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Il termine Antropocene è un neologismo coniato negli anni ottanta del novecento ma che è diventato celebre nei primi anni 2000 quando Paul J. Crutzen, premio Nobel per la chimica, durante un intervento esclamò: “Benvenuti nell’Antropocene”. Il sostantivo tanto dirompente quanto intuitivo piacque subito sia alla comunità scientifica che al grande pubblico.

 

Negli anni successivi la letteratura attorno al tema dell’antropocene fece registrare un’enorme proliferazione così, se volessimo farne un’estrema sintesi, potremmo dire che l’Antropocene è l’era geologica attuale che si contraddistingue dalle precedenti per via delle alterazioni ambientali causate dalla specie Homo Sapiens.

 

Questi argomenti hanno trovato spazio anche nella cornice del Web Marketing Festival di quest’anno” dove abbiamo incontrato Maurizio Carta, urbanista, architetto e docente dell’Università di Palermo che, in un’intervista, ci ha spiegato come dovrebbero essere le città del futuro per fare in modo che il Pianeta rimanga ancora abitabile per la nostra specie.

 

Salve Professore e benvenuto nella redazione di #iWrite, durante il suo intervento al WMF ha introdotto il termine “Antropocalisse”, le andrebbe di approfondire con noi questo concetto?

 

Intanto, volevo ringraziare e sono molto contento di partecipare a questo dialogo con la vostra redazione. Ora, tornando alla domanda, inizio col dire che per me Antropocalisse è un termine necessario. Vent’anni fa Crutzen ha parlato per la prima volta di “Antropocene”, una parola dirompente che andava a segnalare, non solo alla comunità scientifica ma anche al grande pubblico, che stavamo entrando dentro una nuova era tanto dal punto di vista geologico che da quello culturale, sociale ed economico. In questa nuova fase, l’Homo sapiens si presenta come la specie più trasformativa del pianeta. Tuttavia, come accade spesso nella terminologia tecnica, Antropocene si presenta come un termine ampiamente descrittivo ma al contempo potenzialmente neutro: è come se fosse lì per designare una condizione ineluttabile dell’evoluzione umana in cui siamo entrati e non possono essere presenti alternative. Proprio per questo, io preferisco utilizzare “Antropocalisse” che, invece, è volutamente provocatorio. Antropocalisse dichiara esplicitamente qual è il problema da affrontare; rende evidente, fin da subito, che ci troviamo in una condizione di apocalisse antropica. Siamo sull’orlo di un collasso, sul ciglio di un baratro e non solo per la salute del pianeta ma anche per la nostra esistenza. È l’umanità, che essendo diventata la specie più trasformativa della Terra, mette a rischio se stessa producendo effetti nefasti sul pianeta che lo rendono inabitabile per la specie umana. Per questo ritengo sia utile chiarire che ci si trova in una condizione da cui dobbiamo uscire: non ci possiamo limitare a contemplarla con sgomento, a guardarla con timore, siamo chiamati ad agire per cercare di porvi rimedio.

 

Per l’Italia quali sono i dati relativi?

 

L’Italia, come tutto il mondo del resto, è coinvolta dagli effetti dell’Antropocalisse e si trova in una condizione in cui è assolutamente necessario entrare in azione. Ad esempio, ogni persona che nasce nel nostro paese ha “in dote” 135 m2 di cemento. Potrebbero non sembrare molti, in fondo non è una cifra enorme, ma il vero problema è che questo cemento spesso non è rappresentato da superfici occupate da infrastrutture sicure e servizi utili o teatri, musei e altri luoghi che possano in qualche modo contribuire al miglioramento della qualità della vita. Anzi, spesso si tratta di cemento che pesa sulla sicurezza della popolazione e a dircelo sono i dati: ad esempio, l’8% delle scuole non è conforme alla normativa antisismica. Invece, sono 7.300.000 le persone che vivono dentro case esposte a un altissimo rischio idrogeologico. Questo è il cemento che pesa, cemento che per poter migliorare la qualità della vita dovrebbe essere ridotto o per lo meno trasformato. In Italia, abbiamo 15 m2 di verde urbano per ciascun abitante contro i 45 che ha mediamente un cittadino europeo, questo a sottolineare come nel nostro paese ci sia un’evidente mancata proporzione tra le strutture antropiche e quelle naturali. E ancora, il 33% delle persone abita in zone a forte vulnerabilità materiale e sociale: questi sono quartieri che mineralizzano e impermeabilizzano il territorio senza offrire nulla. Oggi le città sono i luoghi in cui sono (stati) resi tangibili gli effetti dell’Antropocalisse e per questo c’è necessità di ripensarle. Si aggiunga, inoltre, che dinanzi a questi numeri drammatici che indicano una condizione di criticità urbana, infrastrutturale e sociale l’Italia spende ancora pochissimo in termini percentuali di PIL (0.41%) per azioni di contrasto a questi fenomeni. Una cifra ancor più irrisoria se confrontata con quella investita da paesi con economie non dissimili che sono in grado di destinare alla causa quasi il quadruplo delle risorse. Quindi, se da un lato dovremmo aumentare le risorse economiche (e questo non è né semplice né veloce) dall’altro possiamo iniziare a agire fin da ora per ridurre il nostro consumo di suolo efficientando l’utilizzo di quella porzione che non possiamo fare a meno di consumare.

 

Quali sono le soluzioni possibili per uscire da questa situazione?

 

Per uscire dall’Antropocalisse, e sottrarsi dalla soglia del baratro, è necessario affrontare cinque rivoluzioni. La prima riguarda il contrasto al cambiamento climatico. Questo significa agire per mitigarne gli effetti e contemporaneamente per ridurre le cause che lo generano, trasformando profondamente i modi con i quali conduciamo la nostra esistenza. La seconda rivoluzione è la necessaria accelerazione della trasformazione digitale, cosa che ci permetterà di utilizzare in maniera ottimale i dati. Sarebbe utile poter costruire, per ciascuna città, un “gemello digitale” che permetta di simulare le trasformazioni calcolando effetti e impatti delle nostre azioni ancora prima di compierle. Un’altra rivoluzione è quella di far tornare le nostre città ad essere policentriche, una tendenza ancestrale ma completamente inversa a quella che si è affermata negli ultimi anni. Le città oggi sono eccessivamente monocentriche, ossia presentano un affollamento di servizi solo in determinate aree con conseguente periferizzazione di tutto il resto. Le città, e in particolare quelle italiane, non sono nate così. Infatti, le nostre città sono fatte di quartieri ciascuno con la propria autonomia e le proprie peculiarità. Questo forniva al nostro sistema socio-economico diversità, equilibrio e ricchezza e per questo faremmo bene a tornare a questi modelli. La quarta rivoluzione è quella legata alla capacità di riattivare il riciclo permanente della città. Parlo di riattivare perché in parte abbiamo mantenuto questa capacità ma il tempo che intercorre tra la dismissione e il riutilizzo della funzione è un tempo decisamente troppo lungo. In questo intervallo temporale vengono accumulati scarti che sono occasione di degrado dei contesti urbani oltre a rappresentare un costo al momento dello smaltimento. La soluzione, in questo senso, potrebbe essere un riciclo programmato: pensare alle funzioni della città perché siano immediatamente e facilmente riutilizzabili. Per fare ciò è necessario non solo sconvolgere la fase di progetto ma anche ammodernare le normative relative. L’ultima rivoluzione è quella per cui dobbiamo rendere le nostre città più femminili e plurali. Dobbiamo iniziare a guardarle con gli occhi delle esigenze delle ragazze, è necessario essere attenti a tutte le esigenze disegnando città conformi a tutte le forme di affettività familiare. Ecco queste sono le cinque rivoluzioni necessarie ma la loro attuazione presuppone un cambiamento poderoso non solo dal punto di vista urbanistico ma anche politico, sociale e culturale.

 

Secondo lei, ci sono già dei progetti, in Italia e all’estero, che possono essere utilizzati come modello positivo?

 

Sì, in realtà ce ne sono molti. Queste città io le chiamo “città aumentate” perché sono città che amplificano le possibilità e le opportunità oltre che aumentare la qualità della vita di chi vi risiede. In giro per il mondo ci sono davvero molti prototipi. Alcuni nomi possono essere Amsterdam, Copenaghen e Barcellona. Quest’ultima sta facendo un enorme lavoro sul policentrismo, invece, Parigi è molto attiva nel costruire “la città dei quindici minuti”. In Germania abbiamo interi quartieri costruiti affinché siano completamente indipendenti dalle fonti fossili per la generazione di energia. Anche in Italia abbiamo esempi virtuosi come ad esempio Milano che in questo momento sta sperimentando l’urbanistica tattica con attenzione alla qualità degli spazi aperti. Bologna, invece, è molto avanzata nel campo della trasformazione digitale. Inoltre ci sono una serie di esempi interessanti anche dal sud come Napoli, Palermo o alcuni esempi di città pugliesi che stanno lavorando nel mettere insieme la rigenerazione urbana e quella sociale. L’unico problema è che questi esperimenti sono ancora troppo pochi per essere incisivi e soprattutto si presentano come fenomeni episodici nati più dall’azione di amministrazioni particolarmente visionarie o dall’entusiasmo di una vivace comunità che da strategie adottate nella gestione sistematica delle città. Ecco, il mio auspicio è che non si tratti più di qualcosa di sporadico, di una serie di esperimenti di avanguardia, ma che il tutto sia trasformato ne “il modo” con cui vengono progettate tutte le città. Solo questo ci permette di entrare in una nuova epoca che io chiamo “Neoantropocene” in cui l’Homo sapiens rimane ancora la specie trasformante ma si trasforma in “Homo urbanus” che apre la strada evolutiva a una nuova umanità che assume su di sé il peso dell’urbanità ma le dà una nuova veste in cui è presente un equilibrio tra le sue esigenze e la natura

 

Può lasciarci qualche consiglio su come ciascuno di può contribuire alle cinque rivoluzioni nominate in precedenza?

 

Molto volentieri, il primo suggerimento è quello di iniziare a pensare in una dimensione che guardi al futuro. Questo significa che è necessario avere uno sguardo lungo e consapevole: alcuni processi hanno bisogno di tempo ma capire da cosa si deve iniziare perché il processo e la lungimiranza hanno bisogno della quotidianità. È necessario pensare con quello che a me piace chiamare “il pensiero dei costruttori di cattedrali medievali” che avevano la lungimiranza dello sguardo quando progettavano la cattedrale ma avevano anche la consapevolezza che quella cattedrale sarebbe stata costruita giorno per giorno da un’intera comunità che nel tempo magari avrebbe anche cambiato un po’ il progetto iniziale per adattarlo alla città e alla cittadinanza. Ecco abbiamo la necessità di imparare a tenere insieme il tempo lungo del progetto e la capacità di realizzarlo. Un altro suggerimento per l’evoluzione verso l’”Homo urbanus” è acquisire una poderosa capacità di cooperazione: tutti dobbiamo essere capaci di coprogettare, cogestire perché questo non è più il tempo dei recinti di competenza. Dobbiamo tornare a esercitare il governo e l’amministrazione del bene comune e dobbiamo iniziare a riprogettare le città proprio dallo spazio pubblico e con spazio pubblico non intendo solo quello di proprietà pubblica ma proprio quello che indipendentemente dalla proprietà rappresenta uno spazio in cui le persone si incontrano e si riconoscono. È necessario tornare alla dimensione della città pubblica ossia quella in cui la comunità esce dalla sua dimensione domestica e agisce nella dimensione propriamente urbana.