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Ambiente, società e tecnologia

Un’introduzione al mondo delle biotecnologie industriali: intervista a Stefano Bertacchi

“La divulgazione nel campo delle biotecnologie sta acquisendo una risonanza sempre maggiore, soprattutto per quanto riguarda le sue applicazioni nell’ambito medico. Oltre a queste c’è però un mondo vasto e diversificato, forse meno conosciuto, ma altrettanto ricco di risvolti interessanti e coinvolgenti. Una parte di esso è rappresentata dalle biotecnologie industriali: abbiamo chiesto a Stefano Bertacchi, biotecnologo industriale, Dottore di ricerca presso il dipartimento di Biotecnologie e Bioscienze dell’Università di Milano-Bicocca e divulgatore scientifico, di rispondere ad alcune domande e curiosità su questa branca scientifica.”

 

 

Per iniziare, che cosa sono e di cosa si occupano le biotecnologie e, nello specifico, le biotecnologie industriali?

 

“Le biotecnologie si occupano dello sviluppo di processi basati sull’impiego di esseri viventi o parti di essi, come gli enzimi. Nello specifico, le biotecnologie industriali (o bianche) hanno lo scopo di produrre molecole di interesse merceologico, dai biocarburanti alle bioplastiche, passando per farmaci e additivi alimentari.”

 

 

Le biotecnologie tradizionali vengono sfruttate dall’essere umano da moltissimo tempo: le biotecnologie industriali, invece, sono un campo scientifico di recente sviluppo?

 

“Spesso le persone restano sorprese dal sapere che le biotecnologie nascono molto tempo fa, con lo sviluppo dei processi per fare la birra, il pane e lo yogurt, per fare alcuni esempi accumunati dall’uso di microrganismi. Potremmo considerare questi esempi parte delle biotecnologie industriali, ma se ci limitiamo al coinvolgimento della microbiologia, quest’ultima è una scienza molto nuova rispetto alla zoologia e alla botanica. A questo dobbiamo sommare l’accumulo di conoscenze in altri settori scientifici, biologia e chimica su tutti, che ci hanno permesso di diventare dei biotecnologi più consapevoli di quello che accade.”

 

 

Le biotecnologie riguardano la nostra vita quotidiana? Quanto ne siamo effettivamente consapevoli?

 

“Assolutamente sì: il cibo è uno degli esempi principali, ma anche molti farmaci, come l’insulina, o i vaccini ricombinanti, a base virale o meno, sono frutto delle biotecnologie. La percezione da parte del grande pubblico è ancora parziale, per questo motivo affianco la mia attività di ricerca scientifica a quella di divulgazione, in modo da far capire che anche i detersivi che utilizziamo hanno a che fare con le biotecnologie.”

 

 

Quanto è conosciuto questo ambito e quanto attira interesse, soprattutto da parte di chi non si occupa di scienza?

 

“Sicuramente c’è interesse in questo ambito, soprattutto quando sentiamo parlare di OGM, staminali, terapia genetica eccetera. La pandemia ha anche reso più “famosi” alcuni aspetti prima poco noti, come l’uso di tecniche molecolari come la PCR e lo sviluppo di vaccini ricombinanti a base di virus OGM.”

 

 

Quali sono, al giorno d’oggi, gli ambiti più innovativi e interessanti della ricerca e quale potrebbe essere il loro futuro? A quali sfide cercano di rispondere?

 

“Aspetti molto innovativi riguardano, dal punto di vista tecnico, l’implementazione della biologia sintetica e dell’editing genetico, coinvolgendo non solo microrganismi. Lo sviluppo di bioprocessi basati su biomasse rinnovabili come alternativa al petrolio potrebbe rispondere alle crescenti pressioni per una maggiore sostenibilità.

 

L’emergenza climatica e l’inquinamento sono temi centrali. Come dicevo in precedenza c’è la spinta per lo sviluppo di processi innovativi basati su materie prime di scarto, o che possano sfruttare la CO2 in atmosfera. Allo stesso tempo possiamo anche sviluppare cellule capaci di degradare sostanze inquinanti, come la plastica e la gomma.”

 

 

L’Italia valorizza abbastanza la ricerca in questo ambito, oppure c’è un clima di diffidenza?

 

“Alla luce delle nuove politiche, si spera, sempre più green da parte dell’Italia e dell’Unione Europea, non possiamo che valorizzare la ricerca in questo settore. La diffidenza c’è sempre in relazione alla ricerca, che spesso non viene compresa come qualcosa che necessita tempo per mostrare i propri frutti. In aggiunta, le biotecnologie non godono di una grande fama in Italia a causa del forte pregiudizio nei confronti degli OGM, che tuttavia si sta pian piano assottigliando di fronte a nuove metodiche come l’editing genetico, che dimostrano come di fatto è nella natura umana manipolare il DNA delle piante e animali intorno a noi.”

 

Dalle parole di Stefano Bertacchi emergono le potenzialità che ha la ricerca scientifica in questo campo, così come la necessità che la divulgazione e il dibattito informato su di esso siano sempre più diffusi.

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Ambiente, società e tecnologia

L’agricoltura diventerà verticale? Limiti e vantaggi del vertical farming

Secondo le statistiche riportate da Our World in Data, ad oggi circa il 57% della popolazione mondiale vive in aree urbane.  Questo dato è destinato a crescere: nel 2050 infatti il 68% degli abitanti del pianeta Terra vivrà nelle città, seppur con notevoli distinzioni tra paesi diversi. Senza contare che, entro lo stesso anno, saremo oltre 9 miliardi: l’attuale sistema di coltivazione industriale dovrà diventare al contempo più efficiente nel rispondere a esigenze crescenti e più sostenibile. E se una delle strade possibili per l’agricoltura fosse conquistare la terza dimensione? Non si parla di fantascienza ma di vertical farming, ovvero coltivazioni basate su “serre verticali”. A Cavenago, in provincia di Milano, è in corso la realizzazione di un progetto di PlanetFarms per la costruzione di uno stabilimento che dovrebbe ospitare serra di oltre 9000 metri quadrati. Questo progetto, come molti altri, si basa su un modello tecnologico e produttivo in cui gli ortaggi vengono coltivati non sul piano di un singolo campo, ma su molteplici livelli: un concetto molto ampio che presenta però alcuni punti critici.

Che cosa sono le serre verticali?

Sebbene il modello possa essere declinato e adattato in molti modi, notiamo alcuni comuni denominatori che permettono di distinguerlo: ritroviamo infatti quasi sempre, secondo la stessa definizione data da Vertical Farm Italia, “un ambiente chiuso, completamente controllato, indipendente da quello esterno per tutti i parametri ambientali (come umidità, luce, ossigenazione e temperatura)”, a cui si aggiunge la necessità che l’ambiente scelto sia abbastanza grande da poter ospitare una produzione su larga scala.

Tra le tecniche più diffuse ci sono l’idroponica e l’aeroponica: entrambe hanno come obiettivi principali l’utilizzo e la distribuzione intelligente delle sostanze nutritive destinate alle piante. Se nell’idroponica le piante affondano le proprie radici non più nel terreno, ma direttamente in acqua, nell’aeroponica vengono lasciate a contatto con l’aria, sospese e periodicamente spruzzate con una soluzione di acqua e nutrienti. Questi obiettivi sono importanti alla luce delle previsioni sulla diminuzione della terra coltivabile pro capite a livello globale: secondo FAO, nel 2050 sarà ridotta a un terzo rispetto al 1970.

I vantaggi dell’agricoltura in verticale

Secondo Vertical Farm Italia, le serre verticali raggiungono un risparmio d’acqua del 90% e, secondo i dati riportati da eitFood, permetterebbero di coltivare, grazie ai piani posizionati uno sopra l’altro lungo scaffali, torri o pareti, molte più piante rispetto all’agricoltura in campo aperto; nel caso della lattuga ci sarebbe una resa per metro cubo di circa 20 volte superiore. In un mondo che si muove verso una più pervasiva urbanizzazione, coltivare su più livelli in edifici, grattacieli o capannoni all’interno delle stesse città potrebbe essere una risorsa per accorciare la distanza che separa il luogo in cui viene effettivamente coltivato un prodotto e i consumatori finali che vivranno nelle aree urbane: il risultato sperato è una filiera che si avvicini all’obiettivo “chilometro 0”.

Un modello perfetto? Assolutamente no: i difetti del vertical farming

Non dobbiamo però farci trarre in inganno dal desiderio di pensare che un possibile strategia per fronteggiare la crisi ambientale sia la soluzione definitiva. In campo agricolo, questo è un modello imperfetto sotto punti di vista molto rilevanti. È infatti costoso per i produttori (e di conseguenza per i consumatori); può funzionare a livello economico per una varietà limitata di specie vegetali, come piccoli ortaggi a foglia verde, erbe aromatiche e bacche da frutto, ma attualmente non per cereali e legumi, alimenti fondamentali nella nostra dieta. Soprattutto, richiede molta energia.

Serre costruite su più livelli sovrapposti infatti raramente possono dipendere dalla luce solare. La tecnologia più diffusa per garantire l’illuminazione costante si basa sui LED, che per quanto siano stati migliorati negli ultimi anni, non possono far sì che la maggior parte dell’energia luminosa da essi erogata venga utilizzata efficacemente dalle piante per la fotosintesi. Questo svantaggio, sommato alla necessità di rendere automatizzati molti dei processi e di mantenere costanti i parametri vitali per le piante in modo artificiale, fa sì che mediamente il costo energetico per un chilogrammo di prodotto superi di 30-176 chilowattora quello per la stessa quantità coltivata in una serra tradizionale. Il problema energetico diventa ancora più grande se le fonti da cui la serra dipende sono fossili e quindi non rinnovabili.

Le serre verticali nel mondo

Sebbene il termine “vertical farming” sia stato coniato nel 1915 dal geologo Gilbert Ellis Bailey, bisogna tornare nel 2012 a Singapore per trovare la prima vera e propria serra verticale già competitiva sul mercato: SkyGreens, che ha cercato di risolvere il problema dell’illuminazione attraverso un sistema di rotazione dei suoi 38 piani che funziona grazie all’energia idraulica: ogni pianta può ricevere la luce solare, anche se non in modo costante. Un’altra azienda, AeroFarms, tra le più grandi attualmente, è stata lanciata nel 2004. Incentrata sulla ricerca nel campo dell’aeroponica, ad oggi possiede serre nel New Jersey, ad Abu Dhabi e a Danville, in Virginia.

Se da una parte le serre verticali sembrano un mercato in crescita e possono rispondere ad alcuni problemi ambientali, come lo spreco di acqua e di suolo, dall’altra ne creano di nuovi e non sono ad oggi potenzialmente capaci di rimpiazzare i metodi più tradizionali: saranno quindi i risultati futuri della ricerca e l’effettiva applicazione di questo sistema a decidere se il vertical farming sia una buona strada possibile per innovare l’agricoltura e se i suoi benefici riescano a compensare i suoi costi.

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Ambiente, società e tecnologia

Agricoltura 4.0: storia di successo

Sul nostro magazine abbiamo delineato lo stato dell’arte dell’agricoltura 4.0 e riportato il fatto che si stia verificando, da diversi anni, una presa di coscienza da parte delle imprese in merito all’adozione di modelli di produzione sostenibili ed innovativi. Quello che vogliamo riportare oggi è una storia di successo che ha come protagoniste 2 aziende, l’italiana Gefion e la statunitense Eaton, la cui collaborazione può fornire ai soggetti del settore agricolo gli strumenti e il supporto necessari per attuare la digital transformation.

Gefion: soluzioni ed esigenze

L’azienda italiana Gefion, specializzata nella realizzazione di sistemi di irrigazione e fertirrigazione, si è sempre impegnata sul fronte dell’innovazione, distinguendosi per il costante investimento in Ricerca e Sviluppo.

L’obiettivo non è solo quello di offrire ai propri clienti sistemi intelligenti basati su IoT e Big Data, grazie ai quali è possibile ricevere informazioni precise e gestirle in maniera tempestiva, ma è anche il dare la possibilità di controllare e pianificare da remoto tali sistemi.

La collaborazione con Eaton

In quest’ottica si inserisce la collaborazione, arrivata a quasi dieci anni, con Eaton, multinazionale operante in oltre 175 paesi e il cui impegno è rigorosamente allineato con gli obiettivi per lo sviluppo ambientale delle Nazioni Unite.

Eaton ha proposto l’implementazione negli impianti Gefion di sistemi di I/O modulari della serie XN300, diversi inverter e pulsanti, in base alla complessità della macchina. I sensori di Eaton trasmettono al software di Gefion (Hydro Evolution V3 – applicativo Codesys 3) dati riguardanti lo stato dei filtri e della sezione di fertirrigazione e la pressione in uscita e in entrata. Il software, capace di gestire la sezione di fertirrigazione, in questo modo può corregge la pressione di mandata, calibrando la miscela e garantendo una corretta fertirrigazione.

“Questo è d’indubbio vantaggio” – afferma Enrico Manieri, R&S di Gefion – “se pensiamo non solo al rispetto dell’ambiente ma anche alla possibilità di gestire meglio lo stress idrico della falda”.

Le soluzioni di Eaton rispondono alle esigenze di Gefion, permettendo al loro sistema di essere gestito e controllato da remoto, garantendo la possibilità di pianificare e prendere decisioni tempestive.

Inoltre, l’azienda americana ha implementato un pannello PLC HMI XV300 che da un lato permette di semplificare la gestione dell’impianto, anche per procedure più complesse, e dall’altro migliora l’interazione uomo-macchina grazie all’interfaccia intuitiva.

Impatto e risultati

Le soluzioni di Gefion si contraddistinguono anche per il fatto di essere alimentate da un sistema fotovoltaico che ne riduce l’impatto ambientale, ne semplifica il montaggio e la richiesta di infrastrutture necessarie.

Per quanto riguarda i risultati, i sistemi di filtraggio e fertirrigazione di Gefion hanno registrato il 25-30% di risparmio di energia e di acqua all’anno.

La distribuzione controllata dei fertilizzanti nell’acqua ha migliorato l’assorbimento dei nutrienti da parte delle piante e migliorato l’efficienza nell’utilizzo dell’acqua. Inoltre, la gestione dello stress di falda garantisce un miglior rendimento della falda acquifera e un utilizzo più prolungato del pozzo evitandone interventi di spurgo, dannosi e costosi.

Le soluzioni proposte da queste due aziende, oltre a garantire livelli di competitività ai propri clienti, rientrano nel concetto di “vero” precision farming, cioè un modello di agricoltura nel quale vengono usate le risorse giuste, al momento giusto, e nella giusta quantità. Il tutto all’interno di una cornice sostenibile e in favore dell’ambiente, elementi indispensabili per ridurre il nostro impatto sul pianeta.

Enrico Noseda (Chief Innovation Advisor Cariplo Factory), nell’ambito dell’iniziativa “Alleanza per la Sostenibilità”, sostiene che abbiamo meno di un decennio per attuare soluzioni di questo tipo. Non ci resta che continuare su questa strada.

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Sbarca in Italia “Chi è il padrone?”: i consumatori decidono qualità e prezzo del cibo in tavola

Sono tanti gli esperimenti in cui i consumatori tentano di mettersi “in proprio” e definire come e cosa produrre. L’ultimo arriva dalla Francia, dove “C’est qui le patron?”, l’associazione francese nata nel 2016 dall’idea di due imprenditori -Nicolas Chabanne e Laurent Pasquier- sta completamente cambiando le carte in tavola del mercato agroalimentare e si candida per diventare un nuovo modo di intendere il consumo nel food & beverage.

L’obiettivo di “C’est qui le patron?” è molto ambizioso: quello di trasformare i consumatori in attori attivi, permettendo loro di poter partecipare alla creazione, selezione, produzione e controllo della fornitura di prodotti alimentari. Il metodo vede al centro di tutto chi compra: i consumatori iscritti all’associazione sono coinvolti democraticamente nella definizione delle caratteristiche organolettiche che dovrà avere il prodotto, la provenienza, il prezzo, e possono così renderli più equi, sostenibili in tutta la filiera di produzione e più trasparenti, soprattutto relativamente al metodo di produzione e nel rispetto di tutti i produttori e lavoratori coinvolti.

Dopo il latte (da cui tutto è partito) sono arrivati sulla piattaforma di “C’est qui le patron?” altri prodotti come burro, uova, formaggio, pizza e carne, e molti altri sono in fase di definizione. L’associazione gestisce il brand e definisce le procedure di controllo presso i fornitori e i distributori per verificare che siano rispettate le caratteristiche definite. Vengono inoltre effettuati controlli di qualità direttamente presso i fornitori e controlli sull’effettiva applicazione del giusto prezzo da monte a valle.

Tutto avviene su una piattaforma online (in Francia è stata rilasciata da poco anche una app per smartphone) attraverso la quale i membri possono proporre i prodotti da sviluppare, la loro composizione, determinando il prezzo finale del prodotto per garantire una giusta remunerazione ai fornitori.

Con questo sistema produttivo i costi di pubblicità sono azzerati e la piena tracciabilità è garantita, oltre che la sicurezza di un consumo sostenibile e sicuro.

Il movimento nasce in risposta alla stretta praticata dai rivenditori sui fornitori per via della concorrenza spietata, che li porta spesso ad accettare prezzi irrisori per i loro prodotti.

Per Nicolas Chabanne “C’est qui le patron?” non è “la prima volta” nel settore: precedentemente aveva fondato “Les Gueles cassées” per favorire la vendita di prodotti ortofrutticoli meno ‘perfetti’, ma con poco successo. Successivamente la sua attenzione si sposta dunque sul latte: il settore lattiero caseario attraversava una grave crisi nella regione della Bretagna, e Nicolas lancia l’idea di un prezzo del latte equo per permettere una giusta remunerazione ai produttori lattieri.

C’est qui le patron?, la marca del consumatore è stata insomma la logica conseguenza dell’intuizione, tanto che in poco tempo è diventato il quarto brand di latte in Francia vendendo milioni di litri oltre le aspettative iniziali in poco tempo.

Il principio sta avendo così tanto successo che ormai si sta estendendo in tutta Europa: sono otto finora i Paesi (tra cui l’Italia) dove “C’est qui le patron?” è approdato questo anno con almeno un lancio di un prodotto negli scaffali dei supermercati aderenti il 25 giugno.

In Italia il prodotto interessato dal lancio è stata ovviamente la pasta. La produzione è stata affidata al pastificio Sgambaro, azienda veneta che soddisfa tutti i requisiti decisi dai consumatori e condivide a pieno i valori degli stessi.

La pasta del consumatore infatti è prodotta utilizzando farina di grano duro coltivato in Italia da agricoltura sostenibile mediante la trafilatura al bronzo, è prodotta con il 100% di energia verde e la confezione è realizzata con carta riciclabile in fibra vergine. L’azienda si rifornisce direttamente presso dagli agricoltori grazie al mulino integrato all’interno dell’azienda stessa. Il prezzo equo stabilito è al massimo di €1.07 di cui €0.005 saranno destinati all’aumento della capacità di produttiva dell’agricoltura biologica.

Il prezzo di questi prodotti è generalmente sopra la media, ma come ha sottolineato il fondatore Nicolas Chabanne in un’intervista su Hebdo Com i prodotti di C’est qui le patron? non hanno un prezzo alto, bensì, giusto.

Non ci resta che diventare consumatori attivi e decidere sulla piattaforma “Chi è il padrone?”.

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Qual è lo stato del settore vinicolo nel post COVID-19?

L’Italia è il paese che possiede la produzione vinicola più ampia e diversificata del mondo, grazie ai differenti climi e ai diversi terreni che la compongono. Non a caso, i primi ad apprezzare gli aromi e i sapori del vino sono gli stessi abitanti del “Bel Paese”.

Durante il lockdown, gli italiani sono stati costretti a restare tra le mura domestiche, ma non per questo hanno rinunciato alla “vita sociale”. Gli aperitivi virtuali hanno aperto una breccia nel cuore di molte persone che si sono ritrovate con un calice in mano, davanti a un PC a trascorrere il tempo con i propri amici, scoprendo che basta una buona connessione internet per coprire le distanze che ci separano.

Secondo i dati IRI nei primi 3 mesi e mezzo del 2020 le vendite di vino nella GDO (grande distribuzione organizzata) sono aumentate del 7,9% rispetto al 2019, con una preferenza per le etichette DOC e IGT. L’aumento nelle vendite di vino tra i privati va però accostato ad un minor, se non nullo, consumo del vino fuori casa: di conseguenza bisognerà aspettare la fine dell’anno per capire esattamente quanto la pandemia abbia inciso sull’economia del settore vinicolo.

Le difficoltà di un periodo come questo non hanno però fermato le idee e la voglia di puntare sempre più in alto, sia fra le aziende vinicole sia fra chi ha pensato a sviluppare strumenti per godersi al meglio l’esperienza di consumo.

Un caso interessante arriva dalla provincia di Bari, e precisamente dalla cantina Colli della Murgia è riuscita a dare un valore aggiunto ai propri prodotti attraverso l’utilizzo di un chatbot. Sfruttando l’intelligenza artificiale, la cantina pugliese fa in modo che il suo vino non solo respiri, ma addirittura parli. Il consumatore potrà inquadrare il QR code presente sull’etichetta della bottiglia per poter iniziare una conversazione con un assistente virtuale che sarà in grado di fornirgli informazioni sull’iter di produzione del vino che sta sorseggiando, consigliare abbinamenti gastronomici e permettere di prenotare delle degustazioni ad hoc.

Non tutti i vini riescono però a parlare da sé.

Un aiuto arriva dai wine influencer, sempre più richiesti nel settore per la loro capacità di arrivare ai più giovani. Grazie al clima di fiducia che si instaura nella community, il follower tende a vedere sotto una luce positiva il brand sponsorizzato. La peculiarità del wine influencer, e ciò che lo distingue da un sommelier è la capacità di saper parlare in modo semplice a tutti gli utenti, creando così una comfort zone in cui anche i non esperti possano farne parte.

Per chi invece non ha uno spiccato lato social ma tende comunque ad essere digitale è stata creata l’app Combivino, scaricabile su dispositivi Android e iOS, in grado di abbinare vini e cibo in maniera corretta e divertente.

Grazie ad un’ampia selezione di etichette, divise in 6 categorie e 45 tipologie, l’applicazione riesce a sposare un vino non solo ad un determinato piatto ma a tutto un menù grazie alla sezione “Abbinamento Multiportata”.  Se invece si preferisce organizzare una serata alternativa si può sfruttare la “Opzione Degustazione” che mostrerà il corretto ordine di degustare più vini partendo dal nostro preferito.

Grazie ad una sempre maggior sensibilizzazione ambientale ed alla ricerca verso lo sviluppo sostenibile è nata nel Regno Unito, dalla società Frugalpac, il primo packaging per vino composto al 94% da carta riciclata.  Con un peso di 83g e una capacità di 75 cl la Frugal Bottle è in grado di  mantenere fresco il vino più a lungo di una normale bottiglia in vetro.

In Italia la Cantina Goccia è stata la prima ad adottarla per imbottigliare il suo vino 3Q, un blend di Sangiovese, Merlot e Cabernet Sauvignon. Attualmente è acquistabile solo online ma in un prossimo futuro potrebbe essere comune trovare vini con un packaging simile nel commercio al dettaglio.

Il vino italiano è tra i più amati sul mercato e la ricerca dell’innovazione è un tassello importante nel valorizzarne appieno la qualità e diversità per poter fare la differenza sul mercato globale: anche -e soprattutto- in un periodo di crisi.

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Lo stato dell’arte dell’agricoltura 4.0: da trend a necessità per uscire dalla crisi

Come sta evolvendo l’agricoltura?

È una domanda che ci si potrebbe porre, a maggior ragione osservando come tutti i settori produttivi stiano cambiando, secondo una logica incentrata su metodologia Agile, ampio impiego dei dati e digitalizzazione spinta.

Il settore primario non fa eccezione, anzi: si parla proprio di agricoltura 4.0 per indicare l’impiego di nuove tecnologie per innovare i processi di coltivazione e il conseguente miglioramento dello stato dei lavoratori.

La ricerca condotta dall’Osservatorio Smart Agrifood nel 2017 ha offerto un quadro chiaro della situazione  dell’innovazione in agricoltura. L’Osservatorio ha individuato più di 220 soluzioni nel campo dell’agricoltura 4.0 offerte da più di 70 aziende. Alcune di queste soluzioni sfruttano i Big Data Analytics, altre i sistemi software di elaborazione e dell’interfaccia utente e altre ancora l’Internet of Things.

Una ricerca che, pur datata, dimostra come già tre anni fa le aziende puntassero sull’innovazione per il settore agricolo.

La pandemia ha accelerato il processo: un recente studio condotto dalla banca Monte dei Paschi di Siena e SWG, individua l’agricoltura 4.0 come essenziale per una rapida ripresa dalla crisi del settore agricolo innescata dall’emergenza COVID-19.

I punti chiave sono sempre l’innovazione e la sostenibilità, ritenuti entrambi importanti dalla maggioranza delle imprese: l’innovazione da opzione diventa un driver per crescita e sviluppo e di questo ne sono convinti l’85 % degli imprenditori. Inoltre il 76% dei produttori ritiene che l’investire nell’innovazione possa accelerare l’uscita dalla crisi.

Tra i principali fattori che concretizzano l’agricoltura 4.0 abbiamo banda larga, energie rinnovabili, sensoristica, piattaforme digitali e strumenti per magazzini intelligenti.

Dalla ricerca di MPS e SWG risulta inoltre che sono circa l’85% gli imprenditori che ritengono la sostenibilità dei modelli di produzione essenziale in vista del superamento dell’attuale crisi: questa comprende sia l’attenzione nel ridurre l’impatto sull’ambiente sia il rispetto dei diritti dei lavoratori. Un trend di cui tener da conto e che può diventare traino per nuove formule sempre più innovative di organizzazione e produzione agricola: in questo senso è interessante il progetto lanciato da OfficineMps, il laboratorio permanente di Banca Monte dei Paschi di Siena: un contest sull’agroalimentare per cercare di creare un’unione tra il settore agrifood e l’innovazione.

Insomma, i dati ci mostrano come ci sia una presa di coscienza e una rinnovata consapevolezza da parte delle imprese nell’orientarsi sempre di più verso un modello di produzione green 4.0.

Non resta che augurarci un’agricoltura sempre più innovativa e sostenibile possa anche essere un fattore di competitività aggiunta per uscire dalla crisi economica che si sta affacciando sull’Europa (e conseguentemente, sull’Italia).