< Torna indietro
Ambiente, società e tecnologia

Food delivery: verso una regolamentazione del lavoro dei riders

Source: https://about.glovoapp.com/en/press/

La sempre maggiore digitalizzazione della nostra società ha portato alla nascita e allo sviluppo, specialmente negli ultimi anni, di un nuovo modello economico, la “gig economy”, che non si basa più su prestazioni lavorative continue e a tempo indeterminato, ma sul lavoro on demand, cioè a richiesta, in cui domanda e offerta sono gestite da apposite piattaforme online o app.

Un esempio di gig economy è rappresentato dal settore dell’online food delivery, cioè la consegna a domicilio di cibi e bevande ordinate dai clienti di bar e ristoranti direttamente da internet e che vengono consegnati a casa o in ufficio tramite i riders, ossia i fattorini che si occupano del trasporto dei prodotti ordinati a bordo delle loro biciclette o motocicli.

Il lavoro dei riders

I riders, rientrando nella categoria dei “gig workers”, son stati considerati fin dalla loro comparsa nel mercato del lavoro come lavoratori autonomi, che svolgono questa occupazione a tempo perso come seconda fonte di sostentamento, per incrementare il proprio reddito. Il loro veniva classificato come “lavoretto”.

Per questo la loro attività lavorativa è rimasta a lungo priva di una qualsiasi tutela e regolamentazione normativa, anche per la difficoltà di inquadrare questo nuovo fenomeno economico nelle categorie classiche.

Nel corso degli ultimi anni però, sia in seguito all’incremento dell’online food delivery con il conseguente aumento di richiesta di fattorini da parte delle aziende che si occupano della consegna a domicilio, sia per esigenze economiche legate anche alla crisi portata dalla pandemia, sempre più persone hanno iniziato a svolgere il lavoro di rider a tempo pieno, come principale fonte di sostentamento.

Questo ha portato l’insorgere di forti discussioni e proteste da parte dei ciclofattorini, che chiedono di non essere più considerati come lavoratori autonomi, ma come veri e propri dipendenti delle aziende di food delivery per le quali lavorano (essendo di fatto queste a determinare le modalità di esecuzione della prestazione di lavoro), di avere un salario minimo pagato a ore invece di essere pagati a cottimo e il riconoscimento di una tutela sanitaria in caso di malattia o infortuni.

Verso una regolamentazione del lavoro dei riders

Negli ultimi anni sono stati fatti passi avanti per il riconoscimento di alcune tutele e diritti dei fattorini delle aziende del food delivery.

Il primo è stato il Decreto legge 101 del 2019, convertito poi in legge il 2 novembre 2019, che ha introdotto alcune tutele per “i lavoratori impiegati nelle attività di consegna di  beni per conto altrui, in ambito urbano  e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore, anche attraverso piattaforme digitali”, non dando però una definitiva risposta al problema.

Questa normativa stabilisce anzitutto l’impossibilità di prevedere una retribuzione interamente a cottimo, cioè in base alle consegne effettuate, ma deve essere previsto un compenso minimo orario, anche se poi rimanda ai contratti collettivi la definizione dei criteri per stabilire i compensi. Inoltre, prevede per i prestatori di lavoro la copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

Il 16 settembre 2020 è stato raggiunto un accordo tra il sindacato UGL e Assodelivery, l’associazione italiana dell’industria del food delivery alla quale aderiscono Glovo, Deliveroo, SocialFood e Uber Eats, che hanno sottoscritto un contratto collettivo nazionale volto a tutelare il lavoro dei riders, primo in tutta Europa, il quale ha previsto un compenso minimo di 10 euro l’ora, con il riconoscimento di un ulteriore indennizzo nel caso in cui le condizioni meteorologiche siano particolarmente sfavorevoli, durante le ore notturne e i giorni festivi, nonché la possibilità dei riders di accedere a delle attività di formazione professionale.

Tuttavia, questo accordo è stato oggetto di forti critiche da parte dei ciclofattorini, che hanno organizzato diverse proteste in varie città italiane. A suscitare le lamentele è stata soprattutto l’affermazione della natura autonoma e non subordinata del lavoro dei rider, che preclude a quest’ultimi il riconoscimento di una serie di diritti di cui gode chi è dipendente, come ad esempio le ferie e la malattia.

Particolarmente importante è poi stata la sentenza del tribunale di Palermo del 20 novembre 2020, che ha affermato per la prima volta il diritto di un fattorino che lavorava per l’azienda di food delivery spagnola Glovo il diritto di essere assunto come lavoratore dipendente a tempo indeterminato.

Ultimo e forse più significativo provvedimento è stato quello dello scordo 24 febbraio con il quale la procura di Milano, al termine di una maxi indagine sulle condizioni di lavoro dei riders estesa a livello nazionale, ha stabilito la notifica ad alcune imprese di food delivery (Deliveroo, Just Eat, Glovo e Uber Eats) di verbali che impongono di assumere i ciclofattorini con contratto di lavoro coordinato e continuativo, con conseguente passaggio da lavoratori autonomi a parasubordinati.

< Torna indietro
Ambiente, società e tecnologia

Revenge porn: ecco perché la vendetta non c’entra

La Bibbia, Phica.net, chat Telegram dai titoli inquietanti: sto parlando del mondo proibito dell’ossessiva ed illecita sessualizzazione del corpo femminile. Mi addentro nello straziante labirinto di cartelle, link ed album, tutti accuratamente suddivisi ed organizzati al fine di una semplice e comoda fruizione. A, B, C, D, leggo tutte le cartelle finché non trovo quella con la mia iniziale. Scorro una, due, tre, cento pagine finché non trovo il mio nome. Eccolo: imponente, inquisitorio, scritto in un font tutto in maiuscolo che mi richiama all’attenzione. Doppio click e apro il file. Sul mio schermo compaiono centinaia di foto, video, immagini di volti femminili, foto innocue, momenti intimi, persone violate, anime tradite e disumanizzate. La mia faccia, comunque, non c’era: non io, non oggi. E se non io, chi allora? Ma soprattutto: perché?

Nelle ultime settimane si è scatenato un fenomeno mediatico rivoluzionario che ha travolto gran parte del web ed ha finalmente dato voce e visibilità a tutte quelle dinamiche discriminatorie a cui le donne sono sistematicamente soggette da secoli e che, per troppo tempo, sono rimaste nell’ombra.

Da Chiara Ferragni a Claudio Marchisio, centinaia di influencer, attivisti e persone comuni si sono esposte su giornali e piattaforme social invocando una presa di coscienza collettiva in campo di discriminazione di genere e dignità della donna affinché, prima tra tutte, la feroce e vile pratica del revenge porn possa giungere ad un epilogo.

Le parole dell’imprenditrice digitale Chiara Ferragni, che su Instagram conta attualmente 22 milioni di followers, colgono perfettamente l’urgenza e la necessità di un cambiamento radicale in merito all’impostazione patriarcale alla base della nostra società. “Usando il potente megafono di Instagram”, come lo definisce anche l’HuffingtonPost, l’imprenditrice ha agito da importante cassa di risonanza rendendo fruibili concetti e terminologie finora obsoleti, richiamando gli uomini e le donne alle loro responsabilità ed esprimendo in modo conciso l’estremo bisogno di una differente narrazione dei fatti di cronaca che coinvolgono violenza di genere e revenge porn.

Il “revenge porn” è un’espressione mediatica utilizzata per descrivere la pratica della diffusione di immagini e video intimi senza il consenso delle persone coinvolte. Letteralmente significa “vendetta pornografica” ma di fatto le cause e gli effetti di questo complesso meccanismo si spingono ben oltre la semplice voglia di vendicarsi, per esempio del proprio partner, attraverso la divulgazione di sue foto intime o private.

I motivi socioculturali che portano una persona a violare l’intimità di un’altra senza il suo consenso, esponendola così alla gogna mediatica e condannandola a danni irreversibili, sono molto più profondi di quanto si possa pensare. Il revenge porn, come apprenderemo, non si limita alla vendetta personale ma affonda le basi della sua stessa esistenza su concetti quali la cultura dello stupro ed il victim-blaming, di cui facciamo troppo spesso esperienza attraverso le narrazioni giornalistiche.

Lo scorso aprile questo feroce fenomeno, attraverso la denuncia delle chat Telegram, ha sicuramente mostrato uno dei suoi volti più tragici e oscuri.

Il caso Telegram: la punta dell’iceberg

Durante il periodo di lockdown dovuto alla pandemia causata dal Coronavirus, i casi di revenge porn sono drasticamente aumentati, o meglio, ne è esponenzialmente aumentata la denuncia pubblica. Come riferisce anche l’editoriale Domani, secondo un recente rapporto è emerso che in Italia il revenge porn riguarda 6 milioni di persone. Il motivo di questa sovraesposizione inaspettata è dovuto al fatto che nei primi giorni dello scorso aprile è letteralmente esploso il caso mediatico dei “gruppi Telegram“: chat in cui si praticava la divulgazione di materiale pedopornografico, intimo o privato, ma non solo. Telegram infatti è un’applicazione di messaggistica istantanea che, tra le varie funzioni, possiede anche quella di poter creare dei gruppi che possono contare fino a decine di migliaia di partecipanti. In alcuni di questi gruppi, utenti con falsi nickname non tracciabili barattavano immagini e video intimi girati o reperiti senza il consenso dei coinvolti in cambio di particolari “tributi”. Gli utenti si scambiavano fotografie di bambine, ragazze, donne come fossero figurine dei Calciatori Panini. In altri casi, si divertivano ad estorcere ingenue foto di figli e figlie, mettendo le immagini alla mercé del branco di uomini affamati che popolava la chat. Si possono intuire ovviamente i profondi danni psicologici, fisici, occupazionali e relazionali causati alle vittime di questo accanimento insensato, per non parlare dei casi di suicidio. Le migliaia di utenti, per la quasi totalità uomini, che partecipavano a questi gruppi distruggevano violentemente una ad una le loro vittime, attraverso pratiche mortificanti, umilianti e disumane. Le prede preferite del branco erano (e rimangono) prevalentemente persone di sesso femminile, ostaggio di sconosciuti indipendentemente dalla loro età o dalla tipologia del materiale fotografico in cui si trovavano coinvolte. Le modalità di diffusione di questi contenuti all’interno delle chat, inoltre, si sono rivelate così violente e maniacali che, in pochi giorni, le pagine social sono state letteralmente invase da notizie ed informazioni che hanno contribuito a denunciare a gran voce ciò che effettivamente stava accadendo su altre piattaforme: uno stupro di gruppo virtuale.

Una volta compresa la gravità della situazione, però, gli interrogativi sono ancora molti: perché le vittime sono principalmente donne? Che ruolo hanno umiliazione, colpa e vergogna? Perché sul corpo della donna grava ancora la dicotomia sacralità/usurpazione?  Cosa c’è di sbagliato nel farsi una foto intima? Ma soprattutto, perché c’è ancora così tanta differenza tra la trattazione dell’erotismo maschile e quello femminile?

Lo scandalo dei gruppi Telegram non è altro che la punta dell’iceberg di un sistema malato e di una cultura più complessa di quanto pensiamo. La società contemporanea, frutto di un’impostazione patriarcale, è dilaniata da etichette e pregiudizi che generano squilibri di potere, violenza di genere e discriminazioni.

Il tabù della sessualità femminile: tra desiderio e vergogna

Le motivazioni che portano all’affermarsi della pratica del revenge porn sono sicuramente molte e variegate ma tutte traggono le proprie origini da un bacino culturale in cui tabù e stereotipi sono all’ordine del giorno, in particolare modo nei confronti di una sessualità femminile giudicata “non conforme” ai canoni socialmente imposti.

Occorre comunque sottolineare che da questo truce e mortificante meccanismo non sono esenti gli uomini. Secondo i dati più recenti infatti, quasi per il 90% dei casi le vittime di revenge porn sono donne, mentre il restante 10% si tratta di uomini. Le modalità e le motivazioni tramite cui questo avviene però sono estremamente differenti nei due sessi.

Il revenge porn contro le donne si basa infatti su un’intrinseca mortificazione e repressione del desiderio erotico femminile, il quale è percepito come qualcosa di sbagliato e scandaloso. Le donne sono quindi soggette all’umiliazione e alla vergogna pubblica a causa di un rapporto con l’intimità che non ha niente di colpevolizzante o vergognoso se non il fatto stesso di esistere. I motivi per cui invece gli uomini diventano vittime di revenge porn sono ben diversi: questi infatti sono soggetti a ricatto, disprezzo ed umiliazione a causa della fragilità della propria sessualità rispetto allo stereotipo dell’uomo-macho (frutto del patriarcato) e non per il desiderio erotico in sé, che invece è considerato giusto e naturale per l’uomo.

Questa analisi si traduce nel diverso modo in cui tutt’oggi giudichiamo la foto di una ragazza nuda rispetto a quella di un ragazzo nudo: la prima fa scandalo, la seconda generalmente un po’ meno.

Il revenge porn è quindi in primo luogo un fenomeno legato ad un problema di tipo culturale – più che vendicativo – che nel 90% dei casi avviene ai danni di una donna. Alla base di questa incidenza così elevata c’è senza dubbio un rapporto malsano con la concezione della sessualità femminile.

Fin dall’antichità classica infatti, il desiderio femminile era conosciuto e temuto ben prima che si affermasse l’idea cristiana del peccato. La religione ha poi contribuito a diffondere l’immagine della donna peccaminosa e immorale che attenta alla virtù maschile e deve essere governata per reprimere il proprio desiderio. Agli albori del ‘900, è proprio Freud, il padre della psicoanalisi, a condannare il piacere femminile con teorie secondo cui la sessualità femminile si sviluppa attorno alla frustrazione generata dall’assenza del pene.

Tutt’oggi la ricerca in questo campo è rallentata dagli innumerevoli tabù che ancora avvolgono il piacere “dell’altro sesso”, come afferma la giornalista scientifica Paola Emilia Cicerone sulla rivista scientifica Mind.

La sessualizzazione e la vergogna associate al proprio corpo hanno costretto le donne a dover limitare le proprie pulsioni e i propri desideri. Questi presupposti rendono delle foto intime passibili di ricatto ed umiliazione solo perché la persona che vi è ritratta è una donna. Il corpo femminile viene costantemente sessualizzato: una spalla più scoperta diventa volgare, una posizione inusuale diventa provocante, la pelle nuda diventa inadeguata, lo sguardo ammiccante, il seno inopportuno.

Il corpo della donna è un luogo sacro da proteggere e preservare e allo stesso tempo merce di scambio, oggetto a completa disposizione dell’uomo.

In questo modo, da secoli, le donne sono costrette a portarsi dietro ogni giorno un fardello culturale pesantissimo: lo stigma della loro stessa carne.

La cultura dello stupro

Per comprendere a fondo le radici socioculturali del meccanismo perverso ed umiliante alla base del revenge porn, occorre chiarire il significato di “stupro” e della cultura ad esso associata su cui anche la nostra società ha costruito i propri equilibri di potere.

Quella di “cultura dello stupro” è un’espressione utilizzata nell’ambito degli studi di genere per descrivere una cultura nella quale stupro e violenze sessuali sono ritenute socialmente accettabili. Questo processo di progressiva normalizzazione avviene contemporaneamente su più binari. Una posizione rilevante in questo processo è sicuramente assunta dalla comunicazione mediatica che, fin troppo spesso, banalizza e giustifica tali comportamenti contribuendo a rendere la discriminazione di genere prassi quotidiana.

La normalizzazione della violenza di genere avviene concretamente attraverso 3 pratiche di cui facciamo esperienza quotidiana: lo slut-shaming, il victim-blaming e l’oggettificazione del corpo femminile.

Lo slut-shaming (dll’inglese “slut”, puttana, e “shame”, vergogna) è la tendenza a screditare una donna per determinati comportamenti o desideri sessuali considerati non consoni alla norma prevista. Con l’espressione victim-blaming (colpevolizzazione della vittima) si intende il processo psicologico attraverso cui la vittima di una violenza viene considerata responsabile della stessa. Attraverso questo meccanismo, la causa determinante del reato viene spostata dall’uomo aggressore alla vittima. Secondo un’analisi dell’Istat, una persona su 4 in Italia ritiene che un abbigliamento “succinto” possa essere la causa di una violenza sessuale.

L’oggettificazione del corpo femminile è invece l’elemento che fa da trait d’union tra le pratiche sopra citate in quanto consiste nella predisposizione a considerare la donna come mero oggetto atto alla gratificazione sessuale di un uomo. Il corpo femminile può essere umiliato o sfoggiato come un trofeo, a seconda delle circostanze, ma pur sempre al fine di supportare e incrementare la virilità maschile.

Ed è con questa nonchalance, causata dalla secolare interiorizzazione della cultura dello stupro, che la compagnia petrolifera X-Site Energy è giunta, lo scorso marzo, a diffondere degli adesivi in cui si incita lo stupro di Greta Thunberg, attivista ambientalista. La ragazza, appena diciassettenne, è raffigurata mentre viene chiaramente violentata da un uomo che stringe fra le mani le sue trecce. Questa è una delle tante dimostrazioni del fatto che il corpo delle donne continua ad essere considerato una proprietà di dominio maschile e lo stupro la rappresentazione più primitiva dell’oppressione dell’uomo sulla donna, condannata ad un perenne clima del terrore.

Il revenge porn nasce proprio da questi presupposti: l’oggettificazione e la sessualizzazione del proprio corpo costringono le donne non solo a subire continue limitazioni ma le obbligano anche a convivere con la costante paura di poter essere sottomesse o umiliate, in qualsiasi momento e con ogni possibile mezzo a disposizione, che si tratti di violenza fisica o foto intime divulgate senza consenso.

Narrazione e linguaggio come specchio del grado di civiltà di un popolo

La narrazione dei fatti legati alla violenza di genere assorbe completamente gli effetti della cultura dello stupro, tanto che meccanismi quali la colpevolizzazione della vittima o lo slut-shaming finiscono con l’essere elemento fondante della trattazione delle informazioni trasmesse dai mass media.

Dal revenge porn ai femminicidi, i mezzi di comunicazione sfruttano un doppio binario: se da un lato puntano alla colpevolizzazione della vittima (victim-blaming), dall’altro contribuiscono alla vittimizzazione del carnefice, veicolando così una narrazione giustificazionista e distorta che però viene percepita come normale.

Il comportamento maschile viene sempre descritto come conseguenza di quello femminile, con l’effetto di spostare la responsabilità dal carnefice alla vittima.

In questo modo si scrive che “lui l’ha uccisa perché voleva lasciarlo” oppure “lui ha inoltrato le sue foto intime senza il suo consenso ma è lei che ha deciso di scattarsele”.

Il meccanismo utilizzato è il medesimo: far ricadere sulla vittima un senso di colpa e vergogna causato dalle conseguenze delle proprie libere e legittime scelte.

A rendere il quadro più surreale e distorto è la romanticizzazione che generalmente accompagna la descrizione dell’episodio. I giornali spesso assumono un atteggiamento giustificatorio nei confronti di chi ha commesso il reato, fornendo dettagli inutili e spostando il focus dalla vittima al retroscena di concause che hanno portato il colpevole a commettere il crimine, deresponsabilizzandolo. In questo modo, il lettore è logicamente portato ad empatizzare per il carnefice. Questo, come spiega la scrittrice e intellettuale sarda Michela Murgia nel suo libro “<<l’ho uccisa perché l’amavo>> Falso!”, si tratta di un terribile paradosso: sattamente come quando si descrive un furto si dà per scontato che il ladro stia nell’errore, così nei casi di violenza di genere si dovrebbe condannare il carnefice, non tentare di giustificarlo.

Un caso emblematico di narrazione basata sulla rape culture è l’articolo del giornale Libero scritto da Vittorio Feltri (poi rimosso dal web) dal titolo “I cocainomani vanno evitati. Ingenua la ragazza stuprata da Genovese“ con cui Feltri commenta il caso dell’imprenditore fondatore di Facile.it che ha stuprato e torturato per ore una 18enne. Feltri, come se stesse sistematicamente seguendo un copione, procede nel racconto della vicenda colpevolizzando la vittima dell’accaduto e deresponsabilizzando Genovese dal turpe atto compiuto.

Queste tecniche disorientanti sono utilizzate quotidianamente da molte testate giornalistiche, sebbene ciò avvenga secondo modalità e misure diverse, e le narrazioni fornite minimizzano o banalizzano le violenze fisiche e “virtuali” subite dalle donne contribuendo così ad alimentare la normalizzazione di questi eventi.

Il linguaggio, soprattutto in questi casi, diventa sostanziale. Il vocabolario e la semantica associata alle parole sono sempre stati lo specchio del grado di civiltà di una popolazione. I termini utilizzati in diversi contesti infatti sono la prima spia delle abitudini culturali e degli equilibri di potere che governano un popolo.

Per questi, il linguaggio risulta essere una variabile da tenere in considerazione quando si parla di violenza di genere e di corretta narrazione degli eventi ad essa associati in quanto costituisce proprio il primo strumento tramite cui fornire una chiave di lettura della realtà.

Il giornalismo è un mezzo essenziale che ha il potere di educare e proporre nuove coscienze collettive. A volte, però, sembra non voler sfruttare queste potenzialità.

È necessario quindi che i mezzi di comunicazione prendano consapevolezza delle parole che utilizzano e della visione distorta che molto spesso forniscono al lettore. L’azione stessa di dar voce al carnefice, assumendo il suo punto di vista, è sbagliata proprio perché trasmette l’idea che vittima e colpevole siano su uno stesso piano quando, per evidenza dei fatti, non lo sono.

È solo attraverso una narrazione chiara e corretta, priva di quel filtro cognitivo generato dall’ambiente socio-culturale in cui ogni individuo è cresciuto, che si può contribuire ad un effettivo cambiamento: la lotta comincia dalle parole.

Stato, coscienza comune ed educazione: da dove ripartire

Sesso, corpi e desideri non dovrebbero essere fonte di giudizi, tabù o moralismi: solo così forse potremmo gradualmente spogliarci delle pesanti catene della vergogna e sentirci, poco a poco, un po’ più liberi ed un po’ più accettati.
Negli ultimi anni in vari paesi si è cercato di far fronte alla pratica del revenge porn, sebbene secondo gli esperti il diritto non riesca ancora a far fronte alle nuove tecnologie. In Italia, il reato per la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone coinvolte è previsto dall’articolo 612-ter del codice penale, introdotto con la legge n 69/2019. Esso prevede una pena fino a 6 anni di carcere ed una multa da 5mila a 15mila euro. Le stesse misure inoltre possono essere applicate anche a chi contribuisce a diffondere questo materiale inviandolo ad altre persone.
Anche l’Italia quindi si sta muovendo verso una maggiore tutela delle possibili vittime di questo atroce meccanismo. Ma possono delle leggi essere sufficienti ad eliminare questa piaga sociale e culturale una volta per tutte? Probabilmente no.

Come abbiamo analizzato, quello del revenge porn è un problema di matrice culturale profondamente radicato nella nostra società e nel nostro animo. Un’educazione sessuale e digitale ben programmata potrebbero sicuramente essere un valido strumento per cambiare le cose alla loro origine, fornendo una visione diversa ma più consapevole e non tossica della sessualità e del rispetto dell’intimità altrui. Ora più che mai, risulta necessario non essere indifferenti di fronte alla realtà e alle ingiustizie che ci circondano. Occorre reagire, in modo critico e competente, alla violenza e alla disumanità armati in primo luogo di conoscenza e rispetto.

Per far sì che avvenga un effettivo cambiamento c’è bisogno di tempo: i motivi alla base del revenge porn sono infatti secolarmente radicati nella cultura Occidentale. A questo scopo è fondamentale il contributo di ogni individuo. Ognuno di noi infatti deve impegnarsi a  sensibilizzare le persone che gli stanno intorno, intervenendo nel modo più opportuno qualora si verificasse una qualsiasi forma di violenza fisica o virtuale.

È necessario cambiare la narrazione dei giornali, insegnare il significato di “consenso” ed affiancare la crescita dei giovani ad una corretta e sana educazione sessuale, meno reticente e più inclusiva e consapevole dei rischi della rete online ed offline.

Per quanto riguarda nello specifico i casi di revenge porn, è estremamente importante “rompere la catena”: quando ci si imbatte in un contenuto intimo appartenente ad un’altra persona è dovere di ogni cittadino impedirne l’ulteriore la diffusione, nel rispetto della privacy (diritto umano previsto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e della dignità di chi vi è ritratto. È necessario non inoltrare immagini o video privati ed è buona norma esporsi affinché questo non venga fatto da altri utenti, ricordando opportunamente che divulgare materiale intimo senza consenso è illegale e passibile di denuncia.

Al giorno d’oggi, è sempre più urgente e necessario istruire gli individui ad un piacere genuino e disinteressato, libero da pregiudizi e giochi di potere, e soprattutto consapevole dei mezzi e dei rischi della rete, pronto a ricongiungersi con un’intimità priva di vergogna.

< Torna indietro
Marketing & Social Media

Il Natale dal punto di vista di Coca-Cola

Lo scorso 6 Dicembre, in piazza Duomo a Milano, è stato allestito l’attesissimo albero di Natale, quest’anno sponsorizzato e illuminato da uno dei marchi più apprezzati e influenti al mondo: Coca-Cola.

L’azienda ha sfruttato l’occasione per farsi carico di un’importante causa che ha come obiettivo primario il supporto dei più bisognosi, e nello specifico il sostegno alla Rete Banco Alimentare.

Un’ulteriore iniziativa natalizia di Coca-Cola ha avuto come protagonista il suo iconico camion rosso, che nelle ultime settimane è stato avvistato in giro per l’Italia in occasione del “Truck Tour”.

L’evento ha suscitato molta curiosità da parte degli italiani che uscendo di casa hanno sperato di incrociarlo per le strade della propria città.

Queste sono state soltanto alcune delle attività di marketing che l’azienda ha intrapreso in occasione di questo Natale molto particolare.

Infatti, come accade ogni anno da ormai qualche decennio, Coca Cola ha diffuso online il suo personale video marketing a tema natalizio: la nuova campagna intitolata “A Natale, regala qualcosa che solo tu puoi donare”.

Si tratta di un breve video focalizzato sul valore della famiglia, realizzato con scene semplici ma ricche di significato che ha commosso ed emozionato molti spettatori.

Fonte: https://medium.com/@Stewart_Fabrik/holidays-are-coming-the-coca-cola-christmas-branding-story-8f08e2be8def

Come Coca-Cola ha interpretato il Natale

L’azienda ha da sempre avuto idee spettacolari per la realizzazione dei suoi spot, specialmente per quelli natalizi, che secondo molti avrebbero contribuito a definire una visione del Natale così come lo conosciamo oggi.

Infatti, è convinzione comune il fatto che Babbo Natale, rappresentato con la tipica immagine alla quale siamo abituati e soprattutto con indosso l’abito rosso, sia frutto della creazione della stessa Coca-Cola. Questa opinione è stata però smentita dall’azienda, la quale ha affermato che l’idea del vestito rosso di Santa Claus non sia nata da loro ma sia stata presa dal fumettista Thomas Nast: https://www.coca-colaitalia.it/il-nostro-mondo/pubblicita/babbo-natale-vestito-rosso .

È comunque innegabile il fatto che il trascorrere del tempo e gli spot natalizi di Coca-Cola che si sono susseguiti negli anni abbiano notevolmente influenzato l’immagine del personaggio di Babbo Natale, e la coincidenza tra i suoi colori e quelli del brand rappresenta un ulteriore aspetto positivo per l’azienda.

Fonte: https://medium.com/@Stewart_Fabrik/holidays-are-coming-the-coca-cola-christmas-branding-story-8f08e2be8def

Fonte:
https://www.coca-cola.co.uk/our-business/history/holidays-are-coming-the-history-of-coca-cola-and-christmas

Gli spot natalizi più iconici e commoventi

L’unione delle voci di tutto il mondo degli anni ‘80

Uno tra i primi spot realizzati da Coca-Cola, che ancora oggi viene piacevolmente ricordato, ha per protagonisti ragazzi di diverse etnie, che unendo le proprie voci in un canto natalizio rappresentano l’affetto che unisce le persone che condividono lo spirito del Natale.

https://www.youtube.com/watch?v=_zCsFvVg0UY

I Christmas Trucks dal 1995 ad oggi

I camion rossi natalizi di Coca-Cola sono stati ideati, creati e utilizzati negli spot del brand ormai più di venti anni fa, ma sono stati protagonisti di altre campagne fino a diventare elementi importanti per l’azienda anche al giorno d’oggi, come si è visto per l’evento “Truck Tour” di queste settimane.

Consistono in un fondamentale simbolo di Coca-Cola e vengono facilmente riconosciuti in tutto il globo.

https://www.youtube.com/watch?v=E3Wvb0dapZA&list=RDE3Wvb0dapZA&start_radio=1

Gli orsi polari degli anni ’90

Nella campagna “Northern Lights” del 1993 appaiono per la prima volta i protagonisti di moltissimi spot che verranno realizzati in futuro da Coca-Cola: gli orsi polari.

A partire da questa pubblicità vennero in seguito riutilizzati per diverse campagne, soprattutto quelle natalizie, nelle quali gli animali, rappresentati come una classica famiglia, bevono naturalmente la bibita e trascorrono insieme il Natale.

https://www.youtube.com/watch?v=NgZ6X0zo8is

Fonte: https://www.youtube.com/watch?v=K9rb7ZfNmr8

Coca-Cola, la bibita che ha accompagnato per generazioni 2006

Spot che come tema centrale presenta la fiducia del marchio che ha accompagnato intere generazioni per molto tempo.

Il tutto avente per protagonista l’immancabile personaggio di Babbo Natale.

https://www.youtube.com/watch?v=OG5SOUCyuCM

“A Natale, regala qualcosa che solo tu puoi donare” 2020

Per concludere un anno così complicato Coca-Cola è riuscita a trasmettere un bellissimo messaggio focalizzato sull’importanza dell’affetto per la famiglia, valore alla base del Natale.

Coca-Cola punta molto sul lato emotivo con storie semplici che arrivano sempre al cuore del pubblico; inutile dire che riesce sempre a commuovere tutti!

https://www.youtube.com/watch?v=yg4Mq5EAEzw

Gli spot realizzati da Coca-Cola in occasione del Natale sono diversi tra loro, ma si accomunano per il fatto che trattano sempre temi importanti, differenti a seconda del contesto in cui viene realizzata la campagna.

Ogni spot riesce a scaldare il cuore di chi li guarda.

Punto a favore per un’azienda che è già molto forte e che con le storie natalizie che ha creato negli anni è riuscita a conquistarsi sempre di più la fiducia dei suoi consumatori.

Coca-Cola ha sempre ideato soluzioni originali per sorprenderci, cosa potrà mai creare per stupirci ancora?

< Torna indietro
Ambiente, società e tecnologia

Avere (avuto) una vita sessuale potrebbe costarti il posto

In data 17 Novembre è stato reso noto su tutti i quotidiani nazionali l’epilogo del caso avvenuto nel 2018 della maestra di asilo nel Torinese, vittima di revenge porn, estorsione, diffamazione e licenziamento. L’ennesima vittima colpita: è stato applicato l’art. 612ter, ma è abbastanza?

Il caso

L’ex partner ha ottenuto, dopo aver pagato un risarcimento, la condanna ad un solo anno di lavori socialmente utili, al termine dei quali potrebbe essere prosciolto. È colpevole di aver inoltrato senza il consenso dell’allora 20enne foto e frame ricevuti in situazioni di sexting sul gruppo WhatsApp del calcetto, resi virali nell’immediato.

In un colloquio richiesto dalla ragazza per ottenere la rimozione dei contenuti che dovevano ovviamente restare privati, non solo si è rifiutato, ma ha anche giustificato le sue azioni con la natura non romantica della relazione. La difesa afferma che non ci sia dolo.

Dichiarazioni per il papà di un’alunna e amico del ragazzo: “Se si inviano certi video, si deve mettere in conto che qualcuno li divulghi” dice e continua “Non potevo credere che una maestra facesse certe cose”.

Sua moglie è invece responsabile delle minacce ricevute dalla docente affinché non denunciasse ma, siccome la denuncia è stata fatta, la donna ha messo la dirigente dell’asilo al corrente, non mancando di esporre ancora una volta tutto il materiale.

Dal canto suo, la dirigente è intervenuta optando per la pubblica umiliazione della ragazza davanti a colleghi, genitori e personale, annunciando con crudezza i motivi del licenziamento, almeno “non troverà lavoro manco per pulire i cessi in stazione”.

Le due sono ora processate per diffamazione ed entrambe devono un risarcimento alla maestra.

Pornografia non consensuale

Innanzitutto, ciò che la ragazza ha subito è comunemente denotato come revenge porn ed è così chiamato perché nella quasi totalità dei casi è compiuto da un partner di sesso maschile che, per ripicca, diffonde immagini e video intimi del/la partner. Gli esperti preferiscono parlare però di pornografia non consensuale: il termine revenge porn ha di per sé un’accezione colpevolizzante verso la vittima poiché implica che questa abbia innescato la vendetta con un suo comportamento errato (al link, l’associazione Bossy definisce il victim blaming, utile per comprendere la portata del fenomeno). È però di deliberata violenza e negazione delle volontà di chi subisce.

Di fatto, ci sono varie tipologie di abuso sessuale digitale, che possono intrecciarsi più o meno con le dinamiche “analogiche”:

  • Hacking dei cloud e dei dispositivi, come successo a numerose celebrities, personaggi politici (deputata Sarti) o pubblici (l’ultima di una lunga lista, Guendalina Tavassi);
  • Furto e pirateria di contenuti creati per siti di “patronato” digitale a pagamento (OnlyFans, Patreon);
  • Insulti e aggressioni sui canali social in risposta a post e commenti;
  • Scatti e riprese eseguite con telecamere nascoste in momenti di intimità o che inquadrano all’insaputa parti del corpo con fini pornografici (a volte vengono addirittura filmati gli stupri);
  • Richiesta di fotografie personali sui social e costanti pressioni e minacce, specialmente subite da minorenni;
  • Pubblicazione e vendita dei contenuti citati nei punti precedenti su gruppi e forum dedicati, spesso corredati di profili social e informazioni sensibili delle vittime.

A questo elenco infernale si aggiungono le creazioni di applicazioni che utilizzano l’intelligenza artificiale delle reti neurali come DeepNude (oggi chiusa per questioni etiche) e FakeApp. Non è nemmeno necessario che vengano documentati i comportamenti (sessuali o non) delle vittime: con poche ore di esercizio sul programma si possono ottenere realistiche immagini di nudo a partire da comuni fotografie rubate da Instagram o addirittura l’inserimento del volto desiderato in un sex tape.

I dati e le conseguenze

L’espressione digitalizzata di ogni aspetto della vita – inclusa la sessualità, è naturale ed è comunque inevitabile, specialmente ora che è stata accelerata dalla situazione di pandemia globale. Si stima che fino al 20% dei nativi digitali utilizzi metodi multimediali per approcciarsi all’affettività, ma anche per contatti di tipo erotico. Molti adolescenti ritengono normale filmarsi durante atti sessuali. Tra gli adulti e i Millenials è invece una pratica ancora più diffusa: circa il 37,5%, secondo Statista.

Il problema è che, potenzialmente, dopo una qualunque giornata di scuola o di lavoro chiunque(1 persona su 10, secondo uno studio USA del 2019) – può essere oggetto di simili circostanze perché purtroppo i mezzi e la facile reperibilità del materiale in aggiunta alla (quasi) totale assenza di conseguenze per chi esegue upload di dati non consensuali genera una combinazione spesso letale. La Polizia Postale stima che il ritmo dei casi di revenge porn ammonti a due al giorno, per un totale di 1083 indagini in corso a Novembre 2020. Nel 90% dei casi si tratta di vittime donne, gran parte del 10% rimanente è parte della comunità LGBTQ+.

Non sono però disponibili dati completi e certi. Risulta quasi banale specificarlo, ma è una dinamica persistente: non tutti gli abusi vengono denunciati a causa della mancanza di supporto, della paura delle terribili conseguenze, dello stigma sociale del dover essere giudicata per aver realizzato materiale esplicito o aver perso il controllo dei propri contenuti online.

Le ricerche in ambito psico-sociale dimostrano che chi perpetra tali azioni ha una concezione totalmente oggettivante dei bersagli: non le considera persone bensì strumenti interscambiabili con altri simili, attraenti solo nel momento in cui possono essere controllati e puniti in base alla loro capacità di soddisfare i propri bisogni. Appropriandosi di tutto ciò che appartiene alla vittima, ovvero la sua identità e la sua soggettività, non si fa altro che negarle l’umanità. Una volta che si è compiuto questo passo, tutto è legittimato. Già dagli anni ‘80 l’avvocata e attivista MacKinnon afferma che le donne vivono nell’oggettivazione sessuale come i pesci nell’acqua”.

Amnesty International, in un’indagine del 2017, riferisce che il rapporto delle donne con Internet e con le relazioni in generale venga affrontato con ansia e perdita di autostima nel 67% dei casi e questo quando è causato “solo” da molestie e abusi sul web di gravità “minore”.  Le conseguenze sono devastanti sia sul piano psichico-individuale, sia sul piano socio-lavorativo, esattamente come una violenza sessuale fisica: alienazione e depersonalizzazione, assieme a sindrome da stress post-traumatico, disturbi alimentari e tossicodipendenza, depressione sono estremamente comuni. La pornografia non consensuale causa però anche la perdita del lavoro e l’emarginazione sociale, proprio come dimostrato nel caso della maestra torinese. Inoltre, è tristemente noto che il 52% delle vittime considera il suicidio e la percentuale cresce nei casi che coinvolgono minori.

L’Associazione no profit di sostegno legale alle vittime PermessoNegato stila report (l’ultimo è proprio di Novembre) nei quali illustra come il fenomeno della pornografia diffamatoria su triplichi di quadrimestre in quadrimestre. La mancata collaborazione dei portali e delle piattaforme che ospitano i contenuti privati violati è un altro grave problema molto ben evidenziato. In molti casi, non c’è alcun interesse a risolvere le falle di privacy, quasi si incentivasse il caricamento di certi video e foto. Attualmente sono sotto indagine i colossi Telegram e Pornhub. Altri social stanno gradualmente modificando le condizioni di utilizzo e le policy.

L’approvazione dell’articolo 612ter del Codice Penale e la situazione attuale

In Italia è stato eclatante il caso di Tiziana Cantone nel 2016, suicidatasi perché, avendo richiesto il diritto all’oblio in seguito alle denunce effettuate un anno prima per revenge porn, veniva ancora perseguitata. Il governo ha finalmente deciso di prendere provvedimenti, nonostante fosse in ritardo rispetto ad altri Stati. Dopo il successo della petizione di #IntimitàViolata che in una settimana raccoglie 110.000 firme è un lungo lavoro di molte campagne di sensibilizzazione, il 4 agosto 2019 è stato approvato l’articolo 612ter del Codice Penale, che andrebbe a colmare proprio le lacune legislative del pacchetto Codice Rosso, una raccolta di leggi che tratta la violenza di genere. La nuova normativa tutelerebbe maggiormente le vittime, considerando reato la “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”; darebbe anche maggiore rilievo al legame di relazione (corrente o terminata) e favorirebbe ancor più le vittime in condizioni di disparità fisica  e/o condizione di fragilità, come la gravidanza. A più di un anno dalla sua entrata in vigore, risulta evidente dall’approfondita analisi effettuata da Leonardo Tamborini, procuratore presso il tribunale per i minorenni di Trieste, e Margherita Simicich, dottore in giurisprudenza (disponibile al seguente link), che la nuova norma è anacronistica rispetto ai metodi di diffusione in costante ed esponenziale espansione e che risente di lacune dovute sia al problema di rintracciare il “divulgatore 0”, sia ad altre clausole che entrano in conflitto tra loro.

L’Italia è un Paese nel quale durante la giornata per l’Eliminazione della Violenza Contro le Donne 2020 viene trasmesso su un canale pubblico (che ricordo essere pagato dai contribuenti, quindi dalle donne lavoratrici anche) un tutorial su come apparire sensuali mentre si svolgono mansioni tipicamente relegate appunto alle donne. Dopo due settimane le scuse della conduttrice.

Abbiamo a portata di mano una quantità di mezzi e contenuti che cresce esponenzialmente di giorno in giorno: possiamo continuare a utilizzarli in modo irresponsabile e non etico o agire con coscienza. Attuare politiche sociali e progetti educativi, oltre a rendere il Codice Penale una tutela a trecentosessanta gradi per le vittime, sono urgenze da affrontare immediatamente per prevenire e contrastare l’avanzata di tali violenze. Il web è già parte integrante e inscindibile della “vita vera”.