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Guidate dalla bramosia dei social media, le società calcistiche odierne si trovano ad agire in un equilibrio precario tra immagine pubblica e ricerca di profitti.

Questo equilibrio, tuttavia, è spesso macchiato da una profonda ipocrisia.

 

Lega Serie A e pride

 

Ormai da tempo il 30 giugno rappresenta la fine del mese del pride; con esso, ogni anno svanisce anche la tintura arcobaleno che va momentaneamente a dipingere molte aziende, istituzioni e società.

Ma c’è un angolo di mondo in cui, durante questo mese, questa bandiera non ha mai sventolato: non si parla banalmente di Paesi a religione musulmana (aventi, quindi, una cultura diversa dalla nostra), ma di luoghi in cui le stesse aziende che in occidente abbracciano la retorica LGBTQ+ diventano improvvisamente silenziose.

 

La Lega Serie A, massima divisione professionistica del calcio italiano, non ha fatto eccezione. Ogni profilo X (ex Twitter) della Lega, col sopraggiungere dell’estate, si colora di arcobaleno, tranne uno: quello dedicato al pubblico arabo, che rimane sempre neutro.

 

La FIFA nel calcio

 

Non si parla solo di Serie A; il discorso, molto più ampio e complesso, è esteso (quasi) da sempre all’intera federazione FIFA.

 

Nonostante il suo ruolo di centralità sociale (sia diretta che indiretta) il calcio viene spesso sottovalutato dal punto di vista storico.

Ormai questo sport non rappresenta solo una mera forma di intrattenimento, ma un terreno in cui cultura di massa, economia e politica convergono, dando vita a un universo di nazioni in competizione tra loro. Non è un  caso che, ad oggi, il vincitore di questo torneo venga considerato non solo un campione sportivo, ma anche un simbolo di unità e eccellenza nazionale.

 

Fu con la nascita della Football Association (FA) nel 1863 che il calcio si affermò come sport nazionale; qui cominciarono a delinearsi, oltre che delle regole simili a quelle che conosciamo oggi, anche i valori capitalistici di questo sport: coloro che dimostravano di essere più intraprendenti sul campo riuscivano a raggiungere, poi, anche una maggiore ascensione sociale.

 

La nascita del calcio è un fenomeno che viene collocato nella Gran Bretagna antecedente all’Età Vittoriana, la quale, tuttavia, ne rappresenta il periodo di massima affermazione. Si tratta di un periodo durante il quale nacquero, nelle campagne britanniche, nuovi sport aventi l’obiettivo di limitare la violenza e diffondere valori come l’autocontrollo e la disciplina. Il calcio rappresentava, nello specifico, una causa di identificazione per gruppi e comunità di individui.

 

In concomitanza all’introduzione del concetto di tempo libero nel mondo lavorativo, il calcio iniziò a permeare sempre di più la vita quotidiana dei cittadini: dapprima solo all’intero dell’impero britannico e in seguito anche al di là dei suoi confini, crebbe la partecipazione della classe lavoratrice e nacquero i primi professionisti del calcio.

 

Mentre la Gran Bretagna rinunciava al ruolo di guida nel calcio internazionale, nel 1904 venne fondata la FIFA, un organismo in grado di regolamentare e coordinare questo sport su scala internazionale.

 

Nata all’insegna all’apoliticità e alla continuità del calcio internazionale, nel 1904 l’allora piccola federazione FIFA aveva come motto “for the good of the game”. Fu grazie ad essa che a molte squadre venne permesso, senza distinzione di status, di partecipare alle competizioni internazionali. E fu sempre grazie alla FIFA che i calciatori, nel tempo, cominciarono a essere retribuiti.

 

Il suo successo economico, tuttavia, arrivò solo nel 1932, quando si dotò di un sistema giuridico e costituì il proprio quartier generale a Zurigo.

 

Calcio e politica

 

Non è facile, per società di questo calibro, mantenere l’obiettivo di apoliticità. Basti pensare che in questo periodo si tennero il Mondiale italiano del 1934, conosciuto con la nomea di “Coppa del Duce”, e il Mondiale del 1938 in Francia: qui gli italiani, nella partita contro i francesi, si presentarono con una divisa nera e, alla fine della partita, si esibirono in un saluto romano, affiancato da un un telegramma di Mussolini che recitava “vincere o morire”.

 

La Repubblica Federale Tedesca e i Mondiali del 1974

 

Facciamo un salto temporale: nel 1974, durante il Mondiale di calcio nella Repubblica Federale Tedesca, la FIFA dimostrò chiaramente di seguire una politica basata principalmente sui possibili riscontri economici, anche a discapito di questioni morali ed etiche.

 

L’episodio emblematico di questo Mondiale fu la partita tra Cile e Unione Sovietica, che si svolse in un contesto carico di tensioni politiche internazionali. La partita era stata organizzata a Mosca, al fine di distogliere l’attenzione dal reale utilizzo che si stava facendo dello stadio nella capitale cilena: veniva usato come campo di concentramento. La FIFA, informata dei fatti, inviò sul campo dei delegati conservatori, i quali ignorarono le violazioni dei diritti umani e decisero di mandare avanti l’incontro.

 

Il colpo di Stato di Pinochet in Cile dell’11 settembre 1973 portò l’Unione Sovietica a ritirarsi; il Cile, nonostante la mancanza di avversari sul campo, venne costretto dalla FIFA a segnare un goal simbolico; i giocatori cileni, per lo più socialisti, vennero minacciati e costretti a giocare.

 

È molto importante tener vivo il ricordo di questi eventi: il Mondiale del 1974 riuscì a far raccogliere molti soldi alla FIFA, molti di più rispetto alle edizioni precedenti, alimentati, oltre che da un crescente interesse globale dato dalla partecipazione di nuove squadre e nazioni, anche dall’avanzamento tecnologico che negli anni ‘70 caratterizzò il mondo televisivo e pubblicitario. Il marketing vide l’entrata di marchi e aziende che iniziarono a vedere nel calcio una vetrina ideale per promuovere i propri prodotti, sponsorizzandosi sulle divise.

 

Il Qatar e i Mondiali del 2022

 

Spostiamo l’attenzione ai giorni nostri. I Mondiali di calcio del 2022 vengono ormai ricordati a causa della straordinaria vittoria dell’Argentina di Messi, vincente ai rigori contro la Francia; ci si dimentica spesso che sono anche stati i Mondiali in Qatar.

 

Il Qatar è noto per le sue pratiche discutibili in materia di diritti umani e, in particolare, per la sua scarsa attenzione ai diritti delle donne. Inoltre, durante un’intervista nel programma “Uncensored” condotto da Piers Morgan, il segretario generale del comitato supremo dei Mondiali di calcio del Qatar, Hassan al Thawadi, ha rivelato che la costruzione degli impianti sportivi (che avrebbe poi permesso lo svolgersi del Mondiale) ha causato la morte a circa 400/500 lavoratori. In realtà, secondo il Guardian la cifra reale è pari a circa 6.500, se non più alta.

 

Nonostante ciò, molti club (anche in Serie A) mantengono relazioni strette con questo Paese, firmando accordi di sponsorizzazione e partecipando a tornei e competizioni lì organizzate. Molte delle partnership con il Qatar sono strettamente legate alle ingenti somme di denaro che circolano nell’ambiente: si pensi, ad esempio, all’acquisizione di club come il Paris Saint-Germain, rilevante a livello nazionale a causa dell’entità del monte ingaggi degli atleti che ne fanno parte. Stipendi altissimi: 100 milioni per Neymar, 72 milioni per Kylian Mbappè, 54 milioni per Lionel Messi.

O, ancora, si pensi all’incasso di ben 260 milioni di dollari per la stagione corrente (2023/2024) di Cristiano Ronaldo nel club saudita Al-Nassr.

 

La fascia One Love

 

Veniamo al fatto più eclatante: in vista dell’edizione in Qatar, otto nazionali si sono trovate di fronte a un rifiuto della FIFA nel voler indossare, come segno di sostegno alla comunità LGBTQ+, la “fascia One Love”, creata nel 2020 per iniziativa dell’Olanda: una fascia bianca con un cuore arcobaleno. Le otto Nazionali coinvolte (oltre alla Norvegia, che non ha partecipato ai Mondiali) avevano già utilizzato la fascia durante le partite della Nations League, previa approvazione da parte della UEFA.

Tuttavia, in vista dei mondiali e citando l’Articolo 13.81 del suo regolamento sull’equipaggiamento, la FIFA dichiarò che:

 

Per le competizioni finali FIFA, il capitano di ciascuna squadra deve indossare la fascia da capitano fornita dalla FIFA

 

e distribuì quindi alle 32 Nazionali una fascia con la scritta “No Discrimination“.

Il protagonista dell’opposizione fu Manuel Neuer, portiere e capitano della Germania, che dichiarò la sua intenzione di scendere in campo con la fascia One Love anche a rischio di sanzioni; alla fine optò per la seconda scelta (cioè la fascia No Discrimination), ma la squadra tedesca lanciò lo stesso un messaggio di protesta: tutti i giocatori decisero di coprirsi la bocca con le mani in occasione della foto di gruppo.

 

I Mondiali di calcio femminili

 

Nessuna fascia arcobaleno e One Love neanche ai Mondiali femminili di calcio del 2023, ospitati in Australia e Nuova Zelanda. La FIFA, anche in questo caso, ha posto un chiaro veto sulle calciatrici: chiunque la indossasse sarebbe stata sanzionata o, addirittura, costretta a lasciare il campo.

 

Perché parliamo di “atomizzazione”

 

Generalmente, quando si fa riferimento a quel processo intenzionale e coercitivo di manipolazione volto a influenzare le credenze, le percezioni e i comportamenti di un individuo – spesso attraverso tecniche di controllo dell’informazione – si sta parlando di “brainwashing” (letteralmente “lavaggio del cervello”). Questo processo può essere utilizzato per indurre un cambiamento nell’atteggiamento delle persone, in modo da conformarli a determinate ideologie, credenze o obiettivi.

In un certo senso, è questo che accade attraverso il bombardamento di informazioni che riceviamo quotidianamente tramite i social media e la pubblicità: uno stimolo costante di immagini, frasi, idee che tendono a plasmare la mentalità, le idee, i desideri.

 

Un fenomeno relativamente recente connesso a questo è quello del “washing” dell’immagine di un marchio o di un ente, che a seconda delle istanze socio-politiche più sentite in certi contesti prende vari prefissi (dal “greenwashing” al “pinkwashing”, al “rainbow-washing” e via dicendo): si aderisce ad una causa gradita al pubblico, ma solo in modo apparente, comunicando messaggi contraddittori con le proprie azioni concrete che però inducono potenziali clienti, difficilmente in grado di verificare se ciò che è comunicato sia veritiero, a preferire il proprio marchio ad altri.

 

Per indicare il fenomeno che ci siamo sforzati di descrivere è però interessante usare anche un’altra categoria, che inserisce questi esempi in un ragionamento più ampio sulla società contemporanea: quella di “atomizzazione”. Questo termine si riferisce al processo attraverso il quale le comunità e le relazioni sociali diventano sempre più frammentate e individualizzate, con un’attenzione crescente ai bisogni dei singoli piuttosto che alle reali strutture collettive. Fenomeno che, in determinati contesti, porta delle conseguenze negative: si pensi all’aumento dell’isolamento sociale, o ancora alla perdita di solidarietà e coesione sociale.

L’atomizzazione delle aziende in relazione ai temi sociali fa riferimento al modo in cui le imprese, per interessi prettamente economici, possono reagire o adattarsi a questioni sociali rilevanti – i movimenti per i diritti umani, l’uguaglianza di genere, l’inclusione LGBTQ+ e la sostenibilità ambientale, per esempio – in modo da ottenere un ritorno d’immagine.

 

Il profitto

 

Gli esempi di doppi standard sopra descritti (scelti tra i tanti) sono un riflesso diretto dell’atomizzazione delle aziende calcistiche: mentre i dirigenti si affrettano a sostenere le giuste cause per apparire progressisti e socialmente responsabili, dietro le quinte c’è una ricerca spregiudicata del profitto. I club sono disposti a sacrificare non solo i principi morali e gli ideali che sostengono pubblicamente, ma anche la fiducia e l’integrità dei propri giocatori pur di ottenere sponsorizzazioni lucrative e faraonici accordi commerciali.

 

Per i tifosi e gli appassionati di calcio, questo scenario solleva molte domande importanti. Come possono le squadre giustificare il loro impegno a favore della giustizia sociale quando le loro azioni dimostrano il contrario?

Come si può continuare a sostenere delle cause nobili mentre si stringono accordi con Paesi che calpestano i diritti umani?

Il calcio, ormai, fa parte a tutti gli effetti della nostra società: sono davvero questi i valori che gli alti dirigenti delle Federazioni vogliono lasciare ai tifosi di tutto il mondo?

 

Fonti:

L’ipocrisia della Lega Serie A: bandiera arcobaleno sì, ma non nei Paesi arabi

Riccardo Brizzi, Nicola Sbetti, “Storia della Coppa del Mondo di Calcio”

Prime ammissioni sui morti sul lavoro in Qatar

6.500 morti tra i lavoratori in Qatar

I mondiali del 2022 e la fascia One Love