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Ambiente, società e tecnologia

Emission Trading Scheme, uno strumento per la lotta al cambiamento climatico

Secondo analisi condotte dalla NASA, il 2020 è stato l’anno in cui si è registrata la più alta temperatura media globale della superficie terrestre e secondo gli scienziati del Goddard Institute for Space Studies (GISS), la temperatura media globale nel 2020 è stata di 1,02 gradi Celsius più calda della media di riferimento 1951-1980 e di oltre 1,2 gradi Celsius più alta dei dati della fine del XIX secolo. È praticamente innegabile: siamo nel bel mezzo di un cambiamento climatico.

Negli ultimi anni la lotta al cambiamento climatico è stata sia un fatto mediatico sia un tema politico e in questo ultimo ambito l’Europa vorrebbe imporsi con il ruolo di guida puntando a realizzare un continente a impatto climatico zero entro il 2050, in linea con l’accordo di Parigi.

Sono moltissimi gli strumenti che il vecchio continente sta cercando di integrare per il raggiungimento degli obiettivi climatici, tra questi ne abbiamo alcuni più noti, come il Green Deal, e altri che lo sono meno come l’Emission Trading Scheme (ETS).

ETS: in cosa consiste?

L’ETS, ossia il sistema di scambio di quote di emissione dell’Unione Europea, è – afferma l’Europa – “uno strumento essenziale per ridurre in maniera economicamente efficiente le emissioni di gas a effetto serra e rappresenta il primo mercato mondiale della CO2”. Nasce nel 2005 con lo scopo di limitare il volume totale delle emissioni di gas a effetto serra prodotte dagli impianti e dagli operatori aerei ritenuti responsabili di circa il 50% delle emissioni di gas a effetto serra dell’UE e, ad oggi, copre le emissioni di molte centrali elettriche, molti impianti industriali e parte delle emissioni del traffico aereo tra i 31 paesi aderenti.

L’ETS è basato su un principio definito “cap-and-trade” e procede mediante la fissazione di una quantità massima di emissione, definita tetto, successivamente la quantità individuata viene divisa in singole unità. Ciascuna di queste unità è incorporata in un singolo certificato che dà loro il permesso di emettere una certa quantità di gas serra in atmosfera. Alla fine di ogni anno le società devono possedere un numero di quote sufficiente a coprire le loro emissioni se non vogliono subire pesanti multe. Se un’impresa riduce le proprie emissioni, può mantenere le quote non utilizzate per coprire il fabbisogno futuro oppure venderle a un’altra impresa che ne sia a corto. La vendita dei certificati avviene su un mercato borsistico costruito ad hoc dall’Unione Europea ma non tutte le quote finiscono in borsa, infatti, parte delle stesse vengono assegnate alle attività aprioristicamente dall’UE in base alle emissioni degli anni precedenti.

I certificati di inquinamento, per svolgere correttamente il loro lavoro, dovrebbero essere mantenuti a un prezzo medio-alto affinché vengano favoriti gli investimenti in tecnologie a basso rilascio di CO2. Un’altra caratteristica del mercato ETS è che il tetto di emissioni viene ridotto progressivamente nel tempo di modo da favorire la diminuzione delle emissioni totali. Il sistema ETS è un modo molto alternativo dell’applicazione del principio “chi inquina paga” e in particolare la sua attuazione avviene attraverso un meccanismo incentivante: chi inquina poco, non solo è virtuoso ma può rivendere le quote assegnategli e trarne profitto.

ETS: le fasi di sviluppo

Il mercato ETS ha conosciuto finora 3 fasi.

La prima di queste fasi, durata solo due anni, rappresentava una prova, in preparazione della fase successiva, ed era caratterizzata da 3 elementi.

Innanzitutto, essa si limitava a considerare le emissioni di CO2 provenienti dagli impianti energetici e dalle industrie che utilizzavano in modo intensivo l’energia.

Secondo, le quote di emissione, quasi tutte, erano assegnate alle imprese a titolo gratuito e, ultimo aspetto, le sanzioni previste in caso di mancato rispetto degli obblighi, corrispondevano a 40 euro per tonnellata. In termini di obiettivi raggiunti, attraverso la fase 1 si è riusciti a stabilire il prezzo per la CO2, il libero scambio di quote di emissione in tutta l’UE e l’infrastruttura richiesta per controllare, comunicare e verificare le emissioni dei soggetti interessati. Aspetto rilevante e non trascurabile della fase 1 riguarda la mancanza di dati attendibili sulle emissioni. Condizione, questa, che ha portato al dover fissare i tetti di riferimento sulla base di stime. La conseguenza diretta risiede nel fatto che la totalità di quote assegnate superava le emissioni, facendo scendere il valore delle quote, arrivando a zero nel 2007.

La seconda fase (2008-2012) corrisponde con il primo periodo d’impegno del protocollo di Kyoto e possiede molteplici caratteristiche.

Innanzitutto, si è verificata un’estensione, sia in termini di nuovi paesi aderenti (Islanda, Liechtenstein e Norvegia) sia di sistema, attraverso la considerazione delle emissioni di ossido di azoto e del settore aereo (quest’ultimo inserito il 1° gennaio 2012).

Altri elementi che caratterizzano la fase 2 sono le proporzioni di quote assegnate a titolo gratuito, leggermente ridimensionate a circa il 90%, l’organizzazione di aste da parte di diversi paesi, l’aumento del valore delle sanzioni (da 40 a 100 euro per tonnellata), la sostituzione dei registri nazionali con un registro dell’Unione e la sostituzione del catalogo indipendente comunitario delle operazioni (CITL) con il catalogo delle operazioni dell’Unione europea (EUTL).

Nella fase 2 erano presenti i dati verificati sulle emissioni della fase 1, permettendo così di fissare i tetti sulle quote sulla base delle emissioni effettive. Tetti che risultavano essere inferiori del 6,5% rispetto a quelli del 2005. All’interno della fase 2, la crisi economica del 2008 ha provocato una riduzione importante delle emissioni rispetto alle previsioni, generando un eccesso di quote e di crediti, che ha pesato molto sul prezzo della CO2 per tutta la fase 2.

Nella terza fase (2013-2020) si è verificato un cambiamento importante riguardo il tetto delle emissioni. Nei due periodi precedenti, ogni paese fissava il proprio limite, a partire da questa fase, invece, è stato imposto il fatto che il tetto di emissioni venga fissato unicamente a livello europeo. Oltre a questo cambiamento, è stato introdotto il metodo autoctioning per l’allocazione dei certificati che, in questo modo, possono essere acquistati mediante un vero e proprio meccanismo d’asta. Inoltre, sono stati coinvolti nuovi settori e sono stati depositati circa 100 milioni di certificati all’interno di una riserva, chiamata “new entrants”, utilizzata per finanziare la predisposizione per le implementazioni di tecnologie innovative attraverso un programma europeo.

All’interno della terza fase, più precisamente nel 2018, è stata rivista la cornice normativa della fase successiva, che va dal 2021 fino al 2030, per garantire la riduzione delle emissioni in funzione degli obiettivi per il 2030 e nell’ambito del contributo dell’UE rispetto all’accordo di Parigi. La revisione ha riguardato 4 aspetti.

Innanzitutto è stato aumentato, a partire dal 2021, il ritmo delle riduzioni del tetto massimo annuo al 2,2%, in maniera tale da rafforzare il sistema ETS come stimolo agli investitori. In questo senso, oggetto di rafforzamento è stato anche la riserva stabilizzatrice del mercato. Si è inoltre stabilito di proseguire con l’assegnazione gratuita di quote a garanzia della competitività dei settori industriali risultanti a rischio di rilocalizzazione delle emissioni di CO2, mantenendo regole mirate e in linea con il progresso tecnologico per l’assegnazione gratuita di tali quote. Ultimo aspetto, si è deciso di supportare, attraverso meccanismi di finanziamento (Fondo per l’innovazione e Fondo per la modernizzazione), l’industria e il settore energetico, in maniera tale da consentirgli di affrontare le sfide dell’innovazione e degli investimenti richiesti dalla transizione verso un’economia a basse emissioni di CO2.

Aspetti critici e prospettive future

 

Una delle poche critiche che si può muovere al sistema ETS è che non sempre riesce a mantenere livelli di prezzo dei certificati sufficientemente alti da disincentivare l’inquinamento. Ad esempio, all’apertura del mercato, nel 2005, emettere una tonnellata di gas serra costava circa 30 euro, dopo poco il prezzo dei certificati è improvvisamente dimezzato. Con la crisi dei debiti sovrani, nel 2010, il prezzo è tornato a scendere vertiginosamente, fino a rasentare la soglia dei 5, e talvolta 3 euro a tonnellata. Il prezzo da pagare per inquinare era talmente basso che per molte nazioni la soglia di convenienza per generazione elettrica si è spostata verso il carbone. Il crollo del prezzo fu anche dovuto al fatto che, diminuita la produzione, post-crisi le imprese disponevano di moltissimi certificati inutilizzati e l’abbondanza degli stessi sul mercato non consentiva la risalita del prezzo nemmeno dopo la stabilizzazione della situazione in uno scenario post-crisi.

Solo nel 2019 i prezzi si erano nuovamente stabilizzati sui livelli pre-crisi ma tutto ciò era stato reso possibile solo grazie al grande sforzo dell’Unione europea che, ridisegnando le regole dell’asta, ha permesso nuovamente. Purtroppo il 2020 è stato teatro di una pandemia mondiale che ha nuovamente inflitto una battuta d’arresto alla produttività europea con conseguente crollo dei prezzi dei certificati. Non ci resta che rimanere aggiornati, nella speranza che, nel momento in cui l’economia tornerà a crescere, il sistema ETS possa rispondere al meglio a questi cambiamenti.

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PotatoPlastic: dalla padella al packaging

Il consumo di plastica è ormai al centro del dibattito ambientale da molti anni. La produzione di oggetti di plastica ( in particolare quelli monouso) è infatti tra le maggiori cause dell’inquinamento del nostro Pianeta e rappresenta una delle minacce principali per il nostro ambiente.

Secondo un recente studio pubblicato sul Science Advance, l’Italia conquista (a malincuore) la top-ten tra produttori di plastica procapite, aggiudicandosi un 9° posto nella classifica globale che vede in vetta gli USA con una produzione di plastica per ogni cittadino di circa 105kg l’anno.

Secondo i dati del 2020, un italiano medio produce 56kg di plastica l’anno, il che significa generare circa 1kg di rifiuti di plastica alla settimana.

I dati italiani sono sicuramente allarmanti in quanto ci mostrano chiaramente come, negli ultimi decenni, ci siamo trasformati sempre di più in un popolo di consumatori seriali. Abbiamo gradualmente perso ogni tipo di rispetto sia per la Natura, che ci ospita la nostra specie da secoli, che per noi stessi. Come se non bastassero i danni ambientali da noi causati fino ad ora, continuiamo a guardare all’incombente crisi climatica con scetticismo ed indifferenza, ignorando o screditando ogni possibile impegno in merito ad una sua risoluzione e condannando così, in totale inerzia tra un sospiro e l’altro mentre compriamo l’ennesima bottiglietta di acqua minerale al supermercato, la Terra ad una morte precoce e sofferente.

Secondo un’indagine del national Geographic, ogni anno circa 8 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica finiscono negli oceani, dove spesso perdurano fino a 400 anni prima di degradarsi.

Tutti questi dati erano sicuramente noti a Pontus Törnqvist, studente svedese di 24 anni, e al team con cui ha realizzato il progetto della “Potato Plastic”: il nuovo materiale biodegradabile a base di fecola di patate che potrebbe sostituire gli oggetti monouso in plastica.

Il progetto e l’ingrediente segreto: la fecola di patate

L’obiettivo del progetto è semplice nella sua straordinarietà: sostituire la plastica, poco durevole ma molto inquinante, con un altro materiale innovativo, biodegradabile e 100% Bio-based, cioè totalmente a base biologica: la fecola di patate.

La fecola di patate è attualmente utilizzata in più ambiti del settore industriale e trova in particolar modo applicazione nel mondo della cosmesi e dei prodotti per la cura della persona.

Proprio da questa consapevolezza nasce l’idea innovativa che ha portato il team, composto da Pontus, Hanna Johanssona e Elin Tornblad, a vincere l’edizione svedese del James Dyson Award, concorso internazionale di design che ispira le prossime generazioni di ingegneri a realizzare idee innovative, volte a stimolare il problem-solving dei partecipanti.

La PotatoPlastic è un materiale termoplastico, composto da fecola di patate ed acqua. Questi due componenti, se opportunamente mescolati e riscaldati, possono dare origine ad un composto compatto che si rivela essere un efficiente alternativa alla comune plastica.

Come emerge dal loro sito (di cui vi invito a dare un’occhiata), la finta plastica a base di patate è costituita da ingredienti esclusivamente naturali. La sua produzione parte infatti dall’utilizzo di scarti del tubero ed il prodotto finito è completamente organico e compostabile.

Lo scopo principale dell’invenzione è quello di sostituire la plastica tradizionalmente utilizzata per gli articoli monouso, fornendo un’alternativa non dannosa che possa contribuire a diminuire l’inquinamento causato dalla plastica a livello globale.

La questione dell’utilizzo di oggetti monouso infatti si è spinta ai limiti del paradossale: prodotti come piatti e posate in plastica hanno una vita media di soli 15-20 minuti ma un tempo di smaltimento di circa 450 anni. Occorre quindi chiederci, ne vale veramente la pena?

In un’ottica realistica in cui queste evidenze sono ormai inaccettabili, l’utilizzo della PotatoPlastic si rivela essere sempre di più una scelta vincente, specie se si considera che dal 2021 la nuova direttiva dell’Unione Europea vieta i prodotti di plastica monouso.

Perciò, se ancora non si vuole rinunciare alla comodità del monouso, occorre allora trovare delle alternative valide ecosostenibili alla cara, vecchia e dannosa plastica.

In questa prospettiva, la Potato Plastic si dimostra essere sicuramente un fulmine a ciel sereno.

La lotta alle microplastiche

Anche sulla homepage del sito, il Potato-team puntualizza che questo nuovo biomateriale non si trasformerà mai in microplastiche, cioè minuscoli pezzi di materiale plastico, generalmente inferiori ai 5 millimetri, rilasciate nell’ambiente e dagli effetti potenzialmente tossici.

Da dove viene però quest’impellente necessità di contrastarne la diffusione?

Nel novembre del 2020 è stata portata alla luce una scoperta sconcertante: sono state ritrovate delle microplastiche nelle placenta umana, cioè l’interfaccia tra madre e feto, il luogo più sacro e incontaminato che ha il compito di nutrire e supportare la nuova vita che si sta sviluppando nel grembo materno. Ma come è potuto accadere?

Il meccanismo che si instaura dal momento in cui la plastica finisce in mare è una sorta di catena di contaminazione alimentare. I raggi UV, gli agenti atmosferici ed i batteri presenti nei mari contribuiscono infatti alla frammentazione della plastica in particelle sempre più piccole che possono essere facilmente ingerite dagli animali marini che poi entrano nella catena alimentare. É così che, alla fine, il cibo contaminato finisce sulle nostre tavole.

A rincarare la dose e velocizzare la nostra trasformazione in “cyborg”, contribuisce anche il fatto che spesso i cosmetici che utilizziamo, come creme, prodotti per l’igiene del corpo e make-up, sono a base di plastiche che rilasciano agenti chimici in grado di penetrare la nostra pelle ed entrare in circolo nel nostro organismo. Le microplastiche possono quindi innestarsi nei nostri tessuti e nei nostri organi, entrando letteralmente in simbiosi con noi stessi. Ciò che  più spaventa della questione, è che i loro effetti sulla salute dell’essere umano non sono ancora del tutto noti.

Spesso inoltre il materiale plastico contiene additivi, come bisefenoli e ftalati (utilizzati per conferire flessibilità al prodotto), che interferiscono con il nostro sistema endocrino e possono avere delle serie ripercussioni sullo sviluppo dell’individuo.

La plastica è un materiale macromolecolare composto da vari polimeri, una sorta di miscela di molte sostanze diverse. Alcune di queste, come il Pvc (cloruro di polivinile) ed il poliuretano, hanno un livello di tossicità così alto da essere vietati nelle bottigliette e negli imballaggi, come riportato dalla ricerca pubblicata sulla rivista Environmental Science and Technology. Lo stesso vale per i prodotti di cosmesi, troppo spesso saturi di derivati del petrolio potenzialmente tossici che negli anni possono penetrare nel nostro organismo.

Dallo studio condotto dai ricercatori dell’Ospedale Fatebenefratelli di Roma e dall’Università politecnica delle Marche sulle placente di neo-mamme è emerso che l’organo placentare, una volta prelevato ed analizzato tramite tecniche spettroscopiche, conteneva ben 12 tipologie di microplastiche. Sono stati ritrovati infatti piccoli frammenti di plastica pigmentati in 4 placente sulle 6 totali studiate.

É la prima volta nella storia della sperimentazione scientifica che si trovano particelle artificiali nella placenta, il luogo più sacro e incontaminato dell’essere umano, o meglio della donna, tramite cui avviene l’unione vitale tra madre e feto. Da questi risultati si deduce che le microplastiche, una volta penetrate perché ingerite con gli alimenti o attraverso l’utilizzo di altri prodotti contenenti plastica, possono entrare in circolo e diffondersi in tutto il corpo tramite i vasi sanguigni, raggiugnendo la placenta e, da lì, anche il feto.

Un’altra constatazione emersa dallo studio è inoltre che la presenza di particelle artificiali nel nostro corpo può alterare la risposta del nostro sistema immunitario. Le cellule deputate alla difesa del nostro organismo, che si occupano di eliminare eventuali parassiti e di proteggerci da agenti estranei riconoscendo il “self” dal “not-self”, cioè ciò che appartiene al nostro organismo da ciò che è estraneo, hanno iniziato a riconoscere come “self” anche ciò che non è organico: la plastica.

Stiamo quindi iniziando ad assimilare il materiale plastico che, lentamente, sta diventando parte del noi.

Dopo essere entrata nelle nostre vite in modo prorompente, conquistando ogni oggetto della nostra quotidianità, la plastica è lentamente e silenziosamente penetrata dentro il nostro corpo, facendo sembrare sempre più realistica quella prospettiva fantascientifica dell’uomo-macchina. Di questo passo, la verità è che ci stiamo lentamente trasformando in “cyborg” e nessuno se ne sta accorgendo.

Il progetto di PotatoPlastic si propone proprio di invertire la rotta di questo meccanismo per ricondurre ognuno di noi ad un’esistenza quanto più salutare possibile e rispettosa nei confronti dell’ambiente.

La soluzione: più patate meno spreco

Il primo passo verso un minor consumo della plastica è sicuramente informarsi e prendere consapevolezza della gravità della situazione. Se nell’ultimo anno sono state prodotte 310 milioni tonnellate di plastica e la terra sta implodendo su se stessa, la colpa non può che gravare sull’essere umano e sull’utilizzo sconsiderato che fa delle risorse di cui dispone.

In una visione un po’ Leopardiana, l’essere umano si rivela comunque debole ed impotente di fronte a Madre Terra ed alle varie calamità naturali, riflesso di una natura che si ribella ai soprusi sofferti per decenni. Ciò è ampiamente dimostrato dalla crisi climatica attualmente in atto che sta mettendo in ginocchio una larga fetta della popolazione mondiale (basti pensare agli incendi che hanno dilaniato l’Australia o alla recente crisi causata dal freddo polare in Texas).

Occorre quindi ridurre l’inquinamento da plastica, aumentarne il riciclo ed incentivare lo sviluppo di proposte alternative, come la PotatoPlastic.

Secondo un’indagine di GreenPeace, queste nuove misure potrebbero ridurre il carico di plastica nei rifiuti di circa il 57%: si parla di ben 188 milioni di tonnellate di plastica in meno ogni anno. Coadiuvando ciò allo sviluppo del riciclo e del riutilizzo, si implementerebbe anche una nuova economia basata sulla plastica ecosostenibile, che porterebbe oltre 1 milione di posti di lavoro nel settore della rilavorazione dei rifiuti.

La PotatoPlastic rappresenta sicuramente un primo passo valido verso la riduzione dell’inquinamento causato dalla plastica ma la strada da fare verso uno stile di vita ed una società ecosostenibile è ancora molta.

Se è vero che un individuo da solo non potrà risolvere la crisi climatica, Greta Thunberg, l’attivista Svedese sedicenne impegnata nello sviluppo sostenibile e creatrice del movimento degli “scioperi per il Clima”, ci insegna che lottare per una giusta causa con impegno porterà sempre a dei risultati.

Occorre quindi sforzarci nel nostro piccolo per condurre una vita più rispettosa nei confronti dell’ambiente e parallelamente incentivare la ricerca ecosostenibile, richiedendo strette e regolamentazioni sull’inquinamento. Solo così potremo efficacemente contrastare l’inevitabile tracollo climatico che noi stessi abbiamo causato.

La Terra non può più aspettare.

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Neutralità climatica: cos’è e perché non la raggiungeremo nel 2050

Nonostante sia ormai da mezzo secolo che gli esperti parlano di “cambiamento climatico”, si sono rese necessarie due cose affinché questo argomento riuscisse ad affermarsi come attuale: il quinto rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) e un impermeabile giallo. Il primo è servito al processo di affermazione giudiziaria del cambiamento climatico in quanto per la prima volta volta sono state fornite le prove scientifiche circa l’esistenza dello stesso e della sua origine antropica; mentre il secondo lo ha reso finalmente un fatto mediatico, degno di essere sulla bocca di tutti.

Perché è necessario raggiungere la neutralità climatica

L’IPCC, che dal 1988 si occupa di cambiamenti climatici, stima la probabilità di accadimento del riscaldamento globale tra il 95 e il 100%, e gli attribuisce una serie di conseguenze quali: l’innalzamento del livello del mare, l’incremento delle ondate di calore e dei periodi di intensa siccità, ai quali seguirebbero poi violente alluvioni, e un aumento in numero delle tempeste e degli uragani.

Mantenere l’innalzamento della temperatura media globale al di sotto del dato stimato non è solo necessario ma vitale; ed è per questo che è nato il concetto di neutralità climatica, un concetto con il quale si intende l’azzeramento delle emissioni nette, ossia il pareggio nel bilancio tra le emissioni in atmosfera e la quantità di gas che il Pianeta riesce ad assorbire. La neutralità climatica, tra l’altro, è ben lontana dal poter essere considerata una garanzia protettiva rispetto all’imminente catastrofe dato che, almeno per ora, tutto ciò che è stato emesso in passato continua a rimanere in atmosfera e perciò a esercitare inesorabilmente la sua azione “riscaldante”.

Della situazione venutasi a creare, l’opinione pubblica ha finalmente preso coscienza e ciò ha costretto le forze politiche a intervenire sul tema: a partire dal 2015 sul piano internazionale e sul piano sovranazionale è iniziato un processo di fissazione degli obiettivi, forse un po’ troppo ambiziosi, a tutela del pianeta terra che hanno poi portato l’Europa a poter ipotizzare il miraggio della neutralità climatica entro il 2050.

Perché non sarà raggiunta entro il 2050

Proprio con questi obiettivi la Commissione Europea, guidata da Ursula von der Leyen, ha promosso il Green Deal Europeo: una vera e propria tabella di marcia ricca di linee guida e suggerimenti per rendere sostenibile l’economia UE e migliorare lo stile di vita dei cittadini.

Nel comunicato ufficiale, il Green Deal viene definito come “una strategia che mira a trasformare l’Unione Europea in una società giusta e prospera, con un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva in cui non ci sono emissioni nette di gas a effetto serra nel 2050 e in cui la crescita economica è disaccoppiata dall’uso delle risorse.

Il raggiungimento di obiettivi così ambiziosi e significativi è tuttavia ostacolato da diverse problematiche; prima fra tutte la vastità ed eterogeneità di Stati coinvolti.

Come affermato da Andrea Quaranta nel suo articolo, il perseguimento dell’azzeramento delle emissioni avrà costi e tempi diversi per i vari paesi dell’Unione. Gli stati dell’Unione Europea differiscono infatti per cultura, tradizione, sfondo economico e risorse a disposizione, pertanto sarà necessario individuare procedure e strategie attuabili da tutti gli stati, in modo da fornire a tutti un’opportunità di trasformazione.

Secondo GreenPeace, le misure attualmente indicate sono “troppo deboli o hanno ancora bisogno di essere cucite insieme”.

Alle problematiche di individuazione di misure europee si affiancheranno presto complicazioni nella definizione di un iter legislativo e di misure a garantire l’applicazione delle stesse, operazioni che restano a discrezione dei singoli stati.

Un altro ostacolo è sicuramente l’elevato numero di finanziamenti necessari all’attuazione di tali progetti. Come spiegato da Simona Rizza sull’Eco Internazionale, il Green Deal Europeo sfrutterà InvestUE: uno strumento finanziario per la raccolta di finanziamenti pubblici e privati. Si stima un raggiungimento di un bilione di euro, fondi tuttavia considerati insufficienti dall’analisi di le monde, riportata da Insideover.

Nello stesso articolo vengono inoltre evidenziati risvolti negativi che potrebbero essere introdotti dall’applicazione di un cambiamento economico così forte: l’aumento dei prezzi in risposta all’introduzione di regolamenti stringenti ed una mancata crescita produttiva potrebbero portare a gravi conseguenze a sfavore dell’Europa nelle logiche commerciali internazionali.

La sfida: la rinuncia al petrolio

Un ulteriore motivo per il quale non raggiungeremo la neutralità climatica è che a pesare maggiormente sulle nostre emissioni in atmosfera è il comparto fossile seguito a distanza dagli allevamenti intensivi; questo è un bel problema se si pensa che, sebbene non tutta la popolazione può definirsi onnivora, ormai quasi tutti gli ospiti del Pianeta sono energivori.

Come ricorda il Professor Nicolazzi nel suo libro “Elogio del petrolio. Energia e disuguaglianza dal mammut all’auto elettrica”, l’energia, per l’Homo Sapiens, è stata la vera guida al successo evolutivo. Inizialmente l’uomo disponeva solo di se stesso come convertitore di energia, poi ha addomesticato altre specie e all’energia propria ha affiancato quella animale. In seguito, l’uomo ha compreso come catturare l’energia dalla natura e ha costruito i mulini: strutture che pur senza nutrirsi, sono in grado di svolgere il lavoro di 60 persone. Infine, sono arrivate le fonti fossili e il petrolio. A questo punto la qualità della vita è migliorata così tanto che sembra impossibile separarsene.

Ad oggi più del 60% delle emissioni in atmosfera sono dovute al fossile e, per quanto la nascita del Ministero della transizione ecologica ci faccia pensare, e sperare, che quella energetica sia vicina, rimane una serie di problemi che ci separano dall’agognato obiettivo “fossile zero”. Primo tra tutti la sua sostituzione nel campo della produzione industriale particolarmente in tutti quei settori in cui si renda necessario il raggiungimento di elevate temperature.

Il secondo grande quesito della separazione dal fossile sta proprio nella produzione di energia pulita. Infatti, a differenza di quanto comunemente si pensi, il problema non risiede solo nel raggiungimento di una densità elettrica utile a svolgere il lavoro che fino a oggi ha egregiamente svolto il fossile, ma risiede anche nel posizionamento delle strutture che generino la nuova energia pulita tenendo conto che l’offshore non può rappresentare la totale soluzione.

Ammesso che si trovi il sistema per produrre l’energia green, per puntare alla neutralità climatica entro il 2050 si renderebbe necessaria una rivoluzione della rete energetica integrata con un ottimizzato sistema di accumulo, i cui costi sono molto più elevati di quelli derivati dalla lavorazione del vecchio amico petrolio. Infatti, per quanto si trovi lo spazio per posizionare le strutture necessarie, possibilmente senza disboscare, è necessario fare i conti con l’intermittenza nell’erogazione dell’energia. Il petrolio, una volta estratto è sempre pronto ad entrare in azione: delle fonti rinnovabili si può dire lo stesso? Se si alimentasse la propria casa esclusivamente con l’energia solare, tutte le docce fatte dopo il tramonto sarebbero piacevoli come secchiate d’acqua gelida: non è esattamente quello che ci si aspetta al termine una giornata impegnativa.

Indissolubilmente legata alla tematica del petrolio, abbiamo quella dei trasporti dove, anche in questo caso, l’immaginario comune a volte sembra ben lontano dall’aver fatto i conti con l’oste. Visto che il comparto navale e quello aereo sono ancora ben lontani dalla possibilità di un’alimentazione green essendo improponibile, specie per il trasporto navale, la rinuncia al fossile, ci limiteremo ad accennare solo al settore automobilistico. Il 12% delle auto immatricolate in Italia nel 2020 appartiene alla categoria “vetture elettriche pure o ibride plug-in”, ma questo non rappresenta un dato confortante. Infatti per quanto una vettura elettrica o ibrida in funzionamento elettrico non immetta anidride carbonica in atmosfera, l’impianto che ha generato l’energia con la quale l’auto si è mossa quasi sicuramente lo ha fatto. Uno scenario del genere non prevede la riduzione delle emissioni in atmosfera ma solo la loro delocalizzazione nello spazio e nel tempo. Quanto appena descritto non vuole essere una profezia di Cassandra, piuttosto è ciò che può essere dedotto dal  rapporto TERNA riferito al mese di Gennaio, secondo cui solo un terzo della domanda energetica del Belpaese è soddisfatta da energia derivante da fonti alternative.

Tra miraggio e realtà

Quasi sicuramente il 2050 non rappresenterà l’anno del raggiungimento della neutralità climatica ma questo non significa affatto che impegnarsi al suo perseguimento sia uno sforzo vano. Il cambiamento climatico e le sue dannose conseguenze sono praticamente dati per certi e imminenti e, piuttosto che non fare nulla, è sempre meglio agire pur correndo il rischio che quanto fatto non sia bastato. Il susseguirsi di azioni concrete non migliorerà da subito la situazione del Pianeta, ma siamo chiamati ad agire adesso nel rispetto delle generazioni future, perché non siano private dei benefici di cui i loro predecessori hanno goduto, e purtroppo abusato.

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Perché potrebbe essere possibile raggiungere la neutralità climatica nel 2050

Negli ultimi 40 anni l’umanità ha sempre più preso coscienza della realtà dei cambiamenti climatici e dell’impatto devastante che hanno (e avranno). Una consapevolezza che è cresciuta fino ad arrivare nel 2015 agli accordi di Parigi, il più importante impegno internazionale per tutelare l’ambiente: oggi ne fanno parte 197 Paesi.

Seguendo l’ammonimento della scienza, vuole contenere il riscaldamento del pianeta a 2 gradi rispetto all’era preindustriale, soglia considerata critica e di non ritorno per raggiungere la neutralità climatica.

Grandi obiettivi a lungo termine che non ammettono perdite di tempo, ma riusciremo a metterli in pratica concretamente e partendo adesso?

Alcuni si riferiscono al periodo che stiamo vivendo come una nuova rivoluzione industriale, che ponga la questione ambientale al centro e riveda il concetto di produzione da lineare a circolare, quanto più possibile. L’Unione Europea in questa rivoluzione ambisce al ruolo di protagonista, perché con il suo Green Deal si è posta obiettivi importanti volti al raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050.

La crisi causata dal Covid-19, contrariamente alle aspettative di qualcuno, non solo non ha fermato i progetti della commissione europea, li ha addirittura rafforzati. Di fronte a una forte crisi le società sono maggiormente disposte a cambiamenti drastici nei loro piani.

Basti pensare al recovery fund e all’ingente parte di questo dedicato agli investimenti green da attuare nei vari stati membri.

Certo è che non possono rimanere promesse vaghe, c’è bisogno di una governance competente e coordinata tra i paesi membri che si ponga obiettivi raggiungibili e misurabili nel breve periodo.

Anche gli USA sono in campo per giocarsi un ruolo di primo piano, dopo l’amministrazione Trump notoriamente negazionista della questione climatica. Biden ha infatti promesso un piano di investimenti da 1,7 trilioni di dollari in energia pulita nei prossimi dieci anni, per creare nuovi posti di lavoro e convertire gli attuali impiegati nel settore energetico dei combustibili fossili. Non è da meno la Cina, che dall’altra parte del mondo intensifica i suoi sforzi specialmente per migliorare la qualità dell’aria, ponendosi obiettivi e controlli quinquennali.

Ci sono 4 settori in particolare che sono responsabili di gran parte delle emissioni di gas serra: energia, trasporti, edilizia e filiera alimentare.

Alimentazione

La filiera alimentare è un enorme contribuente al cambiamento climatico, specialmente quella degli allevamenti intensivi di bovini. Questi sono responsabili di emissioni di metano più che di anidride carbonica, per non parlare del consumo di suolo e acqua. “Se la popolazione delle mucche nel mondo fosse considerata come un paese, sarebbe uno tra i primi tre al mondo per emissioni di gas serra”, è l’ammonimento di Kimberly Henderson, esperta di sostenibilità e partner di McKinsey.

Segnali incoraggianti però arrivano dalle aziende, che stanno mettendo a punto e perfezionando varie tecniche di riduzione delle emissioni di metano (qui l’approfondimento de Il Post) ma anche dai consumatori, sempre più consapevoli dell’impatto delle loro scelte a tavola. Ridurre il consumo di carne e acquistare prodotti a KM0 sono entrambi trend in crescita.

Trasporti

Il settore automobilistico è responsabile del 15% delle emissioni di CO2 e ha dunque un ruolo centrale per la lotta al riscaldamento globale su due fronti, quello delle emissioni di scarico e le emissioni dei materiali dei veicoli. Le prospettive sono positive: le vetture elettriche stanno prendendo sempre più piede e c’è una crescente pressione per aumentarne ancora di più la quota di mercato, sia dagli investitori che dalle autorità. Sta anche facendo progressi l’industria delle batterie al litio, che diventa sempre più efficiente e circolare (è da poco nata Reneos, la piattaforma europea di raccolta e riciclo delle batterie esauste in grado di recuperarne la maggior parte dei componenti). Aziende come Tesla, poi, stanno studiando nuovi metodi per la produzione di batterie, come le LFP.

Le innovazioni nei trasporti più in senso lato corrono veloci: prosegue la sperimentazione di Hyperloop e si studiano nuovi combustibili, come l’idrogeno per gli aerei.

Energia

Il settore energetico costituisce la chiave di volta per la decarbonizzazione del nostro pianeta, a fronte di una richiesta energetica destinata ad aumentare. L’utilizzo di fonti esclusivamente rinnovabili non sarà una sfida facile.

Se, infatti, i combustibili fossili sono in grado di produrre energia 24 ore al giorno, le rinnovabili sono per lo più vincolate alle condizioni atmosferiche: di notte o in una giornata nuvolosa il solare non sarà sfruttabile, così come l’eolico in una giornata senza vento.

Sono in corso numerosi studi su come immagazzinare l’energia proveniente da queste fonti, magari in giga batterie, ma al momento si tratta di soluzioni estremamente costose.

Un ruolo molto importante potrebbe essere giocato dal nucleare, ma in assenza di un effettivo reimpiego delle scorie nucleari si tratterebbe solamente di spostare il problema.

C’è poi la questione del consumo di suolo: una “wind farm”, ad esempio, richiede un territorio molto più ampio rispetto a una centrale tradizionale, a parità di energia prodotta. E le dighe necessarie alla produzione di idroelettricità hanno il loro impatto sul territorio circostante.

In questo senso vengono in aiuto tecnologie come l’eolico offshore, di cui la Danimarca è leader, e nuove tecnologie in grado di sfruttare l’energia incessante delle onde marine, con impatto pressoché nullo sugli ecosistemi in cui vengono inserite.

E in realtà come l’Europa, la maxi-rete energetica interconnessa permetterebbe di sfruttare al massimo l’energia pulita dei vari paesi: eolico della Danimarca, solare dei paesi mediterranei, nucleare francese, geotermico italiano e così via.

Edilizia

La produzione di cemento è una delle attività più inquinanti, ma il settore dell’edilizia sostenibile (incentivato, ad esempio, dal Green Deal europeo) è in rapidissima ascesa: si stima che entro 6 anni raggiungerà un valore di mercato (mondiale) di oltre 180 miliardi di dollari, con una crescita dell’8,6% annuo.

Alcuni elementi chiave della nuova edilizia sono il prefabbricato con ampio uso di legname proveniente da foreste gestite in modo sostenibile e con certificazioni green.

Oltre al ripensamento dei materiali, il fatto di avere case prefabbricate aiuta a migliorare l’isolamento, con conseguente ottimizzazione dei consumi energetici.

Altro elemento chiave per il raggiungimento di questa ottimizzazione è l’intelligenza artificiale e l’indipendenza energetica, con il crescente utilizzo di pannelli solari e sistemi di domotica intelligente.

Questi sono solo gli aspetti più importanti che la nuova edilizia deve tenere d’occhio, ma certamente non gli unici. Se le previsioni saranno rispettate, il settore edilizio contribuirà a ridurre del 40% le emissioni di CO2 entro il 2030.

Mercati

Tutta questa questione di new economy e piani per il clima si basa su previsioni future dall’esito molto incerto, e altrettanto volatili sono i mercati. Proprio su questi possiamo tentare di indagare per scoprire il destino (almeno nel breve termine) dello sviluppo sostenibile.

Tesla, la cui mission è “accelerare la transizione del mondo verso l’energia sostenibile” ha avuto un boom in borsa ed il suo CEO è attualmente l’uomo più ricco del mondo, con super investimenti in vari campi di innovazione tecnologica.

Gli investimenti in energia rinnovabile sono sempre di più, da governi e privati, e nello scorso anno il settore automobilistico a 0 emissioni è cresciuto enormemente rispetto alla controparte a combustione interna, anche in Italia. Sembrerebbe, dunque, che la sostenibilità stia vincendo.

Alla luce di tutto questo, con così tante variabili in gioco e così tanta incertezza, risulta veramente difficile affermare con certezza se le emissioni verranno azzerate nel 2050 o qualche anno dopo. La rapidità con cui il mercato sta cambiando in pochi anni, però, non può che lasciarci fiduciosi.

Un altro fattore che ci rende ottimisti è la ricerca di metodologie per catturare i gas serra già presenti nell’atmosfera, a partire dal più semplice e naturale di tutti: la riforestazione. Oltre a ciò, alcuni personaggi influenti della scena internazionale (come Bill Gates ed Elon Musk) stanno incentivando la ricerca per metodi artificiali di carbon capture technology e sensibilizzando l’opinione pubblica sull’importanza di agire.


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Ambiente, società e tecnologia

Come l’uomo più ricco del mondo vuole spendere i suoi soldi e salvare il pianeta

L’8 gennaio di quest’anno Elon Musk è diventato l’uomo più ricco del mondo con un patrimonio di quasi 190 miliardi di dollari, superando persino Jeff Bezos proprietario di Amazon; Tesla, la sua azienda più redditizia vale più di Facebook ed è il CEO di altre 3 realtà altrettanto futuristiche: Space X, Neuralink e The Boring Company. Nei suoi tweet dichiara come vuole utilizzare quei soldi: per salvare l’umanità.

Quando ha saputo della notizia, ha riflettuto solo un secondo, per poi replicare: “bene, torniamo al lavoro”, Elon Musk è il tipico genio che lavora sodo e negli ultimi tempi si è fatto conoscere da tutto il mondo per i grandi risultati ottenuti: ben 26 missioni spaziali nell’anno del Covid-19, le azioni di Tesla che salgono del +500% in un anno, il suo Falcon 9 che si conferma come miglior razzo riutilizzabile esistente, il progetto “LaunchAmerica” con il quale gli Stati Uniti sono tornati a decollare dal suolo americano grazie alla Crew Dragon – la prima navicella commerciale – e la recente acquisizione di due piattaforme petrolifere per lanciare i razzi. Ciò che desta ancora più scalpore sono le sue intenzioni future che puntualmente dichiara tramite degli enigmatici e a volte folli tweet: da creare una sorta di treno velocissimo (1220 km/h) denominato Hyperloop a levitazione magnetica che in poco tempo permette di viaggiare tra le grandi città del mondo, ad impiantare un chip nel cervello umano che consenta la cura di malattie neurodegenerative e il movimento di arti robotici con il pensiero per aiutare chi ha subito amputazioni, fino alla Tequila marcata Tesla.

Tuttavia è noto da anni che l’obiettivo principale del CEO visionario è, tra tutti, colonizzare Marte per dare all’umanità una seconda casa.  Secondo il co-founder di PayPal l’uomo metterà piede su Marte nel 2025. Ci vorranno una ventina d’anni e circa 1000 Starships per costruire la prima città sostenibile sul pianeta rosso; su questo progetto è pronto a scommettere gran parte dei suoi soldi.

Negli ultimi giorni si è però aggiunta una novità: “donerò 100 milioni di dollari come premio per la miglior tecnologia di cattura del carbonio” recita il tweet a cui ha fatto seguito un secondo in cui promette maggiori informazioni durante la settimana successiva. Un sistema in grado di catturare l’anidride carbonica dall’atmosfera terreste e trasformarla è una delle possibili soluzioni per contrastare il cambiamento climatico, in linea con questa proposta c’è persino il presidente Joe Biden che oltre ad aver firmato per rientrare negli accordi di Parigi, ha intenzione di prendere dei provvedimenti per accelerare lo sviluppo di questa tecnologia.

Un sistema simile esiste già e viene utilizzato in alcuni impianti industriali: catturare la CO2 alla fonte stessa prima che venga emessa nell’atmosfera e trasportarla in una struttura apposita per essere stoccata (sistemi chiamati Ccs). I problemi principali però sono 2: i costi elevati e il rischio per la sicurezza: eventi geologici o problemi interni, potrebbero danneggiare gli impianti di stoccaggio e una fuoriuscita improvvisa di questo gas può avere importanti effetti di cui già si sono registrati casi di vittime in passato. Per ovviare a ciò sono state fatte delle proposte di sistemi alternativi detti Ccu (Carbon Capture and Utilization) che catturano anidride carbonica e invece di immagazzinarla, la utilizzano trasformandola in sostanza utile. Un’altra problematica che bisogna affrontare è il fatto che il biossido di carbonio non può essere comodamente catturato dal camino di un qualsiasi impianto industriale, bensì direttamente dall’atmosfera terrestre la quale, oltre a rendere difficile un sistema di cattura e separazione delle componenti, contiene molta CO2, ma in maniera estremamente diluita.

La proposta di alcuni è prendere spunto dagli organismi che sono maestri in questo tipo di attività di cattura e trasformazione dell’inquinante: gli alberi, il come però rimane una sfida a cui alcuni laboratori stanno già lavorando; non ci resta che aspettare il genio che farà la miglior proposta guadagnandosi i 100 milioni di Elon Musk…basterà questo per salvare il pianeta?


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Ambiente, società e tecnologia

Obiettivo clima: iChange

Il clima sta cambiando: realtà o fantasia?

Ogni giorno sentiamo notizie riguardanti il riscaldamento globale, la fusione dei ghiacciai e l’innalzamento del livello dei mari, ma sappiamo veramente di cosa stiamo parlando?

I problemi legati ai cambiamenti climatici stanno diventando sempre più concreti e tangibili, l’estremizzazione del clima in alcuni paesi, Italia compresa, sta spostando degli importanti equilibri ecologici ed economici.

Evento Obiettivo clima: iChange, iBicocca, Andrea Giuliacci

L’evento: il cambiamento del clima spiegato da Andrea Giuliacci

 

Obiettivo clima: iChange” è un evento nato dalla collaborazione della multinazionale Engie con il Distretto Bicocca, volto a formare ed informare i partecipanti sul “caldo” argomento dei cambiamenti climatici, attraverso un questionario strutturato in tre parti: la prima sotto forma di indagine, al fine di valutare le effettive conoscenze riguardo al tema, la seconda riguardo al settore mobilità, ed infine la terza, riguardo alla conoscenza delle normative sul riscaldamento domestico e sulle abitudini personali.

Grazie alla presenza di Andrea Giuliacci, noto meteorologo, esperto di fisica dell’atmosfera e docente della medesima materia alla facoltà di Scienze e Tecnologie per l’Ambiente ed il Territorio, le risposte dei partecipanti al questionario sono state commentate ed i numerosi dubbi risolti.

Il tema dei cambiamenti climatici è stato così affrontato: cause, conseguenze, panorami passati e futuri, tutti argomenti un po’ oscuri e confusi per persone non del settore, ma comunque magistralmente trattati dal Professor Giuliacci in modo chiaro ma non per questo superficiale.

Tutto questo solo nella prima parte, infatti iChange è stato strutturato in due incontri, il secondo dei quali ha goduto della presenza dell’assessore comunale all’Ambiente e alla Mobilità Marco Granelli, e del direttore Generale Vicario Ambiente e Clima di Regione Lombardia Luca Marchesi.

Evento Obiettivo clima: iChange, iBicocca, Andrea Giuliacci, Assessori

Call for Ideas: le proposte degli studenti agli Assessori

 

Attraverso una “Call for Ideas”, lanciata dal Professor Giuliacci al termine del primo incontro, gli studenti hanno inviato tramite mail le proprie idee e proposte riguardanti il tema trattato, aprendo così una finestra di confronto con le istituzioni nel secondo evento.

Le domande e le proposte degli studenti sono state raccolte, divise per tematiche, e poste direttamente all’assessore Granelli e al Direttore Marchesi dal brillante moderatore Marco Grasso, docente di Geografia Politica.

L’evento ha messo in luce molti progetti interessanti ed innovativi che da qui a poco nasceranno sul territorio, progetti nel cui cuore batte il desiderio e l’impegno di lottare contro i cambiamenti climatici.

Uno degli spunti di riflessione centrali portato avanti dagli studenti e dal professor Giuliacci stesso riguarda l’inserimento nella formazione primaria dell’educazione ambientale, con l’obiettivo di instaurare, sin da subito, comportamenti virtuosi nei confronti del pianeta.

L’evento si chiude con un “arrivederci”, infatti gli organizzatori e le istituzioni hanno dichiarato la volontà di non lasciare cadere nel “dimenticatoio” le proposte e le osservazioni fatte, per cui verrà organizzata una terza parte dell’evento tra circa otto mesi.

 

Articolo a cura di Mattia Teruzzi

 

Evento Obiettivo clima: iChange, iBicocca, Andrea Giuliacci, Mattia Teruzzi