e ad adattarli alla loro comunicazione.  Un lavoro molto più complesso e forse difficile per i brand poco conosciuti e affermati, o che possiedono un’immagine molto distante dall’ecosistema di TikTok.

I brand che ce l’hanno fatta

Sul blog ufficiale della piattaforma è presente una sezione #Inspiration dove vengono postati i case studies dei brand che hanno realizzato le campagne più efficaci fino ad ora: i più interessanti da segnalare Mercedes, Balenciaga, ma anche una curiosa marca di deodoranti russa.

Casi utili da analizzare per tutti i marketers che decideranno di tentare l’impresa e tuffarsi nel mondo delle inserzioni su TikTok. I risultati si prospettano essere più che buoni: in fondo perché ignorare questa opportunità?

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Entertainment, videogame e contenuti

Il COVID-19 e la (ri)scoperta del Social per i Comuni d’Italia

Il Coronavirus ha stravolto il nostro modo di relazionarci, costringendo anche i comuni italiani a fare i conti con la sfida (in ballo da anni) di interagire in modo diretto con il cittadino tramite la Rete.

Il comune è la realtà amministrativa più prossima alla gente; tanto basta a giustificare la crescente attenzione che negli ultimi anni è stata posta sulla necessità di sfruttare i social network per aprire le istituzioni locali al mondo esterno.

Come spesso accade, tuttavia, il desiderio di cambiamento si è scontrato con la lentezza legislativa che fatica a stare al passo con i tempi.

Risale, infatti, all’inizio del nuovo millennio la legge a cui si fa tuttora riferimento in materia di disciplina delle attività di informazione e comunicazione delle PA (Legge 150/2000), nonostante all’epoca gli unici strumenti digitali disponibili fossero i siti web.

Il progresso, però, non attende: apre la strada.

Un’applicazione che ha precorso i tempi in questo senso è “Comuni-Chiamo”. Rilasciata nel 2012 e ad oggi adottata in 107 comuni di diverse dimensioni, si offre come spazio dedicato all’amministrazione comunale e ai relativi cittadini per scambiarsi comunicazioni ed avvisi, pubblicizzare eventi e informare sul lavoro dell’amministrazione stessa. Inoltre, con “Comuni-Chiamo Connect”, dal 2017 i cittadini possono condividere contenuti sulla pagina Facebook del proprio comune, collegando il loro profilo personale e ricreando così una community di cui sentirsi parte.

È sempre in quest’ottica di apertura al cambiamento che è nata la collaborazione tra PA Social (la prima associazione italiana dedicata allo sviluppo di una nuova comunicazione per le PA), ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) e Facebook, con l’obiettivo di formare gratuitamente Social Media Manager e portavoce dei Comuni della Penisola.

Volendo illustrare le strategie comunicative da utilizzare sulle piattaforme social, il progetto, inaugurato a novembre 2019, è stato opportunamente riadattato al formato digitale e reindirizzato sulla tematica della corretta comunicazione sui social media durante l’emergenza da COVID-19 e nella successiva fase di ripresa.

È sufficiente fare una rapida ricerca su Facebook per rendersi conto di come molti comuni abbiano creato, rispolverato o continuato ad usare il loro profilo ufficiale, non solo come canale di condivisione di aggiornamenti, buone prassi e contenuti utili alla comunità, ma anche come strumento di vicinanza e senso di appartenenza in momenti di grande difficoltà.

Non sorprende che, secondo le stime di We Are Social, durante la quarantena i social media abbiano guadagnato 2,1 milioni di utenti attivi (+6,4%), dimostrandosi uno dei mezzi più efficaci di divulgazione a disposizione del Paese.

Forse il Coronavirus può costituire la spinta che si attendeva per l’introduzione in tutti i comuni dell’informazione 2.0 e per l’emanazione di una normativa ad hoc che tuteli e regolamenti i comportamenti da adottare da parte di entrambi gli attori in questo scenario digitale, i comuni ed i cittadini.