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I fatti di Capitol Hill, con l’assalto di un gruppo di facinorosi al Parlamento americano e il conseguente ban di Trump dai principali social network, hanno aperto una discussione molto accesa sul ruolo che le piattaforme digital assolvono nel dibattito politico. Il ban è partito da Twitter e si è esteso anche a Facebook. Mark Zuckerberg ha addirittura definito “troppo pericoloso l’uso dei social da parte di Trump in questo periodo” . Un’azione legittima da parte delle due piattaforme a seguito della ripetuta violazione delle condizioni di utilizzo: nelle norme di Twitter, ad esempio, si può leggere che “sono proibiti contenuti finalizzati a incitare la paura, odio e violenza.”. Tuttavia sorge spontaneo porsi delle domande. Rimuovere Trump dai social media è stata una misura decisiva, anche se tardiva, per evitare la propagazione di messaggi di odio e violenza? Nel caso di un contenuto censurato, quanto si possono considerare oggettivi i criteri con cui quest’ultimo è stato eliminato? E infine, se non ci fossero state le incitazioni di Trump, sarebbe stato evitato tutto quello che è successo?

Il fenomeno delle “Eco chambers”

Le “eco chambers“, letteralmente “camere dell’eco”, sono un concetto importante nel mondo delle scienze sociali: si creano quando un gruppo di persone che condividono la stessa visione del mondo si trova isolato dalla discussione generale. Ogni opinione espressa rimbalza come un’eco senza incontrare smentite o critiche: chi la ascolta fa parte della stessa fazione e la appoggia senza remore. Estromettere le voci estremiste e inaccettabili dai social network più diffusi sembra una mossa necessaria e probabilmente lo è, ma potrebbe avere degli effetti collaterali.

Su Twitter infatti circolano idee e opinioni di ampio raggio: su Parler invece, la piattaforma di microblogging su cui a seguito del ban di Trump si sono spostati molti suoi accaniti sostenitori e già frequentata da estremisti, probabilmente no. Amazon e Google hanno riconosciuto il rischio legato a questa piattaforma e l’hanno rimossa dai loro server, di fatto impedendone l’accesso. Un’azione legittima, ma su cui possiamo ulteriormente riflettere: con la chiusura di Parler, si evitano odio e incitamento alla violenza o si provoca la nascita di altri spazi web di condivisione di messaggi inaccettabili?

Non sarebbe quindi meglio, da questo punto di vista, che queste voci rimanessero su Twitter, venendo sanzionate quando necessario, ma non incoraggiando questa deriva?

Il caso dell’Ayatollah Khamenei

«Non è improbabile che vogliano contaminare altre nazioni. Data la nostra esperienza con le scorte di sangue contaminate dall’HIV in Francia, neanche i vaccini francesi sono affidabili», ha scritto l’Ayatollah Khamenei sul suo profilo twitter attaccando non solo i vaccini contro il Coronavirus, ma avanzando un sospetto pregiudizievole nei confronti di un’intera nazione. Lo stesso attacco scritto pochi giorni dopo il ban dell’ex presidente Trump, è stato rivolto anche ai vaccini sviluppati in Gran Bretagna. Twitter ha reagito tempestivamente sospendendo l’account del leader iraniano fino al momento in cui i tweet, considerabili fonte di disinformazione, non sono stati rimossi. Se Twitter sceglie di sospendere un utente perchè non ha rispettato le condizioni di utilizzo si rischia di innescare una reazione a catena in cui molti esponenti politici potrebbero essere rimossi per la trasmissione di messaggi “non giusti e costruttivi”: non è facile individuare infatti la linea che separa un contenuto “sbagliato” da uno che “rappresenta un pensiero soggettivo seppur non condivisibile”.

La sospensione dell’account dell’ambasciata cinese

In questi ultimi giorni ha fatto ulteriormente discutere un tweet dell’ambasciata Cinese negli U.S.A., che è stata la causa scatenante del blocco del relativo account: Twitter lo ha considerato “disumanizzante nei confronti delle donne di etnia uigura“, una minoranza musulmana della zona dello Xinjiang, territorio nord-occidentale della Cina. Secondo quanto scritto dall’ambasciata, “grazie alle politiche di Pechino le donne uigure non sono più considerate come macchine per bambini”. Difficile contestualizzare questo blocco al di fuori delle politiche oppressive che le potenze occidentali attribuiscono al governo centrale di Pechino nei confronti dello Xinjiang, tradizionalmente separatista, e in particolare di Etnia uigura, anche tramite la denuncia dell’istituzione di “campi di rieducazione al lavoro”.

Una questione complessa che dimostra che il blocco di un account possa riflettere un contesto più ampio: non dobbiamo dimenticarcene nemmeno quando consideriamo l’espulsione di Trump dalle piattaforme social.

Ma in conclusione, quanto peso hanno questi tweet? 

La violazione oggettiva delle condizioni di utilizzo va sicuramente considerata, ma al di là di questa possiamo riflettere su molti risvolti di questi eventi.

Se pensiamo che le parole di Trump a cui é seguito l’assalto al Congresso ( e anche l’intervento dell’Ayatollah) sono state rivolte a un pubblico in grado di filtrare le informazioni con una propria capacità di giudizio, sorgono alcune questioni. Ci si chiede se, nel caso in cui gli incitamenti all’odio di Trump fossero stati evitati, ci sarebbe ugualmente stato l’assalto al Congresso. È legittimo rimuovere dei contenuti considerati “disinformazione” e per nulla costruttivi, pensando che le persone, senza una propria capacità di giudizio, vengano influenzate a compiere azioni sbagliate? È proprio il fatto che le parole di Trump siano state cancellate dopo essere state condivise con un’utenza globale che ha permesso ai cittadini di giudicare l’ex presidente Trump per la sua figura e di trarre adeguate considerazioni sul personaggio.

Gli ultimi eventi che si stanno verificando ci mostrano le dimensioni della potenza di cui dispongono i social media a livello mondiale: questo comporta una loro continua evoluzione verso un miglioramento costruttivo delle piattaforme. Bisogna prestare attenzione a quando la volontà di un miglioramento porta all’eliminazione di utenti poco esemplari dal momento che potrebbe portare a una controversia tra ciò che è giusto e sbagliato.