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A poco più di un mese dall’apertura dell’ultima fase della campagna vaccinale, che dal 3 giugno vede coinvolta tutta la popolazione italiana con età superiore ai 12 anni, abbiamo deciso di chiedere il parere di un esperto. Oggi è qui con noi Giancarlo Sturloni, giornalista scientifico, specializzato nella comunicazione del rischio per la salute e per l’ambiente.

 
Buongiorno Professor Sturloni, iniziamo intanto col chiederle cosa si intende per “comunicazione del rischio”?

Nella gestione del rischio, oggi la comunicazione è considerata uno strumento essenziale per salvare vite umane e proteggere l’ambiente, e per questo motivo dovrebbe accompagnare tutte le fasi della gestione dei rischi naturali e antropici.

Serve a veicolare e condividere delle informazioni in modo tale che le persone possano sapere a quali rischi sono esposte, come proteggersi e quali sono le possibili contromisure da adottare. In particolare si configura come uno strumento della comunicazione istituzionale, ma può assumere diverse forme e la si può trovare tanto all’interno di un articolo di giornale che all’interno della comunicazione interpersonale.

La comunicazione del rischio ha lo scopo di rendere consapevole la cittadinanza e, proprio per questo, racchiude in sé sia l’aspetto della prevenzione, sia quello dell’emergenza e, in parte, anche l’aspetto circa le controversie sulla gestione dei rischi. Esistono, infatti, dei rischi che sono oggetto di dibattito sociale come, per l’appunto, i vaccini.

Per sintetizzare: la comunicazione del rischio è uno strumento che si è sviluppato nell’ambito della gestione del rischio per far fronte alla necessità di scambiare informazioni circa i pericoli a cui si è esposti.

 
In una campagna di comunicazione del rischio quali sono i fattori assolutamente da evitare?

In generale c’è una regola, che purtroppo spesso viene disattesa, ma che è la più importante ed è quella di non sminuire, non nascondere e non negare mai un rischio.

Bisogna ricordare sempre che l’obiettivo è quello di far sì che le persone facciano qualcosa per proteggersi. Per questo, se il rischio viene sminuito si incorre nell’eventualità che la popolazione non faccia abbastanza.

Uno degli esempi più calzanti ci viene fornito proprio dalla pandemia: l’estate scorsa, ad un certo punto, si è diffusa l’idea errata, sostenuta anche da alcuni esperti, che l’epidemia fosse ormai finita e che dunque fosse possibile tornare alla vita normale. Questo ha portato la popolazione ad abbassare la guardia e ciò ha favorito, nell’autunno successivo, una seconda ondata ben peggiore della prima.

Eppure, fin dai tempi di Chernobyl è noto che ogni volta che si cerca di nascondere un rischio o di sminuirne la gravità la popolazione non fa abbastanza per proteggersi, portando inesorabilmente all’aumento delle vittime.  Non è un caso che i paesi in cui ci sono state registrate più casi e più esiti mortali siano stati gli Stati Uniti, l’India e il Brasile, paesi in cui governi negazionisti non hanno ammesso la gravità del rischio generando una serie di conseguenze molto gravi.

Poi sono presenti, a livello internazionale, una serie di regole e alcuni principi volti a garantire la credibilità e la coerenza delle istituzioni che hanno il compito di gestire e comunicare i rischi, oltre che a favorire il dialogo tra le istituzioni stesse e i cittadini.

Ad esempio, quando hai un rischio emergente, ossia un rischio che si presenta per la prima volta o che ha caratteristiche nuove, come è stato per il coronavirus, è necessario avere una enorme cautela e ci si dovrebbe sbilanciare sempre dalla parte della sicurezza.

Con ciò non si nega affatto che possano esserci anche delle questioni controverse che, spesso, vengono amplificate sia dall’incertezza intrinseca al problema sia dalle scarse conoscenze che si hanno a disposizione.

Sebbene sia complesso, anche in questi casi per salvare più vite possibile è necessario agire tempestivamente senza aspettare di conoscere tutto prima di prendere delle decisioni. Si sa, l’incertezza può dare adito alla presenza di pareri discordanti e questo aspetto è di facile rinvenimento se si pensa all’intera situazione pandemica: in diversi momenti, molti esperti, hanno offerto opinioni personali in assenza di un consenso univoco della comunità scientifica, creando una vera e propria un’infodemia, un eccesso di informazioni talvolta contradditorie.

Purtroppo, a gravare ulteriormente su questa situazione, è intervenuta l’incapacità delle istituzioni di riuscire a fornire delle informazioni affidabili, aggiornate e, soprattutto, in grado di fugare i dubbi e chiarificare le incertezze. Infine, per quanto non ce ne dovrebbe essere bisogno, tocca sottolineare come sia necessaria una certa coerenza tra le informazioni date e le decisioni che vengono prese dalle istituzioni.

 
All’interno dei piani di gestione pandemica qual è il ruolo della comunicazione del rischio?

Riferendoci a questa campagna vaccinale dobbiamo dire che purtroppo la campagna di comunicazione non ha giocato un ruolo fondamentale, come è facilmente deducibile dalla lettura del piano vaccinale: le parole comunicazione e informazione non sono mai citate, il che significa che la comunicazione non è mai stata considerata come strumento strategico. Eppure è il modo più congeniale per dare informazioni alle persone e indicare loro i comportamenti responsabili da seguire. Attraverso tutto questo si sarebbero potute salvare delle vite.

Ricordiamo che, in Italia, sono pochissime le persone contrarie a tutti i vaccini, una fetta di popolazione che non ricopre più dell’1-2%. Una percentuale irrilevante ai fini della copertura vaccinale e che potrebbe essere ignorata in quanto non costituisce un ostacolo per il raggiungimento dell’immunità. Quindi sarebbe stato più opportuno profondere energie per convincere quel 20-30% della popolazione che non è contrario a prescindere ma che nutre dei dubbi verso questo tipo di vaccinazione.

Ciascuno degli appartenenti a questa categoria ha i propri dubbi, riferiti alla propria esperienza e al proprio modo di vivere e questo perché non per tutti è uguale il rischio e non per tutti è uguale il beneficio.

Alle persone serve un’enorme quantità di informazioni per farsi un’idea all’interno di questa complessità e sono proprio queste le informazioni che sono un po’ mancate. E sono mancate proprio perché la comunicazione non è stata vista come uno strumento protagonista della campagna di vaccinale stessa.

Basti pensare che, ancora oggi, non esiste un sito unico del governo dove sono raccolte tutte le notizie aggiornate sul coronavirus.

La mancanza di informazioni chiare e facilmente accessibili ha certamente contribuito al rallentamento della campagna vaccinale. Nelle diverse fasce d’età, questa ha fatto registrare alti tassi di adesione fino a che ha coinvolto le persone già convinte di volersi vaccinare ma che ha subìto una battuta d’arresto quando avrebbe dovuto coinvolgere le persone che si sarebbero convinte a seguito della dissoluzione dei dubbi che nutrivano a tal proposito.

Comunque, anche se non di grande consolazione, c’è da dire che questo non è stato un problema solo italiano ma lo si è registrato anche in altri paesi. Dal mio punto di vista, una campagna vaccinale senza precedenti non avrebbe dovuto prescindere da una campagna di comunicazione senza precedenti.

 
Come mai, in Italia, esistono delle sacche di resistenza? Come si può rimediare?

In realtà, come ci raccontano gli storici della medicina, le controversie sui vaccini sono cominciate ancora prima dell’arrivo dei vaccini e parliamo dell’Inghilterra del ‘700, quando si sperimentò la cosiddetta variolizzazione.

Questo denota che non siamo di fronte a una questione nuova perché i vaccini hanno sempre trovato una forte opposizione. Il che è comprensibile se si pensa che questi, al contrario dei medicinali, prevedono la somministrazione di un farmaco a una persona sana e non sono esenti da possibili effetti avversi.

Tornando alla campagna vaccinale contro il coronavirus, data la sua estensione era normale che emergessero degli effetti collaterali rari e ce li si aspettava ed è la ragione per cui () va sempre valutato il rapporto tra rischi e benefici. È una cosa che vale per qualunque farmaco ma in questo caso con una sostanziale differenza che risiede nel fatto che i medicinali sono somministrati per alleviare un malessere già presente, mentre il vaccino viene fatto nel momento in cui il soggetto è sano.

Questa elementare constatazione costituisce un’enorme differenza dal punto di vista psicologico e, per questo, un certo grado di opposizione ha sempre accompagnato la storia delle vaccinazioni, nonostante gli evidenti benefici di questa pratica medica.

In questi casi è la fiducia che può fare la differenza. Se è presente la fiducia nelle autorità medico-scientifiche e nelle istituzioni che promuovono la vaccinazione, le sacche di resistenza possono essere di gran lunga ridotte. Si aggiunga a ciò che questa volta si era alla presenza di vaccini completamente nuovi ed è normale che la popolazione possa nutrire qualche dubbio in più su di essi. Per questo è fondamentale non abbandonare quel 20-30% della popolazione che non rifiuta i vaccini ma che semplicemente si pone degli interrogativi, più o meno fondati ma legittimi, legati al fatto che non sono state fornite loro tutte le motivazioni necessarie. È importantissimo avere la fiducia di questi ultimi, sono loro a fare da ago della bilancia per raggiungere l’immunità di gregge e portare a compimento la campagna vaccinale.

 
Il suo parere sulla gestione della pandemia dal punto di un comunicatore del rischio

Come già detto, per una buona campagna vaccinale è necessario rendere fruibili tutte le informazioni disponibili, sia sui benefici che sui rischi, in modo chiaro e trasparente. Purtroppo questo sforzo di comunicazione, nella nostra campagna vaccinale, è stato fatto solo in parte.

Alcune volte potrebbe essere premiante affiancare a quella vaccinale una campagna di marketing sociale con pubblicità e testimonial, esercitando in questo modo una spinta in più. In seguito, si può lavorare sulle reti di comunicazione personale coinvolgendo anzitutto i medici di famiglia, ma anche usando i social che purtroppo non hanno avuto alcuno spazio in questa campagna.

Cambiando solo per un momento ambito: sai qual è il metodo migliore per convincere una persona a mettere i pannelli solari?

Dirle che i suoi vicini di casa lo hanno già fatto.

Come esseri umani, tendiamo a fare quello che fanno le persone attorno a noi, sono meccanismi che vanno conosciuti e sfruttati e sono strategie che vanno oltre il semplice predisporre un sito informativo.

Quindi, più che concentrarsi sugli “irriducibili”, una campagna di comunicazione dovrebbe concentrarsi sulle persone che possono essere facilmente portate dalla tua parte con uno sforzo di informazione, persuasione o di interazione e dialogo.

Certo non è una cosa semplice quando si ha tra le mani una campagna vaccinale di dimensioni nazionali, ma sicuramente in un momento così storicamente importante è fondamentale profondere energie in tali soluzioni.

Il comunicatore del rischio deve condividere le informazioni e fornire delle motivazioni che non possono essere generali: un anziano non ha le stesse motivazioni di un giovane; anche per questo stilare un piano di comunicazione è estremamente complesso.

Non si può parlare alla popolazione come se fosse un gruppo omogeneo in termini di conoscenze, percezioni e aspettative, ma è necessario segmentarla in sottogruppi quanto più omogenei possibili e per ciascuno trovare una strategia che deve tenere conto di moltissime cose, come: quali sono le informazioni che già possiedono? Quali sono i dubbi che potrebbero avere, e dove cercano solitamente le informazioni? Come possono essere motivati e incentivati?

E c’è chi le ha provate davvero tutte, ad esempio, quando la campagna vaccinale sembrava aver perso il proprio smalto, lo stato americano di Washington, dove è legalizzato l’uso della cannabis, ha promosso la campagna “joints for jabs” in cui, per vaccinarsi, veniva offerto uno spinello.

L’adesione alla campagna vaccinale è subordinata alla percezione del rischio, e gli adulti solitamente percepiscono il rischio in maniera più intensa rispetto ai giovani. Anche questo va tenuto in considerazione: le diversità, in comunicazione, contano. Le strategie in proposito vanno decise prima ancora di iniziare la campagna vaccinale e vanno scelte studiando i segmenti del pubblico.

È necessario individuare, per ciascun segmento, quale sia il modo migliore per cercare di portarlo alla vaccinazione e, ribadisco, questo è qualcosa che va fatto fin dall’inizio.

Non ci si dovrebbe mai trovare nella situazione in cui si insegue il problema.

Tutte le campagne di valutazione della salute sono studiate a fondo e nei paesi anglosassoni hanno tantissimi manuali dedicati; non dovrebbero mai essere improvvisate e, ad esse, deve essere dedicata una buona fetta delle risorse affinché tutto possa essere fatto al meglio.

 
Dal suo punto di vista, se non ci fossero delle “restrizioni”, quale sarebbe la percentuale reale di vaccinati?

A questa domanda non penso si possa rispondere, sono troppe le variabili in gioco. L’adesione a una campagna vaccinale con queste dimensioni può variare per mille fattori. Prendiamo come esempio il Green pass: non introduce un obbligo vaccinale tanto che il certificato è ottenibile ugualmente esibendo un tampone negativo. Quindi il Green pass si configura come un incentivo alla vaccinazione e non come un’impossibilità. Sono moltissimi gli studi che cercano di comprendere come l’introduzione dell’obbligo vaccinale possa favorire il raggiungimento della copertura. I fattori che vengono coinvolti sono molto diversi: dal tipo di società al periodo storico in cui ci si trova.

Ad oggi, la lezione più importante ci arriva dalla storia: eravamo circa a metà dell’Ottocento quando l’Inghilterra decise di introdurre l’obbligo vaccinale provocando un duro scontro sociale.

L’ideale per una società democratica sarebbe quello di riuscire a far sì che le persone siano informate, responsabilizzate e che a quel punto facciano una scelta libera e consapevole; tutto ciò li rende a loro volta testimonial positivi all’interno del loro stesso tessuto sociale. L’obbligo deve essere l’ultima risorsa e, secondo me, può essere comprensibile e accettabile solo per certe categorie come, ad esempio, gli operatori sanitari.

In conclusione, la cosa migliore sarebbe evitare il più possibile misure coercitive o punitive proprio perché tali operazioni potrebbero favorire la polarizzazione dell’opinione pubblica e lo scontro che ne deriva rischia di amplificare tutta una serie di conflitti sociali che sarebbe meglio evitare.

Inoltre è stato studiato che tra gli elementi che aggravano la percezione del rischio c’è proprio l’imposizione di un rischio, grande o piccolo che sia; e ciò vale anche per i rischi associati alle vaccinazioni, che pur essendo di gran lunga inferiori ai benefici, possono essere considerati inaccettabili se vissuti come un’imposizione.

Alcune volte l’introduzione dell’obbligo potrebbe far decrescere il numero di persone disposte a farsi vaccinare, sebbene potrebbe anche spingere verso la vaccinazione quelli che non la vedono come una priorità. Quindi torno a ribadire: meglio un consenso informato che genera persone convinte che un obbligo che rischia di generare “testimonial negativi”.

Ma una risposta univoca non può assolutamente esserci e a maggior ragione in questi casi è necessario guardarsi bene dalle prese di posizioni ideologiche.