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Ambiente, società e tecnologia

Un semaforo per gli alimenti? Non esattamente: cos’é e come funziona il Nutri-score

Immaginate un sistema di etichettatura alimentare semplice, intuitivo e che aiuti a compiere scelte di acquisto consapevoli: si tratta dell’obiettivo di Nutri-Score, ideato dalla Public Health Agency francese e utilizzato per la prima volta proprio in Francia nel 2017. Si torna a discuterne oggi perché il 25 gennaio di quest’anno è avvenuta la prima riunione ufficiale della commissione transnazionale, di cui fanno parte Spagna, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Francia e Lussemburgo, creata allo scopo di coordinare, monitorare e incoraggiare l’utilizzo di Nutri-Score. Ma si torna a discuterne, soprattutto in termini scettici, in Italia: se da una parte alcuni paesi europei lo hanno accolto volontariamente, molti ritengono che questo sistema possa penalizzare fortemente i prodotti made in Italy. Da cosa nascono questo timore e queste critiche? Ma soprattutto, che cos’è e come funziona il sistema Nutri-score?

Nutri-score: cinque colori per orientare i consumatori

Quanti di noi conoscono precisamente il significato della dichiarazione nutrizionale specifica per ogni prodotto e sanno interpretare il valore nutrizionale delle percentuali di macronutrienti riportati sul retro delle confezioni? O ancora, quante volte leggiamo questa etichetta prima di scegliere quali prodotti mettere nel carrello? Nutri-score nasce per semplificare queste informazioni e renderle accessibili grazie a una scala di cinque colori, dal verde all’arancione scuro e dalla “A” alla “E”, attribuiti ad ogni prodotto sulla base di un algoritmo che assegna un punteggio considerando numerosi fattori nutrizionali. Più basso sarà il punteggio ottenuto da un prodotto, più si avvicinerà ad ottenere una “A”. I fattori che fanno avvicinare un prodotto a un’etichettatura verde sono la presenza di fibre, la quantità di frutta e verdura presente in esso e il contenuto proteico; i nutrienti invece da limitare in una dieta equilibrata, e che quindi fanno tendere il risultato ad un’etichettatura gialla o arancione, sono i grassi saturi, il sale, gli zuccheri e un contenuto calorico molto elevato; i punteggi ricavati da ogni fattore vengono sommati fino ad ottenere il Nutri-score effettivo.

Sono stati condotti esperimenti per mettere alla prova l’efficacia del Nutri-score nell’accrescere la consapevolezza dei consumatori: in uno dei più recenti, pubblicato nel sul “International Journal of Behavioral Nutrition and Physical Activity” nel novembre 2020, è stato chiesto a diversi campioni di popolazione scelti tra paesi diversi di ordinare tre prodotti della stessa categoria alimentare in base al valore nutrizionale che ognuno dei partecipanti gli avrebbe attribuito. I partecipanti avrebbero dovuto farlo prima avendo a disposizione solamente la dichiarazione nutrizionale, poi in base al punteggio assegnato ad ogni prodotto. Il risultato sembra scontato, ma é indicativo: Nutri-score si è dimostrato più efficace della semplice dichiarazione nutrizionale nell’aiutare i consumatori a mettere nel giusto ordine i prodotti che erano stati proposti (si trattava, nel caso di questo esperimento, di  cereali per la colazione e di tipi differenti di pizze surgelate).

Le critiche al Nutri-score: quali sono le perplessità che sorgono?

Nonostante alcuni paesi europei abbiano trovato un accordo per incentivare l’utilizzo di questa etichettatura (che rimane su base volontaria per le aziende produttrici), molte critiche sono arrivate soprattutto da parte dell’Italia. Le principali sono la potenziale non aderenza di questa etichettatura al modello della dieta mediterranea e il timore che alcuni prodotti made in Italy molto apprezzati, come il Parmigiano Reggiano o il prosciutto di Parma, vengano penalizzati da un punteggio molto basso (vicino alla “D”),fino a boicottarne l’export.

Questo sistema semplifica informazioni complesse, perció non deve essere considerato un indice assoluto da cui non discostarsi. Uno dei problemi fondamentali di queste critiche sta infatti nel fraintendimento dell’obiettivo dell’etichetta Nutri-score stessa: non è stata ideata per scoraggiare i consumatori dall’acquistare prodotti etichettati con “D” o “E”, come se fossero cibi da escludere categoricamente, così come non considera il valore gastronomico e tradizionale di un prodotto. I professionisti della nutrizione sono concordi nell’affermare che nessun alimento, escluso dal contesto dell’alimentazione individuale, sia “buono” o “cattivo”: un’etichettatura di questo tipo dovrebbe aiutare il consumatore a scegliere quali prodotti acquistare più frequentemente e quali più raramente. Alla luce di questo non dovrebbe stupire il punteggio ottenuto, per esempio, da un prodotto come il prosciutto, che in quanto prodotto a base di carne lavorata dovrebbe essere limitato nella nostra alimentazione. Il fraintendimento potrebbe derivare dall’impatto grafico che ha questa etichetta: siamo infatti abituati ad associare al rosso divieto o pericolo. Una comunicazione corretta in merito a questo sistema dovrebbe allora divulgare il fatto che non si tratti di un vero e proprio “semaforo alimentare”, ma di una scala indicativa.

Un’altra critica ha avuto origine da una comparazione tra l’etichetta che questo sistema assegnerebbe all’olio di oliva, una “C”, e alla Coca Cola zero, una “B”. Questo non significa però che la prima sia più salutare o che debba essere più presente in un regime alimentare rispetto al primo: il Nutri-score è molto più utile nel momento in cui i consumatori devono comparare prodotti della stessa categoria alimentare (come è stato richiesto nell’esperimento precedentemente citato). In questo caso i consumatori sapranno cogliere immediatamente la differenza tra l’olio di oliva e altri tipi di grassi vegetali o animali, così come quella tra la Coca Cola zero e bevande molto più zuccherate. Esistono inoltre algoritmi leggermente diversi da quello usato per gli alimenti in generale sia per i prodotti composti da grassi alimentari (come olio di oliva o burro) sia per le bevande (come succhi di frutta o bibite gassate).

È inevitabile pensare che, senza una corretta guida su come interpretare le etichette Nutri-score, si possa generare la stessa confusione che il questo sistema avrebbe l’obiettivo di risolvere. Non bisogna fare l’errore però di ignorare a priori questa ed altre proposte di etichettatura volte a semplificare e guidare la scelta dei consumatori in un campo complesso come quello dell’alimentazione.

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Ambiente, società e tecnologia

Gli insetti sulle tavole dei consumatori occidentali: quali sono le ragioni per inserirli nella nostra dieta?

Il 2021 si apre con la valutazione scientifica completa condotta da EFSA, l’Autorità Europea per la sicurezza alimentare, sulla possibilità di introdurre sul mercato a scopo alimentare larve essiccate di Tenebrio molitor (comunemente chiamate tarme della farina), appartenenti alla famiglia dei Coleotteri. Sarà la prima di una lunga lista di future valutazioni sui novel foods, ovvero prodotti “privi di una storia di consumo significativo in UE” che ancora aspettano di ricevere l’autorizzazione dalla Commissione Europea. Molti di questi sono a base di insetti: potrebbero essere i primi piccoli passi verso un cambiamento delle nostre abitudini alimentari? Ma quanto sono effettivamente desiderabili, per noi e per il pianeta, questi cambiamenti? E soprattutto, ci sono i presupposti affinché questo accada?

Allevare insetti per l’alimentazione umana: una scelta sostenibile

Perché dovremmo vincere il naturale disgusto verso gli insetti e inserirli nella nostra dieta? I motivi principali, sostenuti da dati riportati nel documento redatto da FAO Edible insects: future prospects for food and feed security”, riguardano la loro maggiore sostenibilità a livello ambientale rispetto ad altri prodotti animali tipici della cultura culinaria occidentale. Per allevare un chilogrammo di grilli servono circa 1.7 chilogrammi di mangime: una quantità notevolmente minore rispetto ai 10 chilogrammi necessari per ogni chilogrammo di peso acquistato da un bovino, o rispetto ai 5 chilogrammi necessari per i maiali e ai 2.5 chilogrammi per i polli. Inoltre, se fossero allevati su larga scala, gli insetti produrrebbero minori emissioni di gas serra e rappresenterebbero una risorsa contro lo spreco di acqua, grazie alla loro elevata resistenza alla siccità.

Potremmo pensare che, poiché in alcuni paesi il consumo di insetti è una tradizione consolidata, lo sia anche il loro sistema di allevamento industriale: invece, a livello mondiale, solo il 2% degli insetti destinati all’alimentazione umana viene prodotto grazie a queste tecniche. Se visitassimo uno di questi stabilimenti (esperienza virtualmente possibile ad esempio attraverso un mini-documentario girato nello stabilimento “Grubs Up”, in Australia) potremmo convincerci del perché possono essere considerati un modello di sostenibilità: gli insetti infatti vengono cresciuti in unità contenitrici separate (solitamente catini in plastica o contenitori simili), disposte e impilate in modo da occupare meno spazio possibile e ridurre lo spreco di suolo. In particolare, per l’allevamento dei grilli è importante che i contenitori siano arricchiti, per esempio, con i cartoni delle uova, che secondo la “Guidance on sustainable cricket farming” aumentano la superficie disponibile per gli insetti e la loro possibilità di movimento.

Inoltre il substrato necessario alla sopravvivenza degli insetti è costituito da materiale organico e biomassa di scarto, una pratica in linea con uno dei principi fondamentali dell’economia circolare: trasformare i rifiuti in risorse riutilizzabili.

Una fonte alternativa di nutrienti

Sebbene non sia corretto pensare agli insetti come a un “supercibo” dalle incredibili proprietà, i prodotti da loro derivati sono considerati una buona fonte proteica, di grassi, di fibre e di alcuni micronutrienti come ferro e zinco; la quantità di proteine però cambia sia tra specie diverse, sia a seconda del mangime con cui sono stati nutriti, sia rispetto al metodo di lavorazione della materia prima. Anche EFSA, nella sua opinion scientifica sulle larve di Tenebrio molitor, avverte che i metodi di analisi più utilizzati possono portare a sovrastimarne il contenuto proteico. La motivazione? Per quantificarlo solitamente si misurano i livelli di azoto, un elemento contenuto nelle proteine e quindi indice della loro presenza, ma, nel caso degli insetti, anche in una molecola che costituisce il loro esoscheletro, la chitina: non si tratta di una proteina, ma di un polisaccaride che non siamo in grado di digerire.

Insetti per (quasi) tutti i gusti

Per quanto gli insetti siano da sempre l’unica alternativa alla carne in molti paesi del mondo, il profilo nutrizionale non è l’unica cosa che conta: saremmo in grado, soprattutto noi consumatori occidentali, di superare l’avversione verso gli insetti e di considerarli come cibo? Una strategia efficace già esiste: trasformare un alimento all’apparenza inappetibile in un prodotto che ricordi il meno possibile la sua origine. Così gli stessi grilli che possono essere venduti arrostiti come snack pronto possono essere trasformati in polvere da aggiungere al “Dukkha” (uno dei prodotti dell’azienda Grubs Up), un mix di spezie arricchito. Basta visitare il sito di 21bites, uno dei primi e-commerce in Europa a proporre prodotti a base di novel foods, per capire come gli insetti possano essere un ingrediente versatile: si possono acquistare grilli ricoperti di cioccolato, chips, muesli per la colazione, pasta e molto altro. Per di più, ogni specie ha un sapore diverso: si va da quelle che ricordano la frutta secca, come le tarme della farina, a quelle che hanno un retrogusto piccante o persino dolce.

Se considerati da questi punti di vista, gli insetti potrebbero essere un buon alimento da inserire nella nostra dieta, un prodotto sostenibile e, una volta che ne sia stata accertata la sicurezza (come è avvenuto per le larve di Tenebrio molitor), non preoccupante dal punto di vista tossicologico. Quel che resta da scoprire è se arriveranno sulle nostre tavole e se diventeranno, un giorno, un alimento comune anche per i consumatori occidentali.


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5 febbraio: giornata nazionale contro lo spreco alimentare

Oggi è il 5 febbraio 2021 e se ci fermassimo un secondo a riflettere su quanto è accaduto negli ultimi mesi potremmo dire che è già passato quasi un anno dal primo caso di Coronavirus in Italia, si è rinunciato alle vacanze esotiche, alle festività in famiglia e magari anche a celebrare quei traguardi attesi per tutta la vita. Ma solo una cosa è rimasta costante nella nostra quotidianità: il cibo; in fondo non c’è nulla che non possa essere risolto davanti ad una buona una pizza e una birra.

Il cibo, in particolar modo in Italia, non è solo un modo per far fronte alle necessità vitali, bensì rappresenta anche un vero e proprio piacere. Pensiamo al pane, alla pizza, alla pasta: alcuni cibi hanno un loro valore culturale. Ciò che invece non è insito nella nostra cultura è il valore materiale del cibo.

I dati dello spreco alimentare in Italia e nel mondo

Secondo l’Osservatorio Waste Watcher, il primo osservatorio italiano sugli sprechi alimentari, nel 2019, ciascun italiano ha buttato circa 36 kg di cibo, per una perdita economica di circa 15 miliardi di euro, ovvero quasi lo 0,88% del PIL; è come se ogni domenica mattina, ogni italiano, si svegliasse e buttasse più di 5 euro nel cestino marrone che solitamente si trova posizionato sotto al lavandino. Nessuno lo farebbe realmente, eppure si hanno molti meno problemi a farlo col cibo…infatti ben più del 50% dello spreco alimentare avviene in casa per la scarsa sensibilità dei cittadini.

Cifre del tutto simili sono state registrate sia in Europa e persino negli Stati Uniti, dove nel 2017, la NRDC, una delle più importanti organizzazioni ambientaliste della nazione, ha stilato il primo report sul fenomeno del food waste nelle città e deducendo che, anche in questo caso, ben più del 50% dello spreco del cibo avveniva tra le mura domestiche. Inoltre, dallo studio si evince come ben il 57% del cibo gettato in America sia “typically edible”, ossia generalmente ancora commestibile. Con un buon grado di astrazione, anche se non sono presenti studi in materia, è lecito pensare che percentuali simili siano presenti anche in Italia.

Cos’è veramente lo spreco alimentare?

Generalmente, ci si riferisce alla nozione di spreco alimentare per riferirsi al cibo acquistato e non consumato e che inesorabilmente finisce nella spazzatura, ma questa non è di certo l’unica accezione valida. Infatti, è più corretto riferirsi allo spreco alimentare come fa l’ISPRA che lo definisce come “la parte di produzione che eccede i fabbisogni nutrizionali o le capacità ecologiche”. La descrizione che ci viene fornita permette di annoverare nello spreco alimentare tutte le perdite di quella quantità di prodotti alimentari che viene persa o gettata lungo la catena di produzione e di lavorazione delle materie prime, fino alla distribuzione e al consumo.

Sebbene manchi una definizione riconosciuta a livello internazionale, solitamente ci si riferisce alla nozione di “food waste”. Waste è un termine inglese e secondo il Collins, può assumere ben due significati: spreco ma anche rifiuto…così, è lecito chiedersi: cos’è un rifiuto? La risposta è presente nel Testo Unico dell’Ambiente (art.183 comma1), secondo cui può essere definito rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”, eppure nella spazzatura finiscono anche: i prodotti acerbi, i prodotti non conformi agli standard qualitativi/estetici e anche prodotti che giacciono troppo a lungo nei magazzini. È forse necessario disfarsi di essi? È forse obbligatorio? No, nemmeno questo!

Le conseguenze dello spreco alimentare

Secondo i dati diffusi dalla FAO, a livello globale, circa il 14% del cibo prodotto viene perso tra la raccolta e la vendita al dettaglio. Lo scorso settembre, António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, in un messaggio diffuso in occasione della Prima Giornata internazionale della consapevolezza della perdita e dello spreco alimentare ha definito questi fenomeni come un’”offesa etica”, considerato l’elevato numero di persone che soffrono la fame. In somma la questione dei rifiuti alimentari finisce per inasprire il problema della sicurezza alimentare, tanto che il food-waste assume le caratteristiche di un fenomeno socio-economico a tutti gli effetti.

Inoltre, non possono essere tralasciate i danni ecologici provocati dallo spreco alimentare. Infatti, allo spreco dei prodotti edibili corrisponde un inesorabile spreco di risorse: il suolo utilizzato per la coltura non consumata è un suolo che è stato impoverito inutilmente per non parlare della preziosissima acqua utilizzata per favorire la crescita dello stesso prodotto; un discorso analogo può essere fatto per prodotti animali e per i loro derivati. Senza contare che sia nel caso di prodotti vegetali che nel caso dei prodotti animali, è stata rovinosamente emessa anidride carbonica in atmosfera la quale dà un enorme contribuito a quel noto fenomeno che minaccia l’esistenza della vita sul Pianeta ossia il cambiamento climatico.

Chiunque può contribuire a migliorare la situazione

Le perdite e gli sprechi alimentari rappresentano una grande sfida per la nostra epoca,” ha dichiarato il Direttore Generale della FAO, QU Dongyu, tanto che successivamente ha esortato i Paesi membri alla collaborazione mediante partenariati più stretti. Inoltre, ha auspicato un aumento degli investimenti nella formazione dei piccoli agricoltori, nelle tecnologie e nell’innovazione con apporti del settore sia pubblico che privato.

Nell’ultimo anno, anche “grazie” alla pandemia gli Italiani hanno dimostrato di aver intrapreso il giusto percorso tanto che, secondo Coldiretti: “Più di 1 italiano su 2 (54%) ha diminuito o annullato gli sprechi alimentari adottando strategie che vanno dal ritorno in cucina degli avanzi ad una maggiore attenzione alla data di scadenza, fino alla spesa a chilometri zero dal campo alla tavola con prodotti più freschi che durano di più.” Questo ci dimostra come è possibile porre gradualmente fine al fenomeno del food-waste, ma ciascuno di noi deve contribuire secondo la propria misura.


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Veganuary: un’occasione per riflettere sulla sostenibilità del cibo

L’arrivo del nuovo anno riempie l’Homo Sapiens di buoni propositi che, pur toccando diversi ambiti, hanno lo scopo di renderli la versione migliore di loro stessi e proprio in questa ottica, nel 2014 vede la luce per la prima volta Veganuary. L’iniziativa, proposta dall’omonima organizzazione no-profit, lancia una sfida universale per incoraggiare le persone a provare per un mese un’alimentazione di tipo vegetale.

Il motivo per il quale si chiede di approcciarsi ad un’alimentazione vegana è semplice, attuale e chiaro: ciò che ciascuno mangia ha un enorme impatto ambientale e cambiare abitudini alimentari potrebbe divenire un gesto di consapevolezza per il benessere futuro del nostro Pianeta. Allora è opportuno chiedersi…qual è l’impronta ambientale impressa dall’alimentazione? Ed è possibile ridurla?

L’impatto ambientale del cibo

Nel luglio 2017 sulla rivista scientifica Nature è stato pubblicato uno studio nel quale veniva confrontato l’impatto ambientale della dieta di 153 adulti italiani suddivisi rispettivamente secondo il loro regime alimentare in: onnivori, vegetariani e vegani. Prima di analizzare i dati riportati nell’articolo, è bene dare alcune definizioni: vengono considerati onnivori tutti coloro che includono abitualmente nella loro dieta un’ampia varietà di alimenti sia di origine animale sia di origine vegetale, mentre le restanti categorie includono entrambe la componente vegetale e ciò che distingue i vegetariani dai vegani è l’utilizzo dei derivati animali, i quali sono ammessi solo nel primo dei due gruppi dietetici.

Così, ai fini della ricerca sono stati raccolti più di mille registri alimentari giornalieri dei quali si è calcolata: l’impronta di carbonio, l’impronta idrica e l’impronta ecologica. Questi tre indici tengono conto rispettivamente delle emissioni di gas serra, del consumo di risorse idriche e della quantità di suolo necessaria per produrre un’unità di prodotto alimentare. In particolare, le analisi hanno rivelato come la dieta a base animale sia associata ad un maggior impatto per ogni indicatore ambientale valutato; tuttavia, nel complesso, non sono state riscontrate delle differenze significativamente rilevanti per quanto riguarda i gruppi vegetariani e vegani. Inoltre, sebbene né il pesce né la carne fossero gli alimenti consumati in maggiore quantità, il loro è stato il maggior contributo ai valori di impatto ambientale degli onnivori, con tassi del 37% per quanto concerne l’impronta del carbonio, del 38% per quanto riguarda l’impronta idrica e del 44% per quanto riguarda l’impronta ecologica.

Questi dati possono essere spiegati considerando il fatto che la carne, e i suoi derivati, portati in tavola dagli onnivori spesso derivano dagli allevamenti intensivi il cui inquinamento va ad interessare i diversi comparti del Pianeta. Per esempio, l’acqua e l’atmosfera sono inquinate in maniera particolare dalle deiezioni: mentre il comparto atmosferico risente dei gas emessi dalla fermentazione di queste ultime, la risorsa idrica viene contaminata dai liquami che vengono sparsi, spesso illegalmente, sul suolo che, dilavato dalle piogge, contamina dapprima le acque superficiali e talvolta le acque di falda con sostanze come: fosforo, azoto e antibiotici. Tuttavia il dato che più stupisce, e a cui non si fa mai troppo caso, è l’erosione della risorsa suolo, secondo la FAO “il settore dell’allevamento rappresenta, a livello mondiale, il maggiore fattore d’uso antropico delle terre”. Guardando il caso emblematico dell’Amazzonia, il 70% dei territori deforestati è stato trasformato in pascoli bovini, mentre il restante 30% è occupato dalle terre coltivate per produrre il mangime destinato agli animali stessi.

Sebbene quanto descritto finora sia una linea generale desunta dall’intero esperimento, è bene sottolineare come si siano riscontrate delle importanti variabilità interindividuali e questo significa che non tutti gli individui hanno contribuito allo stesso modo agli indici di impronta ambientale. Alcuni soggetti specifici possono avere impatti ambientali notevolmente diversi dagli altri soggetti appartenenti allo stesso gruppo alimentare.

Cosa c’è di eticamente corretto nell’intraprendere un’alimentazione più vegana

Se si chiedesse a un vegano quali sono le motivazioni che lo hanno spinto a questa scelta si potrebbe ottenere un’ampia gamma di risposte, partendo dai motivi di salute arrivando anche a motivi legati all’etica. Veganuary nasce anche con l’intenzione di sensibilizzare i non-vegani, proponendo sempre nuovi spunti di riflessione. Se lo si chiedesse a Vegolosi.it, pionieri in Italia per tutto quello che riguarda la dieta vegana, risponderebbero che bastano 5 semplici e ironiche motivazioni per convincere tutti ad intraprendere questo stile di vita.

Una delle motivazioni più forti è quella, secondo cui non è più necessario mangiare carne per essere in salute: infatti grazie allo sviluppo socio-economico avvenuto a partire dal dopo guerra, le persone sono in grado di mangiare di più e di variare al meglio la loro dieta assumendo così tutti i nutrienti di cui hanno bisogno. Vi è una sola eccezione che, per correttezza, va riportata: è la vitamina B12. Infatti, questa preziosa vitamina andrebbe integrata in quanto, anche se presente nei vegetali, non si trova in forma biodisponibile e dunque non può essere assorbita e utilizzata dall’organismo umano.

Inoltre, una scelta alimentare di tipo vegano permette di tenere allenata la fantasia. È vero…inizialmente si rischia il momentaneo smarrimento nel dover rinunciare a moltissimi piatti della tradizione italiana, eppure esistono delle varianti perfettamente in linea con questa scelta e si possono creare anche tantissimi nuovi piatti semplicemente sperimentando l’accostamento di sapori conosciuti. In questo caso possono venire in soccorso i social con le regine indiscusse della cucina vegetale: la Dottoressa Silvia Goggi e Carlotta Perego nota ai più con lo pseudonimo cucinabotanica.

Un’altra motivazione sta nel fatto che la cucina vegana non contribuisca alla sofferenza animale, tuttavia questa motivazione è quella che meno convince i più scettici, ma spesso si riduce il tutto ad una questione di empatia.

Quanto è fastidioso sedere a tavola e dover deludere le aspettative sociali di chi ti sta intorno? Infatti, a qualsiasi tipo di raduno, c’è sempre qualcuno che porge domande scomode del tipo “Quando ti laurei?” “L’hai trovata l’anima gemella?”. Ecco, essere vegani vi eviterà tutto ciò! Infatti, soprattutto all’inizio, tutti saranno impegnati a chiedervi come mai avete fatto questa scelta e così le fatiche della tavola saranno accompagnate da lunghe conversazioni che toccheranno temi sociali, etici e ambientali…insomma, essere vegani vi permetterà di provare l’ebbrezza della maieutica socratica senza per forza aver studiato filosofia.

L’ultima motivazione è quella ambientale. Come già visto, sono sempre più evidenti i danni arrecati al Pianeta non solo dalle scelte politiche ed economiche di Stati e multinazionali, ma anche dalle nostre condotte quotidiane. Il 14 dicembre scorso è stata lanciata la “La Glasgow Food and Climate Declaration”: un impegno dei governi locali ad affrontare l’emergenza climatica attraverso politiche integrate e un invito all’azione. All’interno della dichiarazione si afferma che “i sistemi alimentari attualmente rappresentano il 21-37% dei gas serra totali e sono al centro di molte delle principali sfide del mondo odierna, tra cui la perdita di biodiversità, la fame e la malnutrizione persistenti e un’escalation della crisi della salute pubblica”. Dunque, anche qualora si fosse in dubbio sulle quattro motivazioni precedenti, non si può non cedere di fronte a questi dati.

“Non sono d’accordo con quello che mangi, ma farei di tutto perché tu lo possa mangiare”

Non importa che sia onnivora, vegetariana o vegana, ciò che più conta è che il regime alimentare rappresenti una scelta sostenibile; il concetto di dieta sostenibile viene teorizzato per la prima volta nel lontano 2010. Secondo la FAO «le diete sostenibili sono diete a basso impatto ambientale che contribuiscono alla sicurezza alimentare e nutrizionale nonché a una vita sana per le generazioni presenti e future. Le diete sostenibili concorrono alla protezione e al rispetto della biodiversità e degli ecosistemi, sono culturalmente accettabili, economicamente eque e accessibili, adeguate, sicure e sane sotto il profilo nutrizionale e, contemporaneamente, ottimizzano le risorse naturali e umane». Scegliendo un’alimentazione sostenibile si contribuisce attivamente al raggiungimento di quasi tutti gli obiettivi fissati dall’Agenda 2030, con particolare attenzione per quelli a tutela del clima, dell’uso sostenibile delle risorse e della protezione della vita sul Pianeta.

Mantenere uno stile di vita sano e sostenibile passa attraverso tante scelte, alcune delle quali possono essere fatte fin dalla prossima spesa come ad esempio: la predilezione di prodotti locali, di stagione e qualora fosse possibile con certificazione biologica. Altre scelte potrebbero risultare più difficili, come ad esempio quella di cambiare completamente tipo di alimentazione, Veganuary nasce con l’intento di supportare i primi 31 giorni di questo importante passaggio fornendo uno “starter kit” nei quali sono presenti spunti di riflessione, consigli e ricette.

Nel suo primo libro Carlotta Perego spiega che diventare vegani, o sostenibili, non rende le persone migliori, né conferisce loro una superiorità ed è per questo che è necessario mantenere rispetto e ragionevolezza anche nei confronti di chi non condivide questo pensiero. Operare con garbo è fondamentale, suggerendo scelte che possono far bene a “chi ci circonda” nel senso più ampio possibile, dagli amici che sorbiscono i nostri consigli a tutti gli esseri viventi che condividono con noi il destino della Terra. Infatti; ogni volta che qualcuno si avvicina al mondo dell’alimentazione sostenibile anche solo per la curiosità suscitata o perché coinvolti dalla gentilezza, è possibile dire che è stata compiuta un’azione concreta per salvare il Pianeta.


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Il futuro della carne è basato sul vegetale?

È di qualche giorno fa l’annuncio di McDonald’s di voler inserire nel proprio menu, a partire dal 2021, il McPlant. Si tratta di un burger di “finta carne” composto da proteine vegetali prodotte in laboratorio e con l’ausilio di stampanti 3D.

L’hamburger è già stato “testato” lo scorso anno nei McDonald’s canadesi e sarà uno dei tanti prodotti di una linea tutta al vegetale e con un packaging al 100% biodegradabile.

La decisione è stata presa sulla scia di competitors quali Burger King o KFC che già da qualche anno hanno inserito nel menu soluzioni per vegani o per chi, semplicemente, ha deciso di ridurre il consumo di carne.

La notizia potrebbe passare come una semplice aggiunta di menu ma è qualcosa di più di questo. Le catene di fast food precedentemente nominate, infatti, sono nate con l’idea di proporre solo piatti a base di carne e una scelta del genere fino a qualche anno fa sarebbe stata impensabile.

Ma cosa c’è dietro a questa inversione di marcia?

È da escludere che tale scelta si possa collegare al tentativo dei fast food di scrollarsi di dosso il sinonimo di cibo spazzatura (junk food). La risposta è, invece, da ricercare nell’’attenzione che le multinazionali del food, e non solo, hanno nei confronti dell’ambiente e dei consumatori.

Consumo di carne: a che punto siamo?

L’aumento del consumo di carne è direttamente proporzionale all’aumento dei redditi e, stando a quanto pubblicato dalla BBC, negli ultimi 50 anni la quantità di carne prodotta è aumentata di quasi cinque volte: passando da 70 milioni di tonnellate nei primi anni ‘60 a quasi 330 milioni di tonnellate nel 2017.

Ma se la carne nei paesi più ricchi è un piatto abituale, e non più delle grandi occasioni come avveniva in passato, nei paesi più poveri continua a rimanere un privilegio.
Facendo sempre riferimento al report della stessa BBC, il consumo di carne medio a persona di un paese come l’Etiopia o la Nigeria è 10 volte minore rispetto a quello di un cittadino Europeo.

Consumo medio di kg di carne per persone/anno (Sorgente: UN Food and Agricolture Organization)

Carne e ambiente, qual è la relazione?

Il trend descritto pare abbia già avuto il suo picco e in questi anni stiamo notando una leggera decrescita del consumo di carne.

Ma a spingere all’abbandono della carne ci sono anche motivi ambientali.

Infatti, il beneficio che l’ambienta trae con la riduzione del consumo di carne è significativo.

La rivista online Duegradi, in un recente articolo, ha riportato che:

“L’industria della carne è oggi una delle principali responsabili dell’emissione di gas serra nell’atmosfera, producendo il 14% delle emissioni globali, più dell’intero settore dei trasporti”

Risorse usate per la produzione di Carne e Latticini  e Risorse derivate da Carne e Latticini (CHG= Gas Serra)                                                                                                   

Fonte: Duegradi.eu

La transizione verso il meatless è, quindi, dettata da motivi salutistici ma anche ambientali e il mercato ha la necessità di adattarsi a consumatori sempre più attenti, informati e consapevoli delle proprie scelte.

Le istituzioni, dall’altra parte, incentivano o, quanto meno, non ostacolano la tendenza ed è proprio in tale ottica che si inserisce la decisione del Parlamento Europeo di lasciare la possibilità alle aziende di continuare a utilizzare  termini associati in genere solo a prodotti a base di carne, come “hamburger”, “burger”, “bistecca”, “salsiccia”, anche per i prodotti a base vegetale.

La carne vegetale può venire incontro a tutta una serie di problematiche, sopra trattate, ma anche alle esigenze di persone che già seguono diete vegetali o, ancora, per avvicinare gli “scettici” ad un consumo più consapevole della carne senza discostarsi dalla forma e dal sapore di quest’ultima.
Non ci resta che attendere e vedere se una soluzione del genere possa, effettivamente, cambiare le carte in tavola.

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Ambiente, società e tecnologia

CO2 atmosferica: come cambia il cibo

Nel luglio 2019 la rivista scientifica “The Lancet” ha pubblicato un articolo in cui mostrava quale sia l’impatto dell’aumento di CO2 atmosferica sulle proprietà nutrizionali dei cibi. Attraverso questo articolo, è stato lanciato così un allarme circa le conseguenze che si potranno avere sulla sicurezza alimentare.

Solo quattro anni prima, nel Settembre del 2015, i 193 stati membri ONU avevano stilato il programma Agenda 2030: lo scopo era quello di guidare i Paesi sottoscriventi verso uno sviluppo più sostenibile, mediante l’ausilio di una serie di obiettivi da raggiungere entro i quindici anni successivi. Tra i 17 “sustainable development goals” vi è anche quello che vorrebbe vedere azzerata la fame nel mondo…ma come sarà possibile farlo se il cibo cambia molto più velocemente di quanto pensiamo?

Dati relativi al cambiamento dei valori nutrizionali del cibo

Ad oggi le concentrazioni di CO2 atmosferica sono aumentate quasi del doppio rispetto all’era pre-industriale e si stima che l’effettiva concentrazione di CO2 raggiungerà le 570 ppm prima della fine di questo secolo. Un gruppo di ricercatori ha provato a coltivare diverse varietà di riso in siti diversi e alle condizioni di anidride carbonica previste per il futuro: il risultato è stupefacente. Raffrontando i campioni prelevati con quelli coltivati alle condizioni correnti, si riscontra una diminuzione del 10% per la componente proteica e, allo stesso modo, è stata osservata una diminuzione anche per il ferro e lo zinco rispettivamente dell’8 e del 5%. Questi dati possono essere spiegati partendo dal presupposto che, con l’aumento della CO2, aumenta anche l’attività fotosintetica delle piante e di conseguenza aumenta la sintesi di zuccheri e amido. Sono dunque minime le quantità di carbonio che possono essere utilizzate per costruire altre macromolecole come proteine e vitamine.

Le ripercussioni dovute alla diminuzione dei nutrienti nel cibo possono essere diverse, infatti per esempio se si osserva il complesso vitaminico B, il dato che desta maggiore preoccupazione è quello della vitamina B9 che registra una diminuzione di circa il 30%. La vitamina B9, nota anche come folato, ha un ruolo determinante nei primi trimestri della gravidanza, tant’è che evidenze scientifiche dimostrano come la carenza di acido folico rappresenti uno dei principali fattori di rischio per lo sviluppo di malformazioni e, in particolare, dei difetti del tubo neurale, come il mancato sviluppo del cervello o l’estroflessione del midollo spinale. Lo zinco, i cui dati sono riportati precedentemente, ha anch’esso rilievo nello sviluppo fetale e continua ad avene per tutta la vita dell’individuo condizionandone fortemente la salute; secondo i primi dati raccolti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ad oggi, sembrerebbe che circa 1.4% delle morti nel mondo possa essere attribuito alla mancanza di zinco. Nei paesi in via di sviluppo la carenza di zinco può colpire quasi 2 miliardi di soggetti e gli effetti possono essere i più disparati: dal ritardo nella crescita all’alterazione delle funzioni biochimiche vitali.

Sicuramente queste ricerche non sono rassicuranti, ma è opportuno contestualizzare l’analisi fatta. Infatti, la diminuzione dei parametri nutritivi qui osservati è rappresentativa solo del riso, e attualmente non sono disponibili repliche dell’esperimento che coinvolgano altri cereali, sebbene uno scenario simile non possa escludersi aprioristicamente. Inoltre, è bene considerare che il fabbisogno calorico giornaliero di un individuo non viene coperto solo dai cereali, anzi è noto ormai da tempo, come sia preferibile un’assunzione dei nutrienti mediante un regime alimentare il più possibile vario. Alcuni studi dimostrano che si registra un cambiamento nelle abitudini alimentari delle popolazioni correlato aumentare del PIL. Ad esempio se si prendessero in analisi Giappone e Corea del Sud, si noterebbe che il consumo di riso dal 1975 ad oggi, è diminuito del 40%, nel primo paese e di quasi il 50% nel secondo.

L’impoverimento del cibo ha alla base una visione antropocentrica dell’ambiente e spesso a pagarne le conseguenze sono le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, infatti nel tempo l’uomo ha prediletto, e dunque selezionato, le varietà vegetali con una biomassa maggiore a discapito della qualità nutritiva delle stesse. Gli effetti dell’aumento della CO2 individuano un rischio che può essere definito sinergico, soprattutto nei Paesi come quelli africani. Negli ultimi anni, si è registrato infatti, un cambiamento nei modelli agricoli: si è abbandonata la coltura dei vegetali endemici a favore delle grandi colture di mais. La coltivazione del granturco provoca uno sfruttamento insostenibile sia del terreno che dell’acqua e in più favorisce la scomparsa degli impollinatori specifici degli ecosistemi africani. All’aumento del consumo di mais è imputabile anche l’aumento dei tassi di obesità; obesità che colpisce sempre più anche i paesi in via di sviluppo come mostrat dai dati riportati nel 2013 dal Overseas Development Institute.

Se si può, inizio io: progetti dell’Università Studi di Milano-Bicocca

A tal proposito è nato il Progetto SASS (Sistemi Alimentari e Sviluppo Sostenibile) avviato nel 2017 da un Consorzio guidato dall’Università di Milano-Bicocca al quale partecipano l’Università Cattolica, l’Università di Pavia, l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e lo European Centre for Development Policy Management di Maastricht. Questo progetto, che agisce proprio nell’Africa Subshariana, ha come scopo quello di lavorare sui sistemi agricoli ed individuare le specie vegetali marginali, ricche di nutrienti, che vengono consumate nelle diete locali. In particolare, si ha come obiettivo quello della ri-scoperta delle NUS (Neglected and Underutilized Species) mediante l’impiego di sistemi agricoli produttivi sostenibili, capaci di preservare suolo e risorse e al tempo stesso di produrre cibo e ricchezza.

«Grazie all’interazione di ricercatori di diverse discipline – dice Massimo Labra, docente di Biologia Vegetale e coordinatore del progetto l’Università Bicocca -, SASS mapperà e analizzerà i sistemi alimentari locali in tre diverse contesti dei paesi africani: aree naturali; aree agricole e contesti urbani e periurbani. Condivideremo e discuteremo obiettivi ed azioni della ricerca con gli stakeholders locali per capire insieme quali sono le strategie migliori da adottare per rendere gli attuali sistemi agricoli e di produzione alimentare più sostenibili e efficienti in vista delle sfide sociali future ma anche dei cambiamenti climatici in atto».

Infatti la scelta di coltivare mais, per i popoli dell’Africa Subsahariana, è una scelta di carattere economico in quanto apre loro la possibilità di esportare la materia prima, ma a lungo termine non può rappresentare una scelta sostenibile, né per l’ambiente né per tanto meno per la società, tant’è che sempre più le persone risultano obese e allo stesso tempo mal nutrite. La malnutrizione ha dei costi che il precario sistema sanitario africano non può permettersi, la scienza però ora può aiutare questi Paesi. Infatti, oltre ravvivare la tradizione delle colture originarie, è possibile selezionare varietà adatte alle condizioni ambientali africane, permettendo loro di preservare la risorsa acqua, favorendo l’equilibrio biotico e permettendo loro di esportare materie prime uniche e di qualità.

Se si tenesse fede al primo degli obiettivi per lo sviluppo sostenibile e si riuscisse ad azzerare la povertà, non ci si dovrebbe preoccupare oltre modo dei dati riportati finora, e sebbene, anche grazie all’Università Milano-Bicocca possiamo sperare in un sereno epilogo per la situazione africana, i dati dell’analisi sui cereali desta ancora preoccupazione. I principali paesi consumatori di cereali cambieranno probabilmente nei prossimi decenni ma la dipendenza dai cereali a livello globale come alimento base continuerà.

Le Nazioni Unite individuano nella povertà la più grande minaccia per il futuro dell’umanità, il rapporto FAO dichiara che: “Nel 2019, circa 690 milioni di persone non avevano cibo a sufficienza da mangiare, in aumento di 10 milioni rispetto al 2018 e di quasi 60 milioni in cinque anni. […]. La pandemia COVID-19 ha messo altri 130 milioni di persone a rischio di fame entro la fine del 2020.” e questo dato sembra essere destinato a crescere, non solo perché la popolazione mondiale aumenta di anno in anno; ma anche perché, a meno che non ci sia un radicale cambio di rotta, il cibo sarà sempre meno nutriente.

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Ambiente, società e tecnologia

La lotta contro lo spreco diventa di buon gusto

Nel mese di febbraio 2020 l’osservatorio Waste Watcher, per la settima Giornata Nazionale di prevenzione dello spreco alimentare, ha presentato un rapporto riguardante gli sprechi alimentari domestici degli italiani. Rispetto all’anno precedente lo sperpero di cibo cala per un ammontare annuale di un miliardo e mezzo. Un risparmio di alimenti consistente, ma non sufficiente: se aggiungiamo, infatti, la quantità che getta via la filiera produttiva, arriviamo ad un valore molto alto, che in un anno si aggira attorno ai 10 miliardi di euro.

Prendono forma come soluzione a questo problema alcune applicazioni che stanno emergendo in questi ultimi anni con l’obiettivo di incentivare il risparmio e il riciclo di vivande non vendute e non consumate. Queste app producono effetti virtuosi sia sotto un punto di vista ambientale che economico: permettono infatti ai venditori di non buttare prodotti che non sono stati comprati a fine giornata e al contempo consentono a potenziali consumatori di acquistarli a un prezzo molto agevolato. Non è finita qui: la loro mission accoglie anche il proposito di educare e sensibilizzare gli utenti riguardo alle gravi conseguenze ambientali e socio-economiche che può comportare lo spreco di cibo. Se le tonnellate di alimenti prodotti non venissero gettate, si potrebbe sfamare una parte considerevole di persone che ancora oggi soffrono di denutrizione ed evitare la perdita anche del cibo cestinato insieme a tutte le risorse necessarie per la produzione dello stesso.

Una applicazione che offre soluzioni sostenibili e innovative nel mondo della ristorazione e dei supermercati è TooGoodToGo, nata nel 2015 in Danimarca, che consente a chi lavora in queste due grandi realtà di mettere in vendita online il cibo non venduto e che a fine giornata andrebbe perso attraverso delle “Magic Box”.

I consumatori, attraverso pochi click, acquistano tramite l’app delle scatole di cui non conoscono il contenuto e che a sorpresa racchiudono dei pasti freschi e di buona qualità. Si va così creando una rete di venditori e compratori, che traggono vantaggio  dalla compravendita delle “Magic Box” e vengono sensibilizzati ai valori della condivisione, collaborazione e attenzione nei riguardi dell’ambiente che ci circonda: ogni “Magic Box” acquistata, infatti, evita l’emissione di 2 kg di Co2, che corrisponde alla quantità di gas serra che viene prodotta dal pasto quando anziché essere consumato, viene buttato.

L’Italia ha accolto TooGoodToGo in molte città ed il nostro paese a sua volta ospita incubatori di tante altre startup che si propongono di arrivare allo stesso scopo, cominciando dai ristoranti fino ad arrivare ai supermercati.

Con la stesso proposito di ToGoodToGo nasce Bring The Food, un’ app ideata nel 2012 dalla Fondazione Bruno Kessler di Trento che vuole agevolare il recupero di eccedenze alimentari e destinarle a organizzazioni di volontariato, in modo da donarle a chi ne ha più bisogno.

Sulla scia dell’operato di TooGoodToGo nei supermercati, non si può non parlare di MyFoody, una applicazione italiana che permette a chi ne usufruisce di ricevere offerte su prodotti “difettosi” presenti giornalmente nei vari supermercati: beni che vengono cestinati per difetti riguardanti la morfologia del prodotto o che presentano una scadenza a breve termine.

Evitare lo spreco è anche sinonimo di prestare attenzione alle scadenze degli alimenti ed utilizzare tutto ciò che si compra. Questo è quello a cui puntano le piattaforme italiane Puccifrigo ed Eco dal Frigo. La prima ha come mission quella di aiutare i suoi utenti a ricordarsi delle scadenze dei prodotti che hanno acquistato. La seconda invece si propone di mettere a disposizione tantissime ricette per combinare gli alimenti che si hanno a casa, senza buttarli.

Sono degne di menzione Last Minute Sotto Casa e Ubo , un’altra app innovativa che in modi alternativi vuole accompagnare gli utenti in quello che è il percorso che comincia con l’atto di fare la spesa e termina con il consumo dei prodotti.

Queste sono alcune delle tante app che stanno mettendo in campo soluzioni innovative e sostenibili per combattere lo spreco alimentare. Tutti possiamo contribuire cambiando le nostre abitudini e prestando attenzione al mondo che ci circonda: consumare tutto quello che acquistiamo, donare e condividere con chi ne ha più necessità.

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Ambiente, società e tecnologia

Sbarca in Italia “Chi è il padrone?”: i consumatori decidono qualità e prezzo del cibo in tavola

Sono tanti gli esperimenti in cui i consumatori tentano di mettersi “in proprio” e definire come e cosa produrre. L’ultimo arriva dalla Francia, dove “C’est qui le patron?”, l’associazione francese nata nel 2016 dall’idea di due imprenditori -Nicolas Chabanne e Laurent Pasquier- sta completamente cambiando le carte in tavola del mercato agroalimentare e si candida per diventare un nuovo modo di intendere il consumo nel food & beverage.

L’obiettivo di “C’est qui le patron?” è molto ambizioso: quello di trasformare i consumatori in attori attivi, permettendo loro di poter partecipare alla creazione, selezione, produzione e controllo della fornitura di prodotti alimentari. Il metodo vede al centro di tutto chi compra: i consumatori iscritti all’associazione sono coinvolti democraticamente nella definizione delle caratteristiche organolettiche che dovrà avere il prodotto, la provenienza, il prezzo, e possono così renderli più equi, sostenibili in tutta la filiera di produzione e più trasparenti, soprattutto relativamente al metodo di produzione e nel rispetto di tutti i produttori e lavoratori coinvolti.

Dopo il latte (da cui tutto è partito) sono arrivati sulla piattaforma di “C’est qui le patron?” altri prodotti come burro, uova, formaggio, pizza e carne, e molti altri sono in fase di definizione. L’associazione gestisce il brand e definisce le procedure di controllo presso i fornitori e i distributori per verificare che siano rispettate le caratteristiche definite. Vengono inoltre effettuati controlli di qualità direttamente presso i fornitori e controlli sull’effettiva applicazione del giusto prezzo da monte a valle.

Tutto avviene su una piattaforma online (in Francia è stata rilasciata da poco anche una app per smartphone) attraverso la quale i membri possono proporre i prodotti da sviluppare, la loro composizione, determinando il prezzo finale del prodotto per garantire una giusta remunerazione ai fornitori.

Con questo sistema produttivo i costi di pubblicità sono azzerati e la piena tracciabilità è garantita, oltre che la sicurezza di un consumo sostenibile e sicuro.

Il movimento nasce in risposta alla stretta praticata dai rivenditori sui fornitori per via della concorrenza spietata, che li porta spesso ad accettare prezzi irrisori per i loro prodotti.

Per Nicolas Chabanne “C’est qui le patron?” non è “la prima volta” nel settore: precedentemente aveva fondato “Les Gueles cassées” per favorire la vendita di prodotti ortofrutticoli meno ‘perfetti’, ma con poco successo. Successivamente la sua attenzione si sposta dunque sul latte: il settore lattiero caseario attraversava una grave crisi nella regione della Bretagna, e Nicolas lancia l’idea di un prezzo del latte equo per permettere una giusta remunerazione ai produttori lattieri.

C’est qui le patron?, la marca del consumatore è stata insomma la logica conseguenza dell’intuizione, tanto che in poco tempo è diventato il quarto brand di latte in Francia vendendo milioni di litri oltre le aspettative iniziali in poco tempo.

Il principio sta avendo così tanto successo che ormai si sta estendendo in tutta Europa: sono otto finora i Paesi (tra cui l’Italia) dove “C’est qui le patron?” è approdato questo anno con almeno un lancio di un prodotto negli scaffali dei supermercati aderenti il 25 giugno.

In Italia il prodotto interessato dal lancio è stata ovviamente la pasta. La produzione è stata affidata al pastificio Sgambaro, azienda veneta che soddisfa tutti i requisiti decisi dai consumatori e condivide a pieno i valori degli stessi.

La pasta del consumatore infatti è prodotta utilizzando farina di grano duro coltivato in Italia da agricoltura sostenibile mediante la trafilatura al bronzo, è prodotta con il 100% di energia verde e la confezione è realizzata con carta riciclabile in fibra vergine. L’azienda si rifornisce direttamente presso dagli agricoltori grazie al mulino integrato all’interno dell’azienda stessa. Il prezzo equo stabilito è al massimo di €1.07 di cui €0.005 saranno destinati all’aumento della capacità di produttiva dell’agricoltura biologica.

Il prezzo di questi prodotti è generalmente sopra la media, ma come ha sottolineato il fondatore Nicolas Chabanne in un’intervista su Hebdo Com i prodotti di C’est qui le patron? non hanno un prezzo alto, bensì, giusto.

Non ci resta che diventare consumatori attivi e decidere sulla piattaforma “Chi è il padrone?”.