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Roblox: tra user-generated e branded gaming

Tra i videogiochi più amati e giocati dai bambini di tutto il mondo Roblox è, sicuramente, uno di quelli meno conosciuti tra il pubblico adulto. Nonostante sia disponibile da più di una decade, infatti, Roblox ha iniziato ad accrescere (smisuratamente) la sua popolarità solamente negli ultimi anni. Basti pensare che il numero di utenti attivi mensilmente è passato, dal 2019 a oggi, da 35 a 150 milioni e che, durante la pandemia, ha generato oltre 920 milioni di dollari di ricavi. Tutto questo, come intuibile, con oltre il 50% dei giocatori sotto i 13 anni. Ma che cos’è Roblox? Come funziona?

Parola d’ordine: creatività

Più che un gioco, Roblox andrebbe definito come una piattaforma per la creazione e la condivisione di videogiochi. Agli utenti, infatti, è consentito di sviluppare, utilizzando l’apposito programma Roblox Studio, qualsiasi videogame riescano ad immaginare per poi condividerlo online con la community. Va quindi da sé che, con alle spalle i suoi 15 anni di attività, Roblox è diventato un contenitore enorme, con oltre 20 milioni di videogiochi user-generated disponibili. E, considerando che solamente i due più popolari – “Adopt me!” e “Tower of Hell” – sono stati giocati per più di 30 miliardi di volte, l’immensità del fenomeno Roblox potrebbe iniziare ad esservi più chiara. L’aspetto sorprendente è che la maggior parte di questi contenuti, non tutti, è accessibile gratuitamente. Come è possibile, dunque, che la compagnia dietro a Roblox sia quotata in borsa con una valutazione di ben 38 miliardi di dollari? Quotazione, tra l’altro, ben superiore ad altri player storici e di successo come Ubisoft.

Arricchirsi con i Robux

Come abbiamo notato più volte su iWrite, non è detto che un gioco gratuito non possa fruttare milioni e milioni di dollari ai suoi sviluppatori. Esattamente come avviene nel celebre Fortnite, anche Roblox adotta una forma di monetizzazione simile. La piattaforma consente, infatti, di acquistare i Robux, la valuta virtuale spendibile in tutti i videogame, per “acquistare miglioramenti per il tuo avatar o abilità speciali nei giochi”. Il prezzo? I Robux sono attualmente acquistabili in pacchetti che possono andare dai 400 ai 10.000 Robux per un equivalente valore dai 4,99 ai 99.99 euro. È, inoltre, possibile sottoscrivere un abbonamento mensile dai 4,99 ai 20,99 euro che consente di avere una somma fissa di Robux al mese più un incremento su ogni acquisto successivo. Nulla di particolarmente originale, in verità, tuttavia la parte della monetizzazione di Roblox più interessante non riguarda quella della compagnia ma quella dei giocatori-creatori di contenuti. Roblox ha, infatti, dispensato profitti per più di 200 milioni di dollari ai suoi utenti sviluppatori nel 2020. Le fonti di questi introiti, che in molti casi hanno fruttato guadagni enormi ai singoli creator, derivano sia dalla possibilità di rendere il proprio gioco a pagamento (in Robux) che dai finanziamenti che la società passa agli sviluppatori dei giochi che attraggono più acquisti in-game. E, come si può ben immaginare, tutto ciò alimenta un circolo tramite il quale Roblox riesce ad attrarre creativi e a spingere gli utenti già presenti a fare di meglio… Per puntare a guadagnare di più.

La componente sociale e il futuro branded di Roblox

Nonostante la monetizzazione abbia sicuramente contribuito moltissimo alla crescita di Roblox, il suo cuore pulsante rimane, senza dubbio, la sua componente sociale. Negli anni Roblox è diventato, infatti, un punto di ritrovo virtuale per milioni di giovanissimi che utilizzano gli altrettanto numerosi mondi e giochi per fare amicizia e passare il tempo in compagnia sulla piattaforma. Non a caso, la mission della società è proprio quella di “collegare il mondo intero attraverso il gioco”.

Ora, immaginate, abbiamo una piattaforma su cui milioni di bambini e ragazzini della, ancora lontana dai radar, generazione alpha (o, comunque, i più giovani della z) si ritrovano per ore a giocare e chattare in mondi virtuali che possono essere creati da chiunque… quale sarà il prossimo passo? Beh, il branded gaming. Esattamente come succede in Fortnite con skin e oggetti personalizzati con i brand dei vari sponsor, è molto probabile che presto vedremo degli interi mondi brandizzati all’interno di Roblox. Non si tratterà più di “incollare” il proprio brand sui giocatori ma di portarli a divertirsi e a passare il tempo “dentro” di esso, magari ad appassionarcisi attraverso il gioco. Sinceramente, stento a immaginare una forma più immersiva di marketing e sarebbe assurdo non approfittare di un pubblico così ampio e poco esplorato. Roblox ha quindi tutte le carte in regola per mettere l’immersività dei videogame al servizio delle aziende in una maniera inedita, resta da vedere se e come quest’ultime ne approfitteranno.

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Loot box: il gioco d’azzardo a portata di bambino?

Durante la seduta del 9 marzo, il Bundestag – la Camera bassa del Parlamento tedesco – ha votato a favore di una riforma del Young Protection Act atta a regolamentare dinamiche “simili al gioco d’azzardo” presenti in videogiochi con target inferiore ai 18 anni. Più in particolare, stando a una nota riportata sul sito ufficiale del Bundestag ma poi ritrattata, la riforma dovrebbe “vietare” ai minorenni tutti quei titoli contenenti sistemi di loot box. Ma cosa sono queste “loot box”? Se non ne avete mai sentito parlare, non preoccupatevi: in Italia la discussione pubblica al riguardo è stata a mala pena accennata negli scorsi anni. Diversa è, invece, la situazione in altri paesi – soprattutto europei – dove la questione ha già attirato l’attenzione della politica e dei vari legislatori nazionali. Cerchiamo di capirne il perché.

Cosa sono

A dire il vero, il concetto di “loot box” in sé non è nulla di complicato da capire. Si tratta, infatti, di oggetti virtuali acquistabili che possono essere riscattati per ricevere in cambio una selezione casuale, detta appunto “loot”, di oggetti come elementi estetici (ricordate il fenomeno delle skin di Fortnite? Ne abbiamo parlato qui) o strumenti utilizzabili in-game. Spesso queste loot box assumono, nel gioco, l’aspetto di scrigni, casse o pacchetti apribili, però, solamente spendendo una certa quantità – che ovviamente può variare da gioco a gioco – di valuta virtuale, a sua volta acquistabile spendendo soldi reali. Essenzialmente potremmo paragonarlo all’acquisto di una bustina di figurine: sai cosa compri ma non sai cosa trovi. Il tutto, però, ibridato con meccaniche sospettosamente vicine a quelle delle slot machine che, a differenza di quanto avverrebbe con un pacchetto di figurine, rendono totalmente casuale il valore del loot acquistato. Con la stessa cifra spesa si potrebbero trovare elementi di gioco rarissimi e rivendibili online per cifre ben superiori al prezzo d’acquisto della loot box oppure… Nulla. Lascio a voi immaginare quanto sia probabile il primo dei due scenari rispetto al secondo.

Spoiler: in realtà le percentuali di “vincita” sono per lo più ignote (in alcuni giochi non esistono nemmeno effettive percentuali di cui tener conto) ed è questo l’elemento principale che avvicina pericolosamente le loot box al gioco d’azzardo.

Tutto cio’ e’ legale in italia?

Tuttavia, si potrebbe obiettare che se un giocatore decidesse in piena autonomia di prendersi il rischio e, magari, acquistare decine di loot box dovrebbe poterlo fare. D’altronde i soldi sono suoi e sta alla sua volontà scegliere come spenderli. In realtà, questa è una mezza verità e, in ogni caso, rappresenta solo parte del problema. In Italia, infatti, il gioco d’azzardo è illegale e può essere organizzato solamente previa autorizzazione dell’Azienda Autonoma Monopoli di Stato. Autorizzazione che, tuttavia, non è richiesta per i sistemi di loot box, essendo quest’ultimi non considerati, nel nostro Paese, gioco d’azzardo. Tutto queste li rende, di fatto, una forma parallela e legalizzata di quest’ultimo. Posto quindi che i sistemi di loot box si trovano in un’area grigia tra gioco e gioco d’azzardo, il problema principale si pone quando si considera chi effettivamente ne fa uso.

Qualcuno pensi ai bambini!

Stando a uno studio, infatti, il 58% dei videogame più popolari sullo store Google Play contiene loot box. Detto questo, vi basterebbe accedere allo store per notare che la stragrande maggioranza (se non la totalità) dei titoli con più download su Google Play ha un target che va dai 3 o dai 7 anni in su. Senza considerare, tra l’altro, che si tratta quasi sempre di giochi free-to-play, cioè accessibili senza alcun costo iniziale. Ciò comporta che, inevitabilmente, sono anche i giochi che più spesso vengono scaricati e giocati da minorenni. Va da sé che le loot box potrebbero diventare, e nella maggior parte dei casi sono, il primo contatto reale con il gioco d’azzardo dei giovanissimi videogiocatori. Ciò li spingerebbe, come spiegato dallo psicologo e giudice onorario presso il Tribunale dei Minori di Milano Simone Feder ad Ansa, ad assumere una mentalità “caratterizzata dall’affidarsi alla fortuna e utilizzare denaro, invece delle proprie abilità”.

Come si sono mossi gli altri paesi?

Alla luce di tutto ciò, non stupisce, quindi, che i principali provvedimenti presi in giro per il mondo riguardino principalmente la tutela dei minori. Nella maggioranza dei casi, però, si tratta comunque di provvedimenti “soft” che non comportano l’equiparazione delle loot box al gioco d’azzardo – il che le renderebbe illegali – ma l’obbligo di riportare sulle confezioni (o nella descrizione in caso si tratti di versioni digitali) un segnale che evidenzi la presenza di loot box, se non, addirittura, l’imposizione del rating 18+. Tuttavia, in alcuni paesi come il Belgio, le loot box sono state dichiarate illegali nel 2020 portando molti publisher a rimuovere i propri prodotti dai vari store digitali. In altri, invece, come Olanda e Stati Uniti, non è raro che vengano organizzate, e spesso vinte, class action. A dirla tutta, anche in Italia qualcosa si è fatto: verso la fine dello scorso anno, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha adottato nuovi standard di trasparenza per i videogiochi in cui sono presenti acquisti in-game, con particolare attenzione a quelli con sistemi di loot box. Quest’ultimi, però, si limitano all’obbligo di rendere chiaramente visibile il logo PEGI (che indica il rating del gioco) e di esporre un avviso che informi l’utente della possibilità di ulteriori esborsi di denaro durante il gioco. Troppo poco.

Vedremo, dunque, verso che direzione andranno le legislazioni nazionali, sperando che, prima o poi, il problema venga messo in luce anche nel nostro Paese. Bisognerebbe, comunque vada, tenere a mente che, come rilevato da diversi studi, le loot box provocano “un irresistibile impulso al gioco e una crescente tensione che potrebbe essere alleviata solo giocando” che, di conseguenza, possono abituare il minore a dinamiche simili a gioco d’azzardo predisponendolo più facilmente a comportamenti economicamente rischiosi.

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Fortnite: un successo miliardario giocabile gratuitamente

Oggi, quando si parla di videogiochi recenti, non si può che menzionare il fenomeno Fortnite. Il free-to-play Battle Royale è stato pubblicato ormai tre anni fa ed, ormai, è diventato un vero e proprio fenomeno pop, con introiti nell’ordine dei miliardi di dollari e collaborazioni con i più grandi brand internazionali. Tutto ciò partendo da un videogame che chiunque può giocare gratuitamente. Come è stato possibile? Proviamo ad indagarlo in questo articolo, dalle origini ai sistemi di marketing con cui Epic Games ha deciso di capitalizzare l’enorme successo del gioco.

Un po’ di storia

Ma facciamo un passo indietro, come è nato il successo di Fortnite? La cosa interessante è che Fortnite è basato su un fallimento. Il gioco fu, infatti, originariamente presentato nel 2011 come un misto tra le meccaniche di Minecraft, il celebre videogame di costruzioni, e di Left 4 Dead, uno sparatutto horror in terza persona. Graficamente e iconicamente, Fortnite era già Fortnite: quel che mancava era la sostanza. Si trattava di un normale, tra l’altro a pagamento, gioco a squadre di quattro in cui divertirsi costruendo fortezze, cercando armi e sconfiggendo mostri. Nessuna componente competitiva online era prevista. Tuttavia, il prodotto in questo stato fu accolto con freddezza e lo sviluppo dello stesso si prolungò per altri sei anni. In quel lasso di tempo, l’industria videoludica si stava ormai muovendo verso una concezione del gioco come “servizio” fin lì inedita o, quantomeno, di nicchia. Concezione che andava, inevitabilmente, a preferire i free-to-play, così sono detti in gergo i giochi scaricabili gratuitamente, perfezionabili “in corso d’opera” tramite aggiornamenti e patch, piuttosto che prodotti finiti venduti a un prezzo fisso (per lo più nei negozi fisici). Presa la decisione di virare su questo modello di business, fu integrata l’ormai celebre modalità Battle Royale, consistente in partite, in singolo o a squadre, a cui partecipano 100 persone e in cui è possibile muoversi liberamente per una mappa particolarmente ampia, cercando armi, strumenti e risorse, con l’obiettivo di essere l’ultimo giocatore sopravvissuto. A onor della cronaca, Fortnite non ha inventato nulla: il genere era già famoso ai tempi, tant’è che gli stessi sviluppatori hanno più volte ammesso di essere fan di PlayerUnknown’s Battlegrounds, vero fondatore del genere di successo. Ma come accade spesso, non sempre la Storia premia il primo arrivato.

Come può un gioco gratuito produrre così tanti introiti?

Alla fine la promessa fu mantenuta e Fortnite fu pubblicato come Battle Royale free-to-play su praticamente ogni piattaforma e console possibile. Il gioco, per come era stato concepito originariamente, esisteva ancora ma come modalità secondaria a pagamento, denominata “Save the World”: decisamente trascurabile sia per quanto riguarda la popolarità che per gli incassi. Con i suoi 129 milioni di download globali e 6 milioni di utenti attivi mensilmente (per lo più ragazzi sotto i 24 anni), si stima che Fortnite – Battle Royale attualmente frutti, in media, più di tremila dollari al minuto a Epic Games, publisher del videogame, per un totale di oltre 1 miliardo di incassi solamente negli ultimi due anni tramite acquisti in-app. Eppure è possibile giocare a Fortnite senza mai effettuare nessun pagamento e senza subire, di conseguenza, alcun malus. Nel gioco, infatti, è consentito acquistare solamente elementi estetici, come skin (i costumi dei vari personaggi) o oltri elementi decorativi come picconi o deltaplani, spendendo V-Bucks, la monetà virtuale del gioco – ovviamente a sua volta acquistabile caricando soldi reali sul proprio account. Nulla che modifichi in alcun modo il gameplay o che dia vantaggio rispetto agli altri giocatori, ciò nonostante funziona e, a riprova di ciò, sembrerebbe che il 70% dei giocatori abbia effettuato almeno un acquisto in-app, con una media di 102 dollari spesi a testa, decisamente di più di quanto richiederebbe l’acquisto di un videogioco “tradizionale”. Considerando anche che oltre il  64% dei player utilizza Fortnite per più di 6 ore a settimana, si potrebbe teorizzare che il business degli acquisti in-app si basi tutto sullo status auto-percepito dai giocatori stessi, un modo per comunicare agli altri quanto si è affezionati e appassionati al gioco. Nulla di così diverso da quanto avviene nella vita reale col vestiario, a ben vedere.

Eventi ed engagement: l’importanza della temporaneità

Non ho parlato di “status” a caso: quando si parla di Fortnite – ma lo stesso potrebbe valere per molti altri giochi che adottano sistemi di business simili – non si può, infatti, ignorare il funzionamento della sua community che, probabilmente, è una di quelle videoludiche con il maggior engagement degli utenti. Tramite i vari eventi e tornei, che si tengono periodicamente, Fortnite è riuscito a creare un humus di storie che si avvicina a essere una realtà alternativa, nonché un luogo di incontro virtuale per milioni di utenti (in gioco è possibile parlare tramite chat vocale). Gli eventi possono svilupparsi in diverse tipologie e tenersi in concomitanza di festività (halloween, natale, ecc…) oppure in prossimità della conclusione di ogni “Stagione”, periodi solitamente di 10 settimane caratterizzati da particolari feature disponibili temporaneamente, da un po’ di narrazione che giustifichi cambiamenti e scelte degli sviluppatori, e, soprattutto, dal proprio “Pass Battaglia”. Quest’ultimo è la modalità d’acquisto in gioco più economica e consente, al costo di 950 V-Bucks (circa 10 euro), di accedere a un ampio set di oggetti virtuali, da riscattare completando missioni entro la fine della stagione.

Esclusi gli eventi di fine stagione, decisamente più interessanti sono quelli disponibili per festeggiare determinate ricorrenze o celebrare la community. In questi casi, per lo più, si tratta di modalità di gioco alternative o di missioni speciali disponibili temporaneamente che, spesso, consento di sbloccare, gratuitamente, bonus estetici che certificano, agli occhi degli altri giocatori, la presenza di chi li riscatta a quel determinato evento. Decisamente più particolari sono, invece, i concerti. Da qualche mese, infatti, si tengono su Fortnite, in un’apposita modalità dove non è possibile danneggiare gli altri giocatori, dei veri e propri live, in cui sono stati ospitati alcuni dei più importanti artisti della musica internazionale: iconico fu il concerto di Travis Scott di questo aprile, durante il quale presentò un suo nuovo brano in anteprima e fece, suo malgrado, crashare i server di Twitch per i troppi spettatori connessi a seguire l’evento in streaming.  La temporaneità  è, quindi, un elemento chiave del successo di Fortnite e del così alto numero di acquisti in-app. Essa, infatti, non si applica solo agli eventi e alle stagioni ma anche a ogni oggetto messo in vendita nello store del gioco, contribuendo ad accrescere le vendite per due motivi. Innanzitutto, gli acquisti vengono freneticamente spinti dal timore di non poter più trovare disponibile per l’acquisto un dato oggetto o skin per mesi e mesi, incentivando l’acquisto istantaneo e non troppo ragionato. In secondo luogo, come abbiamo detto, Fortnite non è più, ormai, solo un gioco ma una community viva e dinamica e possedere elementi estetici, magari non più acquistabili da mesi o anni, aumenta il proprio prestigio in una logica di anzianità ed esperienza.

Il successo delle collaborazioni: il caso Disney

Considerando tutto il pubblico che abbiamo visto essere attivo su Fortnite, non stupisce che il gioco sia diventato anche veicolo di pubblicità. Non si parla, però, di mero advertising ma di una dinamica più particolare e integrata oltreché, in un certo senso, subdola che potremmo definire come “in-game marketing”. Epic Games ha, infatti, creato un sistema di collaborazioni grazie al quale consente ad altri brand di poter creare  delle proprie skin o oggetti targati da vendere in Fortnite. Come è facile immaginare, queste collaborazioni hanno dei costi enormi per le aziende (non sono pubblici) ma hanno consentito a compagnie come Warner Bros., Nike, NFL e Netflix di avere migliaia di giocatori, fieri dei loro acquisti, tramutati in “uomini-panino” giocanti per la mappa di Fortnite. Una forma di pubblicità ad alta interattività che difficilmente può trovare pari in altri media.

Il caso di collaborazione più eclatante è stato quello con Disney che, in più occasioni, ha portato diversi suoi franchise – Marvel e Star Wars sopra tutti – nel gioco e non solo come elementi acquistabili. La stagione che si è conclusa appena qualche settimana fa è stata, infatti, monopolizzata dagli eroi Marvel : intere zone della mappa sono state dedicate all’universo fumettistico, così come tutte le ricompense sbloccabili nel già citato Pass Battaglia. Come se non bastasse, durante quel periodo di tempo, qualsiasi acquisto effettuato su Fortnite dava accesso a due mesi gratis di Disney+, la piattaforma di streaming del colosso californiano. Il risultato? Non ci è dato sapere quanto le abbia giovato di preciso, tuttavia la risposta entusiastica di Disney pare essere esplicativa da sé: la compagnia ha dichiarato di voler continuare a collaborare con Epic Games e, attualmente, sta pubblicizzando nel gioco la nuova stagione di “The Mandalorian”.

eSport e tornei

Come ogni videogioco competitivo che si rispetti, anche Fortnite ha sviluppato, negli anni, una sua fitta rete di tornei e di giocatori professionisti che si guadagnano da vivere giocando e streammando le loro partite in live su Twitch o altre piattaforme. Basta pensare che il totale delle ore guardate in streaming supera il miliardo per capire come Fortnite possa essere un business non solo per Epic Games, e per i brand che ci collaborano, ma anche per i giocatori più capaci.  A tal proposito, Forbes ha stilato una classifica dei 10 streamer più pagati, tra sponsor e sistemi di earning delle stesse piattaforme, del 2020: l’ultimo posto è occupato da Nickmercs che incassa “solamente” 6 milioni di dollari all’anno, mentre in testa troviamo il celebre Ninja coi suoi  17 milioni annui. Cifre che, logicamente, non tengono conto di eventuali vincite a tornei o ad altri eventi. Alla luce di ciò, è facile capire come Fortnite – e altri eSport – stia diventando non solo un passatempo ma anche l’oggetto delle ambizioni professionali di molti utenti. E questa tendenza viene incentivata da Epic Games che, utilizzando la stessa metodica degli eventi, organizza periodicamente tornei online ad accesso libero in cui è possibile vincere premi nell’ordine dei milioni di dollari.

Tutto ciò durerà?

In definitiva, Fortnite è un fenomeno che basa gran parte del suo successo su strategie di marketing non complesse né intricate. Tuttavia, queste sono riuscite a dare valore persino ad elementi che, di per sé, non aggiungono nulla alla ludicità del gioco. Epic Games ha, così, costruito un impero cross-mediale partendo dalla creazione di una community solida e attenta al proprio status nel gioco e, a oggi, afferma di avere contenuti per almeno una decina di anni. Resta da chiedersi quanto tutto ciò possa durare, è possibile che Fortnite possa sopravvivere a lungo senza mai innovarsi troppo?  Ciò che è sicuro è che in questi 3 anni il gioco non ha dato segni di rallentamento e che la fiducia degli sponsor dei tornei e dei brand collaboratori pare essere ancora altissima.

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#NoStreamDay: anche gli streamer meritano tutela

Come è tristemente noto, perdere il lavoro è, specialmente in questo periodo storico, una delle esperienze più destabilizzanti e deprimenti che si possano sperimentare nella propria vita personale. Fortunatamente, nel nostro Paese, esistono (forse fin troppe) tutele a garanzia che ciò avvenga il meno possibile. Tuttavia, diverse nuove categorie di lavoratori del web, nonostante paghino le tasse in Italia e siano, spesso, sotto contratto, vengono pressoché completamente ignorate da queste tutele. Particolarmente precaria è la situazione degli streamer di Twitch: dipendenti da un regolamento il cui contenuto non è pubblico (sono consultabili solamente alcune “linee guida”), spesso si ritrovano allontanati dalla piattaforma per motivi futili e in maniera decisamente poco trasparente. Alla luce di ciò, diversi tra i creator italiani più seguiti hanno deciso di collaborare per provare a migliorare la loro situazione lavorativa. Nasce così il “NoStreamDay”, il primo vero e proprio sciopero degli streamer che si terrà il 9 dicembre.

La scintilla

Ma qual è stata la proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso? L’iniziativa nasce a seguito del ban di Sdrumox, pseudonimo di Daniele Simonetti, che, dopo essere stato solamente “sospeso a tempo indeterminato” a maggio, si è visto cacciato definitivamente dalla piattaforma qualche settimana fa. Il ban, per chi non conoscesse il linguaggio web, è l’equivalente del licenziamento nel “mondo reale”. Più nello specifico, essere bannati da Twitch comporta non solo la cancellazione del proprio canale ma anche l’impossibilità di crearne uno nuovo (cosa invece possibile su YouTube) e il divieto di essere “pubblicizzati” in qualsiasi modo da altri streamer. La pena si inasprisce se il soggetto del ban è un partner di Twitch: durante quelli temporanei non è possibile utilizzare altre piattaforme concorrenti, pena l’allontanamento definitivo. È, quindi, intuitivo come una sospensione di sei mesi possa essere inabilitante per un professionista, soprattutto se poi si tramuta in allontanamento conclusivo senza alcuna apparente ragione.

L’iniziativa

Storie come quella di Daniele sono, in realtà, all’ordine del giorno sul sito viola e gli organizzatori del NoStreamDay sperano che l’iniziativa possa essere un primo passo verso una maggiore tutela del loro lavoro. L’invito allo sciopero è esteso a chiunque utilizzi la piattaforma come streamer e, soprattutto, a tutti gli spettatori. Il 9 dicembre, infatti, coloro che decideranno di aderire non dovranno accedere al sito viola per tutta la giornata. Unica eccezione saranno le ore 16.00, orario in cui gli streamer partecipanti al NoStreamDay trasmetteranno 5 minuti di live dove verrà letto il manifesto dell’iniziativa. Il giorno precedente, invece,v errà organizzata una trasmissione collettiva con tutti i supporter e verrà fatto partire l’hashtag #nostreamday su Twitter, con lo scopo di dare maggiore visibilità alla protesta.

Il manifesto

Il manifesto in questione non contesta la durezza del sistema dei ban in sè ma l’aleatorietà con cui viene attuato, oltreché la già citata poca chiarezza e trasparenza del regolamento stesso. In effetti, è facile notare diverse disparità di trattamento e insensatezze nella moderazione di Twitch. Basti pensare ad alcune streamer che sono state sospese per aver indossato vestiti “troppo scollati” nonostante nella piattaforma prolifichino contenuti soft-pornografici di ogni tipo; oppure a gag fisiche innocue punite per “autolesionismo” mentre, giusto qualche giorno fa, la trasmissione di uno streamer russo, in cui veniva costantemente inquadrato il cadavere della sua compagna appena deceduta, non è stata nemmeno interrotta. Per non parlare di tutte le problematiche e i fraintendimenti che possono nascere attorno alle trasmissioni di stampo comico-satirico, che spesso si trovano a doversi auto-censurare nel timore di andare a toccare argomenti non graditi. Tabù che, come è immaginabile, non sono comunicati chiaramente nemmeno a chi con Twitch ha un contratto. In definitiva, gli streamer e le streamer chiedono di poter avere, quantomeno, un dialogo con Amazon, che ricordiamo essere proprietaria di Twitch, e di avere qualcosa di più che opache linee guida su cui decidere cosa fare e cosa no nello proprie trasmissioni.

Quale futuro?

In definitiva, gli streamer e le streamer chiedono di poter avere, quantomeno, un dialogo con Amazon, che ricordiamo essere proprietaria di Twith, e di avere qualcosa di più che opache linee guida su cui decidere cosa fare e cosa no nello proprie trasmissioni. Nonostante il NoStreamDay riguardi, quindi, solamente Twitch, l’iniziativa pone diversi interrogativi e problematiche che, probabilmente, diventeranno sempre più centrali nel futuro prossimo del mondo del lavoro. Non solo il sito viola, ma anche tutti gli altri social media come Facebook, YouTube e Twitter possono interrompere il rapporto lavorativo con qualsiasi creatore di contenuti da un giorno all’altro e senza alcun preavviso. In un mondo in cui sempre più persone si troveranno, in un modo o nell’altro, a lavorare attraverso società web semi-monopoliste, è concepibile che questo modus operandi continui senza alcuna tutela? Vale più il regolamento di una piattaforma privata o la legge dello Stato? Domande come questa meriterebbero più attenzione nel dibattito politico. Non resta che augurarsi che il NoStreamDay abbia abbastanza eco mediatico da, magari, iniziare a smuovere l’opinione pubblica.

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TWITCH: da videogiochi a “televisione del futuro” il passo è breve

Quando si pensa alla visione ad accesso libero di video in streaming il pensiero, inevitabilmente, viene subito indirizzato verso YouTube. Tuttavia, in quest’ultimo periodo, un’altra piattaforma, radicalmente diversa, sta riuscendo ad imprimersi nella cultura popolare come nuovo dominus dei video online: stiamo parlando di Twitch. Il social media di proprietà di Amazon è, infatti, leader dei live-streaming con ben il 72% delle ore totali trasmesse globalmente online e con una crescita di utenza – e di broadcaster – che non accenna a fermarsi. Ma qual è stata la “formula magica” dietro al successo del sito viola? Per capirlo occorre prima indagarne le origini.

Dalle origini a oggi: un successo predestinato?

Twitch nasce nel 2011 come succursale dedicata esclusivamente a videogiochi ed eSport della piattaforma di streaming generico Justin.tv. Da semi-monopolista del settore, Twitch divenne nel 2013 il sito dedicato alle trasmissioni eSport più popolare e, dopo essere stata acquistata da Amazon nel 2014, arrivò, già nel 2018, ad avere in media un milione di utenti attivi all’ora: ben più di alcune emittenti statunitensi come la CNN e la ESPN. Nonostante, quindi, Twitch abbia già da diversi anni dimostrato il suo enorme potenziale, il vero grande balzo di popolarità (soprattutto fuori dagli Stati Uniti) è arrivato solamente quest’anno.

È innegabile, infatti, che il lockdown abbia giovato a Twitch data la natura estemporanea dei contenuti offerti dal sito. Non a caso il maggior numero di persone disposte a guardare – e a trasmettere – video in diretta si è riflesso nella crescita esponenziale di ogni statistica con cui è misurabile il successo della piattaforma. Dal 2019 al 2020, gli spettatori medi connessi sono raddoppiati superando la soglia dei due milioni. Ad oggi, si parla di un totale di 1.6 miliardi di ore visionate al mese, con una media di 95 a utente: uno scenario quantomeno insolito rispetto al web “mordi-e-fuggi” a cui siamo stati abituati negli ultimi anni.

Anche in Italia, sembrerebbe che Twitch abbia ormai messo radici. Pur non avendo a disposizione dati precisi e aggiornati sul nostro paese, è possibile capire la crescente popolarità che la piattaforma sta avendo in terra nostrana considerando le analytics pubbliche di alcuni streamer.

Lo scenario italiano

Nel 2019 erano 23, oggi sono più di 64 gli streamer italiani che hanno superato i 100.000 follower, con il record di 1.172.244 attualmente detenuto da Pow3rtv, videogiocatore professionista. Interessante notare come in questa classifica più della metà dei broadcaster rientri nella categoria “Just Chatting”, la vera rivelazione di quest’anno. In quest’ultima, infatti, rientrano tutti quei contenuti che, prendendo in prestito un termine dal linguaggio televisivo, potremmo chiamare “talk show” e che, di conseguenza, si allontanano prepotentemente dalla natura videoludica per cui era nata in origine Twitch. La piattaforma si sta, quindi, avvicinando sempre di più a un pubblico generalista, attraendo così maggiori guadagni, creatori di contenuti ed investitori pubblicitari.

Per inquadrare meglio il fenomeno del Just Chatting in Italia consiglio di dare un’occhiata al canale Youtube dove vengono ricaricate le repliche del Cerbero Podcast, attualmente al primo posto della categoria in Italia e 48° nel mondo. Quest’ultima è una trasmissione condotta da tre youtuber (Simone Santoro, Davide Marra e Mr.Flame) che, tra toni irriverenti e situazioni surreali, tratta gli argomenti più disparati e svolge interviste a personaggi del web. Tuttavia, più che il contenuto in sé, è importante capire che, come successo con il Cerbero, gran parte dei programmi più seguiti (tra quelli non legati al mondo gaming) sono portati avanti da personaggi che sono nati e hanno raggiunto la popolarità su YouTube per poi, in un secondo momento, migrare su Twitch. Ma perché rinunciare ad audience già consolidate e, spesso, anche a sei cifre? Beh, come ci ha confessato Ruggero Rollini, divulgatore e comunicatore scientifico, durante un incontro di iBicocca… perché Bezos paga. E paga bene, molto più di Google.

Perché Twitch?

Rispetto a YouTube, che basa la monetizzazione dei suoi creator solamente sulle pubblicità, il sistema che ha creato Amazon per assicurarsi i migliori contenuti è decisamente più remunerativo. Oltre ai classici adv e alle donazioni una tantum, Twitch consente di basare il proprio business su abbonamenti che consentono agli utenti, a fronte di un pagamento mensile, di ottenere benefit di varia natura sul canale a cui ci si è iscritti. Sistema, questo, semplificato dal fatto che è possibile avere un abbonamento gratuito al mese collegando il proprio account Amazon Prime, senza nulla togliere a cui ci si sottoscrive. Questi bonus possono andare dalla possibilità di rivedere le live in differita a meri elementi estetici per la chat, come icone o emoticon. La chat, in effetti, è uno dei punti focali che rende Twitch unico: consentendo l’interazione immediata tra utenti e creator, rende gli show visti in diretta unici e più “vicini” al pubblico, consentendo un maggiore engagement e una più facile fidelizzazione degli spettatori. Il risultato? Un fatturato di 1 miliardo e mezzo di dollari nel solo 2019, di cui 300 milioni provenienti da sponsorizzazioni.

Come se non bastasse, Amazon non si accontenta e ha piani che vanno ben oltre al peer-to-peer streaming per la sua Twitch. La compagnia di Bezos ha già, difatti, acquistato i diritti di  trasmissione della Champions League per tutto il triennio 2021-2024, con l’esclusiva per alcune partite, ed intende promuovere la produzione di format d’intrattenimento di alto livello come game show, reality ed iniziative musicali. È dunque questo il futuro dello streaming e della televisione? Forse è troppo presto per dirlo ma le fondamenta paiono essere state messe e la volontà di far crescere ancora di più la piattaforma è ben presente in quel di Amazon. Non resta che aspettare, magari gustandosi qualche Just Chatting o gameplay live nel frattempo.