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Ambiente, società e tecnologia

Ricehouse, la soluzione per un’architettura sostenibile: intervista a Tiziana Monterisi

Sul nostro magazine oggi vogliamo riportarvi l’intervista a Tiziana Monterisi, CEO e Co-fouder di Ricehouse, startup innovativa e società benefit impegnata nel settore della bioedilizia con l’obiettivo di sviluppare prodotti e servizi attraverso la valorizzare degli scarti del processo di coltivazione del riso.

Tiziana, com’è nata l’idea e da quanto tempo siete attivi sul mercato?

Ricehouse è stata costituita a fine 2016 ed è entrata sul mercato, quasi con esattezza, un anno dopo, con la prima fiera che abbiamo fatto, CasaClima 2018, dove ci siamo presentati al mercato con i primi 3 prodotti. In realtà l’idea è nata molto prima. Fin dall’università mi sono sempre occupata di architettura sostenibile e di cercare soluzioni alternativa sia a livello di materiale sia a livello di tecnologie.

Successivamente, tra il 2010 e il 2012, ho iniziato a pormi delle domande rispetto a quello che vedevo bruciare all’interno dei campi di riso, e da lì è nata tutta la mia ricerca legata agli scarti del riso, l’uso della paglia (anche in architettura) e il mancato impiego della paglia di riso rispetto, invece, ad altre tipologie di paglie.

Prima della nascita della nostra startup è stata svolta un’analisi all’interno del mio studio di architettura legata alla ricerca dei materiali naturali e alla sperimentazione, anche nei miei cantieri. In questo discorso si inserisce anche la casa in cui viviamo, costruita nel 2013 e che rappresenta il nostro esperimento costante. Da queste fasi abbiamo compreso di avere un materiale molto interessante dal punto di vista tecnico-scientifico, per le sue prestazioni, e soprattutto dal punto di vista dell’impatto ambientale. A tutto questo si unisce la consapevolezza da parte nostra di avere realmente in mano una situazione che davvero potrebbe cambiare il settore dell’edilizia, il terzo più impattante che l’uomo realizza tutti i giorni. La mia volontà consisteva nel portare quello che avevamo fatto in maniera artigianale e in quantità molto piccola, a livelli industriali.

Da qui decidiamo di fondare Ricehouse, io e il mio compagno (50-50%), dove, per 4 anni, assieme ai miei colleghi dello studio di architettura, abbiamo da un lato, in maniera parallela, mantenuto e continuato la progettazione, dall’altro abbiamo cominciato a cercare partner industriali per rendere industriale il prodotto che avevamo fatto a livello artigianale. Abbiamo pertanto brevettato delle ricette e trovato dei partner industriali. Oggi lavoriamo con 5 produzioni diverse, non ci limitiamo ad un solo prodotto. Quello che abbiamo fatto, e che continuiamo a fare costantemente, è la ricerca su come è possibile sostituire alcuni materiali dell’edificio attraverso lo scarto del riso. Nello specifico, lo scarto del riso rappresenta la componente principale mentre il legante è quella piccola parte che però, per noi, è molto importante perché sia sempre naturale, formaldeide free, che a fine vita mi possa permettere di: compostare il materiale, riciclarlo al 100% per rifare lo stesso materiale oppure riciclarlo per ottenere altre cose come i sottofondi stradali o altro.

Ad oggi il team è composto da 16 persone, lo studio è stato completamente integrato all’interno della startup e ci occupiamo di 3 grandi tematiche basate sui concetti di economia circolare e di valorizzazione dello scarto di riso.

Abbiamo l’unità progetto, all’interno della quale sviluppiamo progetti che facciamo realmente in maniera totale, a partire dalla pratica fino ad arrivare alla realizzazione.

La seconda area è l’unità prodotto, incentrata sulla ricerca e lo sviluppo di prodotti che, attraverso i partner industriali, produciamo per venderli in maniera diretta. Ad oggi non abbiamo una rete commerciale, non abbiamo negozi e rivendite, vendiamo in maniera diretta tutto: mattone, pittura, intonaco, sottofondo, pannello. Tutto ciò che serve per comporre un edificio a impatto zero, esclusivamente fatto con materiale derivante dallo scarto del riso, ad esclusione del materiale per la struttura. Questa può essere di 3 tipologie: cemento armato classica, acciaio oppure in legno. Noi prediligiamo quella in legno assemblata a secco con tutta l’innovazione tecnologica ma di fatto i nostri materiali possono essere usati da chiunque, sia per nuove costruzione sia per ristrutturazioni.

La terza unità è l’open innovation che si occupa di ricerca e sviluppo, sia per nuovi prodotti che vogliamo portare sul mercato, sia con altre (anche grandi) aziende interessate a collaborare per cercare di capire come il nostro scarto possa valorizzare la loro produzione e renderla sostenibile.

Oggi Ricehouse è sì una startup innovativa ma, di fatto, ha 3 grandi unità che vanno dal chi vuole il “chiavi in mano” in casa di riso progettata da noi, a chi vuole solo il prodotto, a chi invece collabora con noi per svolgere continuamente ricerca e sviluppo.”

Come funziona il vostro modello di economia circolare e quali servizi e prodotti offrite?

“Abbiamo analizzato la filiera del riso e ciò che ci ha spinto a capire che era molto stimolante, riuscendo a vedere una risorsa all’interno della risaia, risiede nel fatto che, innanzitutto, l’Italia rappresenta il primo produttore in Europa di riso (e noi siamo finiti con il vivere a Biella, il paese più a nord che produce riso), ma questo è presente in tutti e 5 i continenti, in più di 100 paesi, e la stessa materia prima è presente annualmente, anzi, in Asia, ad esempio, fanno 2 raccolti all’anno, a volte anche 3. Lo scarto rappresenta circa il 30% della produzione. Noi valorizziamo solo ed esclusivamente questo scarto che si compone principalmente di paglia e di lolla (la pelle del chicco), gli elementi più importanti che oggi vengono letteralmente bruciati, emettendo CO2. Da qui, produciamo materiali naturali al 100%, attraverso l’impiego di leganti diversi, come amidi, magnesite, argilla. A fine vita avranno destinazioni diverse.

Per me, ripeto, l’impatto ambientale è sempre stato molto importante, pertanto il discorso alla base è: oggi lo produco, generando un impatto, poi verrà usato dall’operaio per 40 anni, generando su se stesso un impatto molto forte, e, a fine vita, l’impatto dovrà essere zero.

Ecco perché la nostra ricerca è sempre stata nel legante, che a volte è quel 5-10% ma che è molto importante, perché, se fosse un legante chimico, il prodotto non sarebbe più riciclabile o compostabile. I nostri materiali invece, a seconda del legante, hanno 3 destinazioni.

Possono essere riciclati, per ottenere lo stesso prodotto, o vengono triturati, per fare sottofondi stradali (abbiamo un legante che rende inerte lo scarto), oppure vengono messi in un biodigestore, quelli compostabili, producendo energia elettrica e termica e ottenendo un fertilizzante che può tornare direttamente al campo di riso. Ecco perché la filiera è veramente chiusa, senza la produzione di nessun tipo di rifiuto.

Oltretutto, aspetto molto importante, attiviamo una nuova filiera. Ricehouse è al centro di questa filiera (una sorta di snodo) che parte dall’agricoltore, il primo soggetto che opera sul campo, da quale compriamo la paglia, che così non viene bruciata. Nello specifico, non paghiamo tanto per lo scarto, quanto la lavorazione che l’agricoltore fa per noi, quindi la raccolta, lo stoccaggio, l’imballaggio. Deve seguire un protocollo che per noi è fondamentale per rendere quel sottoprodotto agricolo un prodotto industriale per le costruzioni. In questo modo loro hanno una nuova microeconomia e un risparmio. Il risparmio è dato dal fatto di non dover più bruciare, dal non dover pagare multe (molto salate) a livello regionale perché non devono più entrare nel campo a trinciare, quindi risparmiano gasolio e manodopera. In più hanno una nuova economia, perché fisicamente noi li paghiamo.

Da un altro lato, lavoriamo con diversi partner industriali italiani che producono riso. In questo caso, facciamo arrivare lo scarto, lo lavoriamo se deve essere lavorato, perché, ad esempio, la paglia e la lolla in alcuni prodotti vengono usati tali e quali, in altri abbiamo invece la necessità, per esempio, di macinarli, di sfibrarli, di ridurli. Quindi noi facciamo fare al terzista questa lavorazione e poi arriva al processo industriale. Per esempio abbiamo messo a punto una miscela di lolla che serve per la stampa 3D dove stampiamo oggetti di design. Ovviamente lì la pelle del chicco non può essere tale e quale perché è grande circa 5 mm, ma viene micronizzata, quindi noi facciamo fare al terzista prima questa lavorazione e poi viene mandata alla stampa in 3D dove facciamo l’altra miscela. Quindi noi gestiamo tutta la filiera. Quando il prodotto è pronto, viene commercializzato e arriva all’impresa edile che realmente lo utilizza nel suo cantiere.”

Quali risultati avete ottenuto in termini di edifici costruiti, collaborazioni e riconoscimenti?

“In termini di edifici costruiti, ad oggi abbiamo più di venti case interamente progettate e costruite da noi e più di 90 cantieri che hanno utilizzato i nostri prodotti, a volte alcuni, a volte tutti, dipende dalle situazioni. Grazie all’incentivo del Governo del superbonus per il decreto crescita avremo un esplosione, perché solo quest’anno stiamo progettando 20 nuovi cantieri di cui 4 grandi condomini (uno a Milano, molto grosso, che porteremo a energia zero attraverso un cappotto fatto di lolla).

Prima di parlare dei riconoscimenti ottenuti, vorrei dire che inizialmente abbiamo provato su di noi, in maniera artigianale fatto in cantiere, all’interno del quale ero il direttore dei lavori e pertanto poteva prendermi le responsabilità. L’abbiamo provato con diversi clienti. Una delle prime case è stata costruita nel 2016 a Chamois, in alta Valle d’Aosta, ed è stata premiata anche come casa sostenibile nel 2017. Il cliente, in quel caso, era ben consapevole del fatto che erano tutti materiali sperimentali ma era molto illuminato e intenzionato nel volere una casa di riso, senza riscaldamento, e si è affidato alla nostra progettazione. Da quel momento abbiamo capito che potevamo davvero fare la differenza nel mondo dell’edilizia industrializzando qualcosa che in realtà è sempre stato usato in antichità, perché non ho inventato niente, lo trovavo nelle cascine e nelle ristrutturazioni di case storiche. Utilizzavano questi materiali perché erano quelli che avevano a disposizione.

Il poter fare il passaggio e renderlo industrializzabile, dialogabile realmente con i macchinari, con la manodopera, con le logiche del cantiere di oggi, è sicuramente stato, ed tutt’oggi, un grande impegno nel quale noi crediamo e investiamo, perché potremmo davvero ridurre l’impatto dell’edilizia in maniera drastica perché, di fatto, la materia prima è presente in quantità infinita e si rinnova ogni anno, quindi non abbiamo problemi di materia prima. Dall’altro, se riuscissimo ad aumentare le produzioni, potremmo veramente fare la differenza sul mercato.

I riconoscimenti sono stati davvero tanti dal 2018, quando ci siamo presentati a CasaClima, la fiera più importante in Italia sull’edilizia sostenibile. Abbiamo ottenuto un doppio riconoscimento in termini di innovazione di prodotto, perché sostenibile ed efficace, e di impresa. Abbiamo ottenuto diversi premi come progetto imprenditoriale legato al concetto di economia circolare e di impatto, sia livello ambientale che sociale, pur essendo una società profit che vuole fare business. A livello societario, dall’anno scorso ci siamo trasformati in una società benefit e abbiamo fatto la certificazione B Corp perché, voglio sottolineare, la nostra intenzione è sì quella di fare profitto ma ponendo massima attenzione all’ambiente e all’ambito sociale. Quando ne parlavamo quasi dieci anni fa eravamo visti come dei matti, oggi in realtà sono tante le aziende, anche quelle molto grandi, che parlano e tornano a definire un’etica del business. Oggi lo si può fare anche a livello societario, dove essere una società di capitale (S.r.l. o S.p.A.) può essere anche una S.B., società benefit, dove, a fine anno, è presente non solo un bilancio economico ma anche a livello di impatto ambientale e sociale. Per noi rappresentano i pilastri della nostra startup.

A livello di numeri, siamo passati da 4 persone a 16. Abbiamo avuto una grande evoluzione, soprattutto negli ultimi 7 mesi, perché fino a settembre eravamo in 6, da settembre ad oggi sono entrate 10 persone nuove. Non è semplice perché da un lato c’è tanto lavoro e dall’altro c’è l’inserimento di tante nuove persone.

Tutto era nato proprio dal fatto di aver costruito questa casa, anche molto grande, ma noi effettivamente siamo soltanto in 3 (io, il mio compagno e nostra figlia). Da qui, la decisione di mettere l’ufficio al suo interno, perché ci rappresenta. Il problema è che oggi siamo in 16 e quindi c’è questa grande commistione, quasi un po’ comunitaria, soprattutto perché da un anno non usciamo più. Però di fatto ci ha davvero molto rappresentato. Le persone che vengono qui, nel momento in cui vedono con i loro occhi il fatto che la casa non ha riscaldamento, non ha condizionatore, è isolata e rifinita con i nostri materiali, è sempre stata una carta vincente, e ci rappresenta realmente. Adesso però non ci stiamo più perché siamo oggettivamente troppi quindi stiamo immaginando una nuova sede.

Anche a livello numerico abbiamo sempre raddoppiato il fatturato: l’anno scorso abbiamo chiuso a 345 mila euro e quest’anno pensiamo di decuplicare il fatturato, quindi arrivare a quasi 3 milioni di euro.”

Durante il vostro percorso quali difficoltà avete riscontrato e che impatto ha avuto il Covid-19 sulla vostra attività?

15 anni fa, quando ho iniziato a utilizzare questi materiali e parlarne, non c’era veramente consapevolezza. I pochi clienti erano veramente molto illuminati dal punto di vista alimentare, quindi più legati al concetto di salute e ad una alimentazione biologica e sana. Quindi una serie di aspetti, provenienti da altri ambiti, che li portava ad avere un edificio “sano”. Oggi, soprattutto con il Covid, si è verificato un grande cambio epocale, a livello proprio di consapevolezza in quanto, a causa del fatto di dover rimanere nelle proprie abitazioni, si è capito che forse le nostre case non sono così sane. Soprattutto per chi vive in ambienti piccoli, senza un giardino, un terrazzo e non potendo uscire.

Anche dal punto di vista imprenditoriale si è verificato un cambiamento. 15 anni fa, quando disegnavo le mie filiere a ciclo chiuso (non si chiamava economia circolare) e i metanodotti che portano il petrolio dall’Arabia a qui, la gente mi guardava veramente molto stranita, perché secondo loro il business era altro e quella lì sarebbe rimasta una nicchia. Oggi invece non è una nicchia.

Oggi però bisogna parlare di economia circolare seria”, perché, purtroppo, ancora viene associata al concetto di riciclo ma il riciclo non è economia circolare. Questo non vuol dire che bisogna partire sempre e solo dalla natura. Io non sono contro la plastica e la chimica, sono per provare delle soluzioni che veramente possano chiudere quel cerchio e quindi, se parto da un polimero, devo poter tornare a quel polimero. Il problema della nostra generazione risiede nel fatto che siamo cresciuti 4 volte rispetto alla popolazione mondiale ma il nostro consumo di materia è cresciuto 12 volte, quindi utilizziamo in maniera esponenziale tutto ciò che è prodotto (dentifricio, spazzolino, macchina, scarpe, qualsiasi cosa noi utilizziamo ogni giorno).

Oggi abbiamo tutti molto chiaro la questione ambientale. L’Europa ce l’ha chiaro, la Cop21 a Parigi ha dettato dei parametri molto precisi per arrivare al carbon zero e, per arrivarci, dobbiamo fare una scelta davvero molto drastica oggi, dal punto di vista di “smetto l’economia lineare per l’economia circolare”, ognuno nel suo ambito, perché la materia è molto facile da capire ed è chiaro che ci sono i sacchetti di plastica in mare ma, per esempio, l’uso del digitale, non ce ne rendiamo conto, ha un impatto a livello di CO2 elevatissimo. Mandare un’email emana non so quanti kg di CO2 e i server Google per essere raffrescati hanno bisogno di tutta una tecnologia che emana CO2, quindi anche quello che è la materia che non possiamo percepire, che non è tangibile, ha un impatto ambientale molto elevato. Ripensare il nostro stile di vita in maniera veramente sostenibile è ormai un’esigenza costante, non possiamo più farne a meno. Ognuno nel suo ambito, perché ovviamente non è che tutto può essere giusto se è naturale. Se taglio un albero e non lo rimpianto, può essere considerato naturale ma sto facendo una cosa sbagliata. Quindi è veramente il riuscire a guardarsi da fuori e ripensare i nostri modelli di business, perché noi viviamo su delle economie, e domandarsi allora se può essere davvero sostenibile un’economia, dal punto di vista economico, sennò non è business, dal punto di vista sociale e ambientale. Se riusciamo davvero a fare questo, i giovani avranno un futuro davanti, altrimenti la vedo davvero molto drastica. Anche se io sono molto positiva e cerco delle soluzioni, queste però vanno volute da tutti, non più da una nicchia.”

Avete recentemente ottenuto un finanziamento di 600 mila euro, come saranno investite le risorse ottenute e quali sono i vostri obiettivi per il futuro, sia dal punto di vista nazionale che internazionale?

“L’anno scorso abbiamo vinto B-Heroes, un programma di accelerazione per startup. Quella vincita ha fatto sì che decidessimo appunto di aprire la società a un round di investimento, perché la società è stata fondata da me e il mio compagno, ma abbiamo ritenuto che eravamo abbastanza forti per aprire una società e diventare grandi in qualche modo. Sono entrati degli importanti soci come Riso Gallo, Jean-Sébastien Decaux, il Fondo Avanzi, un fondo di Giordano Dell’Amore, e Banca Etica che investe sull’impatto ambientale e l’impatto sociale. Riteniamo che con quella parte di investimento riusciamo a solidificare, in maniera scientifica, la veridicità dei nostri prodotti. Stiamo pertanto attivando tutta una serie di certificazioni, a livello proprio di prodotto, oltre all’investimento in nuovi prodotti, ad oggi non impianti, perché crediamo di poter continuare a lavorare con partner industriali, e abbiamo la visione di poter veramente interfacciarci con il mercato non solo italiano, dove ovviamente questo 110 ci da un aiuto in termini di sviluppo, ma soprattutto con i mercati europei, per quanto riguarda il nostro prodotto venduto lì, e i mercati asiatici, per quanto riguarda l’esportazione di tutto il know-how e di tutta la filiera.”

Ultima domanda: quali consigli daresti a chi, come voi, è mosso dalla volontà di innovare?

“Sicuramente il credere in se stessi, provare davvero a sviscerare l’idea e con caparbietà, se si crede in quell’idea, di non mollarla. Se penso a me un anno fa, quando tutti mi dicevano “ma tanto sei un architetta che fa case di paglia”, in realtà no, io credevo e credo nella sostenibilità. L’aver tenuto l’asticella sempre molto alta e la mia visione molto chiara, mi hanno permesso di arrivare oggi a fare la differenza sul mercato, quindi sicuramente credere in se stessi, credere nell’idea e non aver paura di fallire, perché il fallimento fa parte della crescita e quello che oggi può sembrare un fallimento invece magari è un insegnamento pazzesco che ti permette di fare un salto di qualità. Io prima di aprire Ricehouse ho avuto per 10 anni un’impresa edile che commercializzava materiali naturali prodotti all’estero, ovviamente non avevamo clienti, non commercializzavamo proprio a nessuno perché non era proprio il momento. Quindi, con dispiacere, abbiamo chiuso questa società ma, di fatto, è stata una grandissima esperienza che mi ha permesso di scegliere qual era il materiale e aprire Ricehouse. Forse se non avessi fatto quell’esperienza, oggi non sarei stata qui. Quindi bisogna vedere il fallimento non come un aspetto negativo, cosa che per gli italiani non è così, ma sempre come un grande momento di crescita.”

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Ambiente, società e tecnologia

Perché tutti dovremmo scegliere l’usato

Comprare un oggetto di seconda mano non ha solo un vantaggio economico personale ma fa risparmiare al pianeta risorse preziose. Si evita che un nuovo oggetto venga prodotto e che quello usato, ancora in buone condizioni, finisca in discarica. In questo modo si usano meno materiali per la produzione e non vengono rilasciate ulteriori emissioni di gas serra nell’ambiente.

Acquistare second hand è uno degli aspetti dell’economia circolare, contrapposta all’economia lineare. Secondo questo modello la vita di ogni prodotto è scandita in tappe lineari, dalla produzione allo smaltimento. Ogni tappa di questo processo richiede risorse ed energia e genera emissioni inquinanti e rifiuti. Immaginiamo di moltiplicare il costo di questo processo per ogni oggetto che viene prodotto ogni giorno.

Una società consumistica

La società dei consumi in cui viviamo induce in noi bisogni e desideri di cose non necessarie che acquistiamo solo per il gusto di comprare qualcosa o con l’intenzione di rinnovare noi stessi o la nostra casa. Spesso, la sensazione che un oggetto non sia più buono e che vada sostituito non è dettata dall’usura reale ma dal desiderio di possedere un nuovo modello presente sul mercato. Si parla in questo caso di obsolescenza percepita. Esiste anche un’obsolescenza programmata in cui il prodotto viene progettato da principio per avere una vita limitata, per aumentare la velocità con cui il bene verrà sostituito o riparato. Entrambe fanno sì che si producano un grande numero di rifiuti. Solo in Italia la produzione annuale di rifiuti è di circa 30,1 milioni di tonnellate. Questo significa che in un anno produciamo 499 kg di rifiuti a testa. Di questi solo il 32% viene riciclato, il restante viene incenerito o mandato direttamente in discarica (fonte Rapporto Rifiuti Urbani – Edizione 2020).

Fast fashion: il fenomeno

Particolare attenzione va posta nei confronti dell’industria della moda. Secondo una ricerca pubblicata su Nature Reviews Earth & Environment l’industria della moda ogni anno è responsabile di circa 8-10% delle emissioni globali di anidride carbonica (circa 5 milioni di tonnellate) ed è una dei principali responsabili del consumo di acqua. La produzione di vestiti negli ultimi anni ha subito una notevole accelerazione. Secondo una stima, dal 1975 al 2018 la produzione è passata da 6 a 13 kg a persona e la richiesta di abiti cresce ogni anno del 2%.

La fast fashion si basa sul desiderio dei consumatori, che vogliono indossare sempre nuovi vestiti di tendenza e per questo cambia rapidamente e produce un’enorme quantità di abiti. Da qui la parola “fast”, che significa veloce e indica la moda che cambia velocemente. Secondo il report di ThredUp per il 2019, una persona su due dichiara di non voler essere vista da altri indossare lo stesso vestito più di una volta e il 70% degli intervistati ha acquistato almeno un capo indossato un’unica volta. Solo nel 2019 negli Stati Uniti sono stati prodotti circa 95 mila tonnellate di rifiuti di abiti indossati solo una volta. Infatti, l’85% degli abiti prodotti finisce nelle discariche, senza venire in alcun modo riciclato.

Agenda 2030: Obiettivo 12 “Consumo e produzione responsabili”

Come riportato sul sito del Centro Regionale di Informazione delle Nazioni Unite, l’Agenda 2030 è un programma di azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto dai governi dei Paesi membri dell’ONU nel settembre 2015. Si articola in 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile in cui sono definiti traguardi comuni per tutti i Paesi e tutti gli individui. L’Obiettivo 12 dell’Agenda “Garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo” fornisce indicatori per il raggiungimento di modelli di produzione e consumo consapevoli. I traguardi da raggiungere sono strettamente interconnessi, dalla gestione in modo efficiente e sostenibile delle risorse naturali durante i processi produttivi, minimizzando l’utilizzo di materiali tossici e inquinanti per l’ambiente, alla riduzione sostanziale dei rifiuti, attraverso la prevenzione, la riduzione, il riciclaggio e il riuso.

Una scelta più consapevole

Come consumatori possiamo fare la nostra parte scegliendo i nostri acquisti in modo responsabile. Un consumo consapevole trova declinazioni differenti: possiamo decidere di acquistare oggetti prodotti in modo sostenibile ma anche decidere di ridurre ciò che compriamo, usando ciò che abbiamo già o che è stato prodotto in precedenza.

Per una scelta consapevole, prima di fare un acquisto ci si può affidare alla regola delle tre R, cioè Ridurre, Riusare, Riciclare. Queste tre azioni sono poste a piramide e la regola dà una gerarchia di azioni su cui possiamo riflettere e che possiamo compiere.

  • Ridurre significa consumare meno, acquistando meno oggetti ma di buona qualità e durevoli nel tempo.
  • Riusare intende non gettare oggetti che non hanno ancora terminato il ciclo di utilità, che possono essere riparati o utilizzati con un altro scopo. Se proprio non si riesce a trovare un modo di riutilizzare un oggetto, se in buone condizioni, prima di buttarlo possiamo decidere di donarlo a enti benefici, regalarlo ad amici o venderlo a chi ne ha invece bisogno.
  • Riciclare è l’ultimo step. Solo dopo aver considerato le opzioni precedenti possiamo eliminare l’oggetto, rispettando le regole della raccolta differenziata.

Per una macchina o oggetti costosi è facile fare affidamento su questo principio ma possiamo utilizzare questa regola per ogni tipo di acquisto, dall’elettronica all’abbigliamento. Vendere gli abiti usati è il modo più sostenibile di liberarsene. Dando a un vestito una seconda vita riduce le sue emissioni di anidride carbonica del 79%.

Il futuro del consumo è l’usato. Sempre più persone scelgono di fare acquisti second hand, grazie alle iniziative di sensibilità mosse sui social e alle sempre più diffuse piattaforme di reselling, in particolare nella Generazione Z. I giovani, infatti, sono molto attenti alla tematica ambientale e all’impatto degli oggetti che consumiamo.

Una bella iniziativa messa in moto da Oxfam è il Second Hand September, una challenge per il mese di settembre in cui si invitano le persone a provare ad acquistare solo oggetti di seconda mano per 30 giorni. La challenge non è fine a sé stessa: infatti, l’invito per tutti i partecipanti è quello di continuare a fare acquisti di seconda mano anche nei mesi successivi e farla diventare un’abitudine della propria vita.

In questo ultimo anno il coronavirus ci ha costretto a rimanere fermi e a riflettere: accadono cose che vanno oltre il nostro controllo. Possiamo però ancora agire contro il cambiamento climatico e l’esaurimento delle risorse naturali. La challenge Second Hand September si ripeterà anche quest’anno. Sfruttiamo questa occasione per aiutare il pianeta e le future generazioni. A settembre compriamo usato e diamo una seconda vita ai nostri oggetti sepolti in cantina.

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Ambiente, società e tecnologia

Verso una detergenza eco-sostenibile

Impiegati quotidianamente, con modi quasi rituali, i prodotti di igiene personale e di pulizia domestica ci accompagnano nelle diverse fasi della giornata, scandendo le nostre routine e fungendo da continua manutenzione per il corpo, la casa, lo spazio di lavoro, la macchina. Oggi più che mai se ne promuove l’azione battericida e germicida, proprio come il medico greco Galeno consigliava per prevenire malattie.

Ciò che viene immesso nel mercato è frutto di test di sicurezza e vasta ricerca, ma naturalmente ci sono conseguenze  – quali intossicazione, avvelenamento, irritazioni, allergie – piuttosto gravi su chi li impiega, nonché sull’ambiente, che subisce un forte inquinamento, sia in fase di produzione, sia durante e dopo l’utilizzo di tali prodotti chimici altamente aggressivi. Spesso i detergenti per la casa sono accompagnati da simboli indicano che i prodotti sono nocivi, corrosivi, tossici, dannosi, (altamente) infiammabili.

L’anno 2020 è stato importante per ritornare a parlare di clima, con diversi disastri climatici da convincere una buona fetta di popolazione mondiale a optare per uno stile di vita più sostenibile. Complice anche il maggiore tempo a casa, i consumatori cercano soluzioni fai-da-te lungimiranti per ammortizzare i costi e l’impatto ambientale.

Questo trend porta le imprese a dover modificare o, addirittura ripensare, le proprie linee lavorando con ingredienti naturali e packaging riciclabili, per poter stare al passo e vendere.

Ma basta comprare prodotti con etichette che riportano la dicitura “Bio”?

Decisamente no! Di seguito approfondiremo, ma basti sapere che “biologico” è soltanto una sottocategoria di “sostenibile”, che comprende anche un’etica di diritto dei lavoratori, di rispetto del territorio e della società.

Leggendo il report di Google (datato febbraio 2021) rivolto alle aziende “adattarsi al futuro – 5 tendenze di consumo che ogni retailer dovrebbe conoscere” appare subito evidente che i consumatori abbiano due comportamenti primari nella scelta dei prodotti e dei servizi da acquistare:

  • C’è sempre maggiore interesse a rispettare valori etici di produzione e distribuzione;
  • Cercano costantemente prezzi convenienti e offerte.

Infatti, la ricerca di “ethical brands” ha registrato un picco del +300% in tutto il mondo nel 2020 rispetto al 2019. Elevato è anche il picco (+200%) di ricerche di punti vendita vicini al domicilio del cliente, certamente per questioni sanitarie legate alla pandemia, ma anche per offrire un sostegno alle piccole e medie attività locali.

 

L’arrivo del BIO nei supermercati

Nella maggior parte dei casi, i prodotti che effettivamente rispettano i criteri stabiliti per essere definiti “bio” sono pochi, più costosi da fabbricare (e quindi anche da vendere), spesso venduti in negozi di nicchia o comunque poco pubblicizzati.

Nella grande distribuzione, dove la maggior parte dei consumatori acquista i prodotti di detersione, gli scaffali sono organizzati in modo da dare rilievo innanzitutto alle offerte dei maggiori marchi e in secondo luogo ai competitors più popolari. Solo nei supermercati più forniti è possibile trovare articoli che siano conformi a standard veramente sostenibili.

Per la diffusione di una mentalità ecologica è imprescindibile essere consapevoli di poter trovare prodotti (detergenti) sostenibili e ad un costo contenuto in tutti i negozi più frequentati anche dalle fasce di reddito minore. Altrimenti, il risultato è ciò che viene descritto nell’articolo “Il tramonto del consumatore etico” di Elizabeth Cline, dove chi è informato e ha la possibilità economica, agisce sostenibile, mentre aziende non etiche continuano impunite a vendere prodotti che sfruttano i lavoratori e l’ambiente.

Vari brand, pur non avendo raggiunto nella completa totalità gli standard, stanno però facendo passi avanti e avvicinando sempre più consumatori con le loro offerte sostenibili, per (quasi) tutte le tasche e per l’ambiente.

Sono quindi necessari ulteriori provvedimenti legali e governativi per annullare i danni di chi non rispetta le normative pur potendolo fare, e al contempo per accrescere le risorse di coloro che le meritano, affinché si raggiungano gli obiettivi prefissati dalla comunità internazionale.

Vale la pena citare Garnier, figlio naturalista del colosso L’Óreal Paris, propone al pubblico nuovi prodotti piuttosto ecologici a prezzi bassi rispetto alla media, senza essere scadente. Non lo nomino perché sia campione nell’innovazione sostenibile – ci sono sicuramente molti altri brand meno noti che lo fanno meglio e da più tempo, ma è apprezzabile il fatto che abbiano reso mainstream ingredienti e formati ignorati da altri grandi aziende. Shampoo solido, packaging 100% riciclabile e lista degli ingredienti distesa e di facile consultazione, suddivisa per percentuali contenute (di cui il 98% di questi è di origine naturale).

Un altro è PuroBio, brand di make-up che dichiara di non utilizzare microplastiche e ingredienti plastici di alcun tipo e risulta sorprendentemente vero dalle analisi.

Alcuni brand ecologici specializzati nella sostenibilità

Spesso, nel percepito comune, si tende ad associare “biologico” e “sostenibile” a “meno performante” ma, come abbiamo visto precedentemente, gli ingredienti per ottenere l’efficacia desiderata sono pochi e non è necessario che siano aggressivi come l’industria ci ha fatto credere. Non tutto ciò che è chimico è nocivo o male. Al contrario, in molti campi soluzioni come la plastica o i composti sintetici sono insostituibili.

Bisogna trovare soluzioni proprio negli ambiti in cui è possibile cambiare le abitudini e fortunatamente la detersione personale e domestica sono uno di questi.

Ad esempio, minimoimpatto.com vende detersivi, detergenti e articoli per la casa che consentono di risparmiare non solo denaro, ma anche prodotto ed energia. Mentre invece Negozio Leggero vende kit per creare detersivi e detergenti personalizzati, flaconi riutilizzabili da riempire alle spine dello store e ritiro (ogni 20 flaconi, per ottimizzare i consumi del trasporto) dei vuoti a domicilio. La sostenibilità è qui resa coinvolgente grazie all’Eroe leggero dell’area personale degli users, dove possono tenere traccia dei risparmi e della riduzione del proprio impatto.

Si conta che si utilizzino annualmente 17 flaconi di sapone pro capite. Si crea quindi, per famiglia di 4 persone, una fila di 24 metri che equivale alla altezza di 8 piani.

Saponette, liquidi sfusi e packaging biodegradabili sono un buon inizio per combattere sprechi e rifiuti.

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Economia, StartUp e Fintech

Up2you, la soluzione per la riduzione dell’impatto ambientale: intervista a Eleonora Peroni

Sul nostro magazine oggi vogliamo riportarvi l’intervista a Eleonora Peroni, Key Account di Up2you, startup innovativa a vocazione sociale con l’obiettivo di ridurre il nostro impatto sul pianeta.

 

Eleonora, iniziamo con il ricordare che sei un iStudent (del ciclo 7.0): quanto è stato importante per il tuo percorso di crescita professionale e cosa ti ha lasciato?

Ho partecipato ad iBicocca durante l’ultimo anno della triennale e grazie a questo progetto mi sono appassionata al mondo delle startup e dell’imprenditorialità a tal punto da influenzare la mia scelta della magistrale. Adesso studio Global Entrepreneuship Economics and Management. Sempre tramite iBicocca ho conosciuto i ragazzi di Startup Geeks e attraverso il loro canale Telegram ho conosciuto Up2you, quando ancora era solo un’idea di 3 ragazzi. Fin da subito mi sono appassionata al progetto e ho deciso di mettermi in gioco con loro.

Percorso professionale che ti ha portata a contatto con Up2you. Innanzitutto, da quanto siete presenti sul mercato e da quante persone è composto il vostro team?

Il 2019 è stato l’anno della validazione del prodotto e a gennaio 2020 Up2you è stata ufficialmente costituita. Nello specifico, al momento della costituzione, gli unici soci erano i 3 fondatori: Andrea Zuanetti, Lorenzo Vendimini, Alessandro Broglia.

Ai tempi il team era formato solo da 6 persone, adesso siamo in 14. Oltre ai 6 soci, abbiamo persone con contratto a progetto e altre in stage (diversi provengono proprio dalla Bicocca).

In cosa consiste l’offerta che proponete, a chi è rivolta e cosa vi distingue rispetto ad altre realtà imprenditoriali mosse dalla stessa visione ecologica?

Up2you è una startup che si occupa di sostenibilità. Lavoriamo con le aziende su tutto quello che è il calcolo e la compensazione delle emissioni di CO2, andando a coinvolgere gli stakeholder di riferimento (dipendenti o clienti).

Oltre al calcolo e alla compensazione, il nostro terzo asset è la parte di comunicazione. Ci siamo resi conto che, in Italia, l’ecosistema è formato da PMI e in poche possiedono le risorse necessarie (in termini di personale e tempo) per comunicare al meglio il proprio impegno per l’ambiente. La sostenibilità, se comunicata bene, porta, infatti, anche dei ritorni in termini economici.

Parallelamente a questa parte più aziendale, abbiamo sviluppato anche una piattaforma in cui chiunque si può registrare e ricevere punti, in cambio di azioni sostenibili come fare l’indifferenziata o andare a lavoro in bicicletta. I punti ottenuti sono successivamente spendibili all’interno di shop virtuosi che abbiamo inserito nel nostro network.

Al momento la parte più importante proviene dal mondo delle aziende, anche perché, in termini di bisogno ambientale, è la parte sui cui bisogna agire più in fretta, pertanto siamo concentrati maggiormente su di esso.

Per quanto riguarda gli elementi che ci distinguono, innanzitutto siamo una delle poche aziende che si occupano di compensazione attraverso progetti sul suolo italiano. Rispetto invece alla parte di compensazione più pura, ci basiamo sui GRI, gli standard a livello internazionale per il calcolo delle emissioni e andiamo ad operare sulla CO2 verificata dai Verified Carbon Standard e dai Gold Standard, i 2 player di riferimento per quanto riguarda la compravendita di CO2 certificata a livello mondiale. Siamo l’unica startup in Italia che utilizza questi standard.

L’ultima componente che ci distingue riguarda il coinvolgimento. L’azienda coinvolge i propri dipendenti o clienti dando loro un codice univoco, che gli consente di scegliere dove piantare il proprio albero e ricevere un certificato che può condividere sui social con il logo dell’azienda, aiutando a generare contenuto a favore di quest’ultima.

Quali sono i vostri obiettivi di breve e lungo periodo?

Riguardo agli obiettivi legati alla sostenibilità, per andare a compensare le emissioni abbiamo dei progetti di riforestazione, sia in Italia che all’estero, e proprio sull’Italia vogliamo focalizzarci in questo 2021. Ad oggi abbiamo 2 progetti su Milano, uno in Sicilia e in Sardegna. Tra poco entrerà la Puglia e vorremmo arrivare entro la fine dell’anno ad avere un progetto in ogni regione. Non è semplice perché la scelta dei progetti non è dettata dal caso.

Devono essere boschi costituiti in maniera abbastanza coerente e l’impatto del progetto stesso deve essere a 360°. La spiegazione di questo è data dai 3 pilastri su cui si fonda la sostenibilità: sostenibilità ambientale, che rappresenta una componente fortissima soprattutto nel nostro business, la sostenibilità sociale ed economica.

Cerchiamo sempre dei progetti che possano avere un impatto su tutte e 3 queste sfere.

Per esempio, il progetto che abbiamo in Sardegna, nella zona del sud, fornisce lavoro a persone disoccupate locali che pertanto non sono costrette a lasciare l’isola per trovare lavoro.

In termini di sviluppo, noi lavoriamo su diversi settori perché abbiamo aziende che vengono dal mondo del turismo, ristoranti, aziende industriali e il nostro obiettivo per quest’anno è quello di espanderci sul territorio nazionale. Anche se, ovviamente, non disdegniamo clienti internazionali.

Siete focalizzati su un determinato settore? Motivo e come vengono applicate e come si sviluppano le vostre offerte?

No, non siamo focalizzati su un determinato settore. Abbiamo servizi per tutte le aziende, che possono essere dall’acciaieria che vuole compensare le emissioni ai ristoranti che vogliono fornire un codice per piantare un albero. Poi abbiamo dei servizi più ad hoc per quelli che noi definiamo “verticali”. Per esempio, sul mondo del turismo, quello dal quale siamo partiti, abbiamo un verticale che si chiama “Non disturbare”. Consiste in un gancio da appendere alla porta della camera dell’hotel, su base volontaria e a discrezione dell’ospite. Se l’ospite lo appende, rinuncia per una notte al rifacimento della camera e in cambio riceve il codice per piantare l’albero.

Abbiamo dei servizi legati all’engagement dei dipendenti: creazione di una guida all’interno dell’azienda per essere più sostenibili nei confronti dei dipendenti e, assieme ad essa, forniamo un codice per poi piantare un albero, quindi si crea la foresta dell’azienda, oppure una volta che viene assunto qualcuno si pianta un nuovo albero. Attività di questo tipo.

Però non siamo focalizzati su un solo settore. Un po’ come dice il nostro nome Up2you, tradotto vuol dire “sta a te”. Il nostro claim è che tutti possono fare la differenza nel loro piccolo. Quindi, banalmente, se si ha un negozio di vestiti e si vuole comunque ridurre il proprio impatto, una soluzione la possiamo trovare. Il concetto è che non bisogna essere grandi aziende multinazionali per essere aziende sostenibili, anzi.

Come ha impatto il Covid-19 sulla vostra attività e, più in generale, quali difficoltà avete riscontrato durante il vostro percorso?

Innanzitutto, è doveroso dire che siamo partiti dal mondo del turismo, che rappresenta il settore più colpito, sulla base dei dati, dalla pandemia, e tuttora fatica a ripartire.

L’inizio delle chiusure, e tutto quello che ne è seguito, ha portato ad un’accelerazione del nostro progetto, quindi ad una differenziazione del prodotto e all’inserimento di altre realtà (le aziende appunto). Quindi, su quello, siamo stati velocizzati.

Durante il periodo di lockdown i 3 fondatori e una quarta persona hanno deciso di licenziarsi dal loro impiego e dare disponibilità full-time ad Up2you, ottenendo così un grosso boost.

A livello di domanda abbiamo notato che sempre più persone tengono conto della sostenibilità nelle proprie scelte di consumo. Ecco dunque che le aziende stesse iniziano a vedere l’investimento nella sostenibilità non più come un “di più” ma come qualcosa di necessario.

Quali risultati avete ottenuto?

Ad oggi abbiamo piantato 20.000 alberi, abbiamo compensato 40.000 tonnellate di CO2 attraverso 12 progetti e con l’aiuto di 95 aziende partner.

Ma ovviamente questo è solo l’inizio.

Attraverso il vostro primo round di finanziamento avete raccolto 200 mila euro. Come saranno investire le risorse raccolte e quali sono le vostre prospettive future?

La raccolta che abbiamo fatto era su base privata. Non ci siamo appoggiati su nessuna piattaforma, ma abbiamo creato noi una landing page.

La raccolta è stata il nostro FFF (family, friends and fool) e in 3 settimane abbiamo raccolto quella cifra.

La parte di prodotto avrà sicuramente un ruolo fondamentale. I soldi raccolti serviranno poi per finanziare attività accessorie quali la partecipazione a fiere e simili.

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Ambiente, società e tecnologia

Nuova vita alle mascherine: no allo spreco, sì al riciclo!

È possibile riutilizzare le mascherine? Se sì, come?

In questo articolo analizzeremo una serie di proposte innovative elaborate da scienziati ed aziende per far fronte all’enorme spreco quotidiano di mascherine monouso, cercando di dare loro una nuova “vita”.

Pandemia e danni ambientali

Se da un lato l’emissione di CO2 è diminuita a seguito dei lockdown emanati dai governi per contrastare la diffusione del Covid-19, dall’altro i danni ambientali hanno subito un incremento soprattutto a causa dell’elevato utilizzo di prodotti usa e getta, la maggior parte di essi di natura plastica. Tra questi, i guanti e le mascherine monouso hanno sicuramente rappresentato i principali dispositivi di protezione di uso comune, gettati quotidianamente in enormi quantità. Si stima che ogni giorno siano 6,8 miliardi le mascherine usa e getta utilizzate in tutto il mondo, per un consumo mensile di circa 129 miliardi: questi dati arrivano da uno studio pubblicato su Environmental Science & Technology, rivista scientifica bisettimanale pubblicata dalla American Chemical Society. Tali oggetti vengono gettati per strada, finiscono in discarica, o, peggio, ad inquinare i mari e gli oceani.

La proposta di una startup francese

L’azienda francese Plaxtil di Châtellerault ha sviluppato un processo innovativo per riutilizzare le mascherine usa e getta. Costituite da microfibre di polipropilene, un materiale plastico che le rende non biodegradabili, le mascherine vengono trasformate da questa azienda in plastica utilizzabile per creare apri porta (piccoli strumenti utilizzati per aprire la porta senza toccare la maniglia) o visiere protettive contro il virus. Innanzitutto le mascherine vengono raccolte e messe in “quarantena” per 4 giorni dall’azienda Audacie con cui la startup lavora; successivamente passano per una sorta di “frantoio” e poi lungo un tunnel con raggi ultravioletti per essere completamente decontaminate; in ultima fase il materiale prodotto viene mescolato con della resina per diventare più duro. Questa nuova plastica ottenuta può essere utilizzata per realizzare vari tipi di oggetti; attualmente però l’azienda è incentrata nel creare prodotti utili alla lotta contro il coronavirus, tra cui principalmente apri porta e visiere protettive.

Visto l’interesse che tale iniziativa ha suscitato, molte aziende hanno partecipato alla raccolta e grazie ad essa un numero non indifferente di mascherine è stato riutilizzato.

Riciclare le mascherine per costruire strade

Un’altra proposta interessante arriva da un gruppo di ricercatori del Royal Melbourne Institute of Technology (RMIT), il quale ha dimostrato che le mascherine chirurgiche possono essere riciclate ed utilizzate per produrre materiali utili alla costruzione di strade. Il loro studio dimostra che per realizzare un chilometro di una strada a due corsie, potrebbero essere utilizzate circa 3 milioni di mascherine riciclate sminuzzate, impedendo così che costituiscano circa 93 tonnellate di rifiuti che finirebbero in discarica. Si tratta della prima ricerca nel suo genere ed indaga il potenziale per l’utilizzo di mascherine chirurgiche monouso nel settore dell’edilizia civile. Questo nuovo materiale, prodotto con una miscela di mascherine riciclate e macerie di edifici civili lavorate, soddisfa gli standard di sicurezza dell’ingegneria civile: questi DPI (dispositivi di protezione individuale) aiutano infatti ad aggiungere rigidità e resistenza al prodotto finale, progettato per essere utilizzato per strati di base per strade e marciapiedi. Questa iniziativa costituisce inoltre una soluzione di economia circolare per i rifiuti generati dalla pandemia di Covid-19 e quindi una possibile soluzione per fronteggiare le sfide ambientali.

Source: https://www.rmit.edu.au/news/all-news/2021/feb/recycling-face-masks-into-roads-to-tackle-covid-generated-waste

Riciclare sempre!

Qualunque sia il modo scelto per riciclare e riutilizzare le mascherine, è importante l’impegno da parte di ognuno di noi nel rispettare l’ambiente che ci circonda, differenziando i rifiuti in maniera corretta per mantenere pulito il mondo in cui viviamo.

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Ambiente, società e tecnologia

Pedalare sulla Notte Stellata di Van Gogh: arte ed ecosostenibilità

Vicino Eindohoven, in Olanda, precisamente nella cittadina di Nuenen, è stata realizzata una pista ciclabile illuminata da ciottoli fosforescenti incorporati nel manto stradale, i quali di giorno assorbono la luce solare per poi rilasciarla di notte illuminando il percorso. L’effetto voluto è quello di ricreare l’atmosfera della celeberrima opera d’arte “La notte stellata” dell’artista olandese Van Gogh, omaggiando così la sua arte in uno dei luoghi in cui l’artista stesso ha vissuto un periodo della sua vita.

Van Gogh path

Nata dall’idea del designer olandese Daan Roosegaarde, “Van Gogh Path” è il nome di questa innovativa pista ciclabile, progettata in occasione del “Van Gogh 2015 International Theme Year” dedicato ai 125 anni dalla scomparsa dell’artista e successivamente inaugurata il 13 novembre dello stesso anno. Daan Roosegaarde, con la collaborazione di Heijmans Infrastructure, è riuscito a realizzare un asfalto smart con macchine road printer: le luci sono interattive, la vernice utilizzata è dinamica, si ricarica durante il giorno e la sua autonomia può arrivare fino ad 8 ore. La strada, lunga un chilometro, è stata realizzata con migliaia di pietre scintillanti dotate di luci a LED ad energia solare e di tecnologia glow-in-the-dark. Di notte, la pista si illumina offrendo uno spettacolo mozzafiato, gradito da turisti, residenti e soprattutto dai ciclisti. Dotata di ulteriori luci a LED in alcuni punti del percorso che garantiscono luce supplementare nel caso in cui le pietre non si siano caricate a sufficienza durante il giorno, la sua illuminazione non interferisce con l’ambiente circostante, né reca disturbi visivi ai ciclisti stessi, i quali si ritrovano immersi in una pedalata sulle stelle di Van Gogh.  Aggiungendosi alla pista già esistente lunga 335 chilometri, questo nuovo tratto collega due mulini a vento, in un percorso che permette di visitare i luoghi della vita del noto artista olandese.

Smart highway…

Quest’opera è la seconda di cinque segmenti che rientrano nel progetto “Smart Highway” dello Studio Roosegaarde, laboratorio di progettazione sociale che con il suo team di designer ed ingegneri professionisti ha sede in Olanda e a Shangai. L’obiettivo è quello di rendere le strade intelligenti, interattive e rispettose dell’ambiente, sfruttando la luce del sole, l’energia e la segnaletica stradale.

…e tecno-poesia

Il risultato di questo lavoro? Una pista ciclabile innovativa ed ecosostenibile, che combina arte e sostenibilità ambientale, attraverso soluzioni tecnologiche all’avanguardia, promuovendo ancora una volta la mobilità eco-sostenibile con l’utilizzo delle biciclette, tipiche dell’Olanda. Tutto ciò viene definito dall’artista e designer “tecno-poesia”, ovvero la tecnologia combinata con l’esperienza attiva.

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Ambiente, società e tecnologia

Il futuro della carne è basato sul vegetale?

È di qualche giorno fa l’annuncio di McDonald’s di voler inserire nel proprio menu, a partire dal 2021, il McPlant. Si tratta di un burger di “finta carne” composto da proteine vegetali prodotte in laboratorio e con l’ausilio di stampanti 3D.

L’hamburger è già stato “testato” lo scorso anno nei McDonald’s canadesi e sarà uno dei tanti prodotti di una linea tutta al vegetale e con un packaging al 100% biodegradabile.

La decisione è stata presa sulla scia di competitors quali Burger King o KFC che già da qualche anno hanno inserito nel menu soluzioni per vegani o per chi, semplicemente, ha deciso di ridurre il consumo di carne.

La notizia potrebbe passare come una semplice aggiunta di menu ma è qualcosa di più di questo. Le catene di fast food precedentemente nominate, infatti, sono nate con l’idea di proporre solo piatti a base di carne e una scelta del genere fino a qualche anno fa sarebbe stata impensabile.

Ma cosa c’è dietro a questa inversione di marcia?

È da escludere che tale scelta si possa collegare al tentativo dei fast food di scrollarsi di dosso il sinonimo di cibo spazzatura (junk food). La risposta è, invece, da ricercare nell’’attenzione che le multinazionali del food, e non solo, hanno nei confronti dell’ambiente e dei consumatori.

Consumo di carne: a che punto siamo?

L’aumento del consumo di carne è direttamente proporzionale all’aumento dei redditi e, stando a quanto pubblicato dalla BBC, negli ultimi 50 anni la quantità di carne prodotta è aumentata di quasi cinque volte: passando da 70 milioni di tonnellate nei primi anni ‘60 a quasi 330 milioni di tonnellate nel 2017.

Ma se la carne nei paesi più ricchi è un piatto abituale, e non più delle grandi occasioni come avveniva in passato, nei paesi più poveri continua a rimanere un privilegio.
Facendo sempre riferimento al report della stessa BBC, il consumo di carne medio a persona di un paese come l’Etiopia o la Nigeria è 10 volte minore rispetto a quello di un cittadino Europeo.

Consumo medio di kg di carne per persone/anno (Sorgente: UN Food and Agricolture Organization)

Carne e ambiente, qual è la relazione?

Il trend descritto pare abbia già avuto il suo picco e in questi anni stiamo notando una leggera decrescita del consumo di carne.

Ma a spingere all’abbandono della carne ci sono anche motivi ambientali.

Infatti, il beneficio che l’ambienta trae con la riduzione del consumo di carne è significativo.

La rivista online Duegradi, in un recente articolo, ha riportato che:

“L’industria della carne è oggi una delle principali responsabili dell’emissione di gas serra nell’atmosfera, producendo il 14% delle emissioni globali, più dell’intero settore dei trasporti”

Risorse usate per la produzione di Carne e Latticini  e Risorse derivate da Carne e Latticini (CHG= Gas Serra)                                                                                                   

Fonte: Duegradi.eu

La transizione verso il meatless è, quindi, dettata da motivi salutistici ma anche ambientali e il mercato ha la necessità di adattarsi a consumatori sempre più attenti, informati e consapevoli delle proprie scelte.

Le istituzioni, dall’altra parte, incentivano o, quanto meno, non ostacolano la tendenza ed è proprio in tale ottica che si inserisce la decisione del Parlamento Europeo di lasciare la possibilità alle aziende di continuare a utilizzare  termini associati in genere solo a prodotti a base di carne, come “hamburger”, “burger”, “bistecca”, “salsiccia”, anche per i prodotti a base vegetale.

La carne vegetale può venire incontro a tutta una serie di problematiche, sopra trattate, ma anche alle esigenze di persone che già seguono diete vegetali o, ancora, per avvicinare gli “scettici” ad un consumo più consapevole della carne senza discostarsi dalla forma e dal sapore di quest’ultima.
Non ci resta che attendere e vedere se una soluzione del genere possa, effettivamente, cambiare le carte in tavola.

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CO2 atmosferica: come cambia il cibo

Nel luglio 2019 la rivista scientifica “The Lancet” ha pubblicato un articolo in cui mostrava quale sia l’impatto dell’aumento di CO2 atmosferica sulle proprietà nutrizionali dei cibi. Attraverso questo articolo, è stato lanciato così un allarme circa le conseguenze che si potranno avere sulla sicurezza alimentare.

Solo quattro anni prima, nel Settembre del 2015, i 193 stati membri ONU avevano stilato il programma Agenda 2030: lo scopo era quello di guidare i Paesi sottoscriventi verso uno sviluppo più sostenibile, mediante l’ausilio di una serie di obiettivi da raggiungere entro i quindici anni successivi. Tra i 17 “sustainable development goals” vi è anche quello che vorrebbe vedere azzerata la fame nel mondo…ma come sarà possibile farlo se il cibo cambia molto più velocemente di quanto pensiamo?

Dati relativi al cambiamento dei valori nutrizionali del cibo

Ad oggi le concentrazioni di CO2 atmosferica sono aumentate quasi del doppio rispetto all’era pre-industriale e si stima che l’effettiva concentrazione di CO2 raggiungerà le 570 ppm prima della fine di questo secolo. Un gruppo di ricercatori ha provato a coltivare diverse varietà di riso in siti diversi e alle condizioni di anidride carbonica previste per il futuro: il risultato è stupefacente. Raffrontando i campioni prelevati con quelli coltivati alle condizioni correnti, si riscontra una diminuzione del 10% per la componente proteica e, allo stesso modo, è stata osservata una diminuzione anche per il ferro e lo zinco rispettivamente dell’8 e del 5%. Questi dati possono essere spiegati partendo dal presupposto che, con l’aumento della CO2, aumenta anche l’attività fotosintetica delle piante e di conseguenza aumenta la sintesi di zuccheri e amido. Sono dunque minime le quantità di carbonio che possono essere utilizzate per costruire altre macromolecole come proteine e vitamine.

Le ripercussioni dovute alla diminuzione dei nutrienti nel cibo possono essere diverse, infatti per esempio se si osserva il complesso vitaminico B, il dato che desta maggiore preoccupazione è quello della vitamina B9 che registra una diminuzione di circa il 30%. La vitamina B9, nota anche come folato, ha un ruolo determinante nei primi trimestri della gravidanza, tant’è che evidenze scientifiche dimostrano come la carenza di acido folico rappresenti uno dei principali fattori di rischio per lo sviluppo di malformazioni e, in particolare, dei difetti del tubo neurale, come il mancato sviluppo del cervello o l’estroflessione del midollo spinale. Lo zinco, i cui dati sono riportati precedentemente, ha anch’esso rilievo nello sviluppo fetale e continua ad avene per tutta la vita dell’individuo condizionandone fortemente la salute; secondo i primi dati raccolti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ad oggi, sembrerebbe che circa 1.4% delle morti nel mondo possa essere attribuito alla mancanza di zinco. Nei paesi in via di sviluppo la carenza di zinco può colpire quasi 2 miliardi di soggetti e gli effetti possono essere i più disparati: dal ritardo nella crescita all’alterazione delle funzioni biochimiche vitali.

Sicuramente queste ricerche non sono rassicuranti, ma è opportuno contestualizzare l’analisi fatta. Infatti, la diminuzione dei parametri nutritivi qui osservati è rappresentativa solo del riso, e attualmente non sono disponibili repliche dell’esperimento che coinvolgano altri cereali, sebbene uno scenario simile non possa escludersi aprioristicamente. Inoltre, è bene considerare che il fabbisogno calorico giornaliero di un individuo non viene coperto solo dai cereali, anzi è noto ormai da tempo, come sia preferibile un’assunzione dei nutrienti mediante un regime alimentare il più possibile vario. Alcuni studi dimostrano che si registra un cambiamento nelle abitudini alimentari delle popolazioni correlato aumentare del PIL. Ad esempio se si prendessero in analisi Giappone e Corea del Sud, si noterebbe che il consumo di riso dal 1975 ad oggi, è diminuito del 40%, nel primo paese e di quasi il 50% nel secondo.

L’impoverimento del cibo ha alla base una visione antropocentrica dell’ambiente e spesso a pagarne le conseguenze sono le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, infatti nel tempo l’uomo ha prediletto, e dunque selezionato, le varietà vegetali con una biomassa maggiore a discapito della qualità nutritiva delle stesse. Gli effetti dell’aumento della CO2 individuano un rischio che può essere definito sinergico, soprattutto nei Paesi come quelli africani. Negli ultimi anni, si è registrato infatti, un cambiamento nei modelli agricoli: si è abbandonata la coltura dei vegetali endemici a favore delle grandi colture di mais. La coltivazione del granturco provoca uno sfruttamento insostenibile sia del terreno che dell’acqua e in più favorisce la scomparsa degli impollinatori specifici degli ecosistemi africani. All’aumento del consumo di mais è imputabile anche l’aumento dei tassi di obesità; obesità che colpisce sempre più anche i paesi in via di sviluppo come mostrat dai dati riportati nel 2013 dal Overseas Development Institute.

Se si può, inizio io: progetti dell’Università Studi di Milano-Bicocca

A tal proposito è nato il Progetto SASS (Sistemi Alimentari e Sviluppo Sostenibile) avviato nel 2017 da un Consorzio guidato dall’Università di Milano-Bicocca al quale partecipano l’Università Cattolica, l’Università di Pavia, l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e lo European Centre for Development Policy Management di Maastricht. Questo progetto, che agisce proprio nell’Africa Subshariana, ha come scopo quello di lavorare sui sistemi agricoli ed individuare le specie vegetali marginali, ricche di nutrienti, che vengono consumate nelle diete locali. In particolare, si ha come obiettivo quello della ri-scoperta delle NUS (Neglected and Underutilized Species) mediante l’impiego di sistemi agricoli produttivi sostenibili, capaci di preservare suolo e risorse e al tempo stesso di produrre cibo e ricchezza.

«Grazie all’interazione di ricercatori di diverse discipline – dice Massimo Labra, docente di Biologia Vegetale e coordinatore del progetto l’Università Bicocca -, SASS mapperà e analizzerà i sistemi alimentari locali in tre diverse contesti dei paesi africani: aree naturali; aree agricole e contesti urbani e periurbani. Condivideremo e discuteremo obiettivi ed azioni della ricerca con gli stakeholders locali per capire insieme quali sono le strategie migliori da adottare per rendere gli attuali sistemi agricoli e di produzione alimentare più sostenibili e efficienti in vista delle sfide sociali future ma anche dei cambiamenti climatici in atto».

Infatti la scelta di coltivare mais, per i popoli dell’Africa Subsahariana, è una scelta di carattere economico in quanto apre loro la possibilità di esportare la materia prima, ma a lungo termine non può rappresentare una scelta sostenibile, né per l’ambiente né per tanto meno per la società, tant’è che sempre più le persone risultano obese e allo stesso tempo mal nutrite. La malnutrizione ha dei costi che il precario sistema sanitario africano non può permettersi, la scienza però ora può aiutare questi Paesi. Infatti, oltre ravvivare la tradizione delle colture originarie, è possibile selezionare varietà adatte alle condizioni ambientali africane, permettendo loro di preservare la risorsa acqua, favorendo l’equilibrio biotico e permettendo loro di esportare materie prime uniche e di qualità.

Se si tenesse fede al primo degli obiettivi per lo sviluppo sostenibile e si riuscisse ad azzerare la povertà, non ci si dovrebbe preoccupare oltre modo dei dati riportati finora, e sebbene, anche grazie all’Università Milano-Bicocca possiamo sperare in un sereno epilogo per la situazione africana, i dati dell’analisi sui cereali desta ancora preoccupazione. I principali paesi consumatori di cereali cambieranno probabilmente nei prossimi decenni ma la dipendenza dai cereali a livello globale come alimento base continuerà.

Le Nazioni Unite individuano nella povertà la più grande minaccia per il futuro dell’umanità, il rapporto FAO dichiara che: “Nel 2019, circa 690 milioni di persone non avevano cibo a sufficienza da mangiare, in aumento di 10 milioni rispetto al 2018 e di quasi 60 milioni in cinque anni. […]. La pandemia COVID-19 ha messo altri 130 milioni di persone a rischio di fame entro la fine del 2020.” e questo dato sembra essere destinato a crescere, non solo perché la popolazione mondiale aumenta di anno in anno; ma anche perché, a meno che non ci sia un radicale cambio di rotta, il cibo sarà sempre meno nutriente.

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Packaging: alcune delle best practice

Che cos’è il packaging? È uno strumento funzionale, un mezzo per comunicare al cliente la missione di un brand, ma anche un costo ambientale: secondo Eurostat solo il 42% degli imballaggi in plastica è stato riciclato in Europa nel 2017. Come renderlo più sostenibile?

Ridurre il packaging ai minimi termini

Applicare la filosofia zero-waste alla spesa quotidiana: è questa la missione di “Negozio Leggero”. Questo franchising italiano nato nel 2009 riduce gli imballaggi superflui vendendo prodotti sfusi o tramite la soluzione del vuoto a rendere: il cliente può così riconsegnare le confezioni in vetro, che saranno sterilizzate e riutilizzate. Le stesse strategie ispirano il lato e-commerce: per le spedizioni infatti sono utilizzati imballaggi in cartone recuperato. Negozio Leggero cerca di realizzare un “sistema chiuso” per il packaging: sfrutta al massimo le potenzialità dei contenitori esistenti e li rispedisce vuoti ai suoi produttori.

Liberarsi degli imballaggi… oppure no?

Perché allora non eliminare definitivamente il packaging? Brutte notizie: è una soluzione inapplicabile. A dimostrarcelo sono… i broccoli. Perché proprio loro? Possiamo trovare la risposta in una ricerca pubblicata sul “Journal of Food Engineering” nel 2011; è stato mostrato che un parametro fondamentale per la durata della vita commerciale dei broccoli é la presenza di un sottile packaging in plastica, meglio ancora se microforato. I dati raccolti indicano che in questo modo la loro capacità di conservarsi aumenta del 30%. Senza il packaging questi ortaggi, che sono infiorescenze non più in grado di ricevere nutrimento e acqua dalla pianta, perdono molto più velocemente la loro massa, ingialliscono e il loro stelo si indurisce: insomma, diventano invendibili e aumenta il rischio di spreco.

Proposte tecnologiche per un packaging sostenibile

C’è chi, grazie alla ricerca, sviluppa nuove tecnologie: è il caso di Lanzatech, una startup nata nel 2005, che ha recentemente presentato il packaging che produrrà per L’Oreàl. La sua particolarità? Il processo tecnologico che permette di ottenere polietilene, materiale alla base del packaging, parte da un batterio e da gas di scarto e rifiuti industriali. Lanzatech sfrutta questo microrganismo perché è in grado di vivere consumando CO2, H2 e CO (composti di cui sono ricche le materie di partenza) e di sintetizzare etanolo come prodotto secondario. È proprio quest’ultimo composto a essere trasformato in etilene: sarà questo il mattoncino di base per la produzione finale del polietilene.

Un progetto che ha la stessa missione é “BioCosì”, sviluppato dal centro ENEA in collaborazione con la startup pugliese Eggplant. Il materiale di  partenza è costituito dai reflui della filiera lattiero- casearia, in particolare la frazione ricca in lattosio. Questa, come viene spiegato, “viene processata e fermentata in un bioreattore grazie a un microrganismo in grado di sintetizzare una bioplastica biodegradabile”; i prodotti finali saranno confezioni e vaschette per prodotti caseari. Grazie a questa tecnologia ogni step della filiera verrebbe valorizzato, perché gli scarti diventerebbero funzionali per i nuovi prodotti.

Entrambi i progetti hanno un obiettivo chiaro, che può essere riassunto con le parole chiave del progetto BioCoSì: mirano a lanciare un packaging che sia “sostenibile, circolare e intelligente”.