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Ambiente, società e tecnologia

Emission Trading Scheme, uno strumento per la lotta al cambiamento climatico

Secondo analisi condotte dalla NASA, il 2020 è stato l’anno in cui si è registrata la più alta temperatura media globale della superficie terrestre e secondo gli scienziati del Goddard Institute for Space Studies (GISS), la temperatura media globale nel 2020 è stata di 1,02 gradi Celsius più calda della media di riferimento 1951-1980 e di oltre 1,2 gradi Celsius più alta dei dati della fine del XIX secolo. È praticamente innegabile: siamo nel bel mezzo di un cambiamento climatico.

Negli ultimi anni la lotta al cambiamento climatico è stata sia un fatto mediatico sia un tema politico e in questo ultimo ambito l’Europa vorrebbe imporsi con il ruolo di guida puntando a realizzare un continente a impatto climatico zero entro il 2050, in linea con l’accordo di Parigi.

Sono moltissimi gli strumenti che il vecchio continente sta cercando di integrare per il raggiungimento degli obiettivi climatici, tra questi ne abbiamo alcuni più noti, come il Green Deal, e altri che lo sono meno come l’Emission Trading Scheme (ETS).

ETS: in cosa consiste?

L’ETS, ossia il sistema di scambio di quote di emissione dell’Unione Europea, è – afferma l’Europa – “uno strumento essenziale per ridurre in maniera economicamente efficiente le emissioni di gas a effetto serra e rappresenta il primo mercato mondiale della CO2”. Nasce nel 2005 con lo scopo di limitare il volume totale delle emissioni di gas a effetto serra prodotte dagli impianti e dagli operatori aerei ritenuti responsabili di circa il 50% delle emissioni di gas a effetto serra dell’UE e, ad oggi, copre le emissioni di molte centrali elettriche, molti impianti industriali e parte delle emissioni del traffico aereo tra i 31 paesi aderenti.

L’ETS è basato su un principio definito “cap-and-trade” e procede mediante la fissazione di una quantità massima di emissione, definita tetto, successivamente la quantità individuata viene divisa in singole unità. Ciascuna di queste unità è incorporata in un singolo certificato che dà loro il permesso di emettere una certa quantità di gas serra in atmosfera. Alla fine di ogni anno le società devono possedere un numero di quote sufficiente a coprire le loro emissioni se non vogliono subire pesanti multe. Se un’impresa riduce le proprie emissioni, può mantenere le quote non utilizzate per coprire il fabbisogno futuro oppure venderle a un’altra impresa che ne sia a corto. La vendita dei certificati avviene su un mercato borsistico costruito ad hoc dall’Unione Europea ma non tutte le quote finiscono in borsa, infatti, parte delle stesse vengono assegnate alle attività aprioristicamente dall’UE in base alle emissioni degli anni precedenti.

I certificati di inquinamento, per svolgere correttamente il loro lavoro, dovrebbero essere mantenuti a un prezzo medio-alto affinché vengano favoriti gli investimenti in tecnologie a basso rilascio di CO2. Un’altra caratteristica del mercato ETS è che il tetto di emissioni viene ridotto progressivamente nel tempo di modo da favorire la diminuzione delle emissioni totali. Il sistema ETS è un modo molto alternativo dell’applicazione del principio “chi inquina paga” e in particolare la sua attuazione avviene attraverso un meccanismo incentivante: chi inquina poco, non solo è virtuoso ma può rivendere le quote assegnategli e trarne profitto.

ETS: le fasi di sviluppo

Il mercato ETS ha conosciuto finora 3 fasi.

La prima di queste fasi, durata solo due anni, rappresentava una prova, in preparazione della fase successiva, ed era caratterizzata da 3 elementi.

Innanzitutto, essa si limitava a considerare le emissioni di CO2 provenienti dagli impianti energetici e dalle industrie che utilizzavano in modo intensivo l’energia.

Secondo, le quote di emissione, quasi tutte, erano assegnate alle imprese a titolo gratuito e, ultimo aspetto, le sanzioni previste in caso di mancato rispetto degli obblighi, corrispondevano a 40 euro per tonnellata. In termini di obiettivi raggiunti, attraverso la fase 1 si è riusciti a stabilire il prezzo per la CO2, il libero scambio di quote di emissione in tutta l’UE e l’infrastruttura richiesta per controllare, comunicare e verificare le emissioni dei soggetti interessati. Aspetto rilevante e non trascurabile della fase 1 riguarda la mancanza di dati attendibili sulle emissioni. Condizione, questa, che ha portato al dover fissare i tetti di riferimento sulla base di stime. La conseguenza diretta risiede nel fatto che la totalità di quote assegnate superava le emissioni, facendo scendere il valore delle quote, arrivando a zero nel 2007.

La seconda fase (2008-2012) corrisponde con il primo periodo d’impegno del protocollo di Kyoto e possiede molteplici caratteristiche.

Innanzitutto, si è verificata un’estensione, sia in termini di nuovi paesi aderenti (Islanda, Liechtenstein e Norvegia) sia di sistema, attraverso la considerazione delle emissioni di ossido di azoto e del settore aereo (quest’ultimo inserito il 1° gennaio 2012).

Altri elementi che caratterizzano la fase 2 sono le proporzioni di quote assegnate a titolo gratuito, leggermente ridimensionate a circa il 90%, l’organizzazione di aste da parte di diversi paesi, l’aumento del valore delle sanzioni (da 40 a 100 euro per tonnellata), la sostituzione dei registri nazionali con un registro dell’Unione e la sostituzione del catalogo indipendente comunitario delle operazioni (CITL) con il catalogo delle operazioni dell’Unione europea (EUTL).

Nella fase 2 erano presenti i dati verificati sulle emissioni della fase 1, permettendo così di fissare i tetti sulle quote sulla base delle emissioni effettive. Tetti che risultavano essere inferiori del 6,5% rispetto a quelli del 2005. All’interno della fase 2, la crisi economica del 2008 ha provocato una riduzione importante delle emissioni rispetto alle previsioni, generando un eccesso di quote e di crediti, che ha pesato molto sul prezzo della CO2 per tutta la fase 2.

Nella terza fase (2013-2020) si è verificato un cambiamento importante riguardo il tetto delle emissioni. Nei due periodi precedenti, ogni paese fissava il proprio limite, a partire da questa fase, invece, è stato imposto il fatto che il tetto di emissioni venga fissato unicamente a livello europeo. Oltre a questo cambiamento, è stato introdotto il metodo autoctioning per l’allocazione dei certificati che, in questo modo, possono essere acquistati mediante un vero e proprio meccanismo d’asta. Inoltre, sono stati coinvolti nuovi settori e sono stati depositati circa 100 milioni di certificati all’interno di una riserva, chiamata “new entrants”, utilizzata per finanziare la predisposizione per le implementazioni di tecnologie innovative attraverso un programma europeo.

All’interno della terza fase, più precisamente nel 2018, è stata rivista la cornice normativa della fase successiva, che va dal 2021 fino al 2030, per garantire la riduzione delle emissioni in funzione degli obiettivi per il 2030 e nell’ambito del contributo dell’UE rispetto all’accordo di Parigi. La revisione ha riguardato 4 aspetti.

Innanzitutto è stato aumentato, a partire dal 2021, il ritmo delle riduzioni del tetto massimo annuo al 2,2%, in maniera tale da rafforzare il sistema ETS come stimolo agli investitori. In questo senso, oggetto di rafforzamento è stato anche la riserva stabilizzatrice del mercato. Si è inoltre stabilito di proseguire con l’assegnazione gratuita di quote a garanzia della competitività dei settori industriali risultanti a rischio di rilocalizzazione delle emissioni di CO2, mantenendo regole mirate e in linea con il progresso tecnologico per l’assegnazione gratuita di tali quote. Ultimo aspetto, si è deciso di supportare, attraverso meccanismi di finanziamento (Fondo per l’innovazione e Fondo per la modernizzazione), l’industria e il settore energetico, in maniera tale da consentirgli di affrontare le sfide dell’innovazione e degli investimenti richiesti dalla transizione verso un’economia a basse emissioni di CO2.

Aspetti critici e prospettive future

 

Una delle poche critiche che si può muovere al sistema ETS è che non sempre riesce a mantenere livelli di prezzo dei certificati sufficientemente alti da disincentivare l’inquinamento. Ad esempio, all’apertura del mercato, nel 2005, emettere una tonnellata di gas serra costava circa 30 euro, dopo poco il prezzo dei certificati è improvvisamente dimezzato. Con la crisi dei debiti sovrani, nel 2010, il prezzo è tornato a scendere vertiginosamente, fino a rasentare la soglia dei 5, e talvolta 3 euro a tonnellata. Il prezzo da pagare per inquinare era talmente basso che per molte nazioni la soglia di convenienza per generazione elettrica si è spostata verso il carbone. Il crollo del prezzo fu anche dovuto al fatto che, diminuita la produzione, post-crisi le imprese disponevano di moltissimi certificati inutilizzati e l’abbondanza degli stessi sul mercato non consentiva la risalita del prezzo nemmeno dopo la stabilizzazione della situazione in uno scenario post-crisi.

Solo nel 2019 i prezzi si erano nuovamente stabilizzati sui livelli pre-crisi ma tutto ciò era stato reso possibile solo grazie al grande sforzo dell’Unione europea che, ridisegnando le regole dell’asta, ha permesso nuovamente. Purtroppo il 2020 è stato teatro di una pandemia mondiale che ha nuovamente inflitto una battuta d’arresto alla produttività europea con conseguente crollo dei prezzi dei certificati. Non ci resta che rimanere aggiornati, nella speranza che, nel momento in cui l’economia tornerà a crescere, il sistema ETS possa rispondere al meglio a questi cambiamenti.

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Summit on Climate: come e perché la crisi climatica va affrontata ora e insieme

Source: White House photo by Adam Schultz/ Public Domain - https://www.state.gov/leaders-summit-on-climate/

Il 22 e 23 aprile 2021 si è svolto il Leaders Summit on Climate, evento virtuale ospitato dalla presidenza degli Stati Uniti che ha visto partecipi, oltre a 40 leader politici mondiali, importanti esponenti del settore privato, dirigenti d’azienda e attiviste per la giustizia climatica. Due i motivi principali che hanno spinto Biden a promuovere questo vertice: ribadire il ritorno degli Stati Uniti all’interno degli accordi di Parigi sul clima  annunciando, durante l’apertura dell’evento, l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del paese di almeno il 50% entro il 2030 e, soprattutto, riunire personalità rilevanti della scena politica, economica e sociale per creare tavoli di confronto e condivisione incentrati su un tema di importanza globale e di estrema urgenza: mantenere l’aumento della temperatura a livello globale al di sotto di +1.5°C rispetto all’era preindustriale e raggiungere Net 0.

Quali idee, proposte ed esperienze sono emerse da questo vertice? Quali sono i concetti fondamentali che dovranno essere alla base della collaborazione tra le autorità nazionali e internazionali e le comunità di cittadini?

Cosa significa Net 0 e perché è così importante

Con l’espressione Net 0 si definisce l’obiettivo della neutralità climatica: non significa che entro il 2050 non dovremo più emettere gas serra, ma dovremo fa sì che il risultato netto tra i flussi in entrata e in uscita dall’atmosfera sia zero. Perché dovremmo raggiungerlo? Durante il primo giorno del Summit è stato presentato il documentario Breaking Boundaries, in cui lo scienziato Johan Rockström illustra il concetto dei confini planetari”. Si tratta di una framework scientifico integrato da un articolo pubblicato su Science nel 2015 che definisce, seppur con un certo grado di incertezza e un margine di precauzione, delle barriere soglia per nove fenomeni critici il cui intensificarsi oltre i limiti porterebbe il nostro pianeta ad allontanarsi dalle sue condizioni di stabilità. Gli scienziati identificano come uno dei più rilevanti il cambiamento climatico, ed è per misurare gli effetti di quest’ultimo che si considera la concentrazione di CO2 atmosferica: tra tutti “driver del cambiamento climatico”, secondo il rapporto del 2013 dell’IPCC è la variabile che dal 1750 ha contribuito maggiormente alla variazione dei flussi di energia nel sistema Terra. Attualmente la concentrazione di CO2 atmosferica si attesta intorno ai 415 ppm, in un range considerato una “zona di rischio”: oltrepassarne il limite superiore (circa 450 ppm) significherebbe esporci a un alto rischio di destabilizzare il nostro pianeta irreversibilmente. Sulla base di questi dati, Biden ha ricordato nel suo discorso di benvenuto ai leader che “il tempo per agire è limitato” e che “non abbiamo scelta”, se non quella di agire all’unisono verso Net 0.

Tre punti chiave: Mitigation, Adaptation, Resilience

Sono tre i pilastri fondamentali, stabiliti con gli accordi di Parigi, che dovranno orientare le azioni di tutti i paesi nella risposta al cambiamento climatico e che sono stati al centro dei brevi interventi di tutti i leader nazionali presenti. Per il primo, “mitigation”, molti tra i leader partecipanti hanno presentato alcuni dettagli dei propri INCD, ovvero piani nazionali che stabiliscano obiettivi di medio e lungo termine, rispettivamente per il 2025/2030 e per il 2050, e strategie da implementare per ridurre le emissioni nazionali di gas serra, che dovranno essere poi aggiornati. Ne sono stati consegnati 163 prima del 25 febbraio per il 2020/2021, molti ancora in corso di revisione: economie già sviluppate come l’UE, il Giappone  e il Canada hanno dichiarato di voler ridurre le proprie emissione rispettivamente almeno del 55% entro il 2030, del 45% entro il 2040 e tra il 40% e il 45% entro il 2040. Il Leaders Summit aveva l’obiettivo di sollecitare i paesi, soprattutto in vista di COP26, la 26esima Conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, che si terrà a Glasgow tra l’1 e il 12 novembre 2021 e durante cui verrà negoziato un piano d’azione coordinato per affrontare la crisi climatica.

Il secondo e il terzo pilastro, “adaptation” e “resilience”, si riferiscono rispettivamente alle azioni che dovranno essere messe in campo per fronteggiare gli effetti attuali del cambiamento climatico e per trasformare le comunità e i paesi in soggetti resilienti ai futuri cambiamenti. Questi ultimi saranno cruciali per le “comunità in prima linea” dell’Africa, dei grandi delta dell’Asia e delle piccole isole e del Centro e Sud America, perché subiranno i danni peggiori di un cambiamento a cui hanno contribuito in minima parte, se non nulla, nel corso del XX secolo, come ha affermato nel suo intervento l’attivista per la giustizia climatica messicana Xiye Bastida. Biden ha ribadito l’importanza dell’impegno condiviso preso dai paesi sviluppati di raggiungere 100 miliardi di dollari all’anno per finanziare misure necessarie a seguire i tre pilastri nei paesi in via di sviluppo e ha dichiarato che gli Stati Uniti contribuiranno duplicando entro il 2024 il loro piano di finanziamenti per il clima nei paesi in via di sviluppo rispetto a quello dell’amministrazione Obama-Biden e che triplicheranno il loro Public financing for Climate Application per i paesi in via di sviluppo entro lo stesso anno.

Responsabilità condivisa, ma differenziata? Il caso della Cina

Tra tutti gli interventi condotti dai leader politici, quello di Xi Jinping, presidente della Repubbica popolare cinese, appare discordante: ha infatti dichiarato che la Cina si impegnerà a raggiungere il picco delle sue emissioni di gas serra prima del 2030 e che successivamente si impegnerà a diminuirle fino a raggiungere Net 0 prima del 2060. Lo stesso leader ha fatto riferimento a un principio del diritto ambientale internazionale abbreviato con “CBDR, ovvero “responsabilità condivisa ma differenziata”, affermando che i paesi sviluppati devono “perseguire obiettivi ambiziosi e aiutare i paesi in via di sviluppo nell’affrontare la crisi climatica”. Per capire cosa si intende oggi con CBDR bisogna analizzare sia il contributo storico dei diversi stati alle emissioni totali di gas serra, sia l’evoluzione legislativa di questo principio.

Secondo i dati raccolti nel database EDGAR, nel 2019 la Cina è stata responsabile 30.3% delle emissioni, gli U.S.A. del 13,4% e l’UE, assieme a UK, dell’8.7%. Se consideriamo invece le percentuali delle emissioni accumulate dagli stessi paesi dal 1751 al 2019, disponibili sul sito Our World in Data, osserviamo che la Cina ha contribuito per il 13.3%, gli U.S.A. per il 24.8% e l’UE per il 22% circa. A questo divario tra la situazione attuale e la prospettiva storica è dovuta la diatriba, portata avanti per diversi anni, su chi dovrebbe essere considerato maggiormente responsabile per il cambiamento climatico e agire di conseguenza: il principio CBDR è stato presentato a livello internazionale durante la Conferenza di Rio nel 1992, per poi essere meglio definito nel Berlin Mandate del 1995 e riproposto nel Protocollo di Kyoto del 1997. Il problema della sua prima definizione era dovuto al fatto che si attribuisse la responsabilità dell’azione in campo climatico ai paesi sviluppati, in quanto detentori della percentuale maggiore di emissioni a livello storico e del potenziale economico e tecnologico per rispondere ai cambiamenti climatici; in questo modo si trascurava il contribuito dei paesi in via di sviluppo, che sarebbero poi diventati tra i più grandi emettitori, come la Cina e, in percentuale molto minore, l’India. Questo principio si è evoluto: tutti i paesi all’interno degli accordi di Parigi sono chiamati ad essere attivi nel raggiungere Net 0 (soprattutto considerando che sarebbe molto difficile riuscirci senza la collaborazione della Cina). Come è emerso dal Summit, il ruolo di paesi sviluppati come gli Stati Uniti e i paesi dell’UE sarà quello di rendere disponibili il maggior numero di finanziamenti e strumenti affinché i paesi in via di sviluppo possano accelerare nella loro transizione verso un’economia indipendente dai gas fossili.

 “Imperativo morale, imperativo economico”: conciliare crescita economica e giustizia climatica

Se dovessimo estrapolare uno dei concetti più ricorrenti durante i giorni del Summit, questo sarebbe il multilateralismo. È fondamentale guardare alla crescita economica, alla crisi climatica e alla lotta per la giustizia sociale come a battaglie profondamente interconnesse: per riuscirci servono non solo grandi investimenti, ma anche “una sinergia tra il settore pubblico i privati”. Sono stati dedicati due panel alla discussione degli strumenti economici e legislativi da adottare per affrontare la crisi e delle innovazioni tecnologiche che dovranno essere implementate su larga scala nei prossimi anni.

Sia Angela Merkel, sia Ursula Von der Leyen sia Charles Michel hanno affermato l’importanza di adottare un sistema di tassazione sulle emissioni di gas serra e di rendere questo sistema il più omogeneo possibile a livello mondiale. La direttrice operativa dell’IMF Kristalina Georgieva ha espresso la necessità di portare il prezzo per l’emissione di una tonnellata di CO2 equivalente da una media mondiale di 2$ ad almeno 75$ entro il 2030 per garantire una transizione equa anche per i paesi la cui economia è fortemente dipendente dalle risorse fossili; al contempo bisognerà riformare i sussidi per i combustibili fossili sia per i consumatori, sia per i produttori. Se da una parte bisognerà alzare questi prezzi, dall’altra bisognerà rendere accessibili quelli delle nuove tecnologie per produrre energia da fonti rinnovabili affinché diventino disponibili su larga scala: è quello che cerca di realizzare il gruppo di investitori di Breakthrough Energy Coalition, il cui portavoce al Summit è stato Bill Gates: il mercato dell’energia pulita potrebbe raggiungere entro il 2030 un valore di 23 trilioni di dollari secondo Jennifer Granholm, attuale segretaria dell’energia statunitense. Sarà però necessario indirizzare capitali verso progetti in linea con l’obiettivo Net 0: Jane Fraser, presidentessa di Citi, e Marcie Frost, CEO di Calpers, hanno proposto di rendere obbligatorio, per chi richieda qualsiasi tipo di finanziamento, un report standard sui rischi del progetto stesso legati al clima, unico modo per poter contare su dati affidabili.

I finanziamenti dovranno essere resi accessibili ai paesi in via di sviluppo: in questo senso agisce l’African Development Bank, associazione finanziaria nata con la missione di promuovere investimenti che possano aiutare lo sviluppo di progetti e realtà imprenditoriali in Africa, come quelli dei 40 milioni di agricoltori africani che cerca di raggiungere. Il suo presidente Akinwumi Adesina ha evidenziato come l’Africa perda dai 7 ai 15 miliardi di dollari ogni anno a causa del cambiamento climatico.

Nonostante le differenze sociali e culturali, tutti i leader che hanno partecipato al summit sono d’accordo su un punto cruciale: le azioni concrete con cui risponderemo a queste domande nei prossimi dieci anni determineranno il futuro della nostra specie sul pianeta.

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Un semaforo per gli alimenti? Non esattamente: cos’é e come funziona il Nutri-score

Immaginate un sistema di etichettatura alimentare semplice, intuitivo e che aiuti a compiere scelte di acquisto consapevoli: si tratta dell’obiettivo di Nutri-Score, ideato dalla Public Health Agency francese e utilizzato per la prima volta proprio in Francia nel 2017. Si torna a discuterne oggi perché il 25 gennaio di quest’anno è avvenuta la prima riunione ufficiale della commissione transnazionale, di cui fanno parte Spagna, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Francia e Lussemburgo, creata allo scopo di coordinare, monitorare e incoraggiare l’utilizzo di Nutri-Score. Ma si torna a discuterne, soprattutto in termini scettici, in Italia: se da una parte alcuni paesi europei lo hanno accolto volontariamente, molti ritengono che questo sistema possa penalizzare fortemente i prodotti made in Italy. Da cosa nascono questo timore e queste critiche? Ma soprattutto, che cos’è e come funziona il sistema Nutri-score?

Nutri-score: cinque colori per orientare i consumatori

Quanti di noi conoscono precisamente il significato della dichiarazione nutrizionale specifica per ogni prodotto e sanno interpretare il valore nutrizionale delle percentuali di macronutrienti riportati sul retro delle confezioni? O ancora, quante volte leggiamo questa etichetta prima di scegliere quali prodotti mettere nel carrello? Nutri-score nasce per semplificare queste informazioni e renderle accessibili grazie a una scala di cinque colori, dal verde all’arancione scuro e dalla “A” alla “E”, attribuiti ad ogni prodotto sulla base di un algoritmo che assegna un punteggio considerando numerosi fattori nutrizionali. Più basso sarà il punteggio ottenuto da un prodotto, più si avvicinerà ad ottenere una “A”. I fattori che fanno avvicinare un prodotto a un’etichettatura verde sono la presenza di fibre, la quantità di frutta e verdura presente in esso e il contenuto proteico; i nutrienti invece da limitare in una dieta equilibrata, e che quindi fanno tendere il risultato ad un’etichettatura gialla o arancione, sono i grassi saturi, il sale, gli zuccheri e un contenuto calorico molto elevato; i punteggi ricavati da ogni fattore vengono sommati fino ad ottenere il Nutri-score effettivo.

Sono stati condotti esperimenti per mettere alla prova l’efficacia del Nutri-score nell’accrescere la consapevolezza dei consumatori: in uno dei più recenti, pubblicato nel sul “International Journal of Behavioral Nutrition and Physical Activity” nel novembre 2020, è stato chiesto a diversi campioni di popolazione scelti tra paesi diversi di ordinare tre prodotti della stessa categoria alimentare in base al valore nutrizionale che ognuno dei partecipanti gli avrebbe attribuito. I partecipanti avrebbero dovuto farlo prima avendo a disposizione solamente la dichiarazione nutrizionale, poi in base al punteggio assegnato ad ogni prodotto. Il risultato sembra scontato, ma é indicativo: Nutri-score si è dimostrato più efficace della semplice dichiarazione nutrizionale nell’aiutare i consumatori a mettere nel giusto ordine i prodotti che erano stati proposti (si trattava, nel caso di questo esperimento, di  cereali per la colazione e di tipi differenti di pizze surgelate).

Le critiche al Nutri-score: quali sono le perplessità che sorgono?

Nonostante alcuni paesi europei abbiano trovato un accordo per incentivare l’utilizzo di questa etichettatura (che rimane su base volontaria per le aziende produttrici), molte critiche sono arrivate soprattutto da parte dell’Italia. Le principali sono la potenziale non aderenza di questa etichettatura al modello della dieta mediterranea e il timore che alcuni prodotti made in Italy molto apprezzati, come il Parmigiano Reggiano o il prosciutto di Parma, vengano penalizzati da un punteggio molto basso (vicino alla “D”),fino a boicottarne l’export.

Questo sistema semplifica informazioni complesse, perció non deve essere considerato un indice assoluto da cui non discostarsi. Uno dei problemi fondamentali di queste critiche sta infatti nel fraintendimento dell’obiettivo dell’etichetta Nutri-score stessa: non è stata ideata per scoraggiare i consumatori dall’acquistare prodotti etichettati con “D” o “E”, come se fossero cibi da escludere categoricamente, così come non considera il valore gastronomico e tradizionale di un prodotto. I professionisti della nutrizione sono concordi nell’affermare che nessun alimento, escluso dal contesto dell’alimentazione individuale, sia “buono” o “cattivo”: un’etichettatura di questo tipo dovrebbe aiutare il consumatore a scegliere quali prodotti acquistare più frequentemente e quali più raramente. Alla luce di questo non dovrebbe stupire il punteggio ottenuto, per esempio, da un prodotto come il prosciutto, che in quanto prodotto a base di carne lavorata dovrebbe essere limitato nella nostra alimentazione. Il fraintendimento potrebbe derivare dall’impatto grafico che ha questa etichetta: siamo infatti abituati ad associare al rosso divieto o pericolo. Una comunicazione corretta in merito a questo sistema dovrebbe allora divulgare il fatto che non si tratti di un vero e proprio “semaforo alimentare”, ma di una scala indicativa.

Un’altra critica ha avuto origine da una comparazione tra l’etichetta che questo sistema assegnerebbe all’olio di oliva, una “C”, e alla Coca Cola zero, una “B”. Questo non significa però che la prima sia più salutare o che debba essere più presente in un regime alimentare rispetto al primo: il Nutri-score è molto più utile nel momento in cui i consumatori devono comparare prodotti della stessa categoria alimentare (come è stato richiesto nell’esperimento precedentemente citato). In questo caso i consumatori sapranno cogliere immediatamente la differenza tra l’olio di oliva e altri tipi di grassi vegetali o animali, così come quella tra la Coca Cola zero e bevande molto più zuccherate. Esistono inoltre algoritmi leggermente diversi da quello usato per gli alimenti in generale sia per i prodotti composti da grassi alimentari (come olio di oliva o burro) sia per le bevande (come succhi di frutta o bibite gassate).

È inevitabile pensare che, senza una corretta guida su come interpretare le etichette Nutri-score, si possa generare la stessa confusione che il questo sistema avrebbe l’obiettivo di risolvere. Non bisogna fare l’errore però di ignorare a priori questa ed altre proposte di etichettatura volte a semplificare e guidare la scelta dei consumatori in un campo complesso come quello dell’alimentazione.

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Digital Services Act e Digital Markets Act: le nuove normative europee sul mondo digitale

Il 15 dicembre 2020 la Commissione europea ha proposto una riforma dello spazio digitale al fine di renderlo più sicuro, aperto e conforme ai valori europei, introducendo nuove norme che disciplinano i servizi digitali applicabili in tutta l’Ue.

Tale riforma consiste in due nuove iniziative legislative: il Digital services Act e il Digital markets Act.

Secondo quanto dichiarato dalla Vicepresidente esecutiva per un’Europa adatta all’era digitale e alla concorrenza, Margrethe Vestager: “le due proposte perseguono un unico obiettivo: garantire a noi, in quanto utenti, l’accesso a un’ampia gamma di prodotti e servizi sicuri online e alle aziende che operano in Europa di competere liberamente ed equamente online così come offline. Si tratta di un unico mondo. Dovremmo potere fare acquisti in modo sicuro e poterci fidare delle notizie che leggiamo, in quanto ciò che è illegale offline è altrettanto illegale online.”

Perché la Commissione europea ha ritenuto necessario introdurre nuove regole?

La Commissione ha preso atto del fatto che l’enorme sviluppo dei servizi digitali che si è avuto negli ultimi decenni ha inciso significativamente sul nostro modo di vivere, introducendo nuovi modi di comunicare, informarsi e acquistare. Questo ha reso necessario introdurre normative a livello europeo per regolamentare i nuovi servizi digitali, i quali hanno sicuramente apportato notevoli vantaggi, come agevolare i consumatori nell’acquisto di beni e servizi e creare nuove opportunità per imprese e operatori economici, ma hanno anche causato alcuni problemi, in particolare l’illegalità dei contenuti e dei servizi on line.

Il Digital services Act


Questa legge ha lo scopo di disciplinare i servizi di intermediazione on line, che collegano i consumatori a beni, servizi o contenuti. Gli obiettivi principali sono: garantire una maggior protezione dei consumatori e dei loro diritti fondamentali on line; introdurre nuovi obblighi in materia di trasparenza e una maggiore responsabilità delle piattaforme on line; creare un mercato unico europeo che incentivi la competitività, l’innovazione e la crescita.

In concreto la Legge sui servizi digitali:

  • Consente agli utenti di segnalare con maggiore facilità la presenza on line di contenuti, beni o servizi illeciti e contrastare le decisioni delle piattaforme circa la rimozione dei contenuti;
  • Prevede obblighi di trasparenza per le piattaforme on line riguardo le norme sulla moderazione dei contenuti e sulla pubblicità
  • Introduce nuove norme sulla tracciabilità degli utenti commerciali nei mercati on line, al fine di scoraggiare la vendita di prodotti o servizi illegali;
  • Introduce maggiori obblighi per le piattaforme on line dette sistemiche, cioè quelle che raggiungono oltre il 10% della popolazione dell’Ue, le quali sono tenute a prevenire possibili abusi dei loro sistemi adottando misure basate sul rischio e alla introduzione di una nuova struttura di sorveglianza;
  • Al fine di garantire l’applicazione delle norme in tutto il mercato unico europeo, prevede l’obbligo per ogni Stati membro di designare un Coordinatore dei servizi digitali, organo indipendente che ha il compito di vigilare sul rispetto delle norme sul proprio territorio e che sarà sostenuto nello svolgimento delle proprie funzioni da un Comitato europei per i servizi digitali.

Il Digital Markets Act


Introduce nuove norme per cercare di risolvere i problemi causati dai comportamenti scorretti delle cosiddette “Gatekeeper”, cioè quelle “piattaforme on line di grandi dimensioni che esercitano una funzione di controllo dell’accesso”, che spesso approfittano del forte impatto che hanno sul mercato digitale mettendo in atto pratiche commerciali sleali.

In base alla legge un’impresa per poter essere definita Gatekeeper deve rispettare tre criteri:

  • Detenere una posizione economica forte
  • Avere una forte posizione di intermediazione tra utenti e imprese
  • Detenere una posizione solida e duratura sul mercato.

Per queste piattaforme on line sono previsti determinati obblighi e divieti che hanno lo scopo di creare un mercato unico più equo, competitivo e innovativo, consentire ai consumatori di disporre di più servizi e a prezzi più convenienti e di impedire ai Gatekeeper di tenere comportamenti iniqui.

Le due leggi sul mondo digitale proposte dalla Commissione nei prossimi mesi saranno discusse dal Parlamento europeo e una volta adottate saranno direttamente applicabili in tutti gli Stati membri.

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Pedalare sulla Notte Stellata di Van Gogh: arte ed ecosostenibilità

Vicino Eindohoven, in Olanda, precisamente nella cittadina di Nuenen, è stata realizzata una pista ciclabile illuminata da ciottoli fosforescenti incorporati nel manto stradale, i quali di giorno assorbono la luce solare per poi rilasciarla di notte illuminando il percorso. L’effetto voluto è quello di ricreare l’atmosfera della celeberrima opera d’arte “La notte stellata” dell’artista olandese Van Gogh, omaggiando così la sua arte in uno dei luoghi in cui l’artista stesso ha vissuto un periodo della sua vita.

Van Gogh path

Nata dall’idea del designer olandese Daan Roosegaarde, “Van Gogh Path” è il nome di questa innovativa pista ciclabile, progettata in occasione del “Van Gogh 2015 International Theme Year” dedicato ai 125 anni dalla scomparsa dell’artista e successivamente inaugurata il 13 novembre dello stesso anno. Daan Roosegaarde, con la collaborazione di Heijmans Infrastructure, è riuscito a realizzare un asfalto smart con macchine road printer: le luci sono interattive, la vernice utilizzata è dinamica, si ricarica durante il giorno e la sua autonomia può arrivare fino ad 8 ore. La strada, lunga un chilometro, è stata realizzata con migliaia di pietre scintillanti dotate di luci a LED ad energia solare e di tecnologia glow-in-the-dark. Di notte, la pista si illumina offrendo uno spettacolo mozzafiato, gradito da turisti, residenti e soprattutto dai ciclisti. Dotata di ulteriori luci a LED in alcuni punti del percorso che garantiscono luce supplementare nel caso in cui le pietre non si siano caricate a sufficienza durante il giorno, la sua illuminazione non interferisce con l’ambiente circostante, né reca disturbi visivi ai ciclisti stessi, i quali si ritrovano immersi in una pedalata sulle stelle di Van Gogh.  Aggiungendosi alla pista già esistente lunga 335 chilometri, questo nuovo tratto collega due mulini a vento, in un percorso che permette di visitare i luoghi della vita del noto artista olandese.

Smart highway…

Quest’opera è la seconda di cinque segmenti che rientrano nel progetto “Smart Highway” dello Studio Roosegaarde, laboratorio di progettazione sociale che con il suo team di designer ed ingegneri professionisti ha sede in Olanda e a Shangai. L’obiettivo è quello di rendere le strade intelligenti, interattive e rispettose dell’ambiente, sfruttando la luce del sole, l’energia e la segnaletica stradale.

…e tecno-poesia

Il risultato di questo lavoro? Una pista ciclabile innovativa ed ecosostenibile, che combina arte e sostenibilità ambientale, attraverso soluzioni tecnologiche all’avanguardia, promuovendo ancora una volta la mobilità eco-sostenibile con l’utilizzo delle biciclette, tipiche dell’Olanda. Tutto ciò viene definito dall’artista e designer “tecno-poesia”, ovvero la tecnologia combinata con l’esperienza attiva.

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Le parole dell’Europa: una mini guida per muoversi fra le scelte dell’UE

Negli ultimi mesi si è discusso molto di come l’Europa potrebbe superare la crisi finanziaria post Coronavirus: fin da subito è stato chiaro che sarebbe stato necessario adottare misure precauzionali al fine di limitare i danni economici e finanziari che gravano sulle economie europee, con l’obiettivo di preparare l’Unione al meglio una ripresa che si speri il più rapida possibile.

Da quanto emerge dalle riunioni della Commissione Europea non si è ancora raggiunto un accordo, ma si sono messe in tavola differenti opzioni: il MES, o Meccanismo Europeo di Stabilità, i Coronabond (o Eurobond, molto richiesti dall’Italia) e infine il Recovery Fund.

È però necessario fare chiarezza su cosa sono questi strumenti e come possono essere utilizzati dai vari Stati Membri per poter affrontare questa crisi.

Perché c’è stato bisogno di un fondo salva-Stati?

 

La storia dell’UE è piena di esempi dove Stati Membri si sono trovati in crisi economica.

Gli Stati dell’Unione non potevano agire in loro soccorso (secondo quanto riporta l’art. 123 dei Trattati), in quanto un Paese che avrebbe ricevuto un aiuto economico sarebbe poi stato obbligato a prestare protezione a quel Paese che inizialmente gli aveva prestato aiuto, creando cosi una rete di vincoli che nell’Unione non devono esserci.

Per ovviare al problema, è stato creato un fondo temporaneo diventato nel luglio del 2012 permanente: il MES, un’organizzazione internazionale nata come fondo finanziario europeo che si propone di mantenere la stabilità finanziaria della zona Euro. Ad oggi conta una capacità di oltre 650 miliardi di euro e ha sede in Lussemburgo. La sua gestione è affidata a un Consiglio di Governatori costituito dai ministri delle finanze dell’UE, un consiglio di Amministrazione nominato proprio dai Governatori, un Direttore Generale e due osservatori.

Utilizzato più volte per soccorrere paesi come Portogallo, Grecia, Spagna o Cipro, ha scatenato molte polemiche tra economisti e politici per la sua regolamentazione: gli impegni previsti dal dispositivo sono molto rigidi sia dal punto di vista economico che politico per lo Stato che ne intende beneficiare. Chi riceve i prestiti è obbligato ad approvare un memorandum -un programma- che definisce con stretta precisione quali misure dovrà rispettare e quali obiettivi raggiungere, come ad esempio i tagli al debito pubblico.

Come funziona e chi lo gestisce?

 

L’assistenza sarà fornita solo successivamente ad un iter che lo Stato in difficoltà dovrà seguire:

  1. Lo stato dell’UE che necessita di aiuto, deve, insieme alla Commissione e alla Banca centrale europea, valutare il suo fabbisogno finanziario.
  2. Sottoporre alla Commissione una bozza, in cui si espone il proprio programma economico-finanziario di aggiustamento.
  3. Nel caso in cui venga accettata la richiesta, la linea di credito dovrà essere accompagnata da tali informazioni: le modalità dell’assistenza finanziaria, le condizioni generali di politica economica, legate all’assistenza finanziaria UE, alle quali lo Stato dovrà attenersi ed infine l’approvazione del programma di aggiustamento predisposto dal paese destinatario.
  4. La Commissione verifica poi a scadenze regolari che la politica economica del paese beneficiario sia conforme con il programma di aggiustamento presentato ed alle condizioni stabilite dal Consiglio, così da poter continuare ad erogare l’aiuto finanziario.

Come verrà impiegato?

 
Il MES era e rimane tutt’ora l’organizzazione più simile ad un “prestatore di ultima istanza”, con l’obiettivo di soccorrere i paesi in difficoltà finanziaria. La pandemia ha obbligato a rivederne l’applicazione con un fondamentale criterio di novità: la sua adozione è senza condizioni.

Con la nuova riforma questo ruolo sarà più semplificato, infatti il fondo assumerà la funzione di backstop (paracadute finale): nel momento in cui una o più banche dovessero trovarsi in situazioni di estrema difficoltà, il MES agirà da garante stanziando 70 miliardi sotto forma di linea di credito; un’ulteriore novità è l’introduzione di un percorso semplificato per poter godere dei finanziamenti del Meccanismo. Parliamo però di una riforma non ancora approvata: la votazione è stata posticipata per dare priorità alle problematiche date dalla pandemia.

Cos’è il Recovery Fund?

 

Il Recovery Fund è un fondo di recupero richiesto fortemente dagli stati del Sud Europa, per cercare di limitare al massimo i danni creati da questa pandemia.

La prima proposta sul fondo, avanzata da Francia e Germania, si basava su concessioni esclusivamente a fondo perduto; successivamente è stato poi presentato dalla Commissione Europea un ulteriore progetto che prevedeva sia finanziamenti che concessioni a fondo perduto.

Come Funziona il Recovery Fund?

 

Con la proposta dei francesi, il Recovery Fund aveva il compito di emettere Recovery Bond, quindi titoli di debito pubblico Europeo garantiti dagli stessi bilanci UE, cosi da poter condividere il debito e il rischio senza dover affrontare una vera mutualizzazione.

Cos’è un titolo di debito pubblico, obbligazione o bond?

 

Il titolo di debito pubblico è un prestito che gli investitori, quindi imprese e famiglie, danno allo Stato per un determinato periodo di tempo, al termine del quale otterranno indietro il capitale prestato maggiorato degli interessi. Quindi è un prestito a favore dello stato, che assumerà quindi l’obbligo (“o l’obbligazione”) di restituire tale somma ottenuta maggiorata degli interessi maturati nel tempo.

Quanti fondi saranno a disposizione e in che forme?

 

750 miliardi di euro: 500 saranno distribuiti come sovvenzioni, quindi contributi finanziari a fondo perduto (che non prevedono ne la restituzione dei capitali, ne degli interessi), e 250 come prestiti agevolati.

La differenza tra prestiti e sovvenzioni è in merito alla restituzione dei capitali ottenuti: le sovvenzioni dovranno essere ripagate da tutti gli Stati, indipendentemente da quanto e se ne avranno ricevuto una parte; i prestiti invece dovranno essere restituiti applicando tassi di interesse bassi solo da coloro che ne usufruiranno entro il 2058, anno in cui dovranno essere restituiti.

Chi potrà beneficiare del Recovery fund?

 

I 750 miliardi verranno ripartiti tra i vari Stati in base alle necessità di ciascuno Stato, infatti l’Italia sarà il maggior beneficiario ottenendo 172,7 miliardi di euro: 81,8 miliardi saranno sotto forma di sovvenzioni e 90,9 miliardi come prestito agevolato. Dopo l’Italia c’è la Spagna con 140,4 miliardi totali, la Polonia e successivamente la Francia.

E gli Eurobond, cosa sono?

 

Non è la prima volta che gli Eurobond entrano nelle discussioni della Comunità Europea: erano già stati proposti nel 2011/12 durante la crisi dell’Eurozona, ma bocciati dalla forte opposizione della Germania e dei suoi alleati per gli stessi motivi che ne bloccano tutt’ora l’applicazione.

Gli Eurobond sono un altro strumento finanziario che permetterebbe agli Stati UE di poter condividere il debito: ha incontrato forti resistenze dalla Germania e dagli Stati del Nord, in quanto questi ultimi hanno bilanci e conti in ordine, quindi senza debito pubblico, cosa che non li accumuna ai Paesi del Sud; la preoccupazione è che attraverso questo strumento, si possano condividere i debiti con l’Europa, rischiando di squilibrare anche i conti degli altri Stati membri.

I Coronabond, fortemente richiesti durante le trattative per superare la crisi post-COVID, sono obbligazioni del tutto simili agli Eurobond che nascono espressamente per far fronte alle spese legate alla pandemia. Questi bond potrebbero essere emessi o da un’istituzione europea o da un singolo Paese Membro.

 Differenza tra Coronabond e Recovery Bond?

 

Si può pensare che i due strumenti siano uguali: sono titoli di debito pubblico europeo entrambi, emessi per fronteggiare la crisi post Coronavirus e danno interessi a coloro che prestano i loro soldi all’UE.

La sostanziale differenza tra queste due soluzioni riguarda il modo in cui il debito è condiviso tra i vari membri dell’Unione: scegliendo il Coronabond uno Stato condivide tutti i propri debiti contratti precedentemente con gli altri Stati (ad esempio spese per l’innovazione) mentre con i Recovery Bond -che ricordiamo, sono i bond emessi dal Recovery Fund- i debiti condivisi con gli altri Stati Membri saranno solo quelli contratti nel periodo post pandemia: un bel danno per i Paesi più indebitati.

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L’UE e il tortuoso percorso per fronteggiare l’emergenza Covid-19

Da febbraio la pandemia del Covid-19 e la successiva crisi economico-sanitaria hanno colpito -e stanno tutt’ora colpendo- anche se in misure differenti tutti i paesi dell’Unione Europea.

Le istituzioni comunitarie stanno mettendo a punto diverse manovre per contrastare la diffusione del virus e stimolare la ripresa economico-sociale degli stati membri, fra cui ovviamente l’Italia.

Sotto il profilo sanitario e di ricerca le iniziative sono tantissime: il principale obiettivo della Commissione Europea è fornire un costante supporto ai sistemi sanitari nazionali: a marzo l’organo esecutivo guidato da Ursula von der Leyen ha dichiarato di sostenere lo sviluppo di un vaccino attraverso l’operato della società CureVac. Sono stati investiti 137,5 milioni di euro a sostegno della ricerca che si sommano a 164 milioni per finanziare startup e imprese tecnologiche che siano intenzionate a sviluppare metodi innovativi per contrastare il virus.

I provvedimenti economici sono quelli che hanno maggiormente lasciato adito a critiche e discussioni, mettendo a rischio per un momento la credibilità della stessa Unione: alcuni stati, soprattutto nel periodo più critico, hanno recriminato a proposito del deficit di aiuti da parte delle istituzioni dell’Unione. La proposta del piano “Next Generation Eu”, presentato ufficialmente dalla presidente Ursula Von Der Leyen il 27 maggio 2020, ha sanato un po’ la situazione limitando le polemiche.

Il piano, riconducibile a tutti gli effetti al meccanismo di Recovery Fund, è l’ultimo e forse più efficace step del lungo percorso avviato dall’Europa per mitigare gli effetti letali del virus verso le economie continentali.

La manovra, che dovrà prima essere approvata, ha il valore 750 miliardi di euro di cui si stima circa 173 miliardi saranno destinati all’Italia.

La parte più innovativa consiste nel fatto che la Commissione sta progettando nuove forme di pagamento attraverso cui i paesi coinvolti possono risanare il debito. La presidente della Commissione ha ipotizzato tasse che potrebbero essere imposte ai giganti del mondo digitale e legate alla sostenibilità ambientale, come una imposta sulle emissioni di CO2.

Prima del Recovery Fund sono state già approvate una serie di misure volte ad aiutare l’Italia e gli altri paesi membri dell’Unione che si trovano in difficoltà, tra cui lo stop del patto di stabilità e il “Pandemic Emergency Purchase Programme ” istituito dalla Banca Centrale Europea a fine marzo.

Nel nostro paese ci sono state tuttavia una serie di polemiche e opinioni discordanti riguardo alla proposta di creare una nuova linea di credito del MES, presentata e approvata il 23 aprile scorso dalla Commissione Europea. Le prese di posizione contrarie al MES derivano dall’idea che, per usufruire dei finanziamenti, i paesi membri abbiano l’obbligo di sottostare a rigide condizioni tra cui la sorveglianza rafforzata. Ciononostante nei primi giorni del mese di maggio, l’Eurogruppo è riuscito a trovare un accordo in grado di rendere il MES uno strumento più idoneo a questo periodo di crisi economico-sanitaria: ogni stato potrà usufruire di prestiti a tassi agevolati e l’unica condizione a cui dovrà sottostare è destinare i soldi derivanti dal MES unicamente a spese sanitarie. È stato poi concordato che gli stati membri possono ricevere finanziamenti fino al 2% del proprio PIL.

I partiti politici italiani restano distanti rispetto all’accettare o meno gli aiuti europei, e anche a livello europeo ci sarà molto da fare per trovare una quadra rispetto alle tante idee che si stanno discutendo. Il lavoro della Commissione sembra comunque già a buon punto, e la sensazione è che l’Europa possa fronteggiare finalmente in maniera unitaria la crisi economica che prepotentemente si sta affacciando.