PotatoPlastic: dalla padella al packaging
Il consumo di plastica è ormai al centro del dibattito ambientale da molti anni. La produzione di oggetti di plastica ( in particolare quelli monouso) è infatti tra le maggiori cause dell’inquinamento del nostro Pianeta e rappresenta una delle minacce principali per il nostro ambiente.
Secondo un recente studio pubblicato sul Science Advance, l’Italia conquista (a malincuore) la top-ten tra produttori di plastica procapite, aggiudicandosi un 9° posto nella classifica globale che vede in vetta gli USA con una produzione di plastica per ogni cittadino di circa 105kg l’anno.
Secondo i dati del 2020, un italiano medio produce 56kg di plastica l’anno, il che significa generare circa 1kg di rifiuti di plastica alla settimana.
I dati italiani sono sicuramente allarmanti in quanto ci mostrano chiaramente come, negli ultimi decenni, ci siamo trasformati sempre di più in un popolo di consumatori seriali. Abbiamo gradualmente perso ogni tipo di rispetto sia per la Natura, che ci ospita la nostra specie da secoli, che per noi stessi. Come se non bastassero i danni ambientali da noi causati fino ad ora, continuiamo a guardare all’incombente crisi climatica con scetticismo ed indifferenza, ignorando o screditando ogni possibile impegno in merito ad una sua risoluzione e condannando così, in totale inerzia tra un sospiro e l’altro mentre compriamo l’ennesima bottiglietta di acqua minerale al supermercato, la Terra ad una morte precoce e sofferente.
Secondo un’indagine del national Geographic, ogni anno circa 8 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica finiscono negli oceani, dove spesso perdurano fino a 400 anni prima di degradarsi.
Tutti questi dati erano sicuramente noti a Pontus Törnqvist, studente svedese di 24 anni, e al team con cui ha realizzato il progetto della “Potato Plastic”: il nuovo materiale biodegradabile a base di fecola di patate che potrebbe sostituire gli oggetti monouso in plastica.
Il progetto e l’ingrediente segreto: la fecola di patate
L’obiettivo del progetto è semplice nella sua straordinarietà: sostituire la plastica, poco durevole ma molto inquinante, con un altro materiale innovativo, biodegradabile e 100% Bio-based, cioè totalmente a base biologica: la fecola di patate.
La fecola di patate è attualmente utilizzata in più ambiti del settore industriale e trova in particolar modo applicazione nel mondo della cosmesi e dei prodotti per la cura della persona.
Proprio da questa consapevolezza nasce l’idea innovativa che ha portato il team, composto da Pontus, Hanna Johanssona e Elin Tornblad, a vincere l’edizione svedese del James Dyson Award, concorso internazionale di design che ispira le prossime generazioni di ingegneri a realizzare idee innovative, volte a stimolare il problem-solving dei partecipanti.
La PotatoPlastic è un materiale termoplastico, composto da fecola di patate ed acqua. Questi due componenti, se opportunamente mescolati e riscaldati, possono dare origine ad un composto compatto che si rivela essere un efficiente alternativa alla comune plastica.
Come emerge dal loro sito (di cui vi invito a dare un’occhiata), la finta plastica a base di patate è costituita da ingredienti esclusivamente naturali. La sua produzione parte infatti dall’utilizzo di scarti del tubero ed il prodotto finito è completamente organico e compostabile.
Lo scopo principale dell’invenzione è quello di sostituire la plastica tradizionalmente utilizzata per gli articoli monouso, fornendo un’alternativa non dannosa che possa contribuire a diminuire l’inquinamento causato dalla plastica a livello globale.
La questione dell’utilizzo di oggetti monouso infatti si è spinta ai limiti del paradossale: prodotti come piatti e posate in plastica hanno una vita media di soli 15-20 minuti ma un tempo di smaltimento di circa 450 anni. Occorre quindi chiederci, ne vale veramente la pena?
In un’ottica realistica in cui queste evidenze sono ormai inaccettabili, l’utilizzo della PotatoPlastic si rivela essere sempre di più una scelta vincente, specie se si considera che dal 2021 la nuova direttiva dell’Unione Europea vieta i prodotti di plastica monouso.
Perciò, se ancora non si vuole rinunciare alla comodità del monouso, occorre allora trovare delle alternative valide ecosostenibili alla cara, vecchia e dannosa plastica.
In questa prospettiva, la Potato Plastic si dimostra essere sicuramente un fulmine a ciel sereno.
La lotta alle microplastiche
Anche sulla homepage del sito, il Potato-team puntualizza che questo nuovo biomateriale non si trasformerà mai in microplastiche, cioè minuscoli pezzi di materiale plastico, generalmente inferiori ai 5 millimetri, rilasciate nell’ambiente e dagli effetti potenzialmente tossici.
Da dove viene però quest’impellente necessità di contrastarne la diffusione?
Nel novembre del 2020 è stata portata alla luce una scoperta sconcertante: sono state ritrovate delle microplastiche nelle placenta umana, cioè l’interfaccia tra madre e feto, il luogo più sacro e incontaminato che ha il compito di nutrire e supportare la nuova vita che si sta sviluppando nel grembo materno. Ma come è potuto accadere?
Il meccanismo che si instaura dal momento in cui la plastica finisce in mare è una sorta di catena di contaminazione alimentare. I raggi UV, gli agenti atmosferici ed i batteri presenti nei mari contribuiscono infatti alla frammentazione della plastica in particelle sempre più piccole che possono essere facilmente ingerite dagli animali marini che poi entrano nella catena alimentare. É così che, alla fine, il cibo contaminato finisce sulle nostre tavole.
A rincarare la dose e velocizzare la nostra trasformazione in “cyborg”, contribuisce anche il fatto che spesso i cosmetici che utilizziamo, come creme, prodotti per l’igiene del corpo e make-up, sono a base di plastiche che rilasciano agenti chimici in grado di penetrare la nostra pelle ed entrare in circolo nel nostro organismo. Le microplastiche possono quindi innestarsi nei nostri tessuti e nei nostri organi, entrando letteralmente in simbiosi con noi stessi. Ciò che più spaventa della questione, è che i loro effetti sulla salute dell’essere umano non sono ancora del tutto noti.
Spesso inoltre il materiale plastico contiene additivi, come bisefenoli e ftalati (utilizzati per conferire flessibilità al prodotto), che interferiscono con il nostro sistema endocrino e possono avere delle serie ripercussioni sullo sviluppo dell’individuo.
La plastica è un materiale macromolecolare composto da vari polimeri, una sorta di miscela di molte sostanze diverse. Alcune di queste, come il Pvc (cloruro di polivinile) ed il poliuretano, hanno un livello di tossicità così alto da essere vietati nelle bottigliette e negli imballaggi, come riportato dalla ricerca pubblicata sulla rivista Environmental Science and Technology. Lo stesso vale per i prodotti di cosmesi, troppo spesso saturi di derivati del petrolio potenzialmente tossici che negli anni possono penetrare nel nostro organismo.
Dallo studio condotto dai ricercatori dell’Ospedale Fatebenefratelli di Roma e dall’Università politecnica delle Marche sulle placente di neo-mamme è emerso che l’organo placentare, una volta prelevato ed analizzato tramite tecniche spettroscopiche, conteneva ben 12 tipologie di microplastiche. Sono stati ritrovati infatti piccoli frammenti di plastica pigmentati in 4 placente sulle 6 totali studiate.
É la prima volta nella storia della sperimentazione scientifica che si trovano particelle artificiali nella placenta, il luogo più sacro e incontaminato dell’essere umano, o meglio della donna, tramite cui avviene l’unione vitale tra madre e feto. Da questi risultati si deduce che le microplastiche, una volta penetrate perché ingerite con gli alimenti o attraverso l’utilizzo di altri prodotti contenenti plastica, possono entrare in circolo e diffondersi in tutto il corpo tramite i vasi sanguigni, raggiugnendo la placenta e, da lì, anche il feto.
Un’altra constatazione emersa dallo studio è inoltre che la presenza di particelle artificiali nel nostro corpo può alterare la risposta del nostro sistema immunitario. Le cellule deputate alla difesa del nostro organismo, che si occupano di eliminare eventuali parassiti e di proteggerci da agenti estranei riconoscendo il “self” dal “not-self”, cioè ciò che appartiene al nostro organismo da ciò che è estraneo, hanno iniziato a riconoscere come “self” anche ciò che non è organico: la plastica.
Stiamo quindi iniziando ad assimilare il materiale plastico che, lentamente, sta diventando parte del noi.
Dopo essere entrata nelle nostre vite in modo prorompente, conquistando ogni oggetto della nostra quotidianità, la plastica è lentamente e silenziosamente penetrata dentro il nostro corpo, facendo sembrare sempre più realistica quella prospettiva fantascientifica dell’uomo-macchina. Di questo passo, la verità è che ci stiamo lentamente trasformando in “cyborg” e nessuno se ne sta accorgendo.
Il progetto di PotatoPlastic si propone proprio di invertire la rotta di questo meccanismo per ricondurre ognuno di noi ad un’esistenza quanto più salutare possibile e rispettosa nei confronti dell’ambiente.
La soluzione: più patate meno spreco
Il primo passo verso un minor consumo della plastica è sicuramente informarsi e prendere consapevolezza della gravità della situazione. Se nell’ultimo anno sono state prodotte 310 milioni tonnellate di plastica e la terra sta implodendo su se stessa, la colpa non può che gravare sull’essere umano e sull’utilizzo sconsiderato che fa delle risorse di cui dispone.
In una visione un po’ Leopardiana, l’essere umano si rivela comunque debole ed impotente di fronte a Madre Terra ed alle varie calamità naturali, riflesso di una natura che si ribella ai soprusi sofferti per decenni. Ciò è ampiamente dimostrato dalla crisi climatica attualmente in atto che sta mettendo in ginocchio una larga fetta della popolazione mondiale (basti pensare agli incendi che hanno dilaniato l’Australia o alla recente crisi causata dal freddo polare in Texas).
Occorre quindi ridurre l’inquinamento da plastica, aumentarne il riciclo ed incentivare lo sviluppo di proposte alternative, come la PotatoPlastic.
Secondo un’indagine di GreenPeace, queste nuove misure potrebbero ridurre il carico di plastica nei rifiuti di circa il 57%: si parla di ben 188 milioni di tonnellate di plastica in meno ogni anno. Coadiuvando ciò allo sviluppo del riciclo e del riutilizzo, si implementerebbe anche una nuova economia basata sulla plastica ecosostenibile, che porterebbe oltre 1 milione di posti di lavoro nel settore della rilavorazione dei rifiuti.
La PotatoPlastic rappresenta sicuramente un primo passo valido verso la riduzione dell’inquinamento causato dalla plastica ma la strada da fare verso uno stile di vita ed una società ecosostenibile è ancora molta.
Se è vero che un individuo da solo non potrà risolvere la crisi climatica, Greta Thunberg, l’attivista Svedese sedicenne impegnata nello sviluppo sostenibile e creatrice del movimento degli “scioperi per il Clima”, ci insegna che lottare per una giusta causa con impegno porterà sempre a dei risultati.
Occorre quindi sforzarci nel nostro piccolo per condurre una vita più rispettosa nei confronti dell’ambiente e parallelamente incentivare la ricerca ecosostenibile, richiedendo strette e regolamentazioni sull’inquinamento. Solo così potremo efficacemente contrastare l’inevitabile tracollo climatico che noi stessi abbiamo causato.
La Terra non può più aspettare.