< Torna indietro
Marketing & Social Media

L’Occidente ha paura di Tik Tok: è realmente una minaccia?

Tik Tok, l’applicazione cinese più amata dagli adolescenti, ha di recente iniziato a destare sospetti in più paesi, i quali stanno disponendo divieti di installazione dell’app nei dispositivi governativi: in particolare si parla di Stati Uniti, Canada, India, Taiwan, Lettonia, Danimarca, Belgio, Nuova Zelanda, Regno Unito e persino la Commissione e Parlamento Ue. Ciò sarebbe dovuto al timore di spionaggio da parte della Cina e ad un forte rischio di violazione della privacy dei suoi utenti. Nei giorni scorsi anche in Italia è stata presentata la questione, il tutto con una mozione del PD in Senato.

Ma come si è giunti a questo punto?

Il blocco di Tik Tok dai dispositivi federali statunitensi

Con una nota della Casa Bianca diffusa il 27 febbraio scorso, è stato imposto alle agenzie governative statunitensi di disinstallare Tik Tok da qualunque dispositivo informatico entro 30 giorni.
La scelta è dovuta al forte timore di spionaggio da parte della Cina e a un intollerabile rischio per la privacy e per la sicurezza nazionale. Ciò che sta preoccupando i legislatori è il fatto che il governo cinese possa costringere Tik Tok a consegnargli i dati dei suoi utenti e che manipoli i contenuti che visualizzano quotidianamente sull’applicazione per influenzare le loro scelte commerciali e politiche.
La questione è stata affrontata lo scorso 23 marzo, data nella quale si è tenuto il confronto tra l’amministratore delegato di Tik Tok Shou Zi Chew e il Congresso degli Stati Uniti. L’ad non ha potuto confermare al 100% che il governo cinese non potesse utilizzare l’applicazione per attività di spionaggio verso gli americani o che non potesse manipolare i contenuti che vedono. Ciò ha portato ad incrementare lo scetticismo dei deputati statunitensi.

Chew ha tuttavia dato delle rassicurazioni basate sui miliardi che Tik Tok sta spendendo per la creazione di firewall per la protezione dei dati degli americani. L’amministratore è convinto che, una volta terminato il processo, la preoccupazione dei legislatori statunitensi si placherà.

Non ci resta che aspettare e vedere se sarà effettivamente così. Dal canto suo, il Ministro degli Esteri Mao Ning ha risposto alle accuse opponendosi all’azione dell’Amministrazione americana e invitandola a rispettare i principi del libero mercato e della concorrenza leale. Inoltre ha lanciato una provocazione:“Quanto si può sentire incerta la massima superpotenza mondiale, se ha paura dell’app preferita dai giovani?”.

Ciò risulta ironico dal momento che in Cina la maggior parte delle piattaforme digitali più frequentate come Google, Facebook, Whatsapp, Youtube e Instagram sono bloccate o fortemente limitate.

La disposizione arriva in Italia

Già tre anni fa il Garante della privacy italiano comunicò al Comitato Europeo per la protezione dei dati personali tramite una lettera delle insicurezze sull’uso che il governo cinese fa dei dati dei cittadini italiani.

Il Parlamento Europeo approvò il Digital Service Act (che non è ancora stato recepito in Italia), ossia un quadro giuridico moderno che punta alla tutela dei diritti fondamentali degli utenti in tema di privacy e a creare condizioni di equa concorrenza tra le imprese. Questo perché piattaforme e social network utilizzati a livello mondiale possono arrivare a controllare l’economia digitale e di conseguenza a limitare la scelta dei consumatori.

Con la caduta del governo Draghi si è verificato un rallentamento nell’attuazione del Digital Service Act, ma dal 1 gennaio 2024 sarà effettivo in automatico.

Nelle scorse settimane, il ministro per la Pubblica Amministrazione Paolo Zangrillo ha pensato di fare come gli altri paesi che hanno già attuato il provvedimento di blocco di Tik Tok dai dispositivi dei dipendenti pubblici e di portarlo in Italia, ma successivamente ha interrotto il lavoro.
Nei giorni scorsi, l’idea è stata riproposta con una mozione del PD in Senato. Si vuole infatti tornare a dibattere sull’argomento in Parlamento, data anche l’urgenza e necessità di tutela del diritto alla privacy e della sicurezza nazionale.

Filter Bubble e dark ads: la democrazia è a rischio?

Questo intenso dibattito porta inevitabilmente a indagare su quale sia l’effettivo ruolo dei social network nella società odierna e su quanto incidano sulla formazione e competizione di idee, opinioni e visioni del mondo e della politica.

Al giorno d’oggi, accedere e partecipare al mercato dell’informazione è estremamente facile, veloce e poco dispendioso. Di conseguenza il diritto di manifestare il proprio pensiero, enunciato all’art. 21 della nostra Costituzione, trova molto margine di applicazione.

Ogni individuo può divulgare le proprie idee e diventare un potenziale produttore di contenuto, attraverso flussi di comunicazione dal carattere aperto e globale. Ciò potrebbe portare a pensare che il confronto tra pensieri diversi venga permesso senza problemi nel contesto informatico, tuttavia ci si trova dinanzi ad un ostacolo.

Questa è la filter bubble, ossia la “bolla” nella quale i motori di ricerca e i social media  chiudono noi utenti. In particolare, i loro algoritmi selezionano i contenuti da proporci in modo differenziato in base ai nostri gusti, preferenze e pregiudizi e ci mostrano solo quelli, rafforzando le nostre idee.

L’effetto è quello di creare comunità chiuse nelle proprie opinioni nelle quali hanno tutti la stesse convinzioni che possono condividere tra loro, convincendosi che siano le uniche verità esistenti. In questo modo, ogni idea diversa viene data automaticamente per errata e il dibattito pubblico viene fortemente limitato.

Si può dunque dire che gli algoritmi creino uno psicogramma di ciascuno di noi, ossia un profilo psicologico personale nel quale sono racchiusi tutti i nostri desideri, idee e aspirazioni più profonde, sulla base del quale ci possono mandare contenuti strategici come le dark ads. Queste sono informazioni basate spesso su fake news volte ad influenzare la scelta dell’elettore, rafforzando le sue convinzioni e indirizzandolo verso una determinata preferenza politica.

Il nostro libero arbitrio è quindi ormai solo apparenza? La democrazia è realmente possibile in questo contesto? Con la mozione proposta sarà forse possibile dibattere su questi interrogativi e studiare meglio questi fenomeni.

< Torna indietro
Marketing & Social Media

L’importanza del Crisis Management in un mondo in difficoltà

Il periodo di crisi socioeconomica che stiamo attraversando dimostra un dato di fatto: le organizzazioni devono non solo saper gestire ogni fattore di instabilità, ma prevedere anche eventuali criticità future. Il rapporto con gli stakeholder si è evoluto negli anni: è ormai necessario venire incontro agli interessi di tutti i gruppi, non solo degli azionisti. Nella maggior parte dei casi, si può essere pronti per una potenziale crisi, se si ha un comparto di Risk Management abbastanza efficiente. Tuttavia, non è possibile stabilire quando e se si manifesterà davvero un evento di tale portata. L’impatto può essere più o meno marcato a seconda di vari fattori, connessi alla risposta dell’azienda: vanno considerate come possibili conseguenze danni d’immagine e contrazione dei profitti, oltre che eventuali ripercussioni legali. Il Crisis Management è, quindi, un ciclo continuo di attività legate alle pubbliche relazioni, volto a definire strategie, azioni e successivi miglioramenti.

Una crisi si può manifestare attraverso tre livelli di rischio: in genere, questi possono anche presentarsi in contemporanea. Il problema più comune è quello che affligge l’equilibrio finanziario, per poi passare alla reputazione dell’impresa. La minaccia più importante riguarda la sicurezza pubblica, dove è coinvolta l’incolumità di una o più persone. In ciascuna di queste situazioni è di vitale importanza la comunicazione, che deve essere coerente e costante prima, durante e dopo la crisi. È buona pratica agire con una risposta veloce, empatica, chiara e concreta. Se mancano questi fattori, il messaggio sarà fallace e darà spazio ad ulteriori speculazioni sulla vicenda, che non faranno altro che aggravare la reputazione del brand. Considerando poi l’effetto generato dal passaparola sui social, è meglio essere pronti ad ogni possibile evenienza.

 

Come non farsi trovare impreparati

Non si può affrontare una qualunque crisi senza una pianificazione adeguata. In primo luogo, è importante identificare le minacce più probabili che potrebbero riguardare ciascun gruppo di interesse. Bisogna stabilire poi i canali di comunicazione più adeguati e le risorse a disposizione, dai luoghi di lavoro ai sistemi informativi utilizzati. Altro aspetto da non sottovalutare è la scelta del team di crisi interno il quale, soprattutto nelle multinazionali, dovrebbe valorizzare differenti nazionalità e culture, per avvicinarsi a punti di vista diversi. In quest’ottica, risulta necessaria una gerarchia ben precisa, con ruoli e compiti prestabiliti, per poter agire in maniera uniforme e incisiva. Un gruppo strutturato presenta al suo interno alcune figure chiave, dal leader con funzione di coordinamento al portavoce, un comunicatore esperto che si espone in prima persona al pubblico. Questo gruppo intreccia diverse discipline e dipartimenti, dal management al personale di marketing, fino ai legali. Inoltre, l’azienda dovrebbe considerare la possibilità di coinvolgere anche professionisti esterni, che possano coordinare e formare il gruppo. Per quanto riguarda poi il lato giuridico, è meglio non concentrarsi troppo sulla paura di controversie: questa ricadrebbe sulla composizione del team e quindi anche sul suo operato. Oltre a ciò, un altro passo importante è rendere efficienti i flussi d’informazione, per fare in modo che le comunicazioni interne avvengano in pochi momenti e dal vivo, così da incoraggiare il lavoro di gruppo e accorciare i tempi. Diventa utile lavorare su un piano di riserva, nel caso in cui vengano meno alcune risorse strategiche. È anche necessario un controllo periodico delle informazioni riguardanti il brand, sia offline che online.

 

Affrontare la crisi, evitando gli errori più comuni

Nel periodo che intercorre la crisi, bisogna prestare ancora più attenzione alla comunicazione verso le parti prese in causa. Partendo dalle analisi fatte durante la pianificazione, è necessario definire i destinatari e i temi materiali a cui si sono dimostrati sensibili. Come già anticipato, è bene lavorare con cura sul contenuto, in modo tale che il messaggio sia comprensibile e colmi la mancanza di competenza degli stakeholder sul tema. Una dichiarazione d’apertura empatica e orientata all’azione permette di mostrare credibilità e autorevolezza ed evitare che si estenda la deriva d’immagine del brand. Da questo punto di vista, le scuse devono apparire sincere e devono prendersi la responsabilità dell’evento. È sempre meglio non fermarsi alle sole parole, ma dimostrare di aver assimilato l’errore con azioni volte in direzione opposta: iniziative di Corporate Social Responsibility hanno un impatto molto più profondo rispetto a semplici dichiarazioni superficiali. Inoltre, le imprese dovrebbero scegliere con cura i trend portati avanti nelle campagne pubblicitarie. Portare argomenti molto sensibili al pubblico (come la salute e i diritti civili) rischia di creare la percezione di svalutare il messaggio per fini promozionali. Perciò, è meglio allontanarsi da questo tipo di temi, o al massimo prestare una profonda attenzione ad essi ed alle reazioni che possono suscitare.

 

Il lavoro non è terminato: la valutazione post-crisi

Quando sta rientrando l’emergenza si ha un ritorno della gestione ordinaria delle attività. La mancanza di pressione di media ed opinione pubblica lascia all’impresa lo spazio per ragionare sul proprio operato e sugli aspetti da migliorare per il futuro. Si arriva così a valutare tempi di risposta, segnali di allerta e reazioni del pubblico. Attraverso una dichiarazione di chiusura, si può stabilire come è cambiata la realtà aziendale dopo questa situazione. Questo processo di analisi verrà poi assimilato nella fase di prevenzione strategica, per essere pronti per un nuovo intervento.

In generale, le crisi nascono principalmente da cause interne all’impresa, ossia dall’errore umano: basti pensare a molti casi di dichiarazioni del personale o di pubblicità che possono essere fraintese. Queste possono essere risolte solo se si dimostra di comprendere realmente il sentimento del pubblico e se ci si muove rapidamente per rimediare all’errore, per quanto possibile. Tuttavia, problematiche come la pandemia e il conflitto in Ucraina derivano da cause esterne: eventi di questo tipo producono un danno molto più marcato, dato che colpiscono un intero ecosistema di imprese e si ha minor margine di preparazione. In questo caso, è sempre più importante saper anticipare i cambiamenti, analizzando quei fattori che possono mettere in difficoltà l’assetto organizzativo. Gli avvenimenti degli ultimi due anni sono la prova lampante di come le crisi possano colpire nel profondo tutte le realtà, dalle multinazionali alle piccole e medie imprese.

< Torna indietro
Marketing & Social Media

Behavioral Economics: quando le scelte di pancia governano il nostro portafogli

Siamo abituati a descrivere l’uomo come un animale razionale ma riconosciamo anche che spesso molte delle sue azioni non possono essere definite tali. Questo vale persino a proposito della pulsione con cui molti individui affrontano le loro scelte consumistiche.

La “behavioral economics” è una branca dell’economia che si occupa di studiare i fattori sociali, psicologici ed emotivi che influenzano le decisioni umane in relazione al comportamento consumistico e finanziario.

Nonostante Adam Smith, padre dell’economia politica classica, ne avesse già accennato verso la fine del 1700, intere generazioni di economisti si sono rifiutati di affrontare il problema finchè la behavioral economics è balzata agli onori della cronaca grazie all’interesse suscitato dall’assegnazione di alcuni premi Nobel che l’hanno applicata a svariati campi: marketing, finanza, scienze politiche e sociali.

Di fatto, la behavioral economics non nega i capisaldi delle teorie fino ad ora postulate ma aggiunge ulteriore complessità alla loro interpretazione. Per trovare un parallelismo pensiamo alle leggi sulla gravità postulate da Newton: sono rimaste valide finché il loro campo di applicazione è rimasto confinato al mondo macroscopico ma quando si è giunti allo studio delle particelle elementari si sono rivelate non applicabili. La stessa cosa avviene nel campo delle teorie economiche classiche che si rivelano esatte in macroeconomia, quando si approfondiscono verso il particolare non lo risultano più.

Vediamo nello specifico di che cosa si tratta con alcuni esempi.

Per la legge della domanda e dell’offerta quando il prezzo di un articolo è molto basso gli individui tendono a comprarne in minore quantità e questo è un comportamento razionale dettato dal fatto che il prezzo viene giustificato con una bassa qualità. Un esperimento effettuato in California ha dimostrato che quando i clienti di un ristorante assaggiavano un vino a loro insaputa scadente ma venduto ad un prezzo molto alto lo ritenevano necessariamente di alto livello.

Rimanendo nell’ambito della comunicazione commerciale e del marketing, un alimento light con solo il 25% di grassi sarà più venduto di uno con il 75% di grassi in meno; un biglietto della lotteria che propone un vincitore su 1000 sarà più acquistato di uno che dichiara 999 perdenti a fronte di un vincitore solo; un abbonamento ad un fitness club che costa solo un euro al giorno sarà più allettante di uno che costa 365 euro all’anno. Un qualsiasi bene di consumo che costi qualunque cifra “ ,99 cent” ci darà l’impressione di farci risparmiare parecchio rispetto ad un altro che costi cifra tonda.

A questo punto si potrebbe pensare che la behavioral economics serva solo per abbindolare i consumatori ed invece non è così: la “Nudge theory” ovvero la teoria del pungolo, meglio conosciuta nella nostra lingua come “Teoria della spinta gentile”, utilizzando metodi di comunicazione e azioni virtuose, incoraggia i consumatori senza che loro se ne rendano conto ad effettuare scelte vantaggiose per le loro tasche e per la loro salute. Molti programmi, soprattutto negli USA, si sono rivolti infatti alla lotta contro il rischio di gravidanze precoci nella popolazione adolescente o a quella contro l’obesità.

Soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, il comportamento umano in relazione ai beni di consumo e alle strategie di risparmio è diventato alquanto irrazionale fino a culminare nella crisi economico finanziaria del 2008. In questo senso la behavioral economics ha molto da dirci aiutandoci nel comprendere come e perché prendiamo alcune decisioni molto importanti e con ripercussioni sul futuro dei nostri portafogli. Considerare le emozioni, anziché negarle, ci aiuta a comprendere come noi stessi ci comportiamo in maniera realistica e non semplicemente appellandoci a dei modelli che ci suggeriscano le scelte più razionali da fare.

< Torna indietro
Marketing & Social Media

Neuromarketing al WMF: strumenti per distinguersi nell’epoca del deficit d’attenzione

Al giorno d’oggi diventa sempre più difficile per le aziende catturare l’attenzione del proprio target di riferimento, dato che queste devono farsi notare in un lasso di tempo sempre più ristretto.

In questo contesto subentrano gli studi introdotti dal Neuromarketing, che aggiungono conferme alla strategia comunicativa grazie alle neuroscienze: l’obiettivo finale è prevedere e influenzare il processo d’acquisto dei consumatori. Questo tema è stato trattato il 16 giugno al Web Marketing Festival di Rimini da Giuliano Trenti, presidente di NeurExplore, un’agenzia specializzata nell’applicazione delle scienze comportamentali al marketing.

Il suo speech ha spaziato su aspetti strategici diversi: il primo è il contagio emotivo. Una buona comunicazione è in grado di trasferire emozioni al pubblico destinatario del messaggio, tramite coinvolgimento e persuasione. Secondo recenti studi, in specifiche situazioni d’acquisto può essere utile utilizzare quelle che Trenti descrive come “parolacce”, al fine di trasmettere fiducia e veridicità nella comunicazione. Tuttavia, è importante non andare oltre un limite di tre parole: si ha il rischio, infatti, di ottenere l’effetto opposto e allontanare il consumatore. Il fattore cruciale è dato dal contesto decisionale: diventa quindi fondamentale intercettare meccanismi attrattivi adatti al proprio target che vadano a stimolare il sistema delle ricompense attraverso il rilascio di dopamina. All’atto pratico, è stata analizzata la reazione scaturita dalle recensioni: l’esaltazione delle qualità dei propri prodotti, senza mettere in mostra commenti positivi di terze parti, rende il potenziale cliente meno propenso all’acquisto.

Il secondo elemento analizzato è stata la nostalgia, ossia il sentimento che unisce felicità e tristezza. È stato dimostrato che questa sensazione ha un marcato effetto positivo, soprattutto quando vengono rievocate esperienze comuni del passato: lo storytelling, accompagnato da un elevato rilascio di dopamina, genera una maggiore disponibilità ad acquistare. Una narrazione che fa leva sulla nostalgia produce risultati migliori rispetto ad una con mera finalità informativa, incentrata unicamente sulle qualità del prodotto.

Un altro argomento trattato è stato l’aspetto formale dei contenuti. Un caso particolare è dato dall’utilizzo di immagini di bambini o animali, che generano il cosiddetto “effetto tenerezza” in chi le guarda. Questo accorgimento ha molto successo nel coinvolgere le persone in iniziative umanitarie e sociali, ma è anche utile nel far tollerare maggiormente i disservizi e i malfunzionamenti. Inoltre, i video verticali risultano più fruibili al pubblico, soprattutto da mobile: è quindi importante adattare i formati delle ads per ottenere una maggiore conversione. Oltre a ciò, è stato constatato che per un e-commerce è fondamentale tenere a mente che la presentazione dinamica di un prodotto, con l’aggiunta della rotazione, influenza di gran lunga le scelte d’acquisto rispetto ad una visuale statica.

Dal punto di vista dei social, è stato poi analizzato il profilo degli influencer e delle metriche. Per quel che riguarda i follower, i micro-influencer vengono percepiti più affidabili rispetto a quelli con un seguito maggiore, dato che si avvicinano di più al loro pubblico e hanno una maggiore probabilità d’influenzare le sue scelte. Inoltre, nell’ottica della previsione di un acquisto la quantità di commenti rappresenta il segnale più importante da considerare: è necessario, perciò, porre l’attenzione sulla cura del lato testuale del contenuto, in modo tale da coinvolgere e stimolare l’interazione. Quest’ultimo tema è legato al punto successivo del discorso di Trenti: per creare nuove abitudini sostenibili e stimolare un gruppo a compiere una determinata azione, possono essere utilizzati alcuni meccanismi di grande efficacia. Tra questi, si hanno la riprova sociale e la peer pressure, entrambi riconducibili alla tendenza delle persone ad essere influenzate dal comportamento di altri soggetti simili a loro.

L’insieme dei fattori esaminati sono delle leve determinanti, soprattutto quando il consumatore non ha un’idea chiara di quale sia la decisione migliore da prendere: in questo contesto, la scelta del consumatore è pienamente influenzabile. Intervengono quindi tre bias cognitivi: l’effetto von Restorff, basato sull’associazione di un elemento insolito ad altri simili tra loro; l’avversione agli estremi in un range di scelte, che insieme all’effetto esca indirizza l’acquisto verso un’opzione specifica; il prezzo come parametro per definire l’aspettativa di piacere, a causa del quale un’offerta più costosa è ritenuta di qualità migliore. Conoscendo tutti questi accorgimenti, il Neuromarketing può fornire alle aziende degli strumenti aggiuntivi per potersi distinguere all’interno del proprio settore e guidare il target di riferimento nel percorso decisionale.

< Torna indietro
Marketing & Social Media

Le novità di giugno su Instagram

Il 7 giugno Adam Mosseri, Head of Instagram dal 2018, ha annunciato tramite il suo profilo Twitter due interessanti novità di Instagram che riguardano sia il feed che i Reel.

 

I Reel, che lo scorso anno avevano raggiunto una durata massima di 60 secondi, ora potranno durare fino a 90 secondi e sarà possibile utilizzare qualsiasi audio presente sul dispositivo del creator. Inoltre, sarà possibile in fase di pubblicazione aggiungere degli sticker interattivi, finora riservati alle storie. Come dichiarato da Mosseri, l’obiettivo è permettere ai creator di raccontarsi di più e interagire maggiormente con la loro community.

 

L’altra novità è la possibilità di fissare in alto al proprio profilo fino a 3 elementi, scegliendoli tra post e Reel già pubblicati, in modo che il creator possa personalizzare il più possibile il proprio profilo su Instagram.
Come dichiarato sul profilo ufficiale Creators, questa nuova funzione aiuterà a farsi conoscere meglio dai follower, mostrando loro i post preferiti.

 

Se siete dei creator, affinate la creatività e state pronti: con IG le novità sono all’ordine del giorno!

< Torna indietro
Marketing & Social Media

I “finfluencer”: un po’ broker e un po’ Tiktoker

Secondo un rapporto del CENSIS la pandemia, tra i suoi effetti positivi, ha portato a un boom nell’utilizzo di dispositivi elettronici e social network in tutte le fasce d’età. In generale ciò ha rappresentato una vera e propria salvezza dall’isolamento forzato e allo stesso tempo ha consentito a molte figure professionali di ritagliarsi un nuovo posto sul mercato o di riciclarsi come comunicatori nei più svariati settori.

È questo il caso dei finfluencer, cioè dei broker che sui social spacciano consigli finanziari incassando da 2.500 a 20.000 dollari a post.

Tuttavia spesso non si tratta di reali esperti di finanza. Ad esempio Jack Spencer, un aitante ex istruttore di fitness irlandese, con l’avvento della pandemia ha deciso di dare un taglio alla sua vita precedente ed ha iniziato a pubblicare video a tema finanziario su Instagram. Oppure Mrs Dow Jones, nome di battesimo Haley Sacks, da ospite del David Letterman Show in qualità di comica, ha poi deciso già nel 2017 di dedicarsi al business online creando assieme ad un team super qualificato una vera e propria macchina da guerra capace negli ultimi tempi di far concorrenza ai big della finanza e grazie alla quale firma contratti milionari con colossi come Fundrising.

Per fortuna ci sono on line anche veri e propri esperti di finanza che, stufi di profitti ritenuti non all’altezza del loro profilo, hanno deciso di provare a lanciarsi sul web ottenendo risultati strabilianti. Basti pensare che alcune piattaforme di investimenti ormai se li contendono. La guerra a colpi di post e Tiktok da trenta secondi è tra Austin Hankwitz che collabora con Betterment e Mrs Dow Jones che pubblica per Wealthfront. Entrambe queste piattaforme si propongono come ultima frontiera del roboadvisoring ovvero quella tecnologia che di fatto sostituisce la figura del consulente finanziario con uno strumento di investimento automatizzato basato su calcoli statistici. Appare evidente che però chi sta nella stanza dei bottoni ha comunque bisogno di una figura più o meno professionale per rendere credibili e appetibili gli investimenti proposti. Ed è proprio questo il punto. La chiave per il guadagno risiede proprio nella strategia comunicativa utilizzata dai finfluencer. Spesso si presentano come gente comune che è riuscita ad ottenere ricavi mostruosi dai propri investimenti, arrivando a potersi permettere un parco macchine di lusso ed un patrimonio immobiliare da capogiro. Peccato che spesso si tratti di automobili o ville noleggiate per poche ore, giusto il tempo per girare un video.

Ovviamente il fenomeno si sta diffondendo anche nel nostro paese, soprattutto in quel settore estremamente volatile rappresentato dalle criptovalute. Secondo un’indagine del Sole24ore, il pubblico dei finfluencer è in costante aumento e YouTube rappresenta la piattaforma web di pubblicazione e condivisione di contenuti più utilizzata.

Alcuni social, ad esempio Tiktok, hanno inserito una clausola che impone ai finfluencer farlocchi di non ammantarsi del titolo di consulenti finanziari o di annunciare esplicitamente se uno dei loro contenuti ha scopi meramente pubblicitari. I furbacchioni del web però hanno risposto dirigendo le loro mire su altri canali di comunicazione.

Del resto la regolamentazione delle figure finanziarie pone le sue basi legislative in un’epoca in cui nessuno avrebbe immaginato che potesse generarsi un fenomeno simile. Se vi state chiedendo se qualcuno si è già accorto che è necessario regolamentare l’attività di questi profili nel mare magnum dei social, la risposta è SÍ. Questa volta è l’Australia a fare da apripista. Con una comunicazione che risale a marzo di quest’anno l‘Australian Securities and Investments Commission, una sorta di organo governativo a tutela dei consumatori, ha stilato delle linee guida per proteggere gli investitori e i veri trader. Chi mette a rischio i risparmi dell’utenza social rischia, al momento, fino a 5 anni di carcere.

< Torna indietro
Marketing & Social Media

Arrivano le reaction su WhatsApp

Dal 5 maggio 2022 su WhatsApp è stata introdotta la possibilità di reagire a un messaggio con un’emoji: l’annuncio è stato fatto direttamente dal fondatore di Meta, Mark Zuckerberg, sulla sua pagina Facebook: “Reactions on WhatsApp start rolling out today 👍❤️😂😮😢🙏”.

Per inserirle basterà cliccare su un messaggio ricevuto e scegliere dal pop-up che comparirà l’emoticon che meglio esprime il nostro stato d’animo.

Disponibili fino a ora solo come test nella versione beta dell’applicazione dalla versione 2.22.8.3, nei prossimi giorni le sei reaction saranno disponibili per tutti e, come specificato da Zuckerberg in un commento, “arriveranno presto altre emozioni”. Will Cathart, Head of Whatsapp del gruppo Meta, aveva già anticipato il 14 aprile questa nuova funzione, specificando che dopo il primo lancio sarebbero state aggiunte emoji con diverse tonalità della pelle.

 

 

Sul blog aziendale viene chiarito lo scopo di questa nuova funzione: Le reazioni sono rapide e divertenti, riducono il sovraccarico nei gruppi e continueremo a migliorarle aggiungendo una gamma ancora più ampia di espressioni in futuro”.

Le novità però non si limitano alle reaction: dai primi giorni di maggio è anche possibile inviare file fino a 2 GB (il limite precedente era fissato a 100 MB): è consigliato utilizzare il Wi-Fi e durante il caricamento e scaricamento del file sarà visibile una stima del tempo di trasferimento. Inoltre,  è in corso di integrazione la possibilità di aggiungere fino a 512 persone a una chat di gruppo.

Non ci resta che aspettare che l’aggiornamento sia disponibile per il nostro dispositivo e scoprire tutte le prossime novità che WhatsApp ha in serbo per noi.

< Torna indietro
Marketing & Social Media

Instagram introduce gli abbonamenti a pagamento

Ad alcuni creator è stata data la possibilità di offrire un abbonamento mensile ai follower più affezionati, condividendo contenuti esclusivi a pagamento.

 

Se ne parlava da diverso tempo, e sembra che ora sia diventato realtà: Instagram introdurrà la possibilità di far pagare i contenuti dei creator ai follower.

A dirlo è Adam Mosseri, capo di Instagram dal 2018, il quale ha annunciato su Twitter che l’avvio della nuova funzionalità “Subscriptions” permetterà ai creatori di contenuti di monetizzare il loro lavoro e di avere un rapporto più stretto con i follower attraverso delle esperienze esclusive: potranno condividere dirette e storie a un pubblico selezionato, che sarà contraddistinto da un badge.

 

Per il momento, questa fase test è stata riservata a dieci creator statunitensi l’attore e influencer @alanchikinchow; l’astrologa @alizakelly; la coach spirituale @bunnymichael; il creator @donalleniii;  il creator @elliottnorris; il ginnasta @jackjerry, l’atleta olimpica @jordanchiles;  la ballerina, attrice e modella @kelseylynncook; l’XR (realtà estesa), il creator @lonnieiiv, la cestista @sedona._.

Ognuno potrà scegliere a quale prezzo offrire l’abbonamento in un range da $0.99 a $99.99 ($0.99, $1.99, $2.99, $4.99, $9.99, $19.99, $49.99 o $99.99): gli utenti potranno accedere a dirette e storie a loro riservate, riconoscibili grazie a una cornice viola, e i creatori di contenuti potranno interagire con loro in maniera diretta perché gli abbonati saranno contrassegnati da un badge viola accanto al loro nickname.

 

Mosseri ha affermato che “i creator fanno quello che fanno per lavoro, ed è importante che i loro guadagni siano prevedibili. Gli abbonamenti sono il modo migliore per averli”, al contrario di quanto avviene ora in cui i guadagni sono legati ai risultati dei singoli contenuti pubblicati, che per loro natura sono instabili. Secondo Tech Crunch, Instagram fino al 2023 non tratterrà alcuna percentuale su questi guadagni: ma sarà sempre così?

Nell’attesa, siamo curiosi di vedere se anche nel resto del mondo risponderà positivamente a questa nuova feature.

 

< Torna indietro
Marketing & Social Media

Instagram fa marcia indietro: nel 2022 potrebbe essere ripristinato il feed cronologico

Adam Mosseri, a capo di Instagram dal 2018, l’8 dicembre 2021 ha dichiarato al Congresso che nei prossimi mesi verranno apportate significative modifiche al feed degli utenti, in modo da migliorare la loro esperienza: si potranno scegliere dei profili “Preferiti” e la visualizzazione in ordine cronologico dei contenuti.

Com’era prima e com’è adesso: il cambiamento dell’algoritmo di Instagram

È dal 2016 che il feed di Instagram non è più in ordine cronologico, ma basato sull’engagement, favorendo così la visualizzazione di contenuti che più probabilmente attireranno la nostra attenzione. La tipologia di contenuti da proporre, l’algoritmo lo stabilisce in base alle reazioni degli utenti che ci hanno preceduto (quanti commenti, mi piace e salvataggi sono stati effettuati) e favorendo i profili con cui interagiamo maggiormente. Secondo alcuni studiosi questo ha favorito la viralità di contenuti polarizzanti, violenti e fake news.

Il dirigente è intervenuto a seguito dell’inchiesta pubblicata dal Wall Street Journal in cui la società Meta è stata accusata di negligenza verso la salute mentale degli adolescenti: in particolare, fra i documenti consegnati dall’ex dipendente Frances Haugen, una nota interna sosteneva che il feed engagement-based, servisse ad aumentare il tempo trascorso dagli utenti sull’applicazione.

Nel corso dell’audizione presso il Congresso, Mosseri ha rivelato sia la novità riguardo il feed, sia le azioni promosse da Meta per salvaguardare i più giovani, come strumenti di controllo parentale e l’essere “più rigorosi su ciò che consigliamo agli adolescenti nella ricerca, esplora, hashtag e account suggeriti”: un grande cambio di direzione, considerando che sul blog aziendale era stato pubblicato lo scorso giugno un articolo per cui, secondo Mosseri, il feed in ordine cronologico “rende impossibile per la maggior parte delle persone vedere tutto, figuriamoci quello che interessa loro davvero”.

Tuttavia, non sarà un vero e proprio ritorno al passato. Come dichiarato dall’account Twitter “Instagram Comms”, ovvero il profilo ufficiale per le pubbliche relazioni di Instagram, non ci sarà un cambiamento obbligatorio per tutti gli utenti, bensì sarà data la possibilità di scegliere dei profili “Preferiti” che avranno la priorità rispetto gli altri, visualizzati in ordine cronologico, in modo da dare il controllo alla singola persona su quella che è la sua esperienza sul social network.

Non ci resta che aspettare i primi mesi del 2022 per scoprire quali novità ci riserverà Instagram.

< Torna indietro
Marketing & Social Media

Tra gaming e NFT: su cosa si fonda il metaverso?

Durante i Digital Innovation Days 2021 di Milano, gli speech sul metaverso hanno avuto un ruolo di primo piano. In particolare, in questo articolo, parleremo di ciò che è emerso riguardo la relazione tra gaming e metaversi, con un inevitabile occhio di attenzione anche agli NFT.

Nelle primo dei panel in questione, Luca Della Dora e Francesco Marcucci, rispettivamente Innovation Director e Strategy Supervisor di We Are Social, hanno parlato della relazione tra gaming, social gaming e il concetto di metaverso partendo da due assunti. Secondo il primo, la barriera tra mondo virtuale e reale è ormai totalmente crollata, basti considerare quanto sia diventato comune non fare molta differenza tra il darsi appuntamento “in presenza” o in videochiamata. Ma, più in generale, la comunicazione che si è spostata sui social ha un impatto diretto sulla vita offline.

In secondo luogo, il gaming non è più una nicchia e, oggi, si possono contare circa tre miliardi di videogiocatori in tutto il mondo. Senza considerare che, più impressionante se si considera lo stereotipo del “gamer ragazzino adolescente”, il 95% delle donne tra i 16 e i 24 anni giocano a videogame e il 67% della demografica più adulta fa lo stesso. Questi numeri possono sembrare esagerati se ci si immagina solamente il gaming tramite console e PC, tuttavia non bisogna dimenticarsi che buona parte dei videogiocatori odierni fruisce i propri giochi tramite smartphone.

Il gaming è, poi, diventato intrattenimento live per milioni di spettatori tramite Twitch. Come noto, l’intrattenimento genera revenue e il gaming ha portato, nel 2020, guadagni pari a 180 miliardi di dollari. Una cifra enorme, superiore alla somma degli introiti generati dalle industrie cinematografica (100 miliardi) e sportiva (75 miliardi).

Il gaming non è, quindi, soltanto gaming ma è diventato una piattaforma di socializzazione. La maggior parte dei giochi online presenta, infatti, feature come la chat scritta e vocale che consentono ai giocatori di parlare e socializzare mentre giocano (ricordate quando abbiamo parlato di Fortnite?). Non dovrebbe, quindi, stupire l’interesse da parte dei brand nell’interazione con il mondo del gaming sia con iniziative promozionali che con la vendita di oggetti digitali brandizzati acquistabili dagli utenti.

Il gaming è, quindi, già un esempio di blended life ovverosia del concetto secondo cui non esistiamo solamente “in real life” ma anche in uno spazio digitale. Il che, ovviamente, non può che farci pensare a ciò che Meta e altri stanno costruendo con i metaversi.

 

Cambiando panel, Fernando Piccirilli di Kobe Partners ha parlato dell’importantissima relazione tra gaming e NFT che sta alla base dei metaversi già oggi esistenti.

Gli oggetti digitali da collezione, afferma Piccirilli riportando una citazione di Andrea Daniele Signorelli, si stanno trasformando in beni da far sfoggiare ai propri avatar e rappresentano una delle chiavi di business del futuro. Il concetto di avatar proviene direttamente dal gaming e viene, ora, riportato sul concetto di metavarso, inteso come ambiente digitale tridimensionale con cui interagire, appunto, attraverso avatar. Gli NFT assumono quindi un rilievo importantissimo essendo quegli strumenti che provano con certezza il possesso di un oggetto digitale. Più nello specifico, si tratta di certificati salvati su block-chain che attestano la proprietà di un’opera digitale unica. I non-fungible token hanno, ormai, una rilevanza tale che un’opera dell’artista Beeple è stata battuta all’asta per quasi 70 milioni di dollari e, in generale, il giro d’affari degli NFT ha raggiunto i 2.3 miliardi di dollari.

Il mondo degli NFT non è, tuttavia, solamente legato all’arte ma si è ormai espanso all’ambito del collezionismo, come successo con le schiacciate del NBA o dei Cryptopunk.

Ovviamente, ciò che più è interessante è il ruolo che hanno gli NFT nel contesto dei metaversi. Per farlo, dobbiamo fare un passo indietro e ricorda Second Life, un videogioco-social molto in voga nei primi anni 2000. Second Life dava la sensazione di non essere inutile nel momento in cui ci si prendeva una pausa dalla vita reale e poteva creare la sensazione che, quest’ultima, fosse decisamente meno interessante. Il gioco raggiunse il suo apice nel 2007 con 1.1 milioni di utenti attivi ed arrivò ad ospitare concerti degli U2 o dei Depeche Mode, futuristici e costosi progetti di aziende e comizi di politici. Introduceva persino una moneta online, il Linden Dollar, ottenibile tramite pagamento con soldi reali. Suona familiare? Second Life, poi, declinò a causa del boom dei social network tuttavia, quel concept di “vita alternativa”, sta tornado prepotentemente alla ribalta con la nascita dei metaversi.

< Torna indietro
Marketing & Social Media

Creare una startup ad alto impatto sociale: intervista a Nicolò Santin

Co-founder e CEO di Gamindo, la piattaforma per donare soldi giocando ai videogiochi, Forbes Under 30, LinkedIn influencer, TedX speaker e amante dei progetti ad alto impatto sociale, abbiamo deciso di intervistare Nicolò Santin, un riferimento nel panorama imprenditoriale italiano che ci ha raccontato la sua incredibile storia dalle mille avventure.

Ciao Nicolò, ci racconti un po’ com’è nata l’idea della tua startup Gamindo e la storia che c’è dietro?

Partendo dal fatto che io sono sempre stato molto appassionato di videogiochi, quando ho scoperto l’esistenza degli advergame in un esame di marketing all’università, sono rimasto molto incuriosito. Ricordo ancora che si faceva l’esempio di Redbull: “se prendi delle lattine, le disponi su un tavolo e fai la foto dall’alto, a seconda di come le hai disposte, creerai un circuito in cui potrai correre con la macchinina”, quando l’ho vista me ne sono innamorato e ho pensato che prima o poi ci avrei fatto qualcosa. In quel periodo, inoltre, è diventata famosa la canzone Gagnam Style e ho saputo che il cantante aveva ricevuto diversi milioni di revenue dopo aver totalizzato il miliardo di visualizzazioni su You Tube. Allora ho pensato bene di creare un video che totalizzasse tantissime visualizzazioni così da donare i soldi in beneficenza. L’idea era fantastica sulla carta, ma nella pratica molto meno, perché io stesso non mi sarei mai messo a guardare un video solo per l’idea di donare una minima percentuale dovuta alla mia visualizzazione, inoltre, per dirla tutta, non sapevo nemmeno il contenuto quale sarebbe stato. Sarebbe stato sicuramente meglio trovare qualcosa di molto più coinvolgente: ho sommato la scoperta degli advergame e il poter donare senza spendere, arrivando all’idea di “Ofree”, quella che poi è diventata Gamindo. La storia che c’è dietro, in milestones, è stata una lunghissima tesi universitaria proprio su questo progetto, la fortuna di conoscere Matteo, il mio socio, senza il quale ora non saremmo qui, perché da solo non avrei realizzato nulla. Solo successivamente è arrivato il primo prototipo della piattaforma sviluppato interamente da noi due, la partecipazione alle competizioni per startup che ci hanno permesso di entrare in questo mondo di cui non sapevamo nulla: non avevamo idea di cosa volesse dire, ad esempio, fare un pitch o un foundraising. Poi ci si è presentata l’opportunità di andare in Silicon Valley e siamo stati tre mesi in Plug and Play, dietro a questo viaggio c’è una storia da film di due ragazzi senza soldi che pur di riuscire a stare tre mesi nella carissima San Francisco, avrebbero dormito pure sotto i ponti. Alla fine, non è successo, perché il responsabile dell’acceleratore, conoscendo bene il problema dei senzatetto nella metropoli californiana, ci ha fatto giurare di trovare un tetto e di riuscire a sopravvivere almeno il tempo del visto. Abbiamo aperto una raccolta fondi, dove regalavamo dei video personalizzati ai donatori, perché non ci bastavano i risparmi, ma alla fine ce l’abbiamo fatta e abbiamo vinto un premio da 25 mila dollari che ci ha permesso di vivere lì per un po’. Ovviamente siamo dovuti entrare nell’ottica di risparmiare su tutto, ad esempio, per partecipare ad un evento pazzesco quale la Game Developer Conference, ci siamo recati dal console italiano a chiedergli se ci avrebbe fatto entrare, altrimenti l’avremmo fatto noi a tutti i costi facendoci arrestare e lasciandolo con due ragazzi sulla coscienza. Alla fine, Lorenzo Ottona, ormai ex console, ci ha trovato dei biglietti scontati che ci hanno permesso di entrare e noi lo ringraziamo ancora oggi. Quel periodo ci ha lasciato il mindset di non “accomodarci” troppo e anche adesso che abbiamo i fondi, ci obblighiamo a viaggiare sempre nella classe economy di Italo e rimanere con i piedi per terra.

Successivamente, quando siamo tornati, abbiamo costituito il team e abbiamo iniziato a vendere il progetto alle varie aziende, attualmente sta andando molto bene perché sono entrate grandi realtà come Google, Coca Cola, Barilla e Lavazza che erano un sogno fino a poco tempo fa.

Abbiamo appena chiuso il round da mezzo milione di euro che ci serve per assumere persone e proprio l’altro ieri abbiamo assunto 4 sviluppatori di videogiochi, ovviamente abbiamo in mente grandi cose per il futuro.

A livello di scelta, oltre ai giochi che devono essere ad impatto sociale, come scegliete le realtà con cui collaborare e a quanti giochi siete arrivati?

In questo momento siamo in una fase di riflessione, nel senso che stiamo notando che a moltissime aziende interessa il videogioco, ma non a tutte interessa la parte di charity. Questo non perché siano aziende cattive, ma perché essendo molto strutturate, sostengono che il reparto marketing sia una cosa e quello di responsabilità sociale, un’altra. Per loro diventa molto complesso mettere su una campagna che integri le due cose e quindi preferiscono donare mezzo milione a Save the Children piuttosto che creare un gioco dove ne doni cinquemila, e li posso tranquillamente capire.

Il ragionamento che siamo arrivati a fare in questo primo anno e mezzo è stato: “per crescere velocemente, siamo disposti a fare dei giochi senza charity?” Dopo le dovute riflessioni, la risposta è stata “sì”, perché, ad esempio, fare il gioco di Chiara Ferragni senza la charity ci ha permesso di parlare con alcune delle più grandi aziende al mondo di fashion e beauty che, senza la case history di Chiara, non saremmo mai riusciti a raggiungere. Ad oggi siamo arrivati a più di 40/50 giochi e abbiamo avuto donazioni importanti di anche 20/30 mila euro.

Qual è stata la parte più difficile di mettere in piedi un progetto così grande e come l’avete affrontata?

La parte più difficile è stata, ed è tutt’ora, quella di creare il team di persone. All’inizio la difficoltà principale è il non avere soldi per retribuire i tuoi collaboratori; quindi, c’è la necessità di trovare qualcuno estremamente motivato da voler dedicare il weekend al progetto o addirittura da dimettersi dal suo lavoro per dedicarsi full time, consapevole del fatto che per un certo periodo di tempo non percepirà uno stipendio. Per farcela in questa fase devi puntare sul lato emotivo della persona perché a livello razionale è una stupidata. Allo stesso tempo, ora che abbiamo i soldi e ce la stiamo facendo, è difficile trovare persone che non solo siano disposte a lavorare, che ce ne sono un sacco, bensì trovare coloro che abbiano i tuoi valori, la tua visione e l’interesse a realizzare quello che vuoi fare te. È davvero complicato, considerando che si parla tanto di startup, tecnologia e videogiochi, ma quello che ci sta sotto, in fin dei conti, sono le persone, è anche più difficile di portare a bordo grandi clienti, che alla fine, se stai ascoltare e capire, decidono di contare su di te.

Parlando di progetti futuri di Gamindo, abbiamo visto il metaverso di Zuckerberg, in cui c’è ampio spazio anche per i videogiochi, avete intenzione di svilupparne anche dei vostri sempre per beneficienza?

Partendo dal fatto che io sono molto della filosofia: “mai dire mai”, è una cosa che stiamo valutando, sia il metaverso che tutto il mondo web 3. Per dare un contesto, nel web 1 potevi limitarti a leggere informazioni, nel web 2 è subentrata la possibilità di commentare, nel web 3 si è aggiunta la possibilità di possedere digitalmente aprendo il mondo dei collettibles, NFT, blockchain eccetera. Quest’ultimo è un mondo che sta davvero esplodendo, che sarebbe sbagliato non studiare e quindi stiamo cercando di avere le competenze interne per gestirlo. Per quanto riguarda il metaverso in particolare, lo sto studiando poiché è una cosa che mi interessa moltissimo e personalmente stimo molto Facebook che pur essendo una realtà enorme e consolidata, ha preso una posizione decidendo persino di cambiare nome: questo per me vuol dire innovare, non quando sei disperato, ma farlo in anticipo. Diciamo che, di tutto questo, mi spaventa un po’ il ready player one, il digitale ci dà tantissime opportunità ma credo che sia estremamente difficile replicare l’emozioni tramite dei pixel, l’emozione che hai nel toccare una persona è unico.

Quali sono le competenze trasversali che hai acquisito e che ti sono state più utili in startup?

L’elemento principale in startup è il team, credo che le soft skills più importanti che ho acquisito siano appunto il riuscire a lavorare e relazionarsi con il team. Un’altra fondamentale è quella della negoziazione, o meglio, della buona comunicazione in generale: riuscire ad ascoltare, perché molto spesso tendiamo a partire “a razzo” dicendo mille cose, ma prima dovremmo stare zitti e ascoltare attentamente per capire chi c’è dall’altra parte e come ragiona. È un aspetto che viene frequentemente sottovalutato, ma è utile sia che tu stia parlando con un amico, sia che stai cercando di vendere o raccogliere soldi da investitori.

Spostandoci sul lato divulgativo, che è una parte importante della tua vita, tu sei uno dei pochi italiani con il profilo verificato su LinkedIn, ci racconti come hai iniziato e come portare davvero valore alle persone online?

Non so bene dirti con precisione quando ho iniziato su LinkedIn, ho un vago ricordo di una volta che mi trovavo in treno diretto a Milano e stavo leggendo la storia del sito che aveva venduto un milione di pixel per un dollaro ciascuno e la stessa mente creativa che lo aveva ideato, aveva in realtà inventato altri esperimenti online di questo tipo. Ad esempio, un gioco che davanti ad un timer sul PC, ti costringeva a non muovere il mouse per due interi minuti. Io ci ho provato e come la maggior parte delle persone ho fallito, a dimostrazione del fatto che al giorno d’oggi non riusciamo a stare fermi davanti al computer senza fare nulla. L’ideatore, a partire da questo concetto, ha creato una startup chiamata “Calm” per la meditazione e sta facendo numeri da paura. All’epoca ho pensato che la storia fosse davvero curiosa e che avrei voluto trovarla in giro, quindi ho deciso di scriverci un post. Poco dopo mi sono recato ad un web summit e ho ascoltato la storia assurda di Shazam, partita da una serie di audio in diretta e anche questo l’ho raccontato in un altro post, proseguendo per un pò. Poi, secondo me, l’evento che mi ha dato più tempo e voglia è stata la pandemia, da febbraio 2020 mi sono trovato in casa a non dover più fare ore di auto o treno per spostarmi e in generale a risparmiare tanto tempo su certe attività; quindi, alla sera mi dilettavo a leggere delle novità e poi a scrivere regolarmente i contenuti. A livello operativo, mi segno su Trello o su Word ogni volta che leggo qualcosa che desta la mia curiosità e poi alla sera mi metto lì e decido di cosa ho voglia e tempo di parlare. Quando scrivo cerco di inserire un mix di cose: storie di persone, ma anche esperienze mie personali, sia che vanno bene sia che vanno meno bene. Voglio essere sincero, è una cosa molto spontanea che faccio perché mi fa stare bene e mi fa scoprire ogni giorno cose nuove, lo faccio per me e per Gamindo, non per i like o i follow.

Arrivando al tema scuola: tu hai appena partecipato ai Digital Innovation Days come speaker riguardo all’argomento educazione e tecnologia, hai parlato di come i videogiochi possono anche educare, secondo te quale può essere un modo per integrare maggiormente i videogiochi a scuola?

Questa è una bella domanda, io sono convinto che un ricambio generazionale dei professori aiuterà molto, ma mettendomi anche nei panni del professore di 65 anni che ha difficoltà a comprendere le potenzialità, com’è normale che sia dato il tipo di generazione, secondo me la cosa migliore è calarla maggiormente nel pratico piuttosto che limitarsi alle sole spiegazioni teoriche. Intendo che, cambia molto se si mostrano le case history raccontando come lo stanno applicando in scuole dall’altra parte del mondo, piuttosto che dire: “si è scoperto che la capacità di memorizzazione in un gioco è 10 volte superiore dell’apprendimento canonico”, che è bello sapere ma non ti lascia nulla. Se io invece ti mostro degli esempi di come i ragazzi imparano una lingua tramite Duolingo che è completamente gamificata, capisci che c’è del margine di crescita. La mia visione non è assolutamente quella avere gli studenti che vanno a scuola e giocano ai videogiochi tutto il giorno, ma una giusta via di mezzo tra il digitale e il cartaceo: a me, ad esempio, sorprende il fatto che a scuola non si usi ancora il computer, ma si scriva sempre e solo sul quaderno.

Sempre riguardo al tema di educazione scolastica, tra tutte le altre cose stai portando avanti anche un progetto di supporto e divulgazione con “Consigli di classe” su YouTube, ci racconti cos’è e qual è il suo scopo?

Consigli di classe è un side project interessante, ma che richiede molto tempo e che a livello di priorità sto mettendo in secondo piano dopo Gamindo e LinkedIn, ovviamente per questioni di tempo. Ho deciso di crearlo perché il me diciottenne avrebbe tanto voluto un posto che non mi dà una risposta, bensì mi fa nascere delle domande, un luogo dove posso leggere non solo di teoria ma anche di pratica, di casi concreti. Ad esempio: “questa persona che adesso studia medicina, come è arrivata a sceglierla e cosa ha fatto prima?” Quindi sono partito da persone a me vicine e ho chiesto loro di raccontare la loro esperienza in video di massimo 5 o 10 minuti, mettendomi nei panni dei ragazzi indecisi che si trovano a dover scegliere un percorso importante. Lo sto facendo a zero scopo di lucro, per le persone, sperando che anche solo un ragazzo o una ragazza là fuori possa ascoltare una storia e trovare la propria strada. La cosa bella di YouTube è che ha una coda lunga e il contenuto rimane anche per anni; quindi, lo faccio con molta calma sperando possa crescere.

< Torna indietro
Marketing & Social Media

Pillole di Brand Journalism: Intervista a Paolo Sangalli

Durante il Web Marketing Festival, abbiamo avuto modo di scoprire una tecnica di content marketing che unisce due mondi all’apparenza lontani: giornalismo e marketing.

 

Grazie a Paolo Sangalli abbiamo la possibilità di approfondire questo argomento, e scoprire anche qualche curiosità.

 

Perché il Brand Journalism può essere confuso con il marketing? Più precisamente, che differenze ci sono tra BJ e content marketing?

 

“Il Brand Journalism è una tecnica di content marketing e per capire la relazione tra i due concetti è necessario partire dalle basi; il content marketing consiste nella produzione e promozione dei contenuti del brand.

 

Tra le varie tecniche di Content Marketing c’è il Brand Journalism.

 

Usiamo le parole del CMO di McDonald’s, Larry Light, che nel 2004 definì così questa tecnica di marketing come “la cronaca degli eventi che accadono nel mondo di un brand attraverso i giorni e gli anni. Così creiamo per il brand un reale valore percepito dal cliente.”

 

Dobbiamo trasformare le storie del brand in notizie e costruire una storyline articolata nel tempo, questa è la chiave per attivare una relazione con i pubblici di riferimento.

 

In questa definizione le cose importanti sono:

  • La cronaca degli eventi ossia l’intenzione di raccontare sotto forma di notizia gli eventi più rilevanti che accadono nell’universo del brand.
  • Attraverso i giorni e gli anni perché il Brand Journalism è un processo lungo ed articolato nel tempo, non è un’attività di advertising tattica da attivare spot in concomitanza di lancio prodotto o un’attività di marketing.

 

Perché e come il BJ creerebbe valore all’impresa?

 

Raccontare è una cosa potente, sensazioni personali e studidimostrano come il cervello e il cuore vengano attivati ecoinvolti da un racconto interessante, appassionante, dinamico”.

 

Le aziende hanno l’opportunità di raggiungere mente e cuore dei loro pubblici attraverso il brand journalism. Questa tecnica infatti ci permette di creare valore attraverso 3 pilastri fondamentali; qualità purpose e relazione.

 

Qualità dei contenuti: rappresenta la base per costruire il  trust verso il mio pubblico di riferimento.Contenuti di qualità rafforzano la relazione con l’utente.

 

Per massimizzare la qualità devo partire sempre dall’analisi dei dati, utilizzare le tecniche giornalistiche, basare tutto sui fatti, sfruttando tutte le opportunità dei formati multimediali per consentire un’esperienza coinvolgente a 360° a seconda di ciò che vogliamo raccontare.

 

Purpose: I brand non possono più solo comunicare la loro mission e i loro prodotti, devono abbracciare, rappresentare, mettere a terra con le loro azioni e comunicare i valori in cui credono. In questo modo creiamo valore per i pubblici di riferimento.

 

Creo fiducia e relazione con il pubblico se ho uno scopo chiaro come azienda, se rappresento determinati valori, che sono gli stessi in cui il target si rispecchia Il brand journalism entra in gioco per trasferire questi valori e queste attività ai consumatori.

 

Facciamo un esempio:

 

Pensiamo a grandi love brands, Red Bull; chi ama lo sport, l’outdoor, chiunque ami le attività adrenaliniche si sentelegato a questo brand che approccia con i suoi valori ogni attività che fa, che sia di brand, di comunicazione o finanziaria.

 

Questa è la mentalità da seguire.

 

La purpose è una leva anche per le realtà più piccole, agendo e comunicando i valori ed obiettivi possono diventare love brand per il loro pubblico, che sia di massa o di nicchia.

 

Basti pensare a The Furrow, magazine dedicato all’agricoltura, creato dall’azienda John Deere. Questo è il primo esempio di brand journalism, esiste ancora oggi è tradotto in 14 lingue e letto da 2 mio di lettori circa. Il focus editoriale non è sulle macchine agricole; si raccontano storie di uomini, lavoro, innovazione sul mondo dell’agricoltura. Anche se si vendono macchine agricole si può diventare un love brand, ingaggiando costantemente il tuo pubblico di riferimento.

 

Relazione:Diamo la possibilità all’utente di avere un rapporto continuativo con il brand, un rapporto two-way simmetric dove entrambi si ascoltano e interagiscono.

 

Come farlo? Oggi ildigital e i social network aiutano molto, è fondamentale intercettare tutti i feedback degli utenti edutilizzarli per ottimizzare la storyline.

 

Gli utenti sempre di più vogliono interagire con le marche, il brand journalism consente di creare un canale esperienziale che accompagna l’utente a scoprirne l’intero universo.

 

Tutte le organizzazioni possono utilizzare questa tecnica oppure è destinata ad una tipologia specifica di attori (PA, ONG, B2B, B2C)?

 

Il brand journalism è adatto a qualsiasi settore, il focus va posto sul perché usiamo questa tecnica di content marketing.

 

Se l’obiettivo è quello di fare una conversione immediata, il brand journalism non è la tecnica ideale. Se invece vogliamo costruire occasioni di approfondimento, ascolto e quindi relazione è questa la tecnica che fa al caso nostro

Facciamo l’esempio per la Pubblica Amministrazione, gestiamo la comunicazione di un bellissimo borgo italiano.

 

Per le comunicazioni più istituzionali il brand journalism sarebbe utile ma richiederebbe molto budget, lasciamo questo aspetto declinato ad una comunicazione più istituzionale. Spostiamo il focus sulla dimensione culturale, naturalistica ed enogastronomica del comune.

 

Con un occhio attendo al budget a disposizione,si potrebbero creare podcast dedicati alle bellezze paesaggistiche del luogo, oppure un video in graphicmotionper raccontare le bellezze artistiche presenti nel borgo.

 

Il brand journalism non è legato a vendere nell’immediato prodotti o servizi, lavora nella parte alta del funnel. È utilizzabile in tutti i settori e su tutte le dimensioni aziendali.

 

 

Ci sono delle linee guida per svolgere questa attività in modo etico? Qual è il confine tra BJ e pubblicità occulta?

 

“L’assunto fondamentale è, che come un qualsiasi tipo di advertising, anche i contenuti dibrand journalism devono sempre essere segnalati.

 

Inseriamo la label “contenuto sponsorizzato” perché siamo fair, non vogliamo assolutamente ingannare il consumatore o in questo caso il lettore.

 

Se c’è l’intenzione di ingannare l’utente, vengono a meno i tre pilastri di cui parlavamo in precedenza.

 

Non ci servono questo tipo di pratiche, se parliamo di qualcosa che interessa ai nostri pubblici di riferimento, reagiranno positivamente perché interessati ed il contenuto riceverà comunque ingaggio anche se riporta “contenuto sponsorizzato”.

 

Gli utenti sono sempre interessati a contenuti di qualità, aderenti ai loro interessi e valori sia che arrivino da un editore o da un brand.

 

Questa risposta spinge a riflettere sulle varie polemiche nate attorno al mondo dell’influencer marketing.

 

Questa è la differenza tra un advertising di facciata basato sull’immagine ed un advertising di contenuto basato sull’approfondimento.

 

Da una parte abbiamo una comunicazione visivatotalmente basata sull’associazione di un prodotto o di un servizio ad uno stereotipo, dall’altra c’è la fatica, studio, analisi dei dati per la costruzione di contenuti multimediali di qualità .”

 

Quanto è importante fare brand journalism in un azienda?

 

“Già da qualche anno le aziende vogliono diventare delle media company; c’è la volontà da parte dei brand di produrre contenuti originali.

 

Non bastaperò costruire un hub di produzione di contenuti, bisogna creare una strategia di comunicazione e di marketing che non solo produca contenuti, ma che sia anche in grado di portare fuori quello in cui l’azienda crede; ciò che fa e ciò che è in grado di offrire al proprio pubblico.

 

Per raggiungere l’obiettivo è necessario costruire una strategia di brand journalism che risponda in primis, alla purpose e alla mission dell’azienda, alla strategia di comunicazione e marketing e agli obiettivi di business dell’azienda. Non ci può essere distacco tra questi elementi.

 

Rispondendo alla tua domanda: se in azienda l’obiettivo è migliorare il posizionamento, la reputazione, l’inclusione e il rapporto col proprio pubblico allora il brand journalism è una leva fondamentale.