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Ambiente, società e tecnologia

Summit on Climate: come e perché la crisi climatica va affrontata ora e insieme

Source: White House photo by Adam Schultz/ Public Domain - https://www.state.gov/leaders-summit-on-climate/

Il 22 e 23 aprile 2021 si è svolto il Leaders Summit on Climate, evento virtuale ospitato dalla presidenza degli Stati Uniti che ha visto partecipi, oltre a 40 leader politici mondiali, importanti esponenti del settore privato, dirigenti d’azienda e attiviste per la giustizia climatica. Due i motivi principali che hanno spinto Biden a promuovere questo vertice: ribadire il ritorno degli Stati Uniti all’interno degli accordi di Parigi sul clima  annunciando, durante l’apertura dell’evento, l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del paese di almeno il 50% entro il 2030 e, soprattutto, riunire personalità rilevanti della scena politica, economica e sociale per creare tavoli di confronto e condivisione incentrati su un tema di importanza globale e di estrema urgenza: mantenere l’aumento della temperatura a livello globale al di sotto di +1.5°C rispetto all’era preindustriale e raggiungere Net 0.

Quali idee, proposte ed esperienze sono emerse da questo vertice? Quali sono i concetti fondamentali che dovranno essere alla base della collaborazione tra le autorità nazionali e internazionali e le comunità di cittadini?

Cosa significa Net 0 e perché è così importante

Con l’espressione Net 0 si definisce l’obiettivo della neutralità climatica: non significa che entro il 2050 non dovremo più emettere gas serra, ma dovremo fa sì che il risultato netto tra i flussi in entrata e in uscita dall’atmosfera sia zero. Perché dovremmo raggiungerlo? Durante il primo giorno del Summit è stato presentato il documentario Breaking Boundaries, in cui lo scienziato Johan Rockström illustra il concetto dei confini planetari”. Si tratta di una framework scientifico integrato da un articolo pubblicato su Science nel 2015 che definisce, seppur con un certo grado di incertezza e un margine di precauzione, delle barriere soglia per nove fenomeni critici il cui intensificarsi oltre i limiti porterebbe il nostro pianeta ad allontanarsi dalle sue condizioni di stabilità. Gli scienziati identificano come uno dei più rilevanti il cambiamento climatico, ed è per misurare gli effetti di quest’ultimo che si considera la concentrazione di CO2 atmosferica: tra tutti “driver del cambiamento climatico”, secondo il rapporto del 2013 dell’IPCC è la variabile che dal 1750 ha contribuito maggiormente alla variazione dei flussi di energia nel sistema Terra. Attualmente la concentrazione di CO2 atmosferica si attesta intorno ai 415 ppm, in un range considerato una “zona di rischio”: oltrepassarne il limite superiore (circa 450 ppm) significherebbe esporci a un alto rischio di destabilizzare il nostro pianeta irreversibilmente. Sulla base di questi dati, Biden ha ricordato nel suo discorso di benvenuto ai leader che “il tempo per agire è limitato” e che “non abbiamo scelta”, se non quella di agire all’unisono verso Net 0.

Tre punti chiave: Mitigation, Adaptation, Resilience

Sono tre i pilastri fondamentali, stabiliti con gli accordi di Parigi, che dovranno orientare le azioni di tutti i paesi nella risposta al cambiamento climatico e che sono stati al centro dei brevi interventi di tutti i leader nazionali presenti. Per il primo, “mitigation”, molti tra i leader partecipanti hanno presentato alcuni dettagli dei propri INCD, ovvero piani nazionali che stabiliscano obiettivi di medio e lungo termine, rispettivamente per il 2025/2030 e per il 2050, e strategie da implementare per ridurre le emissioni nazionali di gas serra, che dovranno essere poi aggiornati. Ne sono stati consegnati 163 prima del 25 febbraio per il 2020/2021, molti ancora in corso di revisione: economie già sviluppate come l’UE, il Giappone  e il Canada hanno dichiarato di voler ridurre le proprie emissione rispettivamente almeno del 55% entro il 2030, del 45% entro il 2040 e tra il 40% e il 45% entro il 2040. Il Leaders Summit aveva l’obiettivo di sollecitare i paesi, soprattutto in vista di COP26, la 26esima Conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, che si terrà a Glasgow tra l’1 e il 12 novembre 2021 e durante cui verrà negoziato un piano d’azione coordinato per affrontare la crisi climatica.

Il secondo e il terzo pilastro, “adaptation” e “resilience”, si riferiscono rispettivamente alle azioni che dovranno essere messe in campo per fronteggiare gli effetti attuali del cambiamento climatico e per trasformare le comunità e i paesi in soggetti resilienti ai futuri cambiamenti. Questi ultimi saranno cruciali per le “comunità in prima linea” dell’Africa, dei grandi delta dell’Asia e delle piccole isole e del Centro e Sud America, perché subiranno i danni peggiori di un cambiamento a cui hanno contribuito in minima parte, se non nulla, nel corso del XX secolo, come ha affermato nel suo intervento l’attivista per la giustizia climatica messicana Xiye Bastida. Biden ha ribadito l’importanza dell’impegno condiviso preso dai paesi sviluppati di raggiungere 100 miliardi di dollari all’anno per finanziare misure necessarie a seguire i tre pilastri nei paesi in via di sviluppo e ha dichiarato che gli Stati Uniti contribuiranno duplicando entro il 2024 il loro piano di finanziamenti per il clima nei paesi in via di sviluppo rispetto a quello dell’amministrazione Obama-Biden e che triplicheranno il loro Public financing for Climate Application per i paesi in via di sviluppo entro lo stesso anno.

Responsabilità condivisa, ma differenziata? Il caso della Cina

Tra tutti gli interventi condotti dai leader politici, quello di Xi Jinping, presidente della Repubbica popolare cinese, appare discordante: ha infatti dichiarato che la Cina si impegnerà a raggiungere il picco delle sue emissioni di gas serra prima del 2030 e che successivamente si impegnerà a diminuirle fino a raggiungere Net 0 prima del 2060. Lo stesso leader ha fatto riferimento a un principio del diritto ambientale internazionale abbreviato con “CBDR, ovvero “responsabilità condivisa ma differenziata”, affermando che i paesi sviluppati devono “perseguire obiettivi ambiziosi e aiutare i paesi in via di sviluppo nell’affrontare la crisi climatica”. Per capire cosa si intende oggi con CBDR bisogna analizzare sia il contributo storico dei diversi stati alle emissioni totali di gas serra, sia l’evoluzione legislativa di questo principio.

Secondo i dati raccolti nel database EDGAR, nel 2019 la Cina è stata responsabile 30.3% delle emissioni, gli U.S.A. del 13,4% e l’UE, assieme a UK, dell’8.7%. Se consideriamo invece le percentuali delle emissioni accumulate dagli stessi paesi dal 1751 al 2019, disponibili sul sito Our World in Data, osserviamo che la Cina ha contribuito per il 13.3%, gli U.S.A. per il 24.8% e l’UE per il 22% circa. A questo divario tra la situazione attuale e la prospettiva storica è dovuta la diatriba, portata avanti per diversi anni, su chi dovrebbe essere considerato maggiormente responsabile per il cambiamento climatico e agire di conseguenza: il principio CBDR è stato presentato a livello internazionale durante la Conferenza di Rio nel 1992, per poi essere meglio definito nel Berlin Mandate del 1995 e riproposto nel Protocollo di Kyoto del 1997. Il problema della sua prima definizione era dovuto al fatto che si attribuisse la responsabilità dell’azione in campo climatico ai paesi sviluppati, in quanto detentori della percentuale maggiore di emissioni a livello storico e del potenziale economico e tecnologico per rispondere ai cambiamenti climatici; in questo modo si trascurava il contribuito dei paesi in via di sviluppo, che sarebbero poi diventati tra i più grandi emettitori, come la Cina e, in percentuale molto minore, l’India. Questo principio si è evoluto: tutti i paesi all’interno degli accordi di Parigi sono chiamati ad essere attivi nel raggiungere Net 0 (soprattutto considerando che sarebbe molto difficile riuscirci senza la collaborazione della Cina). Come è emerso dal Summit, il ruolo di paesi sviluppati come gli Stati Uniti e i paesi dell’UE sarà quello di rendere disponibili il maggior numero di finanziamenti e strumenti affinché i paesi in via di sviluppo possano accelerare nella loro transizione verso un’economia indipendente dai gas fossili.

 “Imperativo morale, imperativo economico”: conciliare crescita economica e giustizia climatica

Se dovessimo estrapolare uno dei concetti più ricorrenti durante i giorni del Summit, questo sarebbe il multilateralismo. È fondamentale guardare alla crescita economica, alla crisi climatica e alla lotta per la giustizia sociale come a battaglie profondamente interconnesse: per riuscirci servono non solo grandi investimenti, ma anche “una sinergia tra il settore pubblico i privati”. Sono stati dedicati due panel alla discussione degli strumenti economici e legislativi da adottare per affrontare la crisi e delle innovazioni tecnologiche che dovranno essere implementate su larga scala nei prossimi anni.

Sia Angela Merkel, sia Ursula Von der Leyen sia Charles Michel hanno affermato l’importanza di adottare un sistema di tassazione sulle emissioni di gas serra e di rendere questo sistema il più omogeneo possibile a livello mondiale. La direttrice operativa dell’IMF Kristalina Georgieva ha espresso la necessità di portare il prezzo per l’emissione di una tonnellata di CO2 equivalente da una media mondiale di 2$ ad almeno 75$ entro il 2030 per garantire una transizione equa anche per i paesi la cui economia è fortemente dipendente dalle risorse fossili; al contempo bisognerà riformare i sussidi per i combustibili fossili sia per i consumatori, sia per i produttori. Se da una parte bisognerà alzare questi prezzi, dall’altra bisognerà rendere accessibili quelli delle nuove tecnologie per produrre energia da fonti rinnovabili affinché diventino disponibili su larga scala: è quello che cerca di realizzare il gruppo di investitori di Breakthrough Energy Coalition, il cui portavoce al Summit è stato Bill Gates: il mercato dell’energia pulita potrebbe raggiungere entro il 2030 un valore di 23 trilioni di dollari secondo Jennifer Granholm, attuale segretaria dell’energia statunitense. Sarà però necessario indirizzare capitali verso progetti in linea con l’obiettivo Net 0: Jane Fraser, presidentessa di Citi, e Marcie Frost, CEO di Calpers, hanno proposto di rendere obbligatorio, per chi richieda qualsiasi tipo di finanziamento, un report standard sui rischi del progetto stesso legati al clima, unico modo per poter contare su dati affidabili.

I finanziamenti dovranno essere resi accessibili ai paesi in via di sviluppo: in questo senso agisce l’African Development Bank, associazione finanziaria nata con la missione di promuovere investimenti che possano aiutare lo sviluppo di progetti e realtà imprenditoriali in Africa, come quelli dei 40 milioni di agricoltori africani che cerca di raggiungere. Il suo presidente Akinwumi Adesina ha evidenziato come l’Africa perda dai 7 ai 15 miliardi di dollari ogni anno a causa del cambiamento climatico.

Nonostante le differenze sociali e culturali, tutti i leader che hanno partecipato al summit sono d’accordo su un punto cruciale: le azioni concrete con cui risponderemo a queste domande nei prossimi dieci anni determineranno il futuro della nostra specie sul pianeta.

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Disney censura i suoi capolavori: una scelta giusta?

Negli ultimi giorni si è fatto un gran parlare di una scelta che Disney ha deciso di operare sulla sua piattaforma di streaming Disney+, ovverosia quella di “vietare” alcuni classici – Dumbo, Peter Pan e gli Aristogatti – agli spettatori con meno di 7 anni di età.

Una scelta, senza dubbio discutibile ma che pone le sue radici, per quanto possa sembrare un controsenso, nell’identità stessa della compagnia.

È stata una scelta giusta? Perchè Disney ha deciso di agire in questo modo?

La Storia

Prima di affrontare l’approccio del colosso americano alle tematiche sociali è necessario, però, ripercorre brevemente la sua storia.

Come ogni storia americana che si rispetti, tutto ebbe inizio a seguito di diversi fallimenti di Walter Elias Disney (1901- 1966). Così, in serie difficoltà economiche, Walt iniziò a fare degli esperimenti con una cinepresa in un garage.

Esperimenti di successo che, nel 1923, portarono il fratello Roy a invitarlo in California per fondare insieme la “Disney Brothers Cartoon Studio”.

Fra alti e bassi i due contribuirono alla creazione di vari cortometraggi animati fino a quando, grazie al personaggio di Topolino, nel 1928, i problemi economici si attenuarono (nonostante la casa di produzione non riuscì, ancora, a rendersi indipendente dalle altre società di Hollywood).

Nel 1932, l’uso del colore diede un ulteriore slancio in avanti ed è in quegli anni che vediamo la prima apparizione di Paperini ne “La Gallinella saggia”.

L’uscita nelle sale, poi, del lungometraggio d’animazione “Biancaneve e i sette nani” fece fare il vero balzo in avanti all’azienda, generando incassi per 4,2 milioni di dollari, che portarono alla quotazione in borsa nel 1940.

E’ in questi anni che vediamo l’uso della camera multipiano, tecnica con la quale si riuscì a dare profondità alle riprese nonostante l’utilizzo di immagini a due dimensioni. Tale strumento rinnovò profondamente il settore e fu una tecnica chiave utilizzata poi per i i film d’animazione più riusciti come Pinocchio, Bambi e Peter Pan.

Scoppiata la guerra, e non più accessibile il redditizio mercato europeo, l’esercito requisì l’esercizio trasformando i Walt Disney Studios in una base militare e, così, i disegnatori dovettero realizzare volantini di propaganda e di educazione militare.

Nel 1950, su richiesta dell’azienda radiotelevisiva NBC, Disney iniziò a distribuire dei corti d’animazione con protagonisti i personaggi di Topolino, Pippo e Paperino. Nello stesso anno vediamo la produzione dei primi film di cui il primo in assoluto fu “L’isola del tesoro”.

Successivamente Walt iniziò a concepire l’idea del parco a tema Disneyland. Il primo fu inaugurato a Los Angeles ne 1955 rivelandosi poi un successo, tanto che, ad oggi, ne esistono 5 nel mondo: in Florida, in Giappone, in Francia e in Cina.

Nel 1961 fu aperta l’azienda di distribuzione, Walt Disney Studios Motion Pictures, per gestire i diritti delle licenze dei vari personaggi.  Nel 1966 Walt Disney morì di cancro ai polmoni e così l’azienda, ormai con un grande capitale finanziario, passò al fratello Roy il quale cercò di perseguire la rotta che il fratello aveva dato.

Varie aziende e film uscirono negli anni successivi fra questi ricordiamo Un maggiolino tutto matto e la creazione della Walt Disney Educational Productions per la produzione di materiali didattici.

Alla morte di Roy Disney, nel 1970, il nuovo CEO, Card Walker, promosse vari progetti di Walt ma la sua spinta presto iniziò ad esaurirsi e così vediamo l’apertura di una filiale in Giappone (conseguente all’inaugurazione del parco di DisneyLand a Tokyo), il rilascio del film Tron, e il lancio del canale Disney Channel.

Nel 1984, la creazione del marchio Touchstone Pictures ampliò il mercato Disney ad un pubblico più adulto.

Gli anni ’90 per Disney furono denominati “l’era del rinascimento” in cui nella stragrande maggioranza di aree ottenne grandi successi con film quali: La Bella e la Bestia, Aladdin e Il Re leone. L’azienda ampliò il proprio raggio d’azione con la compagnia di navigazione Disney Cruise Line, la catena alberghiera dei DisneyLand Hotels o i complessi commerciali dei Disney Springs.

Agli inizi degli anni duemila la Disney subì un rallentamento causato da vari fattori e che costrinse l’azienda a dover cedere la partecipazione dell’azienda di canali sportivi quali Eurosport e delle squadre Los Angeles Angels e Anaheim Ducks rispettivamente di football americano e hockey sul ghiaccio.

Nonostante ciò la ripresa fu molto veloce grazie anche all’espansione in paesi quali Cina e Russia.
L’acquisizione prima di Pixar e poi di Marvel e LucasFilm diedero nuovo slancio e il successo a livello globale di Disney gli permise di espandersi nel campo on demand, con l’acqusizione di Hulue di BAMTech i quali permisero di acqusire il know how necessario per la creazione di un servizio streaming lanciato poi nel 2019 con il nome di Disney+.

E’ relativo al 2017, invece, l’accordo con cui l’azienda acquista molte divisioni della Fox quali gli studi cinematografici 20th Century Fox, Fox Searchlight Pictures e Fox 2000 e gli studi televisivi fra cui ricordiamo: 20th Century Fox Television, Fx Networks, National Geographic Partners, Fox Sports Regional Networks e Sky.

La mission: essere d’ispirazione

Per capire la scelta di Disney, tuttavia, è necessario indagare, innanzitutto, la parte istituzionale del sito ufficiale.

Come ogni grande compagnia, infatti, anche The Walt Disney Company dedica una pagina del suo sito a raccontare sè stessa, e quindi alla sua identità e ai suoi obiettivi.

Il primo contenuto che è possibile visionare visitandola è anche il più interessante: la mission, ovverosia il fine ultimo dell’impresa e ciò che la contraddistingue dalla concorrenza, una sorta di dichiarazione di intenti.

Nella poche righe che la compongono Disney enuncia le tre parole chiave del suo operato: “informare, intrattenere e ispirare”. In questo modo, viene messa in luce fin da subito la responsabilità sociale e morale di cui Disney si fa carico – quella di ispirare le future generazioni – chiarendo, subito dopo, di rivolgersi a “tutte le persone del mondo”.

Non stupisce, quindi, la recente attenzione della compagnia sulle tematiche sociali e la sensibilità sul razzismo.

La domanda che, una volta letta la mission, ci si potrebbe porre è: The Walt Disney Company è stata sempre coerente?

Sarebbe impensabile credere che in un lasso di tempo così ampio i valori e le tradizioni restino invariati, da ciò è derivata una continua necessità di rinnovamento strategico.

Ciò nonostante, la multinazionale è stata capace di adattare la sua strategia d’impresa in maniera coerente, ricercando elementi di innovazione ma mantenendo sempre salda la sua fede nel volontariato e nella dedizione alla responsabilità sociale, vista come un vantaggio competitivo e non solo come metodo promozionale.

I fatti concreti

Ma in quali campi Disney ha effettivamente lavorato per il bene comune? Alcuni di questi sono i seguenti:

  • Volontariato: nel 2018 l’azienda firma un piano quinquennale del valore di cento milioni di dollari per creare dei programmi che alleviano ai bambini la degenza in ospedale, con l’aiuto dei Disney Imagineers. Il programma è stato avviato presso il Children’s Hospital di Houston. Disney ha, inoltre, fondato l’organizzazione “Disney Voluntears” con la quale si occupa di assistere e aiutare le altre associazioni benefiche con cui collabora in tutto il mondo.
  • Sostenibilità ambientale: “conservation isn’t just the business of a few people. It’s a matter that concerns all of us” questa è l’opinione di Walt Disney riguardo la tematica. L’azienda ha dato il suo contributo mettendo a disposizione un impianto ad energia solare nel suo parco a tema di Orlando, riuscendo ad alimentare i vari parchi tematici con l’energia generata in questo modo. Altri esempi possono essere l’utilizzo di generatori elettrici sui set televisivi, le politiche aziendali volte a ridurre gli sprechi, cercare di evitare lo spreco d’acqua, la creazione di aree protette per le specie in via d’estinzione.
  • Welfare aziendale: Disney ha lanciato il suo “programma ILS” per garantire a tutti i dipendenti della multinazionale condizioni lavorative dignitose e migliorarle ove possibile

L’attenzione alla diversità

Più di recente, la multinazionale si è posta come obiettivo principale permettere agli spettatori di potersi rispecchiare nelle sue produzioni, di massimizzare il coinvolgimento personale di ognuno di loro nei contenuti che crea. Per fare ciò è emersa la necessità di disporre di team il più possibile variegati a livello culturale ed etnico.

Gli storytellers hanno, così, piena libertà creativa e la maggior multiculturalità dei team pone le basi per lavori più vicini al mondo “reale”. A tal proposito, l’azienda vanta settanta Business Employee Resource Groups in tutto il mondo che, insieme a lei, hanno il compito di plasmare un ambiente lavorativo che consenta ai dipendenti di accrescere ed esprimere appieno le loro potenzialità.

Un’ambiente che sia, quindi, un contesto aperto, dove vi sia un clima di fiducia e positività e in cui tutti si sentano rispettati senza alcuna discriminazione. Secondo Disney, tutto ciò stimola la creatività e consente di creare un’ampia proposta di potenziali nuovi prodotti innovativi.

Disney, inoltre, pone un’attenzione a 360° sulle tematiche sociali e, di conseguenza, è anche sostenitrice della comunità LGBTQ, impegnandosi per porre eliminare ogni possibile discriminazione riguardante l’identità di genere e sessuale tra i suoi dipendenti. L’impegno sociale su questi temi si è tradotto in azione più volte.

Di recente, Bob Chapec, il CEO di Disney, ha annunciato in una intervista del 3 giugno 2020, a seguito dell’episodio della morte di George Floyd, la donazione di cinque milioni di dollari a supporto delle organizzazioni no profit come la NAACP che promuovono il tema della giustizia sociale cercando di eliminare le disparità e le discriminazioni razziali e attuando programmi di difesa ed istruzione.

Negli anni Disney ha mostrato solidarietà lavorando a stretto contatto con gruppi cherafforzano le comunità di colore negli Stati Uniti, dando vita a sovvenzioni volte ad aiutare gli studenti ad accedere all’istruzione superiore e politiche aziendali attraverso cui i dipendenti possono donare prodotti direttamente alle comunità locali.

La corporate utilizza tutte le risorse di cui dispone, non solo in termini monetari ma anche creativi per produrre contenuti che sensibilizzino gli spettatori affrontando le tematiche a lei care.

Revisione della libreria di contenuti

Ad oggi Disney sta portando avanti un meticoloso processo di revisione della sua intera libreria di contenuti, avvertendo gli spettatori qualora rischiassero di trovarsi davanti a tematiche che si allontanano dal suo orientamento strategico di fondo come la violenza o la discriminazione.

Importante specificare che non si sta parlando di eliminazione di questi contenuti, ma di un’azione fatta per salvaguardare la sensibilità della propria audience, inserendo i contenuti non ritenuti in linea coi valori semplicemente in categorie separate, in modo che i bambini non possano venire a contatto con quelli ritenuti non idonei dall’azienda.

Ciò spiega la scelta dietro il cambio di categoria di film come Dumbo, Peter Pan e gli Aristogatti che, come abbiamo detto, non sono più suggeriti ai bambini sotto i 7 anni.

Per quanto, lo ammettiamo, parlare di razzismo all’interno di contenuti destinati ai bambini di decenni fa possa sembrare ridicolo, bisogna sforzarsi di capire che Disney è un’azienda americana. Gli Stati Uniti sono, infatti, la nazione multietnica per eccellenza, dove il tema dell’identità è centrale e cruciale non solo nel dibattito pubblico ma anche nella vita di tutti i giorni.

Ciò che qui in Europa, e specialmente in Italia dove l’omogeneità etnica è particolarmente calcata, può sembrare assurdo, negli Stati Uniti è all’ordine del giorno ed è perfettamente normale. Se, poi, tutto ciò sia giusto o sbagliato, semplicemente, non sta noi a deciderlo. Sicuramente dietro a queste operazioni ci sono ragioni economiche e comunicative, come abbiamo visto Disney vede la responsabilità sociale come un asset strategico, tuttavia è innegabile che per il gigante americano sia pratica comune farsi porta bandiera del pensiero dei suoi connazionali.

Disney ha, da sempre, esercitato il suo soft-power in tutto il mondo per veicolare e diffondere gli ideali e i valori in cui credeva e, di riflesso, in cui credevano e che più premevano agli americani. Ieri era la libertà, oggi è l’anti-razzismo e la parità.

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L’inversione di rotta di Joe Biden sul cambiamento climatico

Il 20 gennaio 2021 si è ufficialmente insediato alla Casa Bianca il 46esimo Presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden, il quale ha posto tra i principali obiettivi del suo mandato la lotta al cambiamento climatico.

Il suo predecessore, Donald Trump, durante i quattro anni della sua presidenza si era sempre mostrato contrario all’adozione di una politica di tutela dell’ambiente, negando l’esistenza del surriscaldamento globale.

Aveva infatti deciso di uscire dall’Accordo di Parigi del 2015 firmato da Obama, definendolo economicamente svantaggioso per gli Stati Uniti, abrogato le norme poste durante le precedenti amministrazioni a tutela del clima e adottato misure economiche che non tengono conto dei problemi causati dall’inquinamento alla salute dei cittadini e all’ambiente. Secondo un’indagine del New York Times Trump ha annullato più di 100 norme ambientali, tra le quali quelle volte a limitare le emissioni di gas a effetto serra e di sostanze tossiche prodotte dalle industrie.

Cosa cambierà con Biden?

Il neopresidente fin dagli inizi della sua campagna elettorale ha affermato che, se eletto, avrebbe messo il problema ambientale al centro del suo mandato governativo, iniziando con il rientro degli Stati Uniti nell’Accordo di Parigi. E così è stato: il giorno dopo il suo insediamento alla Casa Bianca ha iniziato l’iter per rientrare nell’Accordo, di cui fanno parte 190 Paesi e che ha come obiettivo principale quello di mantenere l’aumento della temperatura globale entro i 2° C rispetto ai livelli preindustriali.

Biden ha poi promesso un piano di investimenti da 2 trilioni di dollari da distribuire durante i quattro anni del suo mandato volto a risolvere la crisi climatica, proteggere l’ambiente e creare nuovi posti di lavoro nel settore dell’energia pulita.  L’obiettivo di Biden è di dare un impulso alla ripresa economica del Paese, messo in ginocchio dal Covid 19, creando però una economia green, non inquinante e rispettosa dell’ambiente, che porti gli Stati Uniti ad essere un Paese ad emissioni 0 entro il 2050.

Il nuovo presidente ha anche presentato un team di esperti sull’inquinamento climatico che avrà il compito di preparare i lavori necessari per ridurre le emissioni che causano il riscaldamento del pianeta e per proteggere l’ambiente, e ha creato un nuovo Ufficio per la politica climatica presso la Casa Bianca.

Le iniziative del nuovo presidente nell’ambito della politica ambientale rappresentano sicuramente un importante passo avanti nella lotta al cambiamento climatico. Secondo un’analisi del sito Climate Action Tracker se Biden andrà avanti con il suo programma questo potrebbe ridurre il surriscaldamento del pianeta del 0,1°C entro il 2100, contribuendo così al raggiungimento degli obiettivi fissati dagli Stati nell’Accordo di Parigi.

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C’è chi dice no: IBM, Amazon e Microsoft dicono “stop” al riconoscimento facciale

L’intelligenza artificiale, e in particolare il facial recognition tornano a far discutere: in seguito all’omicidio di George Floyd e le proteste scoppiate negli USA, tre delle più importanti aziende al mondo, IBM, Amazon e Microsoft, hanno consapevolmente scelto di fare un passo indietro consapevoli che il riconoscimento facciale ad oggi può dirsi non idoneo come supporto per le forze di polizia.

IBM è stata la prima a dichiarare pubblicamente l’intenzione di sospendere l’erogazione del servizio ai governi e alle forze dell’ordine. Le parole dell’amministratore delegato Arvind Krishna non lasciano spazio a dubbi: “IBM si oppone fermamente e non perdonerà l’uso di alcuna tecnologia di riconoscimento facciale, comprese quelle offerte da altri fornitori, per la sorveglianza di massa, la profilazione razziale, le violazioni dei diritti umani e delle libertà o a qualsiasi fine che non sia coerente con i nostri valori e principi di fiducia e trasparenza”.

Poco dopo, Amazon ha seguito l’esempio di IBM, vietando alla polizia l’utilizzo del suo Rekognition da qui a un anno.

Infine Microsoft che, in seguito all’esplicita richiesta da parte dei ricercatori del MIT, ha dichiarato, nel corso di una conferenza virtuale organizzata dal Washington Post lo stop alla vendita della tecnologia fino a quando non verrà varata una legge nazionale rispettosa dei diritti umani relativa a tale tecnologia.

Gli stessi studiosi del MIT, insieme all’Intelligence Team di Google, hanno infatti più volte denunciato l’inadeguatezza dei sistemi di riconoscimento facciale con particolare attenzione verso il bug riguardante la tecnologia di screening della melatonina, che non funzionerebbe adeguatamente su persone con la pelle più scura.

Inoltre, fa discutere anche l’utilizzo dei software in sinergia con le fotografie “prelevate” dai profili sui social network: un polverone che si era già sollevato durante il recente scandalo riguardante la startup Clearview AI.

Tecnologia ed etica: quando il business non può superare il valore delle persone

Sono tanti i dubbi che hanno accompagnato l’adozione su vasta scala dell’intelligenza artificiale per il riconoscimento facciale, e la scelta di adottare questa particolare tecnologia anche per gestire l’ordine pubblico, in un periodo di forti tensioni sociali, non ha che accentuato i dubbi anche etici sulla sua applicazione.

Il problema legato all’utilizzo del riconoscimento facciale è relativo alla possibilità che si possa trasformare in un dispositivo di sorveglianza di massa e di profilazione delle minoranze. La città di San Francisco aveva già vietato espressamente  l’utilizzo di questi software nel 2019, poiché ritenuti ancora acerbi e poco regolamentati per un utilizzo continuativo che non violi inevitabilmente i diritti e le libertà dei cittadini.

Il problema però non è solo statunitense.

Già nel 2018 l’Unione Europea aveva iniziato la stesura di un codice volto a prevenire situazioni in cui l’utilizzo di intelligenze artificiali in grado di riconoscere il volto delle persone potesse rivelarsi pericoloso per le libertà e lesivo per i diritti umani, a maggior ragione considerando che questi sistemi si basano su algoritmi che presentano ancora falle importanti per quanto riguarda il riconoscimento di donne, bambini e minoranze etniche.

La domanda quindi resta: ci possiamo affidare all’intelligenza artificiale per “farci riconoscere”? Al momento, la risposta sembra essere no: e non per colpa delle  macchine.