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Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) è identificato dal diritto italiano come la principale fonte normativa in cui i sindacati dei lavoratori e le associazioni dei datori di lavoro concordano le regole che regolamentano il rapporto di lavoro. Si tratta di contratti volti a trattare sia gli aspetti normativi che quelli economici, senza ignorare le disposizioni adatte a regolare le relazioni sindacali.

Le finalità fondamentali di questo contratto, ad ogni modo, riguardano la definizione delle regole per i rapporti di lavoro in specifici settori (che si tratti, ad esempio, dei trasporti o del pubblico impiego) e la disciplina delle relazioni tra le parti firmatarie dell’accordo.

 

Da Owen a Ford: la rivoluzione delle 8 ore

 

L’instaurarsi della giornata lavorativa di 8 ore fu il risultato, nei primi anni del XX secolo, di numerose lotte sindacali, originariamente proposte su un modello di 48 ore settimanali distribuite su 6 giorni.

Nei primi anni della rivoluzione industriale, gli operai potevano arrivare a lavorare fino a 100 ore a settimana. Robert Owen, un influente sindacalista gallese del XIX secolo, introdusse allora il concetto della riduzione delle ore di lavoro giornaliere, con l’obiettivo di dividere la giornata in tre parti uguali: lavoro, svago e riposo.

Fu solo nel gennaio 1914 che questo standard originario venne modificato. Si trattò del momento in cui Henry Ford adattò questa formula a degli studi sperimentali sulla produttività: riducendo le ore lavorate a 40 a settimana su 5 giorni, Ford notò un aumento significativo della produttività, dimostrando che meno ore potevano portare a risultati migliori. Ford ridusse la giornata lavorativa dei suoi dipendenti da 9 a 8 ore, incrementando il salario giornaliero da 3 a 5 dollari.

Cinque dollari per una giornata lavorativa di otto ore è stata una delle più efficaci strategie di riduzione dei costi che abbiamo mai messo in atto”: così Ford giustificò la propria mossa imprenditoriale, dichiarando che l’investimento in salari più elevati avrebbe creato una base solida per lo sviluppo aziendale.

La decisione di pagare salari più alti si rivelò un successo: numerosi storici e analisti, tra i quali Gregory Mankiw, dimostrarono che questa mossa contribuì a consolidare la disciplina, la lealtà e l’efficienza dei lavoratori.

Tuttavia, è evidente che la decisione di introdurre una settimana lavorativa non è nata in virtù di ragioni come la giustizia o il benessere, ma come risposta alla necessità di massimizzare la produttività; l’iniziale benessere dei lavoratori, in quel contesto storico, è emerso come un mero effetto collaterale.

 

L’Italia oggi

 

Ancora oggi, la connessione tra retribuzione e produttività rimane un elemento cruciale per stimolare la competitività dell’Italia. Nel contesto del dibattito sulla riforma del mercato del lavoro è emersa, nel 2011, la proposta di favorire la contrattazione aziendale come strumento chiave per stringere questa connessione, contribuendo così al rilancio della competitività nazionale.

Dal 2013 il contratto collettivo aziendale (CCIA) rappresenta un accordo stipulato dal datore di lavoro e dai rappresentanti dei lavoratori, avente spesso l’obiettivo di modificare le disposizioni del CCNL in base alle proprie esigenze.

Le disposizioni di tali contratti non possono prevedere, di norma, delle condizioni meno favorevoli rispetto a quelle stabilite dalla Legge. Il rapporto tra contratti aziendali e quelli di livello superiore è stato delineato dagli Accordi interconfederali, stabilendo che il contratto di categoria rimane centrale, mentre quello aziendale deve limitarsi a disciplinare argomenti già individuati dal CCNL e a garantire aumenti retributivi legati a miglioramenti di produttività e organizzazione del lavoro.

La produttività e la retribuzione rimangono degli elementi imprescindibili. Ma la domanda rimane sempre la stessa: e il benessere dei lavoratori?

 

Pandemia e nuove esigenze: la nascita dello smart working

 

Il recente fenomeno dello smart working, che rappresenta la possibilità, in determinati settori, di lavorare da casa, ha registrato un aumento della produttività del 15-20%. Ha sollevato, tuttavia, molti interrogativi riguardanti la sostenibilità e l’impatto sul benessere dei lavoratori.

La questione principale, oggetto di numerosi dibattiti successivi al lockdown nazionale provocato dal fenomeno della pandemia, era una: sarebbe stato giusto sfruttare questo “plusvalore” in maniera capitalistica o sarebbe stato opportuno tradurlo, invece, in benefici per i dipendenti, riscontrabili in un’ulteriore riduzione dell’orario lavorativo?

In poco tempo, questo dibattito ha assunto una rilevanza significativa. Uno studio, pubblicato il 12 giugno 2021 sull’European Journal of Investigation in Health, Psychology and Education, offre una visione approfondita su tre aspetti principali: la dedizione al lavoro, il fenomeno del cosiddetto technostress e la mediazione del rapporto tra smart working e benessere.

 

Smart working e dedizione al lavoro

 

L’indagine rivela che durante la pandemia il coinvolgimento attivo dei responsabili delle risorse umane ha influenzato positivamente l’impegno dei lavoratori.

La partecipazione attiva ai cambiamenti organizzativi ha fatto sì che questi ultimi venissero percepiti come il risultato del proprio impegno e non più degli ordini imposti dall’alto: questo fenomeno è emerso come un vero e proprio antidoto alla demotivazione. La ricerca ha evidenziato, inoltre, che una cultura organizzativa positiva potrebbe proteggere da sintomi come lo stress, l’ansia e la depressione. Il desiderio, nel 2021 e in base a tali presupposti, era quello di trasformare una situazione di emergenza in un’opportunità di crescita.

 

Smart working e technostress

 

Technostress è una terminologia che comprende, in maniera simultanea, una varietà di problematiche significative: il sovraccarico tecnologico, la complessità, l’insicurezza lavorativa e l’incertezza. I livelli più elevati  di technostress sono osservabili tra coloro che sono costretti a fare un uso intensivo di dispositivi digitali e di applicazioni di messaggistica istantanea, oltre che tra gli addetti alla gestione delle attività lavorative durante le pause. L’indagine, in questo contesto, sottolinea il ruolo critico della gestione equilibrata tra vita professionale e vita privata, in un’ottica volta a salvaguardare la salute mentale dei lavoratori.

 

I mediatori del rapporto tra smart working e benessere

 

L’autonomia nella scelta di pratiche di lavoro a distanza, le competenze personali e organizzative e la fiducia da parte dell’azienda sono caratteristiche identificate come i mediatori chiave tra smart working e benessere. Tuttavia, anche in questo caso la problematica principale risiede nella gestione dei confini tra tempo personale e orario di lavoro: la necessità è quella di promuovere una comunicazione efficace, delle crescenti relazioni al di fuori dell’orario di lavoro e un vero e proprio supporto psicologico per i dipendenti.

Ne conviene che l’iperconnettività abbia portato anche lo smart working, nei settori in cui questo fenomeno è presente e possibile, verso numerosi ed evidenti effetti negativi: un esempio sono le comunicazioni prolungate fino a tarda notte nel contesto lavorativo.

Questo fenomeno è stato descritto da alcuni come un nuovo presenzialismo, caratterizzato dall’incessante motto “always on“, che può minare la qualità della vita e il benessere dei lavoratori. La riflessione critica si concentra sull’importanza di bilanciare l’efficienza lavorativa con il rispetto per il tempo personale e la salute mentale. Perché non esplorare, quindi, la possibilità di ridurre l’orario di lavoro in maniera da mantenere attive l’efficacia e la produttività?

Secondo le statistiche Istat, in Italia la settimana lavorativa moderna corrisponde, laddove regolamentata, a 33 ore; questo dato supera di 3 ore la media europea, di 4 ore quella francese e di 7 ore quella tedesca. Nonostante ciò, la produttività italiana si posiziona come la penultima in Europa, con un rendimento superiore solo alla Grecia.

Uno studio, condotto da Domenico De Masi e commissionato da Mercedes Italia, riflette a pieno questa dinamica: i dirigenti tedeschi dell’azienda automobilistica, sebbene abbiano un carico di obiettivi superiore del 30% rispetto ai loro omologhi italiani, riescono a lavorare il 30% in meno, ottenendo, al contempo, il 30% di obiettivi in più.

Dal 2014, la Ducati, grazie a un referendum vinto con il 75% dei voti e in collaborazione con i sindacati, ha implementato un piano che impegna i dipendenti per circa 30 ore settimanali (compresi gli eventuali turni nei weekend) e con una quasi totale saturazione degli impianti. Secondo Mario Morgese, il responsabile delle risorse umane dell’azienda, questa iniziativa ha portato a un aumento del 40% nella produttività e a una riduzione dell’assenteismo.

Nel 2019, Microsoft ha effettuato, in Giappone, una prova della settimana lavorativa di 4 giorni. Durante questo periodo, ha concesso ai suoi 2300 dipendenti ben 5 venerdì liberi ad agosto, senza però ridurre gli stipendi. I risultati sono stati sorprendenti: non solo il 92% degli impiegati si è dichiarato più soddisfatto, ma la produttività è aumentata del 40%. Inoltre, è stato registrato un calo del 25% nelle pause, una diminuzione del 23% nell’uso dell’elettricità e una riduzione del 59% nel consumo di carta/stampe.

 

Nuova Zelanda: un passo verso il futuro dei lavoratori?

 

L’esempio più importante e significativo ha avuto sede in Nuova Zelanda, dove il movimento ‘Four Day Week’ ha condotto uno studio sperimentale sulla tattica utilizzata da Microsoft nel 2019.

I risultati hanno mostrato un aumento della produttività, una diminuzione dello stress, un miglioramento dell’equilibrio tra vita e lavoro, un maggiore coinvolgimento e benessere dei lavoratori, un aumento della fiducia e una diminuzione dell’assenteismo, in un’ottica in cui gli stessi manager continuano a sottolineare la priorità del mantenimento della produttività e del raggiungimento degli obiettivi.

 

Verso una rivoluzione lavorativa: sperimentare la riduzione dell’orario per un futuro migliore

Sperimentare queste soluzioni su larga scala, mediante un approccio temporaneo che coinvolga sia il settore profit che il settore non profit, potrebbe rappresentare una strategia ottimale per il benessere dei dipendenti. Davvero non siamo pronti a intraprendere questo cammino?

Fonti

 

Wikilabour – Il CCNL

Indagine: quale relazione esiste tra smart working e benessere del lavoratore?

Wikilabour – il CCIA

Smart working e produttività

Microsoft – Work Life Choice Challenge Summer 2019

The four-day week guidelines for an outcome-based trial – Raising productivity and engagement

Agende piene di impegni: fenomeno dell’always on

Domenico De Masi e la riduzione dell’orario di lavoro

Nuova Zelanda e la settimana lavorativa di 4 giorni