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Marketing & Social Media

Influencer Virtuali: like o unfollow?

L’Influencer è diventato ormai una figura che abitualmente seguiamo sui social: si tratta di personaggi del web che attraverso la propria immagine e con il supporto di un team dedicano quotidianamente tempo e lavoro alla crescita della propria community, con lo scopo di creare contenuti in grado di coinvolgere molte persone anche ricavando somme di denaro.

Una novità che nell’ultimo periodo è diventata più frequente e non ha lasciato indifferenti è rappresentata proprio da loro, gli Influencer Virtuali, una nuova categoria di Influencer nata grazie ai progressi avvenuti nel campo della grafica computerizzata e dell’intelligenza artificiale.

Come mai questi insoliti Influencer sono tanto speciali? Se prima si metteva in dubbio la loro autenticità sui social adesso possiamo avere finalmente la certezza che questa categoria non lo sia affatto, appunto perché non si tratta nemmeno di esseri umani.

Cosa sono gli Influencer Virtuali?

Gli Influencer Virtuali a primo impatto potrebbero sembrare ragazzi e ragazze dall’aspetto perfetto, magari dovuto a qualche filtro in più, ma in realtà sono completamente diversi da quelli ai quali siamo abituati: si tratta infatti di avatar creati al computer (definiti anche CGI Influencer, ovvero computer generated imagery), identici nell’aspetto agli esseri umani e in grado di replicare alla perfezione gli stessi comportamenti ed espressioni.

Vengono creati da esperti di grafica computerizzata e resi reali e molto simili agli umani attraverso l’uso dell’Intelligenza Artificiale, sempre più utilizzata in molti ambiti.

Questi avatar sono creati per comportarsi e apparire come degli Influencer, per questo motivo sui social interpretano il ruolo di modelli e tester e si presentano come figure che possono avere un impatto positivo e influenzare i follower che li seguono.

Nel concreto sponsorizzano brand, partecipano a campagne ideate da aziende reali, mostrano o provano prodotti che gli vengono “inviati” e possono anche partecipare ad eventi.

Soprattutto su Instagram, questi nuovi e inaspettati personaggi si stanno facendo conoscere attraverso collaborazioni con grandi aziende conosciute in tutto il mondo, le quali vedono in questi nuovi protagonisti un’opportunità per attirare un target più giovane e difficile da sorprendere.

Quali sono i più seguiti?

Gli Influencer Virtuali sono già presenti in gran numero sui social, soprattutto su Instagram, ma quali sono i più conosciuti di questa nuova e inaspettata categoria?

In testa alla classifica per numero di follower, esattamente 3 milioni su Instagram, 30.000 su Twitter e 267.000 su Youtube, c’è Lil Miquela, una creazione dalla startup americana Brud, apparsa per la prima volta su Instagram nel 2016 e considerata dal Time tra le persone più influenti su internet nel 2018.

Miquela Sousa si presenta come una diciannovenne di origini spagnole e brasiliane, ed è all’apparenza una giovane ragazza con una forte personalità, appassionata di moda e musica, che nella vita è Influencer, modella e anche cantante; nel 2017 il suo singolo “Not Mine” è diventato virale su Spotify, collocandosi ottavo nella classifica dei brani più ascoltati della piattaforma.

Il suo curriculum vanta già diverse collaborazioni con brand molto importanti, tra cui Prada, Gucci, Diesel, Calvin Klein, Samsung e molti altri.

Miquela però non è solo un’artista di successo o una modella che presta la sua immagine per sponsorizzare i prodotti dei brand che chiedono di collaborare con lei, ma è innanzitutto una figura in grado di comunicare con la propria community attraverso una sua personale voce.

Su Youtube ha un canale molto attivo attraverso il quale si rivolge direttamente ai propri fans e dove discute di personaggi reali, come le Kardashian, come se il suo mondo non fosse in realtà virtuale.

Sui social ha anche postato diverse fotografie assieme a persone reali, famose e influenti come, per esempio, con la star di Netflix Millie Bobbie Brown, quasi per evidenziare il progressivo abbattimento del limite tra ciò che è reale e ciò che non lo è.

Posta con frequenza anche su Twitter e prende posizione su importanti temi di attualità, come, per esempio, il movimento Black Lives Matter.

In passato ha inoltre rilasciato diverse interviste in cui si è espressa su diversi temi proprio come se fosse un normale personaggio influente del web.

In un’intervista rilasciata a Business of Fashion, Miquela ha affermato “sono un’artista e spesso le mie opinioni personali mi hanno anche fatto perdere follower. Voglio essere tutto, anche più di quello che i miei fan si aspettano”.

Potrebbe sembrare il normale pensiero di un Influencer, se non fosse che dietro a queste parole in realtà ci sia un team di esperti di comunicazione e non semplicemente una diciannovenne di successo.

La verità è che nonostante sia una creazione finta realizzata a computer, per molti Miquela è molto più vera e autentica di molte Influencer in carne ed ossa.

Bermuda, con 287mila follower, è l’amica virtuale di Miquela, un esempio di personalità del web da non imitare per la sua superficialità e poco ammirata a causa delle sue trascorse posizioni politiche a favore dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump. È interessante dunque vedere come le agenzie si siano impegnate a realizzare degli avatar quanto più realistici possibili, e a volte con lo scopo di sfavorire un personaggio per avvantaggiarne un altro, come in questo caso rispettivamente con Bermuda e Lil Miquela.

Blawko, creato dalla stessa agenzia americana di Lil Miquela, è conosciuto invece per essere l’ex fidanzato virtuale di Bermuda e molto amico della regina degli Influencer Virtuali.

Le sue caratteristiche fisiche sono i tatuaggi che gli ricoprono tutto il corpo, lo stile e l’abbigliamento hip hop e la mascherina che gli copre sempre il volto. È diventato famoso soprattutto dopo aver partecipato a un DJ set per NTS Radio e oggi è seguito da ben 152mila persone su Instagram.

La modella Shudu ha fatto il suo debutto nel 2017 e oggi il suo profilo conta più di 200mila follower.

La creazione del fotografo di moda Cameron James-Wilson è diventata famosa dopo essere stata testimonial per Fenty Beuty, la linea di make-up firmata Rihanna.

All’inizio tanti erano convinti che fosse una modella reale, e ammaliati dalla sua bellezza hanno scoperto solo in seguito e con grande sorpresa che non lo era affatto.

Oggi collabora ancora con numerosi brand nel campo dell’alta moda.

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Infine, Imma è la creazione dell’agenzia Modeling Cafe Inc Di Tokyo, nata nel 2019 e attualmente seguita da 328mila follower. Dalla sua biografia si legge che è appassionata di arte, film e cultura giapponese, e il suo scopo come Influencer è proprio quello di condividere e mostrare attraverso i social le sue passioni.

Caratterizzata dall’acconciatura rosa a caschetto e dai tratti orientali, Imma potrebbe essere tranquillamente scambiata per una vera modella giapponese, tanto che oltre ad essere molto attiva su Instagram realizza numerosi video su TikTok nei quali si mostra sempre naturale e spontanea.

Un aspetto curioso legato a Imma è il fatto che la sua testa è virtuale mentre il corpo appartiene ad una ragazza reale: in questo modo è molto più semplice farla sembrare una vera modella e farla muovere nello spazio con più naturalezza.

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Ciò che accomuna tutti questi personaggi più o meno influenti è la capacità dei loro creatori di attribuire a loro una personalità definita e unica per renderli quanto più veri e realistici.

Ognuno ha un proprio stile, un carattere, un modo di posare differente e addirittura opinioni personali, tanto che probabilmente molti tra i loro follower non si sono ancora resi conto di seguire degli avatar creati al computer.

 

Perché le aziende sono incentivate a lavorare con loro?

I vantaggi di lavorare con gli Influencer Virtuali sono parecchi, tanto che sempre più aziende scelgono di collaborare con loro.

Innanzitutto, i costi sono decisamente inferiori rispetto a quelli reali, ciò è dovuto al fatto che le aziende non devono regalare ogni volta i prodotti ma semplicemente venderne i diritti di sfruttamento d’immagine. In più, non è necessario sostenere costi in merito a pernottamenti, viaggi o condizioni degli stessi Influencer in quanto essendo virtuali possono apparire ovunque, in qualsiasi momento e oltretutto in più posti contemporaneamente.

Inoltre, essi non sono condizionati dai bisogni fisiologici, non si ammalano mai, sono sempre in forma e non invecchiano.

Ma soprattutto fanno e dicono esattamente ciò che vuole l’agenzia, quindi il loro campo d’azione è limitato mentre il controllo da parte dell’azienda nettamente maggiore.

In un periodo di pandemia e incertezze, gli Influencer Virtuali rappresentano per le aziende la sicurezza che i propri progetti e strategie possano essere portate a termine in qualsiasi circostanza.

Le aziende che hanno creato i propri Influencer Virtuali

Molte aziende hanno deciso di non affidarsi ad agenzie esterne per l’utilizzo di Influencer Virtuali ma di creare i propri.

Tra queste, KFC ha scelto di portare in vita proprio il Colonnello Sanders, storico volto del marchio di pollo fritto. Il colonnello, ormai qualche anno fa, aveva preso il controllo dei canali social del brand, con il compito di sponsorizzare il marchio in modo originale e insolito per una catena di fast food.

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Lo stesso ha fatto Puma con Maya, modella virtuale seguita da 8mila follower.

È stata creata appositamente per l’azienda con lo scopo di rivolgersi al sud-est asiatico attraverso campagne mirate, e dato che si tratta di una regione talmente vasta, Maya è risultata la sola in grado di prestare la propria immagine senza limiti spazio-temporali legati alla sua persona fisica.

Vantaggi e perplessità

I motivi per i quali le aziende potrebbero preferire una collaborazione con gli Influencer Virtuali non sono quindi pochi, allo stesso modo sono molte le perplessità dei competitor del settore e non solo.

Alcuni li trovano addirittura inquietanti perché nonostante la somiglianza con gli esseri umani in realtà non lo sono, ma cercano solamente di imitarli alla perfezione.

I follower di un Influencer solitamente tendono a imitarlo e copiare il suo stile di vita, perciò un fattore fondamentale che dovrebbe essere presente in chi lavora in questo settore è senz’altro la capacità di ispirare fiducia e di diventare un punto di riferimento per la propria community.

Ciò che manca a questi avatar è proprio il lato umano, le emozioni che solamente una persona in carne ed ossa potrebbe trasmettere. Può essere dunque rischioso essere influenzati da avatar apparentemente perfetti che nella realtà non esistono, perché si cercherebbe di imitare qualcosa di irraggiungibile.

Inoltre, dietro agli Influencer Virtuali non c’è una persona, ma un team di esperti che hanno il compito di sfruttare l’immagine di un personaggio, in questo caso creato al computer, per ottenere collaborazioni con aziende e successivamente un guadagno economico.

Forse in futuro queste personalità verranno riconosciute per quello che secondo molti sono veramente, ovvero veri e propri strumenti di pubblicità.

In futuro seguiremo sempre più Influencer Virtuali?

I numeri parlano chiaro, nei prossimi anni le aziende utilizzeranno ancora strategie di influencer marketing per le proprie campagne sui social network.

Secondo i dati esposti nel report dell’Influencer Marketing Hub del 2021, nel corso di quest’anno è prevista una crescita dell’industria dell’influencer marketing fino a raggiungere quasi 14 miliardi di dollari, mentre il 90% degli intervistati della ricerca è convinto dell’efficacia di queste strategie sui social.

Bisogna capire quali metodi verranno scelti dalle aziende per portare avanti le proprie campagne di marketing, se attraverso l’utilizzo dei classici Influencer o meno.

Sicuramente conteranno anche le opinioni degli utilizzatori di Instagram, liberi di seguire l’una o l’altra categoria soprattutto in base all’autenticità e reputazione del personaggio stesso.

Non ci resta che attendere e vedere le reazioni degli utenti dei social, che potranno restare sempre più affascinati dagli Influencer Virtuali finti ma sempre più autentici, o rimanere fedeli a quelli umani ma facilmente considerabili più falsi.

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Ambiente, società e tecnologia

Come e quanto si sono arricchiti i miliardari durante la pandemia

Il COVID-19 ha messo in ginocchio migliaia di famiglie in tutto il mondo ed ha portato a livelli macro la ricchezza dei miliardari. Mentre milioni di famiglie italiane e non pensava a come fare per arrivare a fine giornata, i più ricchi hanno guadagnato cifre da capogiro.

Forbes, il magazine più famoso al mondo, in un suo recente articolo ha riportato la lista delle persone più ricche al mondo all’inizio del 2021.

Jeff Bezos #1 e Elon Musk #2

Al primo posto, come accade da 4 anni, tra i più ricchi al mondo troviamo Jeff Bezos, imprenditore statunitense e fondatore di Amazon, il cui patrimonio ammonta a 177 miliardi di dollari. Di essi sono 74 i miliardi ricavati nel 2020 grazie alle vendite online registrate durante la pandemia.

Da una notizia degli ultimi giorni egli ha commissionato la costruzione di un super yatch da 500 milioni di euro, che sarà inoltre dotato di un secondo yatch di supporto per l’elicottero, il quale rientrerà tra le imbarcazioni più grandi e costose al mondo.

Il fondatore e CEO di SpaceX e Tesla, Elon Musk, si colloca al secondo posto tra gli uomini più ricchi del mondo con un patrimonio di 151 miliardi di dollari. Egli detiene il primato di essere la persona che più si è arricchita nell’ultimo anno tenendo conto che i suoi guadagni nel 2020 ammontavano a “solo” 24,6 miliardi di dollari.

Ma non solo …

Tra i primi 5 miliardari al mondo troviamo anche Bernard Arnault, imprenditore francese presidente e CEO di LVMH, gruppo leader internazionale nel settore del lusso che possiede marchi di bellezza tra cui Louis Vuitton, Hennessy, Bulgari e Christian Dior. Il suo patrimonio da 76 miliardi ha toccato la cifra di 150 miliardi di dollari e le azioni della sua società sono salite del 30% nell’ultimo anno.

Sotto di lui troviamo Bill Gates, il fondatore di Microsoft e co-presidente insieme alla sua ex moglie della Bill&Melinda Gates Foundation, con un aumento di 26 miliardi di dollari.

Al quinto posto non poteva mancare Mark Zuckerberg, CEO e co-fondatore di Facebook, che è passato da 54,7 a 97 miliardi di dollari.

Il lockdown è stato un periodo di crescita non solo per questi colossi, ma anche per il fondatore e CEO di Zoom, Eric Yuan, il quale è passato da 5,5 a 14,9 miliardi di dollari, grazie a questa piattaforma di videoconferenze della quale si sono servite milioni di persone in tutto il mondo sia per ragioni lavorative sia per rimanere in contatto con le persone a loro lontane a causa della pandemia.

Una new entry in questa classifica mondiale è Tim Sweeny, informatico statunitense, che è passato ad avere un patrimonio da 2 a 4,7 miliardi di dollari. Egli è famoso per aver creato il videogioco Fortnite, all’interno del quale nell’Aprile del 2020, è stato organizzato il primo concerto online della storia al quale hanno partecipato più di 12 milioni di ascoltatori.

I miliardari italiani

Forbes Italia ha pubblicato recentemente la classifica dei più ricchi che vede in testa Giovanni Ferreo, imprenditore e unico amministratore delegato dell’industria dolciaria Ferrero dopo la morte del fratello nel 2011, il quale vanta la 40esima posizione su scala mondiale. Il suo patrimonio è cresciuto da 22,4 miliardi nel 2019 a 35,1 miliardi nel 2021.

Al secondo posto troviamo Leonardo Del Vecchio, imprenditore italiano, fondatore e presidente di Luxottica, con un patrimonio di 25,8 miliardi di dollari, in crescita rispetto ai 16,1 di marzo.

La donna più ricca d’Italia si trova al terzo posto: Massimiliana Aleotti la quale ha ereditato, insieme ai suoi tre figli, la società farmaceutica Menarini a seguito della scomparsa del marito Alberto Aleotti. Il suo patrimonio è passato da 6,6 a 9,1 miliardi, il suo gruppo è presente in 135 paesi del mondo e vanta più di 17.0000 dipendenti.

L’imprenditore agricolo più ricco del mondo

Dopo gli Stati Uniti al secondo posto troviamo la Cina con 456 miliardari posizionati nelle classifiche di Forbes. L’uomo che da una pandemia di influenza suina africana è riuscito ad arricchirsi passando ad avere un patrimonio di 4,3 miliardi nel 2019 a 33,5 miliardi nel 2021 è un imprenditore agricolo cinese noto come Qin Yinglin.

Egli è co-fondatore e Presidente di Muyuan Foods uno dei più grandi allevamenti di suini in Cina che, grazie ad una carenza di carne a livello globale, lo ha portato ad innalzare i prezzi di vendita delle sue merci realizzando così il 260% dei profitti in più rispetto all’anno precedente.

Da 22 suini con cui ha iniziato è arrivato a macellare in media 5 milioni di suini all’anno e in particolar modo la sua ricchezza è esplosa con la pandemia da COVID-19 essendo il prezzo delle azioni della società cresciute del 200%.

I magnati cinesi

Ma Qin Yingli non è il solo in Cina a detenere un posto nella classifica dei più ricchi del mondo.  Con una vera e propria esplosione nel 2021 troviamo Zhong Shanshan che è passato da 2 miliardi di dollari nel 2020 a previsti 68,9 nel 2021. Soprannominato “il re dell’acqua minerale” il suo fatturato deriva da Nongfu Spring, azienda cinese di acqua in bottiglia e bevande che controlla un quarto del mercato cinese.

Egli così superato, Jack Ma, il co-fondatore di Alibaba, una delle più grandi piattaforme al mondo per l’acquisto di beni all’ingrosso, grazie alla quotazione della sua impresa dell’8 Settembre alla Borsa di Hong Kong. A seguito del crollo delle sue azioni, per sospette pratiche monopolistiche, l’imprenditore cinese è sceso al 26esimo posto nella classifica mondiale con un fatturato di 38,8 miliardi di dollari nel 2020.

Da un recentissimo articolo pubblicato su Forbes è trapelato che Ma Huateng, amministratore delegato di Tencet Holdings, società che serve servizi per cellulari e internet in Cina come ad esempio WeChat, è tornato ad essere l’uomo più ricco della Cina. Il suo patrimonio nell’ultimo anno è aumentato di 27 miliardi di dollari, ma in particolare, i primi di Aprile del 2021, le sue azioni hanno avuto un rialzo del 7% portando un aumento del suo patrimonio di 4 miliardi di dollari in modo da permettergli di superare il sopracitato Zhong.

“Il virus della disuguaglianza”

Secondo un recente report pubblicato dalla Oxfam dal titolo “il virus della disuguaglianza” i miliardari del mondo detengono il 60% della ricchezza globale e un aumento dello 0,5% delle tasse in capo ad essi consentirebbe in dieci anni di pagare 117 milioni di nuovi posti di lavoro.

Oltre ciò rileviamo che i miliardari hanno impiegato solamente nove mesi per tornare al livello di ricchezza che detenevano prima della pandemia, mentre per le persone più povere del mondo ciò potrebbe richiedere anche più di dieci anni, così come previsto dal nuovo piano strategico di lotta alla disuguaglianza proposto dalla nuova direttrice esecutiva di Oxfam International Gabriella Bucher.

La ricchezza dei miliardari “tra il 18 marzo e il 31 dicembre 2020 ha registrato un’impennata di ben 3.900 miliardi di dollari arrivando a toccare quota 11.950 miliardi” e ancora si cita nel report:il patrimonio dei 10 miliardari più ricchi al mondo è complessivamente aumentato di 540 miliardi di dollari: risorse sufficienti a garantire un accesso universale al vaccino anti-Covid e assicurare che nessuno cada in povertà a causa del virus.”

Cavalcando la tempesta

L’ultimo report di banca svizzera UBS e PwC analizza come i miliardari siano diventati ancora più ricchi, intitolandolo infatti “Riding the storm” e mettendo in luce come le fortune si stiano piano piano polarizzando per il fatto che molti “business innovators” e “disruptors” utilizzano la tecnologia per poter essere tra i leader dell’attuale rivoluzione economica: “la ricchezza totale dei miliardari tecnologici è aumentata del 42,5% a 1,8 trilioni di dollari, supportato dall’aumento delle azioni tecnologiche”. Molti di loro hanno approfittato della pandemia per redigere nuovi business model improntati maggiormente su una crescita nel mondo del digitale rivoluzionando le loro industrie in modo tale da poter sviluppare nuovi prodotti e servizi da poter offrire ai propri clienti.

In questo momento storico ad aver avuto un aumento di fatturato maggiore sono state sia le case farmaceutiche grazie alla produzione dei vaccini anti-COVID, sia i dirigenti sanitari che detengono azioni in esse: Pfizer stima guadagni per 15 miliardi di dollari e una vendita di quasi mezzo miliardo di dollari delle azioni appartenenti alle industrie farmaceutiche.

Ma il motivo principale per il quale i ricchi lo siano diventati ancor di più possiamo rilevarlo da un commento del responsabile di Wealth Management per conto di UBS, il quale si occupa di gestire i patrimoni famigliari delle persone più ricche al mondo, Josef Stadler:Hanno fatto buoni affari durante la crisi causata dal Covid-19 perchè non solo hanno cavalcato la tempesta al ribasso, ma hanno anche guadagnato con il rimbalzo dei mercati azionari”. A sua detta i miliardari hanno approfittato della situazione in quel momento sfavorevole per il mercato per effettuare investimenti rischiosi che però a lungo termine avrebbero sicuramente portato a vantaggi nettamente superiori tramite la loro rivendita al rialzo.

Questo rischio era concepibile solamente per loro, date le grandi fortune che possiedono, ma esso ha portato però ad una ulteriore maggior disuguaglianza economica con l’intera popolazione.

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Ambiente, società e tecnologia

Perché abbiamo un problema di genere?

Dallo studio dei recenti dati divulgati in occasione dell’8 marzo, giornata internazionale della donna, è emerso quanto ancora le donne siano vittime di una disparità di genere che si manifesta trasversalmente in diversi ambiti.

Dalla sfera personale a quella pubblica, il mondo sembra fatto su misura per l’uomo mentre la donna resta subalterna agli eventi della Storia con la “S” maiuscola.

Abbiamo analizzato questo complesso e radicato meccanismo da vari punti di vista, cercando di chiarire importanti concetti quali gender-pay-gap, società patriarcale, femminismo, maternità, quote rosa e molti altri ancora.

Attraverso questa inchiesta, suddivisa  in 5 articoli, ricercheremo e spiegheremo le

cause e gli effetti tangibili di una discriminazione sistemica che ha per vittime le donne di tutto il mondo.

È necessario in primo luogo comprendere quali siano le ragioni socio-culturali della disparità che affligge il genere femminile da secoli. Dalla violenza fisica e psicologica alle battute sessiste, ripercorriamo l’ordine degli eventi che ci hanno condotto ad una realtà che vede “l’uomo misura di tutte le cose”.

Ma in questa visione fallocentrica, la donna dove sta(va)?

Ma posso dire patriarcato?

A volte può accadere che, mentre discutiamo animatamente con gli amici di fronte ad una birra un venerdì sera o magari con perfetti sconosciuti su Clubhouse, salti fuori la parola “patriarcato” senza che spesso se ne conosca il reale significato. Il termine infatti è così poco chiaro alla maggior parte delle persone che si può definire un intero “spettro antropologico” di reazioni a seconda di quanto l’interlocutore sia più o meno informato (e più o meno misogino). A sentir parlare di patriarcato, c’è sempre qualcuno a cui trasale la birra. C’è poi chi reagisce indignandosi, chi lo tratta con superficialità o decide di ignorarlo, oppure chi ne polemizza l’utilizzo “a sproposito”, un po’ come se fosse prezzemolo.

Ma cosa si intende veramente per “cultura patriarcale”? E perché ne va accettata l’esistenza?

Diciamolo una volta per tutte: no, “patriarcato” non è una parolaccia, eppure parlarne o semplicemente citarlo genera ancora troppo sconquasso. Ciò dipende principalmente dal fatto che attorno al termine ci sia ancora molta disinformazione, causa primaria di fraintendimenti e negazionismi.

Solo comprendendone il significato sarà possibile capire quanto questo influisca su ogni aspetto della nostra vita, risultando penalizzante sia verso le donne che verso gli uomini.

Si definisce infatti patriarcato un “sistema sociale maschilista in cui gli uomini detengono principalmente il potere e predominano in ruoli di leadership politica, autorità morale e privilegio sociale”. Al giorno d’oggi però, questo termine (che ha origini ancestrali) si carica di concetti ed implicazioni socio-culturali ben più sottili, tanto da essere onnipresente (e per questo apparentemente invisibile) nella nostra quotidianità.

Nei secoli, il patriarcato si è manifestato nell’organizzazione sociale, politica, religiosa ed economica delle popolazioni, generando importanti effetti culturali di cui tutt’oggi siamo tutti vittime e, allo stesso tempo, abili prosecutori.

L’esistenza di un’ideologia patriarcale secolare ha implicato il radicamento di un’impostazione maschilista e misogina della realtà che si mescola costantemente con la nostra prassi quotidiana.

Non sappiamo come effettivamente il patriarcato sia nato, o meglio, sappiamo che è nato nel momento in cui l’essere umano ha iniziato ad organizzarsi in comunità ma possiamo solo speculare su quali siano potute essere le vere cause che hanno condotto l’uomo ad imporsi sistematicamente sulla donna, autoproclamandosi come “sesso dominante”.

Una delle ipotesi più valide è quella che si basa sulla teoria mimetica di René Girard, secondo cui in sostanza l’imitazione (la “mimesi” appunto) costituisce il fondamento dell’intelligenza umana e dell’apprendimento culturale che caratterizza ogni individuo (e come negarlo?).

Secondo Girard però, questo atteggiamento mimetico nei confronti della realtà non è solo una bonaria e candida assimilazione di ciò che ci sta intorno ma contiene in sé una potenza distruttrice. Negli individui appartenenti ad una stessa società si alimenta infatti una generalizzata fame di possedere gli stessi oggetti. Da ciò deriva quella “rivalità mimetica” che, molto spesso, sfocia in violente e caotiche crisi. L’unico modo per risolvere il problema e “mettere una pezza” sullo squarcio che si viene inevitabilmente a creare, è immolare un capro espiatorio a cui addossare la colpa così da poter garantire il ritorno della pace e la costruzione di una nuova cultura fondata su altrettanto nuove certezze.

Ed è proprio questa la storia del patriarcato, nato in risposta alla profonda crisi delle società agricole primordiali. Secondo la teoria mimetica, l’uomo ha quindi deciso di immolare l’essere femminile a vittima sacrificale, condannandola a diventare la peccatrice colpevole di tutto il “male” esistente (ci suona familiare, no?) e costruendo sulla “necessaria” discriminazione della donna un nuovo modello di società che tutt’oggi resiste: quella maschilista e patriarcale.

Ciò che molti non sanno (o si rifiutano di ammettere) è che quest’impostazione sessista, basata su uno squilibrio di potere, ha un effetto deleterio sia sugli uomini che sulle donne. Entrambi infatti sono schiavi di stereotipi di genere fasulli ed inarrivabili che li ingabbiano in modelli preconfezionati e claustrofobici in cui, il più delle volte, non si rispecchiano.

Negare l’esistenza di una cultura patriarcale che permea ogni ambito della nostra sfera personale e collettiva si rivela perciò tanto falso quanto controproducente: sessismo e maschilismo si manifestano continuamente nella nostra quotidianità in modo più o meno esplicito e negare questa evidenza non fa che alimentarne il meccanismo discriminatorio.

L’esistenza del gender gap, il drammatico numero di femminicidi (91 solo nel 2020, come riportato da Il Sole 24 Ore), la violenza di genere ormai prassi quotidiana (secondo l’istat, colpisce 1 donna su 3) e la disparità di salario sono solo la punta dell’iceberg degli effetti dell’ambiente patriarcale in cui viviamo. Oltre a queste evidenze drammatiche, tanto consolidate da costituire lo “status quo”, esistono poi decine di atteggiamenti discriminanti più sottili che vengono spesso percepiti come “tollerabili” o addirittura “innocui” dalla società e, per questo motivo, più difficili da combattere. Fanno parte di questa seconda categoria il catcalling e le battute sessiste e a sfondo sessuale che, mascherate dalla goliardia, rendono infelicemente esplicita la visione retrograda che ancora si ha della donna: ora come “angelo del focolare”, ora come oggetto sessuale e mercificato.

Insomma, sempre di Medioevo si parla. Ma non eravamo nel 2021?

L’atteggiamento discriminatorio che prevede che la donna occupi una posizione subalterna all’uomo si riflette in tutta la sua silenziosa violenza nell’uccisione dei femminili plurali. Il genere grammaticale del maschile plurale infatti ingloba e soggioga il femminile, riflettendo ciò che accade nella realtà. Ciò è testimoniato anche dal documento redatto dalla Commissione Nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna, in cui si dice chiaramente quanto la lingua quotidiana sia il mezzo di trasmissione più pervasivo di una visione del mondo in cui la donna è trattata con inferiorità o marginalità.

É paradossale, ma basta un uomo in una platea di mille donne per permettere che si parli correttamente di “tutti” e non di “tutte”.

Ciò che spesso non capiamo è che ognuno di noi è il frutto sano (o marcio?) della società in cui vive. L’ambiente che ci circonda ci istruisce, fin da bambini e bambine, ad un sistema maschilista, iniquo e discriminante nei confronti delle donne in ogni aspetto della vita.

Perciò sì, anche le donne sono maschiliste. E come potrebbero non esserlo, se il maschilismo costituisce la norma?

In un mondo costruito su uno squilibrio di potere fatto passare per naturale ed immutabile e su una società che ci ingabbia in etichette tanto claustrofobiche da renderci immobili nella paralisi della nostra inettitudine, continuiamo a deresponsabilizzarci dalle nostre colpe e dalle capacità che abbiamo di cambiare le cose.

Ci ripetiamo: “Il problema è il sistema, non dipende da noi”, rassicurati dalla nostra innocenza mentre iteriamo gli stessi errori e le stesse discriminazioni, assuefatti dalla stasi di una pace fragile ma destinata a frantumarsi.

Un problema di linguaggio: forma e sostanza

Sottovalutiamo spesso il peso delle parole. Ci capita di continuo di utilizzare dei termini “per abitudine”, non riflettendo sul loro reale significato o sulla loro origine ed abbandonandoci così a comodi cliché che però si portano dietro una lunga storia di discriminazione o violenza.

Va avanti ormai da secoli la diatriba su cosa sia il linguaggio, sospeso tra la pura forma e la pura essenza. Basti pensare che già nel IV secolo a.C., Aristotele reputava che il linguaggio esprimesse l’essere, definendolo un “contenuto della coscienza”.

L’errore che spesso commettiamo è quello di fissare il linguaggio nello spazio e nel tempo, con un atteggiamento restio al cambiamento. Perché sì, sarebbe molto più comodo ancorarci all’hic et nunc per avere delle certezze, perlomeno quando parliamo, ma ciò ci rende miopi nei confronti di una società che sta mutando, ed anche molto velocemente.

Il vocabolario e la semantica associata alle parole sono sempre stati lo specchio dei valori e del grado di civiltà di una popolazione. I termini utilizzati in diversi contesti infatti sono la prima spia delle abitudini culturali e degli equilibri di potere che governano un popolo.

Alla luce di questo, potremmo rintracciare decine e decine di incongruenze nella nostra lingua che dovrebbero farci chiedere: voglio veramente dire quello che penso utilizzando queste parole?

Partendo dalla vastità degli appellativi offensivi con cui ci si riferisce alle donne (quasi sempre basati sulla denigrazione sessuale), la discriminazione che mettiamo quotidianamente in atto con il linguaggio si fa sempre più sottile. Questa infatti si manifesta continuamente, ormai completamente inglobata nelle nostre categorie di pensiero. Stiamo compiendo una violenza verbale ogni volta che diciamo che una donna è “isterica” o concordiamo con il lemma “donna” della Treccani, in cui il termine è definito come sinonimo di “cagna” (e poi ancora bagascia, squillo, puttana, vacca, zoccola..). In opposizione alla famosa Enciclopedia si muove la decisione dell’Oxford Dictionary, che sceglie invece di rivedere i sinonimi dispregiativi associati alla parola “donna” in quanto ritenuti inaccettabili. Siamo poi discriminanti e sessisti ogni volta che utilizziamo gli appellativi dispregiativi “maschiaccio” e “femminuccia” ma anche quando usiamo il maschile singolare o plurale invece che il femminile.

Durante l’edizione del 2021 del festival di Sanremo, è stata protagonista non solo la canzone italiana ma, come ormai è tradizione, anche la discriminazione di genere. Al di là dei presentatori e di alcuni siparietti che sul piano del sessismo hanno lasciato alquanto a desiderare, uno degli eventi più dibattuti è stato sicuramente il discorso della direttrice d’orchestra Beatrice Venezi che, alla domanda di Amadeus, risponde di voler essere chiamata “direttore”. Conduttore e ospite sono entrambi responsabili di aver rimarcato un’amara verità: il titolo è autorevole solo se al maschile, come se l’utilizzo del femminile ne comportasse uno svilimento professionale.

Tralasciando cosa ne pensi il vasto pubblico, occorre ribadire che in italiano è grammaticalmente corretto riferirsi al femminile quando si sta parlando di una donna. “Direttrice” perciò è un termine che non solo esiste ma è anche ben assodato nella lingua parlata. Perché allora porre lo scomodo interrogativo “direttrice o direttore?”, come se stessimo parlando di gusti di gelato?

Ora, poiché ognuno è libero di farsi chiamare come vuole, è giusto riferirsi alla Venezi come “direttore” dato che questa è la sua volontà. Ciò non giustifica però la grande ottusità che si cela dietro all’affermazione. Accade spesso infatti che, volontariamente (come in questo caso) o involontariamente, ci si riferisca a ruoli femminili utilizzando termini al maschile.

Le motivazioni che si celano dietro questa scelta sono molte ma in primis riguardano un retaggio culturale, dovuto al fatto che molti lavori sono stati per secoli accessibili solo a uomini. A ciò si aggiunge l’esistenza di una sorta di “imperativo maschile” sulle parole che fa percepire il femminile come subalterno, opzionale o inferiore.

La giustificazione spesso utilizzata quando si sceglie di non usare i termini femminili corretti è che questi risultano cacofonici, cioè “suonano male”. Il punto è che questo accade perché non li utilizziamo mai, e non li utilizziamo mai perché molti ruoli sono rimasti inaccessibili alle donne per secoli: ora che hanno conquistato i diritti per svolgere questi lavori (sebbene ancora con molti ostacoli), è nostro dovere chiamare le cose col loro nome.

Per cui, il “direttore” Venezi ha tutto il diritto di farsi chiamare come vuole ma ciò dimostra solo quanto lei stessa sia vittima di quel meccanismo patriarcale che soggioga la donna all’uomo, condannandola ad esserne un’ombra, una sbavatura, una parola che suona male.

Il sessismo intriso nella nostra cultura si riflette, senza che ce ne accorgiamo, nel modo in cui pensiamo e nel nostro linguaggio. Pretendere di non adattarci alle nuove dinamiche significa voler chiudere gli occhi ad un cambiamento propositivo e diretto verso una maggiore equità, sia formale che sostanziale.

Vera Gheno, sociolinguista e scrittrice, ritiene che sia fondamentale che la lingua evolva insieme ad un popolo in quanto ne è lo specchio dei meccanismi e delle dinamiche sociali.

Come la stessa Gheno spiegherà in un’intervista condotta da Tlon.it, è necessario valutare il peso sociale delle parole che utilizziamo ed il loro significato in relazione al contesto.

Abbiamo sempre avuto l’esigenza di nominare le cose e cambiamenti nel linguaggio non sono altro che la manifestazione di una cultura che si sta evolvendo.

Dobbiamo smettere di pensare che le parole siano solo parole: le parole sono ciò che ci rende umani.

Per Michela Murgia, scrittrice ed intellettuale sarda, la lingua è un atto creativo genuino che non può essere ingabbiato in stereotipi o modelli fissi e segue un continuo flusso di riadattamento. Il suo ultimo libro STAI ZITTA e altre nove frasi che non vogliamo sentire più” nasce proprio dall’esigenza di analizzare il linguaggio che utilizziamo, troppo spesso trattato con superficialità, e svelarne i meccanismi di potere (maschile) che vi si manifestano. La motivazione che l’ha spinta a scriverlo è arrivata quando il noto psichiatra Raffaele Morelli, dopo aver rilasciato dichiarazioni deplorevoli sulle donne (e sulla presunta esistenza di una “radice del femminile”), interrompe brutalmente Murgia dicendole “zitta, zitta, zitta e ascolta”. Cosa ha fatto Michela Murgia dopo essere stata pubblicamente umiliata? Scrive un libro per combattere quell’ignoranza e quella presunta superiorità di cui Morelli si è fatto paladino, e lo fa per tutti noi.

Lo studio condotto dalla Murgia pone ancora una volta l’accento sulle cause socioculturali di quelle discriminazioni di genere che si riflettono nelle parole che scegliamo di utilizzare.

In una delle interviste che ha condotto per la presentazione del libro ha come ospite Alessandro Giammei, professore di italianistica al Bryn Mawr College negli USA, con cui concorda nel dire che il linguaggio è sostanza, in quanto è il mezzo attraverso cui modelliamo la realtà. Per questo motivo, fissare la definizione di una parola nello spazio e nel tempo significa paralizzarla nella gabbia delle sue lettere.

Il patrimonio storico delle parole dovrebbe quindi essere costantemente rivisto in una chiave inclusiva e più rispettosa, secondo le esigenze della società.

Espressioni come “donna con le palle” sono dei comodi cliché che spesso utilizziamo senza cognizione di causa mentre invece dovrebbero farci inorridire. Sebbene siamo consapevoli di quanto questo sia un modo di dire svilente verso le donne, continuiamo ad usarlo perché riassume perfettamente la credenza comune secondo cui forza e coraggio sono qualità tipicamente maschili.

Il nostro compito allora è quello di trovare altre espressioni che mettano in risalto la forza o il carattere di una donna senza ricorrere ai genitali maschili. Fare questo adesso ci richiede uno sforzo, ma in futuro non lo richiederà più: solo allora avremo rinnovato il linguaggio.

Cambiare le parole infatti non significa altro che connotare la realtà in modo che ci somigli di più.

Sempre su questa linea si muove la proposta della Gheno per la costruzione di un linguaggio più equo ed inclusivo, anche in vista delle nuove soggettività non-binarie (la cui identità non si riconosce né nel genere femminile né in quello maschile): questo sarà possibile solo adottando nuove soluzioni, come l’asterisco al posto di i/e al termine delle parole (esempio: tutt* al posto di tutti/e) o una vocale neutra chiamata schwa(ə).

Come lei stessa spiega nel suo saggio “Femminili singolari”, la schwa corrisponde ad una vocale media-centrale ed è sostanzialmente il suono che emettiamo quando la nostra bocca è in rilassamento (per sentire il suono, cliccate qui). Si rappresenta con il simbolo ”ə” ed è il primo passo verso un italiano più inclusivo. Secondo la Gheno infatti, nel sistema-lingua possono “convivere sia le regole che un certo grado di libertà” affinché l’insieme sia funzionale e rispecchi l’anima di chi parla.

Al giorno d’oggi, esistono persone che si sentono ingabbiate nel binarismo di genere maschile/femminile ed è quindi necessario venire incontro anche a questa nuova esigenza sociale. La scelta della schwa si muove anche verso il raggiungimento della parità di genere nel parlato in quanto potrebbe sostituire quel “maschile sovraesteso” che nasconde il femminile quando ci si riferisce alle moltitudini.

Dato che continuamente assorbiamo e riadattiamo termini dall’inglese, cosa ci impedisce di aprirci a nuove alternative, svecchiando la nostra lingua?

Il linguaggio è (anche) sostanza e solo attraverso una narrazione più inclusiva, corretta, rispettosa e (quanto più possibile) libera da quel filtro cognitivo compromesso dall’ambiente socio-culturale in cui ogni individuo è cresciuto si può contribuire ad un effettivo cambiamento: la lotta comincia dalle parole e solo la curiosità potrà salvarci dalla paralisi del linguaggio.

Del perché il femminismo è roba da uomini

Data la grande confusione che si genera attorno al termine, ripetiamo che si definisce femminismo quel movimento socioculturale che sostiene la parità politica, sociale ed economica tra i sessi, rivendicando uguali diritti e dignità tra uomini e donne alla luce di quella discriminazione di genere ancora protagonista della nostra quotidianità.

Solitamente però, tendiamo a credere che il femminismo sia “roba da donne” o, peggio ancora, “l’antitesi del maschilismo” quando in realtà non è assolutamente così.

Se il maschilismo, come dice Garzanti, è quell’atteggiamento psicologico e sociale fondato sulla presunta superiorità dell’uomo sulla donna, il femminismo è invece un movimento trasversale nato proprio per opporsi a comportamenti e pensieri discriminanti ed ha come obiettivo principale quello di conquistare la giusta parità, indipendentemente dal sesso di appartenenza.

Ed è esattamente questo il motivo per cui dovremmo essere tutti femministi.

Lorenzo Gasparrini, filosofo e scrittore, si definisce orgogliosamente uomo femminista. Con i suoi libri “Non sono sessista, ma…” e “Perché il femminismo serve anche agli uomini” ci spiega perché la cultura patriarcale e l’ideologia maschilista siano deleterie tanto per le donne quanto per gli uomini. Gasparrini infatti mette nero su bianco una scomoda verità che molti si rifiutano di accettare: i “veri maschi” non esistono.

Quella che ci viene quotidianamente fornita è un’idea distorta di essere uomini, come se esistesse una sola versione di mascolinità che è possibile impacchettare e comprare al bar, insieme alle Haribo. É questa la “mascolinità tossica” che, secondo il New York Times, consiste in un insieme di comportamenti e credenze che comprendono il sopprimere le emozioni, mascherare il disagio o la tristezza ed utilizzare la violenza come indicatore di potere.

La società patriarcale promuove quindi un solo modello: quello dell’uomo-macho, virile, forte e superiore. Questo meccanismo li spinge (involontariamente) a conformarsi a quelle che sono fatte passare come le “tipiche qualità dell’uomo” quando in realtà sono le sbarre della gabbia che lui stesso si sta costruendo intorno.

Sebbene la sua sia una condizione decisamente più favorevole di quella femminile, anche lui è schiavo della stessa cultura misogina e maschilista che, se da un lato discrimina e oggettifica la donna, dall’altro impone una sola versione di uomo, quella “vera”, fatta di testosterone, maschilismo e sete di dominio.

Ed è così che il passo è breve per appellare un uomo gentile a “gay” (come se si trattasse di un’offesa), insultarlo perché “secco” o denigrarlo perché giustamente si occupa delle faccende di casa, per non parlare del “machismo da spogliatoio” che si verifica nel mondo dello sport.

Insomma, anche l’uomo è costretto nella prigione del suo sesso.

Negli ultimi anni, un caso esemplare che ha fatto esplodere la “bolla di vetro” satura di mascolinità tossica e distinzioni di genere è stato  Achille Lauro. Il cantante e showman nella scorsa edizione di Sanremo ha sconvolto il pubblico della TV popolare attraverso comportamenti e dichiarazioni decisamente fuori dagli schemi. Per Lauro, è la confusione dei generi il suo personale modo di dissentire ad una realtà maschilista e rifiutare quelle convenzioni da cui poi si generano discriminazione e violenza. Questo approccio alla vita si riflette nel linguaggio, nelle azioni e nell’apparenza, intesa come modo di vestirsi e di mostrarsi.

Sempre sul palco dell’Ariston quest’anno è stata Madame, artista giovanissima e di immensa consapevolezza, a rompere un bel po’ di schemi. Nelle sue canzoni, tra le altre cose, emerge la necessità genuina di una fluidità in grado di riportarci ad essere carne ed anima, ad essere persone prima di “maschi” e “femmine”, diventati ormai concetti sterili e fini a se stessi.

Il primo passo per demolire e superare questo sistema divisivo e discriminante è perciò ammettere di essere il prodotto ben riuscito di una cultura patriarcale di cui abbiamo interiorizzato gli schemi. Solo dopo aver raggiunto questa consapevolezza sarà possibile liberarci da quei claustrofobici stereotipi che costituiscono la “norma”.

Certo, lottare contro i modelli sociali, le abitudini culturali e gli elementi linguistici discriminanti con cui siamo cresciuti fin dall’infanzia è un processo faticoso (almeno inizialmente) ma solo così potremo costruire una società più giusta ed inclusiva.

Nasciamo tuttə maschilistə ma dovremmo diventare tuttə femministə.

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Marketing & Social Media

Instagram si apre ai più piccoli

Facebook pensa ad una nuova versione di Instagram per i bambini under 13. Questa recente rivelazione è stata data da un sito web d’informazione, noto come Buzzfeed News, il quale ha riportato in un suo recente articolo la notizia. Sembrerebbe una scoperta non del tutto prevista da parte dei creatori, in quanto trapelata da una nota interna pubblicata su un forum per dipendenti della società. Al suo interno Vishal Shah, vicepresidente del prodotto Instagram, ha riportato: “Sono entusiasta di annunciare che per il futuro prossimo abbiamo individuato nei giovanissimi una priorità per Instagram”.

Possiamo ritenerlo quindi come un progetto al quale stanno lavorando in questi ultimi mesi data l’importanza e considerato anche le recenti vicende che hanno visto coinvolta una bambina di Palermo di 10 anni, morta a causa di una challenge sul social TikTok. A fronte di questo fatto i creatori di Instagram stanno pensando ad un modo per poter tutelare maggiormente i giovanissimi con età inferiore ai 13 anni, dandogli la possibilità di restare in contatto con i propri familiari o amici, monitorati in tutta tranquillità dai propri genitori.

Nuove regole giuridiche per l’uso dei social ai minori

Per effetto del GDPR, Regolamento Generale per la protezione dei dati personali, entrato in vigore nel 2016, l’età minima per poter prestare il proprio consenso al trattamento dei dati personali, ai sensi dell’articolo 8, è lecito se il minore abbia almeno 16 anni. Agli stati è data però la possibilità di poter derogare a tale età, ma non al di sotto dei 13 anni; infatti, in Italia, l’età minima per poter iscriversi a qualsiasi social network è almeno pari a quest’ultima con l’obbligo di supervisione di un anno da parte dei genitori. A tal proposito il Digital Report in Italia del 2018 ha riportato che la percentuale di uso dei social network tra i 13 e i 17 anni era dello 0,5%; notiamo come nel Digital Report del 2020 questa percentuale è cresciuta fino ad arrivare all’1,6%. Da ciò deduciamo che, con il passare del tempo, l’attitudine tra i più giovani ad approcciarsi al mondo social è sempre più in voga e prematura; per questo, creare un’applicazione per tutelarli è il primo passo verso un mondo sempre più incentrato sull’uso del digitale.

Recentemente il Garante per la protezione dei dati personali ha imposto l’obbligo, in un suo provvedimento, di “blocco immediato” nei casi in cui non sia possibile accertare con certezza l’età del nuovo iscritto e di rimozione immediata di tutti quei profili appartenenti a bambini con età inferiore a 13 anni. Inizialmente esso era stato emesso solo nei confronti di TikTok, ma successivamente è stato esteso anche a Facebook e Instagram.

Cosa ne pensa Adam Mosseri

A capo di questo nuovo progetto che vedrà coinvolto IG per under 13, ci sono Adam Mosseri, capo di Instagram, e Pavni Diwanji assunta a Dicembre 2020 da Facebook la quale, negli anni precedenti, aveva collaborato presso l’azienda Google per sviluppare una applicazione nota come “Youtube Kids” che consente di poter visionare video adatti per un pubblico di minori.

Lo stesso Adam Mosseri ha poi twittato: “I bambini chiedono sempre più spesso ai loro genitori se possono iscriversi ad applicazioni che li possano aiutare a stare in contatto con i loro amici. Stiamo esplorando una versione di Instagram in cui i genitori hanno il controllo, come abbiamo fatto con Messenger Kids. Condivideremo di più lungo la strada”. Tale conferma verso questo progetto a cui stanno lavorando ha suscitato svariate reazioni non positive da parte degli utenti del social network Twitter; alcuni lo hanno considerato ironicamente come una “opportunità interessante” per sfruttare e danneggiare emotivamente un intero nuovo settore della società, altri considerano Facebook e tutte le sue proprietà come delle prigioni, e infine alcuni criticano il fatto che non deve esserci il bisogno di programmare questa nuova versione di Instagram solo perché i bambini lo stanno “chiedendo”.

I precedenti interventi per avvicinare i più piccoli al mondo social

In effetti sia l’applicazione Messenger Kids, sia YouTube hanno dovuto affrontare diversi ostacoli nel corso della loro esistenza. La prima applicazione, rilasciata nel 2017, che consente ai più piccoli di potersi scambiare messaggi sotto la supervisione e il controllo dei loro genitori, nel 2019 a causa di un bug ha permesso ai bambini di entrare in chat o per meglio dire in “gruppi” creati con adulti non autorizzati. Il gruppo Facebook si è fin da subito attivato per contattare via mail, qui riportata, i genitori e rassicurarli sul fatto che avrebbero provveduto a risolvere prontamente il problema.

Alla seconda piattaforma non è andata meglio, in quanto Google, proprietaria di YouTube, è stato accusato dalla Federal Trade Commission al pagamento di una multa di 170 milioni di dollari per aver tracciato dati personali di bambini di età inferiore ai 13 anni, senza il previo consenso dei genitori, per poi inviare loro pubblicità mirata.

Cyberbullismo e sicurezza

Oltre ad essere una questione informatica e giuridica di grande novità è quindi diventato un vero e proprio problema etico all’interno del quale personaggi noti come ad esempio Jeremy Hunt, politico e membro del Parlamento britannico, ha espresso la sua opinione in un tweet criticando apertamente le applicazioni di messaggistica per bambini così dicendo: “Facebook mi aveva detto che sarebbero tornati con delle idee per prevenire l’uso dei minorenni del loro prodotto, ma invece stanno attivamente prendendo di mira i bambini più piccoli. State lontano dai miei bambini.”

Un sondaggio del 2019 condotto da Ditch the Label, ente dedicato alla promozione dell’uguaglianza che fornisce supporto ai giovani colpiti da bullismo e cyberbullismo nel Regno Unito, ha riportato che un quinto dei giovani ne è stato vittima nell’ultimo anno e uno dei modi tramite il quale esso si scatena è l’uso dei social, in particolare caricando o postando video nei quali i ragazzi si divertono a prenderne in giro altri. Ciò accade anche a causa del fatto che ormai l’85,8% dei giovanissimi tra 11 e 17 anni utilizza quotidianamente il cellulare come riportato dai dati Istat, ma un dato importante è dato dall’84,9% che rappresenta la percentuale di adolescenti (14-17 anni) che quotidianamente accede ad Internet. Tra i più giovani si registra una quota pari al 7% di casi di cyberbullismo di cui è necessario tenere conto.

Sappiamo bene che così come accade nella vita reale, anche per i social è possibile mentire sull’età siccome, in Italia, le false dichiarazioni sono considerate reato solamente se rese davanti ad un pubblico ufficiale. Il primo grande ostacolo da superare è infatti quello di riuscire a sviluppare un riconoscimento facciale artificiale in grado di poter verificare l’esattezza dell’età anagrafica e grazie al quale sarà impossibile inserire una data di nascita falsa.

Oltre a ciò, si vorrà rafforzare la sicurezza in modo da rendere più difficile la ricerca di bambini da parte degli adulti e di impedire ad essi di poter inviare messaggi a persone con età minore di 18 anni.

 

Una lettera per Mark Zuckerberg

Questo progetto sembra non avere un grande successo tra i diversi gruppi di consumatori a tutela dell’infanzia i quali, guidati dall’organizzazione no-profit Campaign for a Commercial-Free Childhood, si sono uniti e hanno scritto una lettera a Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, esprimendo la loro contrarietà nei confronti di Instagram under 13, chiedendo loro di abbandonare l’idea in quanto, a loro detta: “non è il rimedio giusto e metterebbe a rischio i giovani utenti in quanto, negli anni della scuola elementare, essi sperimentano una incredibile crescita nelle loro competenze sociali, nel pensiero e nel senso di sé. Abbiamo paura che questa proposta possa sfruttare questi rapidi cambiamenti evolutivi. Instagram, in particolare, sfrutta la paura dei giovani di perdersi e il desiderio di approvazione dei pari per incoraggiare bambini e adolescenti a controllare costantemente i propri dispositivi e condividere foto con i propri follower.”

Concludono così la loro lettera:Un Instagram per bambini sottoporrà i più piccoli a una serie di gravi rischi e offrirà pochi vantaggi alle famiglie”.

La data di lancio ufficiale non è stata ancora comunicata e non sarà, a quanto risulta dalle indiscrezioni, a breve, ma è da considerare come al primo posto tra gli obiettivi principali che i creatori si sono prefissati di portare a termine. A fronte di questo la privacy e la sicurezza per i minori sono, in questo campo, gli argomenti più sensibili che vogliono e devono essere protetti per poter costruire questa nuova versione, in modo da poter essere utilizzata in piena sicurezza e per garantirne un uso sicuro da parte di una categoria che, al giorno d’oggi, ha maggiormente bisogno di essere tutelata.

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Ambiente, società e tecnologia

PsyNot: analisi di uno stigma

La “notizia”

“Secondo i dati forniti dall’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, nel suo focus “Fare i conti con la salute mentale”, la depressione grave, il disturbo bipolare, la schizofrenia e le altre malattie mentali gravi riducono la speranza di vita in media di 20 anni rispetto alla popolazione generale, in modo analogo alle malattie croniche come le malattie cardiovascolari. Il 5% della popolazione mondiale in età lavorativa ha una severa malattia mentale e un ulteriore 15% è affetto da una forma più comune. Una persona su due, nel corso della vita, avrà esperienza di un problema di salute mentale e ciò ridurrà le prospettive di occupazione, la produttività e i salari.”

Queste sono le frasi più dure che l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) sceglie di usare per introdurre il lettore ad una dimensione socialmente e culturalmente ramificata in tutte le “classi di uomini”; una dimensione che si è ritrovata, come improvvisamente, al centro del dibattito mondiale mostrando la sua elevata capacità di impattare “sulla salute, sulla qualità della vita della popolazione e sulla sostenibilità dei costi dell’assistenza alle terapie farmacologiche e di supporto”.

“Come improvvisamente” tra le virgolette perché in realtà c’erano già i presupposti per impedire l’intensificarsi delle malattie mentali: nel 1997, infatti, era stata indetta, a Jakarta, la 4° Conferenza internazionale sulla promozione della salute, durante la quale era stato siglato l’accordo che porta il nome di Dichiarazione di Jakarta su come guidare la promozione della salute nel 21° secolo. In tale accordo vennero definiti gli aspetti necessari per riuscire ad abbattere le disparità in campo sanitario quali “la pace, una casa, l’istruzione, la sicurezza sociale, le relazioni sociali, il cibo, un reddito, l’attribuzione di maggiori poteri alle donne, un ecosistema stabile, un uso sostenibile delle risorse, la giustizia sociale, il rispetto dei diritti umani e l’equità”.

Ancora oggi, però, essi risultano essere aspetti che il settore della sanità, da solo, non è in grado di garantire; quindi i governi, i vari settori socio-economici, le organizzazioni governative e quelle volontarie, sono tenuti a definire un piano di azione comune con strategie e programmi di promozione alla salute adattabili ai bisogni locali in sé dei paesi e delle regioni, nonché ai diversi sistemi sociali, culturali ed economici.

Il discorso così trattato, mette in luce una costante della dimensione moderna ovvero la nozione di “normale” nella sua duplice veste: la troviamo nella sua asserzione descrittiva (da qui “normalità”) perché rappresenta “il risultato di un calcolo statistico, di un’osservazione empirica su comportamenti comuni e diffusi in un determinato contesto storico-sociale”; e in quella prescrittiva ad indicare normatività ovvero ad indicare le regole comuni da seguire per rientrare in una determinata categoria e così rispettare l’equilibrio socio-culturale di ogni società.

Basti pensare che la diagnosi stessa della malattia mentale dipende dai progressi della farmacologia e dal suo potere decisionale oltre che dalle credenze di uno stato: negli Stati Uniti, per esempio, il sistema assicurativo sanitario si regola in base alle definizioni fornite dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSMManuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) redatto dall’American Psychiatric Association (APA), mentre nella maggior parte degli stati (193 per la precisione) ci si rifà al sistema di classificazione chiamato International Classification of Diseases (ICDClassificazione Internazionale delle Malattie) stilato dall’OMS.

Detto ciò, risulta quindi evidente e doveroso guardare indietro prima di trattare le soluzioni ad ora adottate (in funzione di queste linee guida generali e standard)…

Le cause economico-giuridiche

Riprendendo i concetti di normalità e normatività sopra citati, è possibile arrivare alle cause dietro l’aumento delle malattie mentali.

Li si collega, infatti, a quanto detto da Sigmund Freud nel suo libro “Disagio della civiltà” (1929): l’uomo è disposto a vivere in una civiltà che ne limiti le libertà e, di conseguenza, ne limiti la capacità (spesso assoluta) di essere felice, pur di non perdere la garanzia di sopravvivenza e la sicurezza economica e giuridica che gli spetta.

Se ne deduce che quando tale equilibrio viene meno, l’insicurezza trova terreno fertile. E a quale periodo si riconduce l’inizio della fine? Agli anni ‘70, ovvero agli anni della crisi energetica provocata da un sostanziale aumento del prezzo del petrolio a scapito di Israele e dell’Occidente. Una decisione presa dall’OPEC per dimostrare solidarietà all’Egitto e alla Siria durante la Guerra del Kippur (contro Israele). Una guerra di potere che ha messo in ginocchio l’economia dei più deboli e che ha costretto le loro aziende a riorganizzarsi e a rimboccarsi le maniche: la soluzione a cui giunsero vedeva la “creazione” di organizzazioni basate su una maggiore pressione sui tempi di lavoro (l’economia doveva riprendersi nel minor tempo possibile e andare di pari passo allo sviluppo tecnologico), su uno scarso potere decisionale (i membri di un’azienda, in situazioni problematiche, prendono decisioni sulla base di regole fisse e pensate a priori dall’organizzazione stessa) e su un’incertezza rispetto alla continuità della carriera professionale (a causa, ad esempio, di agevolazioni fiscali a favore dell’azienda per nuove e giovani assunzioni).

Le classi sociali appartenenti alla generazioni delle lotte sindacali arrivano a sentirsi abbandonate perché ignorate e private di quanto erano riuscite ad ottenere, mentre le nuove generazioni si trovano a vivere le ingiustizie come condizione normale per la loro posizione non privilegiata. Si viene così a definire una crescente incertezza verso il futuro, una maggiore disuguaglianza lavorativa e una propensione ad instaurare relazioni dipendenti e distruttive col potere.

Non solo, l’accelerazione della tecnologia che ne seguì, ha comportato una riduzione dei contatti fisici reali oltre che una riduzione e modifica dei rituali tipici “maschili” e “femminili” di integrazione sociale (viene meno il confronto diretto e reale e, quindi, viene limitata la crescita personale). Si riduce considerevolmente la “dieta” emotiva, portando l’individuo ad essere una pedina dei poteri forti, anche al di fuori dell’ambito lavorativo. Il quadro generale si aggrava quando queste condizioni si inseriscono nella vita dei bambini e degli adolescenti: con uno sviluppo già caratterizzato da una propensione all’isolamento, ridurre al virtuale gli spazi di condivisione porta il minore a chiudersi in se stesso e a non esternalizzare i propri problemi o le proprie preoccupazioni.

La velocità e l’insicurezza, poi, non permettono l’assimilazione corretta dei cambiamenti in atto e non ricreano gli ammortizzatori sociali contro lo stress e gli altri disagi psicologici: si riduce il sonno con conseguente riduzione dello sviluppo del cervello (soprattutto nei bambini e negli adolescenti).

Ed è così che si arriva, anche in giovane età, ad avere disturbi mentali intesi sia come “patologie psichiatriche quali ansia, depressione o disturbi bipolari, che come disturbi neurologici, come Alzheimer e demenze”, disturbi che diventano nei Paesi ad alto reddito “la principale causa di perdita di anni di vita per morte prematura e disabilità (17,4%), seguiti dal cancro (15,9%), dalle malattie cardiovascolari (14,8%), dagli infortuni (12.9%) e dalla malattie muscolo-scheletriche (9,2%)”.

Le cause socio-culturali

Gli altri punti su cui riflettere si basano su questi due interrogativi: perché quando si soffre di un dolore fisico contattiamo subito il medico di riferimento, mentre quando la sofferenza è di tipo mentale no?

Cosa ci ferma dal chiedere aiuto?

La salute mentale è un argomento carico di pregiudizi; chi vorrebbe chiedere aiuto teme le critiche delle persone presenti nella sua rete sociale ed il giudizio dello specialista a cui vorrebbe rivolgersi.

Il gruppo dei pari gioca un ruolo importante perché si vive in preda alla paura dell’esclusione, della derisione, dell’incomprensione o, peggio ancora, di essere considerati come pericolosi per se stessi e per gli altri, quando in realtà il silenzio rappresenta il vero pericolo.

Il secondo fattore da considerare è il costo. La persona che già prova vergogna di chiedere aiuto ad uno specialista si troverà ad ideare tutta una serie di stratagemmi per nascondersi e per capire come poter sostenere le costanti spese di una consulenza psicologica.

Non solo, un’aderenza bassa ai trattamenti unita all’insorgere di altre problematiche, peggiorerebbe la condizione del paziente richiedendo tempi di “riabilitazione” più lunghi. Problema già quantificato in un rapporto dell’Harvard School of Public Health e del World Economic Forum (WEF), in cui si stima che “tra il 2011 e il 2030 il costo delle malattie mentali in tutto il mondo sarà di oltre 16 trilioni di dollari in termini di mancata produzione, più di patologie oncologiche, cardiovascolari, respiratorie croniche e del diabete”.

Quali mezzi abbiamo a disposizione in questo mondo digitalizzato per aiutarci?

Il fenomeno del online counseling ha iniziato a prendere piede quando la vita si è fatta più frenetica e le persone hanno acquisito la dote del multitasking, per riuscire a fronteggiare tutti gli impegni della quotidianità. Ha poi ricevuto una spinta naturale dalla pandemia, data la migrazione dei rapporti umani nelle piattaforme di messaggistica e per i problemi psicosociali emersi in seguito.

Il supporto psicologico online presenta numerosi vantaggi: l’anonimato dell’utente permette di superare il disagio derivante dal confronto diretto con lo specialista e agisce come fattore rassicurante; il giudizio esterno non è più un fattore rilevante perché, svolgendosi il percorso mediante un device, l’utente è consapevole del rispetto della sua privacy; permette a qualsiasi tipo di utente di farne uso, qualunque sia la posizione geografica.

In nostro soccorso giunge l’ecosistema delle applicazioni multipiattaforma:

  • AiutoPsicologi è un’applicazione di sostegno momentaneo, si propone come un primo soccorso da utilizzare in situazioni di forte stress, ansia e attacchi di panico fornendo strumenti, tecniche utili per superare i momenti di crisi, e contatti diretti con personale qualificato. Presenta un layout semplice ed intuitivo.
  • Soultrainer è una piattaforma di counseling gratuito che mette in contatto la domanda di supporto con l’offerta professionale, garantendo l’anonimato agli utenti. Questa piattaforma consente di comunicare con gli esperti tramite chat di gruppo tematiche. Il bot presente nella piattaforma spiega brevemente agli utenti le modalità di utilizzo e consigliando di effettuare un test, così da permettere una migliore user experience. E’ presente anche il blog, in cui vengono trattati i più svariati temi dell’ambito psicologico, così da creare anche informazione per gli utenti iscritti e non, e conferire un valore aggiunto non indifferente.
  • Cozily, invece, ricrea un colloquio psicologico a tutto tondo. Composto da psicologi e psicoterapeuti iscritti all’Albo e selezionati tramite attenti criteri di valutazione. Il percorso ha inizio con un periodo di prova dove l’utente ha modo di capire se il servizio può soddisfare le proprie esigenze, in cui conosce le modalità di funzionamento ed ha le prime interazioni conoscitive con lo specialista. Se il giudizio è positivo, al termine della prova, l’utente sottoscrive un abbonamento mensile il cui costo è nettamente inferiore ad un classico percorso di psicoterapia. In particolare “con la sottoscrizione dell’abbonamento si avrà accesso all’anamnesi iniziale, alla programmazione delle attività, all’assegnazione di esercizi graduali, all’utilizzo del diario per registrare i progressi e al supporto continuativo del terapeuta via chat”. La forza dell’applicativo sta proprio nel cercare di rendere l’iter terapeutico il più simile alla reale seduta di terapia psicologica.
  • ItaliaTiAscolto: ecco un’applicazione firmata Bicocca, nata per supportare chiunque si trovi in una situazione di malessere emotivo e forte stress causati dalla grave emergenza sanitaria in cui ci troviamo. L’applicativo è stato inizialmente finanziato dalla Fondazione di Comunità Milano, propone degli incontri virtuali che trattano temi come la gestione delle emozioni, del lutto, della gravidanza, e che danno vita a momenti di condivisione in cui i partecipanti possono condividere le proprie esperienze. Tutti argomenti che sono pensati per crescere e sostenersi.

Se qualcuno volesse intraprendere un percorso di terapia psicologica ma non sapesse a chi rivolgersi?

L’offerta di cui è possibile disporre nell’epoca digitale è aumentata non di poco: basti pensare che è possibile svolgere sessioni da remoto con specialisti provenienti da tutto il territorio nazionale.

Il Servizio Italiano di Psicologia Online mette a disposizione un portale completo con la descrizione di ogni specialista, il tipo di applicazione utilizzata per svolgere le sedute ed il costo. Inoltre è possibile aggiungere dei filtri nella propria ricerca in base al tipo di specializzazione ricercata.

L’introspezione è una risorsa alla portata di tutti: il primo passo da compiere per prendersi cura del proprio stato mentale è informarsi.

Nella rete bisogna prestare attenzione ed attingere da fonti attendibili, costruendosi un bagaglio di conoscenze basilari, diventando così più consapevoli di se stessi.