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Ambiente, società e tecnologia

PotatoPlastic: dalla padella al packaging

Il consumo di plastica è ormai al centro del dibattito ambientale da molti anni. La produzione di oggetti di plastica ( in particolare quelli monouso) è infatti tra le maggiori cause dell’inquinamento del nostro Pianeta e rappresenta una delle minacce principali per il nostro ambiente.

Secondo un recente studio pubblicato sul Science Advance, l’Italia conquista (a malincuore) la top-ten tra produttori di plastica procapite, aggiudicandosi un 9° posto nella classifica globale che vede in vetta gli USA con una produzione di plastica per ogni cittadino di circa 105kg l’anno.

Secondo i dati del 2020, un italiano medio produce 56kg di plastica l’anno, il che significa generare circa 1kg di rifiuti di plastica alla settimana.

I dati italiani sono sicuramente allarmanti in quanto ci mostrano chiaramente come, negli ultimi decenni, ci siamo trasformati sempre di più in un popolo di consumatori seriali. Abbiamo gradualmente perso ogni tipo di rispetto sia per la Natura, che ci ospita la nostra specie da secoli, che per noi stessi. Come se non bastassero i danni ambientali da noi causati fino ad ora, continuiamo a guardare all’incombente crisi climatica con scetticismo ed indifferenza, ignorando o screditando ogni possibile impegno in merito ad una sua risoluzione e condannando così, in totale inerzia tra un sospiro e l’altro mentre compriamo l’ennesima bottiglietta di acqua minerale al supermercato, la Terra ad una morte precoce e sofferente.

Secondo un’indagine del national Geographic, ogni anno circa 8 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica finiscono negli oceani, dove spesso perdurano fino a 400 anni prima di degradarsi.

Tutti questi dati erano sicuramente noti a Pontus Törnqvist, studente svedese di 24 anni, e al team con cui ha realizzato il progetto della “Potato Plastic”: il nuovo materiale biodegradabile a base di fecola di patate che potrebbe sostituire gli oggetti monouso in plastica.

Il progetto e l’ingrediente segreto: la fecola di patate

L’obiettivo del progetto è semplice nella sua straordinarietà: sostituire la plastica, poco durevole ma molto inquinante, con un altro materiale innovativo, biodegradabile e 100% Bio-based, cioè totalmente a base biologica: la fecola di patate.

La fecola di patate è attualmente utilizzata in più ambiti del settore industriale e trova in particolar modo applicazione nel mondo della cosmesi e dei prodotti per la cura della persona.

Proprio da questa consapevolezza nasce l’idea innovativa che ha portato il team, composto da Pontus, Hanna Johanssona e Elin Tornblad, a vincere l’edizione svedese del James Dyson Award, concorso internazionale di design che ispira le prossime generazioni di ingegneri a realizzare idee innovative, volte a stimolare il problem-solving dei partecipanti.

La PotatoPlastic è un materiale termoplastico, composto da fecola di patate ed acqua. Questi due componenti, se opportunamente mescolati e riscaldati, possono dare origine ad un composto compatto che si rivela essere un efficiente alternativa alla comune plastica.

Come emerge dal loro sito (di cui vi invito a dare un’occhiata), la finta plastica a base di patate è costituita da ingredienti esclusivamente naturali. La sua produzione parte infatti dall’utilizzo di scarti del tubero ed il prodotto finito è completamente organico e compostabile.

Lo scopo principale dell’invenzione è quello di sostituire la plastica tradizionalmente utilizzata per gli articoli monouso, fornendo un’alternativa non dannosa che possa contribuire a diminuire l’inquinamento causato dalla plastica a livello globale.

La questione dell’utilizzo di oggetti monouso infatti si è spinta ai limiti del paradossale: prodotti come piatti e posate in plastica hanno una vita media di soli 15-20 minuti ma un tempo di smaltimento di circa 450 anni. Occorre quindi chiederci, ne vale veramente la pena?

In un’ottica realistica in cui queste evidenze sono ormai inaccettabili, l’utilizzo della PotatoPlastic si rivela essere sempre di più una scelta vincente, specie se si considera che dal 2021 la nuova direttiva dell’Unione Europea vieta i prodotti di plastica monouso.

Perciò, se ancora non si vuole rinunciare alla comodità del monouso, occorre allora trovare delle alternative valide ecosostenibili alla cara, vecchia e dannosa plastica.

In questa prospettiva, la Potato Plastic si dimostra essere sicuramente un fulmine a ciel sereno.

La lotta alle microplastiche

Anche sulla homepage del sito, il Potato-team puntualizza che questo nuovo biomateriale non si trasformerà mai in microplastiche, cioè minuscoli pezzi di materiale plastico, generalmente inferiori ai 5 millimetri, rilasciate nell’ambiente e dagli effetti potenzialmente tossici.

Da dove viene però quest’impellente necessità di contrastarne la diffusione?

Nel novembre del 2020 è stata portata alla luce una scoperta sconcertante: sono state ritrovate delle microplastiche nelle placenta umana, cioè l’interfaccia tra madre e feto, il luogo più sacro e incontaminato che ha il compito di nutrire e supportare la nuova vita che si sta sviluppando nel grembo materno. Ma come è potuto accadere?

Il meccanismo che si instaura dal momento in cui la plastica finisce in mare è una sorta di catena di contaminazione alimentare. I raggi UV, gli agenti atmosferici ed i batteri presenti nei mari contribuiscono infatti alla frammentazione della plastica in particelle sempre più piccole che possono essere facilmente ingerite dagli animali marini che poi entrano nella catena alimentare. É così che, alla fine, il cibo contaminato finisce sulle nostre tavole.

A rincarare la dose e velocizzare la nostra trasformazione in “cyborg”, contribuisce anche il fatto che spesso i cosmetici che utilizziamo, come creme, prodotti per l’igiene del corpo e make-up, sono a base di plastiche che rilasciano agenti chimici in grado di penetrare la nostra pelle ed entrare in circolo nel nostro organismo. Le microplastiche possono quindi innestarsi nei nostri tessuti e nei nostri organi, entrando letteralmente in simbiosi con noi stessi. Ciò che  più spaventa della questione, è che i loro effetti sulla salute dell’essere umano non sono ancora del tutto noti.

Spesso inoltre il materiale plastico contiene additivi, come bisefenoli e ftalati (utilizzati per conferire flessibilità al prodotto), che interferiscono con il nostro sistema endocrino e possono avere delle serie ripercussioni sullo sviluppo dell’individuo.

La plastica è un materiale macromolecolare composto da vari polimeri, una sorta di miscela di molte sostanze diverse. Alcune di queste, come il Pvc (cloruro di polivinile) ed il poliuretano, hanno un livello di tossicità così alto da essere vietati nelle bottigliette e negli imballaggi, come riportato dalla ricerca pubblicata sulla rivista Environmental Science and Technology. Lo stesso vale per i prodotti di cosmesi, troppo spesso saturi di derivati del petrolio potenzialmente tossici che negli anni possono penetrare nel nostro organismo.

Dallo studio condotto dai ricercatori dell’Ospedale Fatebenefratelli di Roma e dall’Università politecnica delle Marche sulle placente di neo-mamme è emerso che l’organo placentare, una volta prelevato ed analizzato tramite tecniche spettroscopiche, conteneva ben 12 tipologie di microplastiche. Sono stati ritrovati infatti piccoli frammenti di plastica pigmentati in 4 placente sulle 6 totali studiate.

É la prima volta nella storia della sperimentazione scientifica che si trovano particelle artificiali nella placenta, il luogo più sacro e incontaminato dell’essere umano, o meglio della donna, tramite cui avviene l’unione vitale tra madre e feto. Da questi risultati si deduce che le microplastiche, una volta penetrate perché ingerite con gli alimenti o attraverso l’utilizzo di altri prodotti contenenti plastica, possono entrare in circolo e diffondersi in tutto il corpo tramite i vasi sanguigni, raggiugnendo la placenta e, da lì, anche il feto.

Un’altra constatazione emersa dallo studio è inoltre che la presenza di particelle artificiali nel nostro corpo può alterare la risposta del nostro sistema immunitario. Le cellule deputate alla difesa del nostro organismo, che si occupano di eliminare eventuali parassiti e di proteggerci da agenti estranei riconoscendo il “self” dal “not-self”, cioè ciò che appartiene al nostro organismo da ciò che è estraneo, hanno iniziato a riconoscere come “self” anche ciò che non è organico: la plastica.

Stiamo quindi iniziando ad assimilare il materiale plastico che, lentamente, sta diventando parte del noi.

Dopo essere entrata nelle nostre vite in modo prorompente, conquistando ogni oggetto della nostra quotidianità, la plastica è lentamente e silenziosamente penetrata dentro il nostro corpo, facendo sembrare sempre più realistica quella prospettiva fantascientifica dell’uomo-macchina. Di questo passo, la verità è che ci stiamo lentamente trasformando in “cyborg” e nessuno se ne sta accorgendo.

Il progetto di PotatoPlastic si propone proprio di invertire la rotta di questo meccanismo per ricondurre ognuno di noi ad un’esistenza quanto più salutare possibile e rispettosa nei confronti dell’ambiente.

La soluzione: più patate meno spreco

Il primo passo verso un minor consumo della plastica è sicuramente informarsi e prendere consapevolezza della gravità della situazione. Se nell’ultimo anno sono state prodotte 310 milioni tonnellate di plastica e la terra sta implodendo su se stessa, la colpa non può che gravare sull’essere umano e sull’utilizzo sconsiderato che fa delle risorse di cui dispone.

In una visione un po’ Leopardiana, l’essere umano si rivela comunque debole ed impotente di fronte a Madre Terra ed alle varie calamità naturali, riflesso di una natura che si ribella ai soprusi sofferti per decenni. Ciò è ampiamente dimostrato dalla crisi climatica attualmente in atto che sta mettendo in ginocchio una larga fetta della popolazione mondiale (basti pensare agli incendi che hanno dilaniato l’Australia o alla recente crisi causata dal freddo polare in Texas).

Occorre quindi ridurre l’inquinamento da plastica, aumentarne il riciclo ed incentivare lo sviluppo di proposte alternative, come la PotatoPlastic.

Secondo un’indagine di GreenPeace, queste nuove misure potrebbero ridurre il carico di plastica nei rifiuti di circa il 57%: si parla di ben 188 milioni di tonnellate di plastica in meno ogni anno. Coadiuvando ciò allo sviluppo del riciclo e del riutilizzo, si implementerebbe anche una nuova economia basata sulla plastica ecosostenibile, che porterebbe oltre 1 milione di posti di lavoro nel settore della rilavorazione dei rifiuti.

La PotatoPlastic rappresenta sicuramente un primo passo valido verso la riduzione dell’inquinamento causato dalla plastica ma la strada da fare verso uno stile di vita ed una società ecosostenibile è ancora molta.

Se è vero che un individuo da solo non potrà risolvere la crisi climatica, Greta Thunberg, l’attivista Svedese sedicenne impegnata nello sviluppo sostenibile e creatrice del movimento degli “scioperi per il Clima”, ci insegna che lottare per una giusta causa con impegno porterà sempre a dei risultati.

Occorre quindi sforzarci nel nostro piccolo per condurre una vita più rispettosa nei confronti dell’ambiente e parallelamente incentivare la ricerca ecosostenibile, richiedendo strette e regolamentazioni sull’inquinamento. Solo così potremo efficacemente contrastare l’inevitabile tracollo climatico che noi stessi abbiamo causato.

La Terra non può più aspettare.

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Ambiente, società e tecnologia

Neutralità climatica: cos’è e perché non la raggiungeremo nel 2050

Nonostante sia ormai da mezzo secolo che gli esperti parlano di “cambiamento climatico”, si sono rese necessarie due cose affinché questo argomento riuscisse ad affermarsi come attuale: il quinto rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) e un impermeabile giallo. Il primo è servito al processo di affermazione giudiziaria del cambiamento climatico in quanto per la prima volta volta sono state fornite le prove scientifiche circa l’esistenza dello stesso e della sua origine antropica; mentre il secondo lo ha reso finalmente un fatto mediatico, degno di essere sulla bocca di tutti.

Perché è necessario raggiungere la neutralità climatica

L’IPCC, che dal 1988 si occupa di cambiamenti climatici, stima la probabilità di accadimento del riscaldamento globale tra il 95 e il 100%, e gli attribuisce una serie di conseguenze quali: l’innalzamento del livello del mare, l’incremento delle ondate di calore e dei periodi di intensa siccità, ai quali seguirebbero poi violente alluvioni, e un aumento in numero delle tempeste e degli uragani.

Mantenere l’innalzamento della temperatura media globale al di sotto del dato stimato non è solo necessario ma vitale; ed è per questo che è nato il concetto di neutralità climatica, un concetto con il quale si intende l’azzeramento delle emissioni nette, ossia il pareggio nel bilancio tra le emissioni in atmosfera e la quantità di gas che il Pianeta riesce ad assorbire. La neutralità climatica, tra l’altro, è ben lontana dal poter essere considerata una garanzia protettiva rispetto all’imminente catastrofe dato che, almeno per ora, tutto ciò che è stato emesso in passato continua a rimanere in atmosfera e perciò a esercitare inesorabilmente la sua azione “riscaldante”.

Della situazione venutasi a creare, l’opinione pubblica ha finalmente preso coscienza e ciò ha costretto le forze politiche a intervenire sul tema: a partire dal 2015 sul piano internazionale e sul piano sovranazionale è iniziato un processo di fissazione degli obiettivi, forse un po’ troppo ambiziosi, a tutela del pianeta terra che hanno poi portato l’Europa a poter ipotizzare il miraggio della neutralità climatica entro il 2050.

Perché non sarà raggiunta entro il 2050

Proprio con questi obiettivi la Commissione Europea, guidata da Ursula von der Leyen, ha promosso il Green Deal Europeo: una vera e propria tabella di marcia ricca di linee guida e suggerimenti per rendere sostenibile l’economia UE e migliorare lo stile di vita dei cittadini.

Nel comunicato ufficiale, il Green Deal viene definito come “una strategia che mira a trasformare l’Unione Europea in una società giusta e prospera, con un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva in cui non ci sono emissioni nette di gas a effetto serra nel 2050 e in cui la crescita economica è disaccoppiata dall’uso delle risorse.

Il raggiungimento di obiettivi così ambiziosi e significativi è tuttavia ostacolato da diverse problematiche; prima fra tutte la vastità ed eterogeneità di Stati coinvolti.

Come affermato da Andrea Quaranta nel suo articolo, il perseguimento dell’azzeramento delle emissioni avrà costi e tempi diversi per i vari paesi dell’Unione. Gli stati dell’Unione Europea differiscono infatti per cultura, tradizione, sfondo economico e risorse a disposizione, pertanto sarà necessario individuare procedure e strategie attuabili da tutti gli stati, in modo da fornire a tutti un’opportunità di trasformazione.

Secondo GreenPeace, le misure attualmente indicate sono “troppo deboli o hanno ancora bisogno di essere cucite insieme”.

Alle problematiche di individuazione di misure europee si affiancheranno presto complicazioni nella definizione di un iter legislativo e di misure a garantire l’applicazione delle stesse, operazioni che restano a discrezione dei singoli stati.

Un altro ostacolo è sicuramente l’elevato numero di finanziamenti necessari all’attuazione di tali progetti. Come spiegato da Simona Rizza sull’Eco Internazionale, il Green Deal Europeo sfrutterà InvestUE: uno strumento finanziario per la raccolta di finanziamenti pubblici e privati. Si stima un raggiungimento di un bilione di euro, fondi tuttavia considerati insufficienti dall’analisi di le monde, riportata da Insideover.

Nello stesso articolo vengono inoltre evidenziati risvolti negativi che potrebbero essere introdotti dall’applicazione di un cambiamento economico così forte: l’aumento dei prezzi in risposta all’introduzione di regolamenti stringenti ed una mancata crescita produttiva potrebbero portare a gravi conseguenze a sfavore dell’Europa nelle logiche commerciali internazionali.

La sfida: la rinuncia al petrolio

Un ulteriore motivo per il quale non raggiungeremo la neutralità climatica è che a pesare maggiormente sulle nostre emissioni in atmosfera è il comparto fossile seguito a distanza dagli allevamenti intensivi; questo è un bel problema se si pensa che, sebbene non tutta la popolazione può definirsi onnivora, ormai quasi tutti gli ospiti del Pianeta sono energivori.

Come ricorda il Professor Nicolazzi nel suo libro “Elogio del petrolio. Energia e disuguaglianza dal mammut all’auto elettrica”, l’energia, per l’Homo Sapiens, è stata la vera guida al successo evolutivo. Inizialmente l’uomo disponeva solo di se stesso come convertitore di energia, poi ha addomesticato altre specie e all’energia propria ha affiancato quella animale. In seguito, l’uomo ha compreso come catturare l’energia dalla natura e ha costruito i mulini: strutture che pur senza nutrirsi, sono in grado di svolgere il lavoro di 60 persone. Infine, sono arrivate le fonti fossili e il petrolio. A questo punto la qualità della vita è migliorata così tanto che sembra impossibile separarsene.

Ad oggi più del 60% delle emissioni in atmosfera sono dovute al fossile e, per quanto la nascita del Ministero della transizione ecologica ci faccia pensare, e sperare, che quella energetica sia vicina, rimane una serie di problemi che ci separano dall’agognato obiettivo “fossile zero”. Primo tra tutti la sua sostituzione nel campo della produzione industriale particolarmente in tutti quei settori in cui si renda necessario il raggiungimento di elevate temperature.

Il secondo grande quesito della separazione dal fossile sta proprio nella produzione di energia pulita. Infatti, a differenza di quanto comunemente si pensi, il problema non risiede solo nel raggiungimento di una densità elettrica utile a svolgere il lavoro che fino a oggi ha egregiamente svolto il fossile, ma risiede anche nel posizionamento delle strutture che generino la nuova energia pulita tenendo conto che l’offshore non può rappresentare la totale soluzione.

Ammesso che si trovi il sistema per produrre l’energia green, per puntare alla neutralità climatica entro il 2050 si renderebbe necessaria una rivoluzione della rete energetica integrata con un ottimizzato sistema di accumulo, i cui costi sono molto più elevati di quelli derivati dalla lavorazione del vecchio amico petrolio. Infatti, per quanto si trovi lo spazio per posizionare le strutture necessarie, possibilmente senza disboscare, è necessario fare i conti con l’intermittenza nell’erogazione dell’energia. Il petrolio, una volta estratto è sempre pronto ad entrare in azione: delle fonti rinnovabili si può dire lo stesso? Se si alimentasse la propria casa esclusivamente con l’energia solare, tutte le docce fatte dopo il tramonto sarebbero piacevoli come secchiate d’acqua gelida: non è esattamente quello che ci si aspetta al termine una giornata impegnativa.

Indissolubilmente legata alla tematica del petrolio, abbiamo quella dei trasporti dove, anche in questo caso, l’immaginario comune a volte sembra ben lontano dall’aver fatto i conti con l’oste. Visto che il comparto navale e quello aereo sono ancora ben lontani dalla possibilità di un’alimentazione green essendo improponibile, specie per il trasporto navale, la rinuncia al fossile, ci limiteremo ad accennare solo al settore automobilistico. Il 12% delle auto immatricolate in Italia nel 2020 appartiene alla categoria “vetture elettriche pure o ibride plug-in”, ma questo non rappresenta un dato confortante. Infatti per quanto una vettura elettrica o ibrida in funzionamento elettrico non immetta anidride carbonica in atmosfera, l’impianto che ha generato l’energia con la quale l’auto si è mossa quasi sicuramente lo ha fatto. Uno scenario del genere non prevede la riduzione delle emissioni in atmosfera ma solo la loro delocalizzazione nello spazio e nel tempo. Quanto appena descritto non vuole essere una profezia di Cassandra, piuttosto è ciò che può essere dedotto dal  rapporto TERNA riferito al mese di Gennaio, secondo cui solo un terzo della domanda energetica del Belpaese è soddisfatta da energia derivante da fonti alternative.

Tra miraggio e realtà

Quasi sicuramente il 2050 non rappresenterà l’anno del raggiungimento della neutralità climatica ma questo non significa affatto che impegnarsi al suo perseguimento sia uno sforzo vano. Il cambiamento climatico e le sue dannose conseguenze sono praticamente dati per certi e imminenti e, piuttosto che non fare nulla, è sempre meglio agire pur correndo il rischio che quanto fatto non sia bastato. Il susseguirsi di azioni concrete non migliorerà da subito la situazione del Pianeta, ma siamo chiamati ad agire adesso nel rispetto delle generazioni future, perché non siano private dei benefici di cui i loro predecessori hanno goduto, e purtroppo abusato.

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Ambiente, società e tecnologia

Perché potrebbe essere possibile raggiungere la neutralità climatica nel 2050

Negli ultimi 40 anni l’umanità ha sempre più preso coscienza della realtà dei cambiamenti climatici e dell’impatto devastante che hanno (e avranno). Una consapevolezza che è cresciuta fino ad arrivare nel 2015 agli accordi di Parigi, il più importante impegno internazionale per tutelare l’ambiente: oggi ne fanno parte 197 Paesi.

Seguendo l’ammonimento della scienza, vuole contenere il riscaldamento del pianeta a 2 gradi rispetto all’era preindustriale, soglia considerata critica e di non ritorno per raggiungere la neutralità climatica.

Grandi obiettivi a lungo termine che non ammettono perdite di tempo, ma riusciremo a metterli in pratica concretamente e partendo adesso?

Alcuni si riferiscono al periodo che stiamo vivendo come una nuova rivoluzione industriale, che ponga la questione ambientale al centro e riveda il concetto di produzione da lineare a circolare, quanto più possibile. L’Unione Europea in questa rivoluzione ambisce al ruolo di protagonista, perché con il suo Green Deal si è posta obiettivi importanti volti al raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050.

La crisi causata dal Covid-19, contrariamente alle aspettative di qualcuno, non solo non ha fermato i progetti della commissione europea, li ha addirittura rafforzati. Di fronte a una forte crisi le società sono maggiormente disposte a cambiamenti drastici nei loro piani.

Basti pensare al recovery fund e all’ingente parte di questo dedicato agli investimenti green da attuare nei vari stati membri.

Certo è che non possono rimanere promesse vaghe, c’è bisogno di una governance competente e coordinata tra i paesi membri che si ponga obiettivi raggiungibili e misurabili nel breve periodo.

Anche gli USA sono in campo per giocarsi un ruolo di primo piano, dopo l’amministrazione Trump notoriamente negazionista della questione climatica. Biden ha infatti promesso un piano di investimenti da 1,7 trilioni di dollari in energia pulita nei prossimi dieci anni, per creare nuovi posti di lavoro e convertire gli attuali impiegati nel settore energetico dei combustibili fossili. Non è da meno la Cina, che dall’altra parte del mondo intensifica i suoi sforzi specialmente per migliorare la qualità dell’aria, ponendosi obiettivi e controlli quinquennali.

Ci sono 4 settori in particolare che sono responsabili di gran parte delle emissioni di gas serra: energia, trasporti, edilizia e filiera alimentare.

Alimentazione

La filiera alimentare è un enorme contribuente al cambiamento climatico, specialmente quella degli allevamenti intensivi di bovini. Questi sono responsabili di emissioni di metano più che di anidride carbonica, per non parlare del consumo di suolo e acqua. “Se la popolazione delle mucche nel mondo fosse considerata come un paese, sarebbe uno tra i primi tre al mondo per emissioni di gas serra”, è l’ammonimento di Kimberly Henderson, esperta di sostenibilità e partner di McKinsey.

Segnali incoraggianti però arrivano dalle aziende, che stanno mettendo a punto e perfezionando varie tecniche di riduzione delle emissioni di metano (qui l’approfondimento de Il Post) ma anche dai consumatori, sempre più consapevoli dell’impatto delle loro scelte a tavola. Ridurre il consumo di carne e acquistare prodotti a KM0 sono entrambi trend in crescita.

Trasporti

Il settore automobilistico è responsabile del 15% delle emissioni di CO2 e ha dunque un ruolo centrale per la lotta al riscaldamento globale su due fronti, quello delle emissioni di scarico e le emissioni dei materiali dei veicoli. Le prospettive sono positive: le vetture elettriche stanno prendendo sempre più piede e c’è una crescente pressione per aumentarne ancora di più la quota di mercato, sia dagli investitori che dalle autorità. Sta anche facendo progressi l’industria delle batterie al litio, che diventa sempre più efficiente e circolare (è da poco nata Reneos, la piattaforma europea di raccolta e riciclo delle batterie esauste in grado di recuperarne la maggior parte dei componenti). Aziende come Tesla, poi, stanno studiando nuovi metodi per la produzione di batterie, come le LFP.

Le innovazioni nei trasporti più in senso lato corrono veloci: prosegue la sperimentazione di Hyperloop e si studiano nuovi combustibili, come l’idrogeno per gli aerei.

Energia

Il settore energetico costituisce la chiave di volta per la decarbonizzazione del nostro pianeta, a fronte di una richiesta energetica destinata ad aumentare. L’utilizzo di fonti esclusivamente rinnovabili non sarà una sfida facile.

Se, infatti, i combustibili fossili sono in grado di produrre energia 24 ore al giorno, le rinnovabili sono per lo più vincolate alle condizioni atmosferiche: di notte o in una giornata nuvolosa il solare non sarà sfruttabile, così come l’eolico in una giornata senza vento.

Sono in corso numerosi studi su come immagazzinare l’energia proveniente da queste fonti, magari in giga batterie, ma al momento si tratta di soluzioni estremamente costose.

Un ruolo molto importante potrebbe essere giocato dal nucleare, ma in assenza di un effettivo reimpiego delle scorie nucleari si tratterebbe solamente di spostare il problema.

C’è poi la questione del consumo di suolo: una “wind farm”, ad esempio, richiede un territorio molto più ampio rispetto a una centrale tradizionale, a parità di energia prodotta. E le dighe necessarie alla produzione di idroelettricità hanno il loro impatto sul territorio circostante.

In questo senso vengono in aiuto tecnologie come l’eolico offshore, di cui la Danimarca è leader, e nuove tecnologie in grado di sfruttare l’energia incessante delle onde marine, con impatto pressoché nullo sugli ecosistemi in cui vengono inserite.

E in realtà come l’Europa, la maxi-rete energetica interconnessa permetterebbe di sfruttare al massimo l’energia pulita dei vari paesi: eolico della Danimarca, solare dei paesi mediterranei, nucleare francese, geotermico italiano e così via.

Edilizia

La produzione di cemento è una delle attività più inquinanti, ma il settore dell’edilizia sostenibile (incentivato, ad esempio, dal Green Deal europeo) è in rapidissima ascesa: si stima che entro 6 anni raggiungerà un valore di mercato (mondiale) di oltre 180 miliardi di dollari, con una crescita dell’8,6% annuo.

Alcuni elementi chiave della nuova edilizia sono il prefabbricato con ampio uso di legname proveniente da foreste gestite in modo sostenibile e con certificazioni green.

Oltre al ripensamento dei materiali, il fatto di avere case prefabbricate aiuta a migliorare l’isolamento, con conseguente ottimizzazione dei consumi energetici.

Altro elemento chiave per il raggiungimento di questa ottimizzazione è l’intelligenza artificiale e l’indipendenza energetica, con il crescente utilizzo di pannelli solari e sistemi di domotica intelligente.

Questi sono solo gli aspetti più importanti che la nuova edilizia deve tenere d’occhio, ma certamente non gli unici. Se le previsioni saranno rispettate, il settore edilizio contribuirà a ridurre del 40% le emissioni di CO2 entro il 2030.

Mercati

Tutta questa questione di new economy e piani per il clima si basa su previsioni future dall’esito molto incerto, e altrettanto volatili sono i mercati. Proprio su questi possiamo tentare di indagare per scoprire il destino (almeno nel breve termine) dello sviluppo sostenibile.

Tesla, la cui mission è “accelerare la transizione del mondo verso l’energia sostenibile” ha avuto un boom in borsa ed il suo CEO è attualmente l’uomo più ricco del mondo, con super investimenti in vari campi di innovazione tecnologica.

Gli investimenti in energia rinnovabile sono sempre di più, da governi e privati, e nello scorso anno il settore automobilistico a 0 emissioni è cresciuto enormemente rispetto alla controparte a combustione interna, anche in Italia. Sembrerebbe, dunque, che la sostenibilità stia vincendo.

Alla luce di tutto questo, con così tante variabili in gioco e così tanta incertezza, risulta veramente difficile affermare con certezza se le emissioni verranno azzerate nel 2050 o qualche anno dopo. La rapidità con cui il mercato sta cambiando in pochi anni, però, non può che lasciarci fiduciosi.

Un altro fattore che ci rende ottimisti è la ricerca di metodologie per catturare i gas serra già presenti nell’atmosfera, a partire dal più semplice e naturale di tutti: la riforestazione. Oltre a ciò, alcuni personaggi influenti della scena internazionale (come Bill Gates ed Elon Musk) stanno incentivando la ricerca per metodi artificiali di carbon capture technology e sensibilizzando l’opinione pubblica sull’importanza di agire.

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Ambiente, società e tecnologia

1000km, 0 emissioni

La lotta ai cambiamenti climatici si fa sempre più intensa, e l’elettrificazione dei trasporti (e in particolare del settore automobilistico) è una delle strategie che potrebbero garantirci la vittoria.

Il mercato, però, è attualmente spaccato tra gli entusiasti e i fedeli ai motori termici che sollevano una serie di perplessità.

Prima tra tutte, la cosiddetta ”range anxiety”. Rispetto a una tradizionale vettura a combustione interna, un’auto full electric spesso si presenta con un’autonomia notevolmente inferiore – a fronte di tempi per “fare il pieno” decisamente più lunghi.

Una sfida invincibile per l’elettrico?

Sembrerebbe proprio di no.

Sia perché negli ultimi anni il mercato a zero emissioni è in rapida ascesa (a conferma del fatto che molte persone non reputino un problema le basse autonomie nella loro quotidianità), sia perché l’industria sta muovendo passi da gigante per conquistare anche quella fetta di mercato che ha esigenza di percorrere più km.

L’ultima innovazione in tal senso arriva dalla Cina, e si chiama Nio ET7.

Se sicuramente l’auto stupisce per la tecnologia avanzatissima (tra cui la guida autonoma e una miriade di sensori di ultima generazione), la vera rivoluzione sta nella batteria.

Nel 2022, promette la casa, sarà introdotta la versione a stato solido, che garantirà un’autonomia da 1.000 km.
Un risultato strabiliante che fa sfigurare la top di gamma del leader di mercato Tesla (che con la sua Model S garantisce circa 840 km con una ricarica).

La super batteria da 150kwh sfrutta al meglio gli spazi a disposizione, aumentando la densità a 360 Wh/Km, il 50% in più dei 100Kwh utilizzati oggi.

Non solo, sarà anche più sicura: il fatto che ora l’elettrolita non sia liquido (è la prima auto a potersene vantare) scongiura il rischio di incendi e del Thermal Runaway causato dalle reazioni di celle vicine.

Questa nuova architettura, se accompagnata da una parallela evoluzione delle colonnine, permetterebbe anche di accorciare i tempi di ricarica.

E a proposito di ricarica, arriviamo alla seconda innovazione.A Nio hanno pensato che piuttosto che investire in una rete di colonnine più potenti valesse la pena dirigersi verso il battery swap.

Come suggerisce il nome, è la possibilità di fare il cambio rapido di batteria in meno di 5 minuti.

Proprio come fare benzina, insomma: si arriva, un tecnico smonta la batteria scarica e la sostituisce con una al 100%, e si è subito pronti per ripartire.

Già testato sui modelli precedenti della casa, il modello swap sembra avere un discreto successo: a giugno 2020, a circa due anni dal lancio, sono state effettuate 500 mila sostituzioni in 131 stazioni in Cina.

Questo permette anche di abbassare il prezzo finale della macchina, che verrebbe acquistata senza le batterie di proprietà.

Soluzione impegnativa specie per un mercato liberale come quello europeo, che richiederebbe uno standard di progettazione per tutti i produttori per diventare di massa.

Le auto alla spina hanno ancora diversi nodi da sciogliere, come i problemi legati all’etica dell’estrazione delle materie prime o alla non totale circolarità della filiera, ma innovazioni come questa ci fanno capire che una valida alternativa ai combustibili fossili c’è e migliora di giorno in giorno.

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Economia, StartUp e Fintech

L’Unione Europea e l’Italia verso un’economia più verde

L’11 dicembre 2019 presso la sua sede a Bruxelles la Commissione europea ha presentato agli Stati membri l’European Green Deal, un progetto che ha lo scopo di portare tutti i Paesi membri verso un’economia più sostenibile e con impatto climatico zero.

Con tale programma l’Ue intende raggiungere due obiettivi: ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 55% rispetto ai livelli del 1990 entro 2030 e quello più ambizioso di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.

In base a quanto riportato sul sito ufficiale della Commissione europea, “per conseguire questi obiettivi sarà necessaria l’azione di tutti i settori della nostra economia”, tra cui:

  • Decarbonizzare il settore energetico
  • Sostenere l’innovazione dell’industria europea, che utilizza solo il 12% dei materiali riciclati
  • Garantire una maggiore efficienza energetica degli edifici, incentivandone la ristrutturazione;
  • Introdurre forme di trasporto pubblico e privato più pulite, più economiche e più sane
  • Investire in tecnologie rispettose dell’ambiente.

Per realizzare gli obiettivi il 14 gennaio 2020 è stato presentato il Piano di investimenti per l’Europa sostenibile, che prevede la mobilitazione nel prossimo decennio di investimenti pubblici e privati per almeno 1000 miliardi di euro.

Questi investimenti son destinati a tutti i Paesi membri, per rendere l’economia più rispettosa dell’ambiente.

Il new Green Deal italiano

Anche il nostro Paese si sta mobilitando per creare un’economia più sostenibile e solidale con l’ambiente, in linea con quanto previsto dall’Unione europea.

Il 13 dicembre 2019 è stato convertito in legge il Decreto Clima, considerato dal Ministro dell’Ambiente Sergio Costa come “il primo atto normativo del governo italiano che inaugura il New Green Deal.

Le principali misure adottate sono: il bonus mobilità per i cittadini dei comuni interessati dalle procedure di infrazione europea per la qualità dell’aria, che potranno essere utilizzati in 3 anni per l’acquisto di abbonamenti per il trasporto pubblico o di biciclette; l’avvio di un programma sperimentale per la forestazione delle città metropolitane; il riconoscimento di 5 mila euro di contributi a fondo perduto per i commercianti che nei loro negozi creeranno dei green corner, angoli per la vendita di prodotti sfusi o alla spina, alimentari o per l’igiene personale.

La legge di bilancio 2020

Inoltre, il governo ha anche dedicato una parte della Legge di bilancio 2020 alla realizzazione del New Green Deal italiano.

L’istituzione di un fondo per investimenti pubblici

È stato anzitutto prevista la creazione di un Fondo per la crescita sostenibile a cui saranno assegnati oltre 4,2 miliardi di euro che saranno ripartiti tra gli anni 2020 e 2023, e che sarà finanziato con i proventi della messa in vendita delle quote di emissione di CO2. Questo fondo sarà utilizzato per “sostenere programmi di investimento e operazioni finalizzate a realizzare progetti economicamente sostenibili che abbiano come obiettivo la decarbonizzazione dell’economia, l’economia circolare, il supporto all’imprenditoria giovanile e femminile, la riduzione dell’uso della plastica e la sostituzione della plastica con materiali alternativi, la rigenerazione urbana, il turismo sostenibile, e in generale programmi di investimento e progetti a carattere innovativo e ad elevata sostenibilità ambientale e che tengano conto degli impatti sociali.”

Efficientamento energetico dei condomini

Nell’ambito del Fondo di garanzia per la prima casa è stata istituita una sezione speciale per la concessione di garanzie, nella misura massima del 50% della quota capitale, ai condomini per la loro ristrutturazione finalizzata all’aumento dell’efficienza energetica.

Green bond

È prevista la possibilità di emettere dei titoli di Stato cosiddetti “green” per finanziare gli investimenti orientati a contrastare i cambiamenti climatici, alla riconversione energetica, all’economia circolare e alla protezione dell’ambiente.

Plastic tax

Viene istituita la Plastic tax, l’imposta sul consumo di manufatti in plastica con singolo impiego che hanno funzione di contenimento, protezione o consegna di merci e prodotti alimentari.

Ecobonus

Vengono confermati il bonus per la ristrutturazione con detrazione fiscale del 50% e l’ecobonus per la riqualificazione energetica degli edifici e degli appartamenti con detrazione fiscale fino al 65%.

Questi sono solo i primi provvedimenti messi in campo dall’Italia e dall’Unione europea per ridurre l’inquinamento nelle città e creare una economia con un minor impatto ambientale, ma se vogliamo combattere il cambiamento climatico ormai già in atto dobbiamo continuare su questa strada.

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Ambiente, società e tecnologia

Packaging: alcune delle best practice

Che cos’è il packaging? È uno strumento funzionale, un mezzo per comunicare al cliente la missione di un brand, ma anche un costo ambientale: secondo Eurostat solo il 42% degli imballaggi in plastica è stato riciclato in Europa nel 2017. Come renderlo più sostenibile?

Ridurre il packaging ai minimi termini

Applicare la filosofia zero-waste alla spesa quotidiana: è questa la missione di “Negozio Leggero”. Questo franchising italiano nato nel 2009 riduce gli imballaggi superflui vendendo prodotti sfusi o tramite la soluzione del vuoto a rendere: il cliente può così riconsegnare le confezioni in vetro, che saranno sterilizzate e riutilizzate. Le stesse strategie ispirano il lato e-commerce: per le spedizioni infatti sono utilizzati imballaggi in cartone recuperato. Negozio Leggero cerca di realizzare un “sistema chiuso” per il packaging: sfrutta al massimo le potenzialità dei contenitori esistenti e li rispedisce vuoti ai suoi produttori.

Liberarsi degli imballaggi… oppure no?

Perché allora non eliminare definitivamente il packaging? Brutte notizie: è una soluzione inapplicabile. A dimostrarcelo sono… i broccoli. Perché proprio loro? Possiamo trovare la risposta in una ricerca pubblicata sul “Journal of Food Engineering” nel 2011; è stato mostrato che un parametro fondamentale per la durata della vita commerciale dei broccoli é la presenza di un sottile packaging in plastica, meglio ancora se microforato. I dati raccolti indicano che in questo modo la loro capacità di conservarsi aumenta del 30%. Senza il packaging questi ortaggi, che sono infiorescenze non più in grado di ricevere nutrimento e acqua dalla pianta, perdono molto più velocemente la loro massa, ingialliscono e il loro stelo si indurisce: insomma, diventano invendibili e aumenta il rischio di spreco.

Proposte tecnologiche per un packaging sostenibile

C’è chi, grazie alla ricerca, sviluppa nuove tecnologie: è il caso di Lanzatech, una startup nata nel 2005, che ha recentemente presentato il packaging che produrrà per L’Oreàl. La sua particolarità? Il processo tecnologico che permette di ottenere polietilene, materiale alla base del packaging, parte da un batterio e da gas di scarto e rifiuti industriali. Lanzatech sfrutta questo microrganismo perché è in grado di vivere consumando CO2, H2 e CO (composti di cui sono ricche le materie di partenza) e di sintetizzare etanolo come prodotto secondario. È proprio quest’ultimo composto a essere trasformato in etilene: sarà questo il mattoncino di base per la produzione finale del polietilene.

Un progetto che ha la stessa missione é “BioCosì”, sviluppato dal centro ENEA in collaborazione con la startup pugliese Eggplant. Il materiale di  partenza è costituito dai reflui della filiera lattiero- casearia, in particolare la frazione ricca in lattosio. Questa, come viene spiegato, “viene processata e fermentata in un bioreattore grazie a un microrganismo in grado di sintetizzare una bioplastica biodegradabile”; i prodotti finali saranno confezioni e vaschette per prodotti caseari. Grazie a questa tecnologia ogni step della filiera verrebbe valorizzato, perché gli scarti diventerebbero funzionali per i nuovi prodotti.

Entrambi i progetti hanno un obiettivo chiaro, che può essere riassunto con le parole chiave del progetto BioCoSì: mirano a lanciare un packaging che sia “sostenibile, circolare e intelligente”.

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Ambiente, società e tecnologia

La nuova mobilità urbana tra sostenibilità e sicurezza

 

Gli spostamenti urbani e il loro evolversi, questa settimana, sono più che mai sotto ai riflettori. Ma la corsa alle innovazioni, oltre che green, sa essere sicura?

Come si muovono le nostre metropoli oggi?

Pochi giorni fa la ONG Legambiente, insieme alla società di consulenza Ambiente Italia e a Il Sole 24 Ore, ha pubblicato il report annuale che descrive le performance ambientali delle principali città italiane, “Ecosistema urbano”.

Il rapporto valuta i centri urbani sotto vari aspetti e, per quanto riguarda la mobilità, fotografa un Paese che procede a velocità diverse verso la sostenibilità.

Complessivamente, noi Italiani viaggiamo su una media di 646 auto per 1000 abitanti. In Europa più di noi ne ha solo il Lussemburgo (676).

Sul trasporto pubblico, invece, emerge che siamo mediamente al di sotto degli standard europei, che solo alcune delle nostre città hanno finora raggiunto (sono esempi virtuosi Venezia e Milano, quest’ultima premiata anche dall’Urban Mobility Readiness Index per servizi all’avanguardia: 26esima nel mondo).

Il Covid cambia le regole

Se prima si cercava di estendere e migliorare i mezzi pubblici, quest’anno il Covid ha rimescolato le carte. La pandemia ha infatti imposto come effetto collaterale del distanziamento una riduzione della capienza dei trasporti, in controtendenza rispetto agli obiettivi precedenti.

La sfida, adesso, è quella di impedire che milioni di persone si riversino dalle metro ai mezzi privati inquinanti, garantendo la sicurezza di tutti ma allo stesso tempo proseguendo sul sentiero della sostenibilità.

La soluzione a questo problema, al governo, la chiamano bonus mobilità. In cantiere da mesi, è attivo dal 3/11 e ha subito riscosso un enorme successo, con un numero di richieste talmente elevato da mandare in tilt il sistema di identificazione digitale in poche ore.

Il contributo statale del 60% (fino a un massimo di 500€) può essere utilizzato per l’acquisto di biciclette (tradizionali o a pedalata assistita) e monopattini elettrici, ma anche segway, hoverboard e monowheel o abbonamenti a servizi di sharing purché non di autovetture.

 Il boom della condivisione

E a proposito di sharing (specialmente di monopattini), qui la rivoluzione green è forse ancora più tangibile.

È una realtà piuttosto recente nel Bel Paese, che ha visto arrivare i primi esemplari della statunitense Helbiz un po’ in sordina a ottobre 2018.

Anche in questo campo, l’Italia va a due velocità. Alcuni capoluoghi, come Palermo, stanno approvando solo ora servizi di condivisione, mentre altri sono già pronti a reggere confronti internazionali.

E anche qui, Milano dà il buon esempio: è 13esima al mondo per la sharing mobility, e il suo futuro si prospetta ancora più roseo. Si stima, infatti, che la flotta in circolazione aumenterà di 22 mila unità ogni anno.

Ma nessuna città è immune al cambiamento, e inizia a mostrarsi il rovescio della medaglia.

Nuova mobilità significa nuove leggi

La rivoluzione, infatti, ha due ruote ma migliaia di piloti “rivoluzionari”, privati e non, e se non è ben regolamentata l’effetto “giungla metropolitana” è assicurato.

Ecco perché la limitazione della velocità a 6 km/h nelle aree pedonali è obbligatoria per tutti, ma se per i mezzi di proprietà è più difficile imporla a priori, per quelli condivisi non è così. Infatti, le società si servono della geo-localizzazione per auto limitare la velocità dei monopattini nelle aree che lo prevedono, per impedire a monte che qualcuno corra troppo.

Le compagnie di sharing, inoltre, devono “costringere” gli utenti a parcheggiare negli appositi spazi al termine dell’utilizzo.

A garantire questo è l’app dell’operatore: una foto, ad esempio, verifica che la sosta sia in regola.

Alcuni brand, poi, stanno incentivando i propri clienti a essere sicuri alla guida, come nel caso di Bird con il suo “Helmet Selfie”, che dà un credito di 0,25€ a chi dimostra con un selfie di aver indossato il casco durante la corsa.

E quando non si rispettano le regole, intervengono le amministrazioni con norme più stringenti e sanzioni, soprattutto per i mezzi condivisi:

  • Roma ha introdotto per i monopattini in sharing aree di sosta con la tecnologia geo-fencing (in pratica, non si potrà interrompere la corsa fuori da queste aree, da ora visibili dalle app) e, per evitare una concentrazione troppo elevata, è stato imposto il rispetto di una distanza minima di 70 metri ogni 5 veicoli dello stesso operatore.
  • A Milano, invece, linea dura: alcune irregolarità nelle soste e nella limitazione della velocità hanno portato alla revoca delle licenze per 3 società, Circ, Helbiz e Bird.

Decisioni, queste, che non stupiscono: la rivoluzione della mobilità sostenibile può e deve passare anche dalla sicurezza.