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Entertainment, videogame e contenuti

Roblox: tra user-generated e branded gaming

Tra i videogiochi più amati e giocati dai bambini di tutto il mondo Roblox è, sicuramente, uno di quelli meno conosciuti tra il pubblico adulto. Nonostante sia disponibile da più di una decade, infatti, Roblox ha iniziato ad accrescere (smisuratamente) la sua popolarità solamente negli ultimi anni. Basti pensare che il numero di utenti attivi mensilmente è passato, dal 2019 a oggi, da 35 a 150 milioni e che, durante la pandemia, ha generato oltre 920 milioni di dollari di ricavi. Tutto questo, come intuibile, con oltre il 50% dei giocatori sotto i 13 anni. Ma che cos’è Roblox? Come funziona?

Parola d’ordine: creatività

Più che un gioco, Roblox andrebbe definito come una piattaforma per la creazione e la condivisione di videogiochi. Agli utenti, infatti, è consentito di sviluppare, utilizzando l’apposito programma Roblox Studio, qualsiasi videogame riescano ad immaginare per poi condividerlo online con la community. Va quindi da sé che, con alle spalle i suoi 15 anni di attività, Roblox è diventato un contenitore enorme, con oltre 20 milioni di videogiochi user-generated disponibili. E, considerando che solamente i due più popolari – “Adopt me!” e “Tower of Hell” – sono stati giocati per più di 30 miliardi di volte, l’immensità del fenomeno Roblox potrebbe iniziare ad esservi più chiara. L’aspetto sorprendente è che la maggior parte di questi contenuti, non tutti, è accessibile gratuitamente. Come è possibile, dunque, che la compagnia dietro a Roblox sia quotata in borsa con una valutazione di ben 38 miliardi di dollari? Quotazione, tra l’altro, ben superiore ad altri player storici e di successo come Ubisoft.

Arricchirsi con i Robux

Come abbiamo notato più volte su iWrite, non è detto che un gioco gratuito non possa fruttare milioni e milioni di dollari ai suoi sviluppatori. Esattamente come avviene nel celebre Fortnite, anche Roblox adotta una forma di monetizzazione simile. La piattaforma consente, infatti, di acquistare i Robux, la valuta virtuale spendibile in tutti i videogame, per “acquistare miglioramenti per il tuo avatar o abilità speciali nei giochi”. Il prezzo? I Robux sono attualmente acquistabili in pacchetti che possono andare dai 400 ai 10.000 Robux per un equivalente valore dai 4,99 ai 99.99 euro. È, inoltre, possibile sottoscrivere un abbonamento mensile dai 4,99 ai 20,99 euro che consente di avere una somma fissa di Robux al mese più un incremento su ogni acquisto successivo. Nulla di particolarmente originale, in verità, tuttavia la parte della monetizzazione di Roblox più interessante non riguarda quella della compagnia ma quella dei giocatori-creatori di contenuti. Roblox ha, infatti, dispensato profitti per più di 200 milioni di dollari ai suoi utenti sviluppatori nel 2020. Le fonti di questi introiti, che in molti casi hanno fruttato guadagni enormi ai singoli creator, derivano sia dalla possibilità di rendere il proprio gioco a pagamento (in Robux) che dai finanziamenti che la società passa agli sviluppatori dei giochi che attraggono più acquisti in-game. E, come si può ben immaginare, tutto ciò alimenta un circolo tramite il quale Roblox riesce ad attrarre creativi e a spingere gli utenti già presenti a fare di meglio… Per puntare a guadagnare di più.

La componente sociale e il futuro branded di Roblox

Nonostante la monetizzazione abbia sicuramente contribuito moltissimo alla crescita di Roblox, il suo cuore pulsante rimane, senza dubbio, la sua componente sociale. Negli anni Roblox è diventato, infatti, un punto di ritrovo virtuale per milioni di giovanissimi che utilizzano gli altrettanto numerosi mondi e giochi per fare amicizia e passare il tempo in compagnia sulla piattaforma. Non a caso, la mission della società è proprio quella di “collegare il mondo intero attraverso il gioco”.

Ora, immaginate, abbiamo una piattaforma su cui milioni di bambini e ragazzini della, ancora lontana dai radar, generazione alpha (o, comunque, i più giovani della z) si ritrovano per ore a giocare e chattare in mondi virtuali che possono essere creati da chiunque… quale sarà il prossimo passo? Beh, il branded gaming. Esattamente come succede in Fortnite con skin e oggetti personalizzati con i brand dei vari sponsor, è molto probabile che presto vedremo degli interi mondi brandizzati all’interno di Roblox. Non si tratterà più di “incollare” il proprio brand sui giocatori ma di portarli a divertirsi e a passare il tempo “dentro” di esso, magari ad appassionarcisi attraverso il gioco. Sinceramente, stento a immaginare una forma più immersiva di marketing e sarebbe assurdo non approfittare di un pubblico così ampio e poco esplorato. Roblox ha quindi tutte le carte in regola per mettere l’immersività dei videogame al servizio delle aziende in una maniera inedita, resta da vedere se e come quest’ultime ne approfitteranno.

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Loot box: il gioco d’azzardo a portata di bambino?

Durante la seduta del 9 marzo, il Bundestag – la Camera bassa del Parlamento tedesco – ha votato a favore di una riforma del Young Protection Act atta a regolamentare dinamiche “simili al gioco d’azzardo” presenti in videogiochi con target inferiore ai 18 anni. Più in particolare, stando a una nota riportata sul sito ufficiale del Bundestag ma poi ritrattata, la riforma dovrebbe “vietare” ai minorenni tutti quei titoli contenenti sistemi di loot box. Ma cosa sono queste “loot box”? Se non ne avete mai sentito parlare, non preoccupatevi: in Italia la discussione pubblica al riguardo è stata a mala pena accennata negli scorsi anni. Diversa è, invece, la situazione in altri paesi – soprattutto europei – dove la questione ha già attirato l’attenzione della politica e dei vari legislatori nazionali. Cerchiamo di capirne il perché.

Cosa sono

A dire il vero, il concetto di “loot box” in sé non è nulla di complicato da capire. Si tratta, infatti, di oggetti virtuali acquistabili che possono essere riscattati per ricevere in cambio una selezione casuale, detta appunto “loot”, di oggetti come elementi estetici (ricordate il fenomeno delle skin di Fortnite? Ne abbiamo parlato qui) o strumenti utilizzabili in-game. Spesso queste loot box assumono, nel gioco, l’aspetto di scrigni, casse o pacchetti apribili, però, solamente spendendo una certa quantità – che ovviamente può variare da gioco a gioco – di valuta virtuale, a sua volta acquistabile spendendo soldi reali. Essenzialmente potremmo paragonarlo all’acquisto di una bustina di figurine: sai cosa compri ma non sai cosa trovi. Il tutto, però, ibridato con meccaniche sospettosamente vicine a quelle delle slot machine che, a differenza di quanto avverrebbe con un pacchetto di figurine, rendono totalmente casuale il valore del loot acquistato. Con la stessa cifra spesa si potrebbero trovare elementi di gioco rarissimi e rivendibili online per cifre ben superiori al prezzo d’acquisto della loot box oppure… Nulla. Lascio a voi immaginare quanto sia probabile il primo dei due scenari rispetto al secondo.

Spoiler: in realtà le percentuali di “vincita” sono per lo più ignote (in alcuni giochi non esistono nemmeno effettive percentuali di cui tener conto) ed è questo l’elemento principale che avvicina pericolosamente le loot box al gioco d’azzardo.

Tutto cio’ e’ legale in italia?

Tuttavia, si potrebbe obiettare che se un giocatore decidesse in piena autonomia di prendersi il rischio e, magari, acquistare decine di loot box dovrebbe poterlo fare. D’altronde i soldi sono suoi e sta alla sua volontà scegliere come spenderli. In realtà, questa è una mezza verità e, in ogni caso, rappresenta solo parte del problema. In Italia, infatti, il gioco d’azzardo è illegale e può essere organizzato solamente previa autorizzazione dell’Azienda Autonoma Monopoli di Stato. Autorizzazione che, tuttavia, non è richiesta per i sistemi di loot box, essendo quest’ultimi non considerati, nel nostro Paese, gioco d’azzardo. Tutto queste li rende, di fatto, una forma parallela e legalizzata di quest’ultimo. Posto quindi che i sistemi di loot box si trovano in un’area grigia tra gioco e gioco d’azzardo, il problema principale si pone quando si considera chi effettivamente ne fa uso.

Qualcuno pensi ai bambini!

Stando a uno studio, infatti, il 58% dei videogame più popolari sullo store Google Play contiene loot box. Detto questo, vi basterebbe accedere allo store per notare che la stragrande maggioranza (se non la totalità) dei titoli con più download su Google Play ha un target che va dai 3 o dai 7 anni in su. Senza considerare, tra l’altro, che si tratta quasi sempre di giochi free-to-play, cioè accessibili senza alcun costo iniziale. Ciò comporta che, inevitabilmente, sono anche i giochi che più spesso vengono scaricati e giocati da minorenni. Va da sé che le loot box potrebbero diventare, e nella maggior parte dei casi sono, il primo contatto reale con il gioco d’azzardo dei giovanissimi videogiocatori. Ciò li spingerebbe, come spiegato dallo psicologo e giudice onorario presso il Tribunale dei Minori di Milano Simone Feder ad Ansa, ad assumere una mentalità “caratterizzata dall’affidarsi alla fortuna e utilizzare denaro, invece delle proprie abilità”.

Come si sono mossi gli altri paesi?

Alla luce di tutto ciò, non stupisce, quindi, che i principali provvedimenti presi in giro per il mondo riguardino principalmente la tutela dei minori. Nella maggioranza dei casi, però, si tratta comunque di provvedimenti “soft” che non comportano l’equiparazione delle loot box al gioco d’azzardo – il che le renderebbe illegali – ma l’obbligo di riportare sulle confezioni (o nella descrizione in caso si tratti di versioni digitali) un segnale che evidenzi la presenza di loot box, se non, addirittura, l’imposizione del rating 18+. Tuttavia, in alcuni paesi come il Belgio, le loot box sono state dichiarate illegali nel 2020 portando molti publisher a rimuovere i propri prodotti dai vari store digitali. In altri, invece, come Olanda e Stati Uniti, non è raro che vengano organizzate, e spesso vinte, class action. A dirla tutta, anche in Italia qualcosa si è fatto: verso la fine dello scorso anno, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha adottato nuovi standard di trasparenza per i videogiochi in cui sono presenti acquisti in-game, con particolare attenzione a quelli con sistemi di loot box. Quest’ultimi, però, si limitano all’obbligo di rendere chiaramente visibile il logo PEGI (che indica il rating del gioco) e di esporre un avviso che informi l’utente della possibilità di ulteriori esborsi di denaro durante il gioco. Troppo poco.

Vedremo, dunque, verso che direzione andranno le legislazioni nazionali, sperando che, prima o poi, il problema venga messo in luce anche nel nostro Paese. Bisognerebbe, comunque vada, tenere a mente che, come rilevato da diversi studi, le loot box provocano “un irresistibile impulso al gioco e una crescente tensione che potrebbe essere alleviata solo giocando” che, di conseguenza, possono abituare il minore a dinamiche simili a gioco d’azzardo predisponendolo più facilmente a comportamenti economicamente rischiosi.

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Non chiamateli videogames: a che punto è il settore degli eSports

Durante il periodo del lockdown, in assenza di altri eventi sportivi, a prendersi la copertina sono stati i “fratelli minori” o, per meglio dire, “elettronici”: gli eSports o “Sport Elettronici”, cioè le competizioni fra giocatori professionisti di videogame.

Per molti sembrerebbe un hobby qualunque, e invece stiamo parlando di un mondo molto più articolato (e remunerato) di quel che si pensi: basti pensare ai ricavi generati a livello mondo, pari a 950 milioni di dollari.

Un giro d’affari esorbitante, se si considera che stiamo parlando, comunque, sempre di videogiochi.

Sarà, anche se i “videogame” sono un ecosistema sempre più articolato dove agiscono giocatori professionisti, squadre, sponsor, piattaforme di streaming, eventi dal vivo… Un vero e proprio movimento, paragonabile per intenderci al mondo del Calcio, in cui attorno ai giocatori ruota un’intera galassia che genera fatturato: diritti televisivi, merchandising, eventi.

I dati che citavamo su ce lo confermano: il mondo degli eSports è in rapida espansione. Secondo l’ultimo rapporto di Newzoo, i ricavi supereranno gli 1,1 miliardi di dollari nel 2020, con una crescita del +15,1% rispetto all’anno precedente.

A fare da Paesi capofila del movimento sono Cina e Corea del Sud, dove il settore si può dire essere più sviluppato: sul mercato cinese troviamo infatti team come i TSM, squadra con ricavi annui sui 29 milioni di dollari ed un valore societario di 400 milioni, che nel 2019 ha generato ricavi pari a 326,2 milioni di dollari.

Anche in Italia sono presenti team che negli ultimi anni si sono strutturati, sia in termini di organizzazione e strutture che sul fronte dei ricavi.

Tra i più importanti possiamo menzionare Qlash Italia, squadra attiva sui principali titoli (Fifa, League of Legends, Fortnite, Rainbow Six: Siege…) con ricavi nel solo 2019 pari a 512 mila di euro e un valore societario di 3 milioni di euro.

Altre realtà presenti in Italia sono Mkers, Outplayed, Samsung Morning Stars, Exeed, Nl Esport, Campus Party Spark e Hsl Esport.

Ultime arrivate, ma non per questo meno importanti, sono le società di calcio che hanno creato il proprio team eSport: i “pionieri” in questo settore sono Sampdoria, Empoli, Genoa e più recentemente Inter, Roma , Atalanta e Juventus.

Dati questi numeri, non è strano prevedere un futuro roseo: gli analisti si attendono guadagni pari a 1,5 miliardi di dollari entro il 2023.

Nei prossimi anni sarà interessante monitorare la crescita di questo settore soprattutto in italia, paese che fino ad ora è stato tra gli ultimi a svilupparsi nel panorama Esports.