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Ambiente, società e tecnologia

Perché tutti dovremmo scegliere l’usato

Comprare un oggetto di seconda mano non ha solo un vantaggio economico personale ma fa risparmiare al pianeta risorse preziose. Si evita che un nuovo oggetto venga prodotto e che quello usato, ancora in buone condizioni, finisca in discarica. In questo modo si usano meno materiali per la produzione e non vengono rilasciate ulteriori emissioni di gas serra nell’ambiente.

Acquistare second hand è uno degli aspetti dell’economia circolare, contrapposta all’economia lineare. Secondo questo modello la vita di ogni prodotto è scandita in tappe lineari, dalla produzione allo smaltimento. Ogni tappa di questo processo richiede risorse ed energia e genera emissioni inquinanti e rifiuti. Immaginiamo di moltiplicare il costo di questo processo per ogni oggetto che viene prodotto ogni giorno.

Una società consumistica

La società dei consumi in cui viviamo induce in noi bisogni e desideri di cose non necessarie che acquistiamo solo per il gusto di comprare qualcosa o con l’intenzione di rinnovare noi stessi o la nostra casa. Spesso, la sensazione che un oggetto non sia più buono e che vada sostituito non è dettata dall’usura reale ma dal desiderio di possedere un nuovo modello presente sul mercato. Si parla in questo caso di obsolescenza percepita. Esiste anche un’obsolescenza programmata in cui il prodotto viene progettato da principio per avere una vita limitata, per aumentare la velocità con cui il bene verrà sostituito o riparato. Entrambe fanno sì che si producano un grande numero di rifiuti. Solo in Italia la produzione annuale di rifiuti è di circa 30,1 milioni di tonnellate. Questo significa che in un anno produciamo 499 kg di rifiuti a testa. Di questi solo il 32% viene riciclato, il restante viene incenerito o mandato direttamente in discarica (fonte Rapporto Rifiuti Urbani – Edizione 2020).

Fast fashion: il fenomeno

Particolare attenzione va posta nei confronti dell’industria della moda. Secondo una ricerca pubblicata su Nature Reviews Earth & Environment l’industria della moda ogni anno è responsabile di circa 8-10% delle emissioni globali di anidride carbonica (circa 5 milioni di tonnellate) ed è una dei principali responsabili del consumo di acqua. La produzione di vestiti negli ultimi anni ha subito una notevole accelerazione. Secondo una stima, dal 1975 al 2018 la produzione è passata da 6 a 13 kg a persona e la richiesta di abiti cresce ogni anno del 2%.

La fast fashion si basa sul desiderio dei consumatori, che vogliono indossare sempre nuovi vestiti di tendenza e per questo cambia rapidamente e produce un’enorme quantità di abiti. Da qui la parola “fast”, che significa veloce e indica la moda che cambia velocemente. Secondo il report di ThredUp per il 2019, una persona su due dichiara di non voler essere vista da altri indossare lo stesso vestito più di una volta e il 70% degli intervistati ha acquistato almeno un capo indossato un’unica volta. Solo nel 2019 negli Stati Uniti sono stati prodotti circa 95 mila tonnellate di rifiuti di abiti indossati solo una volta. Infatti, l’85% degli abiti prodotti finisce nelle discariche, senza venire in alcun modo riciclato.

Agenda 2030: Obiettivo 12 “Consumo e produzione responsabili”

Come riportato sul sito del Centro Regionale di Informazione delle Nazioni Unite, l’Agenda 2030 è un programma di azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto dai governi dei Paesi membri dell’ONU nel settembre 2015. Si articola in 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile in cui sono definiti traguardi comuni per tutti i Paesi e tutti gli individui. L’Obiettivo 12 dell’Agenda “Garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo” fornisce indicatori per il raggiungimento di modelli di produzione e consumo consapevoli. I traguardi da raggiungere sono strettamente interconnessi, dalla gestione in modo efficiente e sostenibile delle risorse naturali durante i processi produttivi, minimizzando l’utilizzo di materiali tossici e inquinanti per l’ambiente, alla riduzione sostanziale dei rifiuti, attraverso la prevenzione, la riduzione, il riciclaggio e il riuso.

Una scelta più consapevole

Come consumatori possiamo fare la nostra parte scegliendo i nostri acquisti in modo responsabile. Un consumo consapevole trova declinazioni differenti: possiamo decidere di acquistare oggetti prodotti in modo sostenibile ma anche decidere di ridurre ciò che compriamo, usando ciò che abbiamo già o che è stato prodotto in precedenza.

Per una scelta consapevole, prima di fare un acquisto ci si può affidare alla regola delle tre R, cioè Ridurre, Riusare, Riciclare. Queste tre azioni sono poste a piramide e la regola dà una gerarchia di azioni su cui possiamo riflettere e che possiamo compiere.

  • Ridurre significa consumare meno, acquistando meno oggetti ma di buona qualità e durevoli nel tempo.
  • Riusare intende non gettare oggetti che non hanno ancora terminato il ciclo di utilità, che possono essere riparati o utilizzati con un altro scopo. Se proprio non si riesce a trovare un modo di riutilizzare un oggetto, se in buone condizioni, prima di buttarlo possiamo decidere di donarlo a enti benefici, regalarlo ad amici o venderlo a chi ne ha invece bisogno.
  • Riciclare è l’ultimo step. Solo dopo aver considerato le opzioni precedenti possiamo eliminare l’oggetto, rispettando le regole della raccolta differenziata.

Per una macchina o oggetti costosi è facile fare affidamento su questo principio ma possiamo utilizzare questa regola per ogni tipo di acquisto, dall’elettronica all’abbigliamento. Vendere gli abiti usati è il modo più sostenibile di liberarsene. Dando a un vestito una seconda vita riduce le sue emissioni di anidride carbonica del 79%.

Il futuro del consumo è l’usato. Sempre più persone scelgono di fare acquisti second hand, grazie alle iniziative di sensibilità mosse sui social e alle sempre più diffuse piattaforme di reselling, in particolare nella Generazione Z. I giovani, infatti, sono molto attenti alla tematica ambientale e all’impatto degli oggetti che consumiamo.

Una bella iniziativa messa in moto da Oxfam è il Second Hand September, una challenge per il mese di settembre in cui si invitano le persone a provare ad acquistare solo oggetti di seconda mano per 30 giorni. La challenge non è fine a sé stessa: infatti, l’invito per tutti i partecipanti è quello di continuare a fare acquisti di seconda mano anche nei mesi successivi e farla diventare un’abitudine della propria vita.

In questo ultimo anno il coronavirus ci ha costretto a rimanere fermi e a riflettere: accadono cose che vanno oltre il nostro controllo. Possiamo però ancora agire contro il cambiamento climatico e l’esaurimento delle risorse naturali. La challenge Second Hand September si ripeterà anche quest’anno. Sfruttiamo questa occasione per aiutare il pianeta e le future generazioni. A settembre compriamo usato e diamo una seconda vita ai nostri oggetti sepolti in cantina.

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Ambiente, società e tecnologia

Perché abbiamo un problema di genere?

Dallo studio dei recenti dati divulgati in occasione dell’8 marzo, giornata internazionale della donna, è emerso quanto ancora le donne siano vittime di una disparità di genere che si manifesta trasversalmente in diversi ambiti.

Dalla sfera personale a quella pubblica, il mondo sembra fatto su misura per l’uomo mentre la donna resta subalterna agli eventi della Storia con la “S” maiuscola.

Abbiamo analizzato questo complesso e radicato meccanismo da vari punti di vista, cercando di chiarire importanti concetti quali gender-pay-gap, società patriarcale, femminismo, maternità, quote rosa e molti altri ancora.

Attraverso questa inchiesta, suddivisa  in 5 articoli, ricercheremo e spiegheremo le

cause e gli effetti tangibili di una discriminazione sistemica che ha per vittime le donne di tutto il mondo.

È necessario in primo luogo comprendere quali siano le ragioni socio-culturali della disparità che affligge il genere femminile da secoli. Dalla violenza fisica e psicologica alle battute sessiste, ripercorriamo l’ordine degli eventi che ci hanno condotto ad una realtà che vede “l’uomo misura di tutte le cose”.

Ma in questa visione fallocentrica, la donna dove sta(va)?

Ma posso dire patriarcato?

A volte può accadere che, mentre discutiamo animatamente con gli amici di fronte ad una birra un venerdì sera o magari con perfetti sconosciuti su Clubhouse, salti fuori la parola “patriarcato” senza che spesso se ne conosca il reale significato. Il termine infatti è così poco chiaro alla maggior parte delle persone che si può definire un intero “spettro antropologico” di reazioni a seconda di quanto l’interlocutore sia più o meno informato (e più o meno misogino). A sentir parlare di patriarcato, c’è sempre qualcuno a cui trasale la birra. C’è poi chi reagisce indignandosi, chi lo tratta con superficialità o decide di ignorarlo, oppure chi ne polemizza l’utilizzo “a sproposito”, un po’ come se fosse prezzemolo.

Ma cosa si intende veramente per “cultura patriarcale”? E perché ne va accettata l’esistenza?

Diciamolo una volta per tutte: no, “patriarcato” non è una parolaccia, eppure parlarne o semplicemente citarlo genera ancora troppo sconquasso. Ciò dipende principalmente dal fatto che attorno al termine ci sia ancora molta disinformazione, causa primaria di fraintendimenti e negazionismi.

Solo comprendendone il significato sarà possibile capire quanto questo influisca su ogni aspetto della nostra vita, risultando penalizzante sia verso le donne che verso gli uomini.

Si definisce infatti patriarcato un “sistema sociale maschilista in cui gli uomini detengono principalmente il potere e predominano in ruoli di leadership politica, autorità morale e privilegio sociale”. Al giorno d’oggi però, questo termine (che ha origini ancestrali) si carica di concetti ed implicazioni socio-culturali ben più sottili, tanto da essere onnipresente (e per questo apparentemente invisibile) nella nostra quotidianità.

Nei secoli, il patriarcato si è manifestato nell’organizzazione sociale, politica, religiosa ed economica delle popolazioni, generando importanti effetti culturali di cui tutt’oggi siamo tutti vittime e, allo stesso tempo, abili prosecutori.

L’esistenza di un’ideologia patriarcale secolare ha implicato il radicamento di un’impostazione maschilista e misogina della realtà che si mescola costantemente con la nostra prassi quotidiana.

Non sappiamo come effettivamente il patriarcato sia nato, o meglio, sappiamo che è nato nel momento in cui l’essere umano ha iniziato ad organizzarsi in comunità ma possiamo solo speculare su quali siano potute essere le vere cause che hanno condotto l’uomo ad imporsi sistematicamente sulla donna, autoproclamandosi come “sesso dominante”.

Una delle ipotesi più valide è quella che si basa sulla teoria mimetica di René Girard, secondo cui in sostanza l’imitazione (la “mimesi” appunto) costituisce il fondamento dell’intelligenza umana e dell’apprendimento culturale che caratterizza ogni individuo (e come negarlo?).

Secondo Girard però, questo atteggiamento mimetico nei confronti della realtà non è solo una bonaria e candida assimilazione di ciò che ci sta intorno ma contiene in sé una potenza distruttrice. Negli individui appartenenti ad una stessa società si alimenta infatti una generalizzata fame di possedere gli stessi oggetti. Da ciò deriva quella “rivalità mimetica” che, molto spesso, sfocia in violente e caotiche crisi. L’unico modo per risolvere il problema e “mettere una pezza” sullo squarcio che si viene inevitabilmente a creare, è immolare un capro espiatorio a cui addossare la colpa così da poter garantire il ritorno della pace e la costruzione di una nuova cultura fondata su altrettanto nuove certezze.

Ed è proprio questa la storia del patriarcato, nato in risposta alla profonda crisi delle società agricole primordiali. Secondo la teoria mimetica, l’uomo ha quindi deciso di immolare l’essere femminile a vittima sacrificale, condannandola a diventare la peccatrice colpevole di tutto il “male” esistente (ci suona familiare, no?) e costruendo sulla “necessaria” discriminazione della donna un nuovo modello di società che tutt’oggi resiste: quella maschilista e patriarcale.

Ciò che molti non sanno (o si rifiutano di ammettere) è che quest’impostazione sessista, basata su uno squilibrio di potere, ha un effetto deleterio sia sugli uomini che sulle donne. Entrambi infatti sono schiavi di stereotipi di genere fasulli ed inarrivabili che li ingabbiano in modelli preconfezionati e claustrofobici in cui, il più delle volte, non si rispecchiano.

Negare l’esistenza di una cultura patriarcale che permea ogni ambito della nostra sfera personale e collettiva si rivela perciò tanto falso quanto controproducente: sessismo e maschilismo si manifestano continuamente nella nostra quotidianità in modo più o meno esplicito e negare questa evidenza non fa che alimentarne il meccanismo discriminatorio.

L’esistenza del gender gap, il drammatico numero di femminicidi (91 solo nel 2020, come riportato da Il Sole 24 Ore), la violenza di genere ormai prassi quotidiana (secondo l’istat, colpisce 1 donna su 3) e la disparità di salario sono solo la punta dell’iceberg degli effetti dell’ambiente patriarcale in cui viviamo. Oltre a queste evidenze drammatiche, tanto consolidate da costituire lo “status quo”, esistono poi decine di atteggiamenti discriminanti più sottili che vengono spesso percepiti come “tollerabili” o addirittura “innocui” dalla società e, per questo motivo, più difficili da combattere. Fanno parte di questa seconda categoria il catcalling e le battute sessiste e a sfondo sessuale che, mascherate dalla goliardia, rendono infelicemente esplicita la visione retrograda che ancora si ha della donna: ora come “angelo del focolare”, ora come oggetto sessuale e mercificato.

Insomma, sempre di Medioevo si parla. Ma non eravamo nel 2021?

L’atteggiamento discriminatorio che prevede che la donna occupi una posizione subalterna all’uomo si riflette in tutta la sua silenziosa violenza nell’uccisione dei femminili plurali. Il genere grammaticale del maschile plurale infatti ingloba e soggioga il femminile, riflettendo ciò che accade nella realtà. Ciò è testimoniato anche dal documento redatto dalla Commissione Nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna, in cui si dice chiaramente quanto la lingua quotidiana sia il mezzo di trasmissione più pervasivo di una visione del mondo in cui la donna è trattata con inferiorità o marginalità.

É paradossale, ma basta un uomo in una platea di mille donne per permettere che si parli correttamente di “tutti” e non di “tutte”.

Ciò che spesso non capiamo è che ognuno di noi è il frutto sano (o marcio?) della società in cui vive. L’ambiente che ci circonda ci istruisce, fin da bambini e bambine, ad un sistema maschilista, iniquo e discriminante nei confronti delle donne in ogni aspetto della vita.

Perciò sì, anche le donne sono maschiliste. E come potrebbero non esserlo, se il maschilismo costituisce la norma?

In un mondo costruito su uno squilibrio di potere fatto passare per naturale ed immutabile e su una società che ci ingabbia in etichette tanto claustrofobiche da renderci immobili nella paralisi della nostra inettitudine, continuiamo a deresponsabilizzarci dalle nostre colpe e dalle capacità che abbiamo di cambiare le cose.

Ci ripetiamo: “Il problema è il sistema, non dipende da noi”, rassicurati dalla nostra innocenza mentre iteriamo gli stessi errori e le stesse discriminazioni, assuefatti dalla stasi di una pace fragile ma destinata a frantumarsi.

Un problema di linguaggio: forma e sostanza

Sottovalutiamo spesso il peso delle parole. Ci capita di continuo di utilizzare dei termini “per abitudine”, non riflettendo sul loro reale significato o sulla loro origine ed abbandonandoci così a comodi cliché che però si portano dietro una lunga storia di discriminazione o violenza.

Va avanti ormai da secoli la diatriba su cosa sia il linguaggio, sospeso tra la pura forma e la pura essenza. Basti pensare che già nel IV secolo a.C., Aristotele reputava che il linguaggio esprimesse l’essere, definendolo un “contenuto della coscienza”.

L’errore che spesso commettiamo è quello di fissare il linguaggio nello spazio e nel tempo, con un atteggiamento restio al cambiamento. Perché sì, sarebbe molto più comodo ancorarci all’hic et nunc per avere delle certezze, perlomeno quando parliamo, ma ciò ci rende miopi nei confronti di una società che sta mutando, ed anche molto velocemente.

Il vocabolario e la semantica associata alle parole sono sempre stati lo specchio dei valori e del grado di civiltà di una popolazione. I termini utilizzati in diversi contesti infatti sono la prima spia delle abitudini culturali e degli equilibri di potere che governano un popolo.

Alla luce di questo, potremmo rintracciare decine e decine di incongruenze nella nostra lingua che dovrebbero farci chiedere: voglio veramente dire quello che penso utilizzando queste parole?

Partendo dalla vastità degli appellativi offensivi con cui ci si riferisce alle donne (quasi sempre basati sulla denigrazione sessuale), la discriminazione che mettiamo quotidianamente in atto con il linguaggio si fa sempre più sottile. Questa infatti si manifesta continuamente, ormai completamente inglobata nelle nostre categorie di pensiero. Stiamo compiendo una violenza verbale ogni volta che diciamo che una donna è “isterica” o concordiamo con il lemma “donna” della Treccani, in cui il termine è definito come sinonimo di “cagna” (e poi ancora bagascia, squillo, puttana, vacca, zoccola..). In opposizione alla famosa Enciclopedia si muove la decisione dell’Oxford Dictionary, che sceglie invece di rivedere i sinonimi dispregiativi associati alla parola “donna” in quanto ritenuti inaccettabili. Siamo poi discriminanti e sessisti ogni volta che utilizziamo gli appellativi dispregiativi “maschiaccio” e “femminuccia” ma anche quando usiamo il maschile singolare o plurale invece che il femminile.

Durante l’edizione del 2021 del festival di Sanremo, è stata protagonista non solo la canzone italiana ma, come ormai è tradizione, anche la discriminazione di genere. Al di là dei presentatori e di alcuni siparietti che sul piano del sessismo hanno lasciato alquanto a desiderare, uno degli eventi più dibattuti è stato sicuramente il discorso della direttrice d’orchestra Beatrice Venezi che, alla domanda di Amadeus, risponde di voler essere chiamata “direttore”. Conduttore e ospite sono entrambi responsabili di aver rimarcato un’amara verità: il titolo è autorevole solo se al maschile, come se l’utilizzo del femminile ne comportasse uno svilimento professionale.

Tralasciando cosa ne pensi il vasto pubblico, occorre ribadire che in italiano è grammaticalmente corretto riferirsi al femminile quando si sta parlando di una donna. “Direttrice” perciò è un termine che non solo esiste ma è anche ben assodato nella lingua parlata. Perché allora porre lo scomodo interrogativo “direttrice o direttore?”, come se stessimo parlando di gusti di gelato?

Ora, poiché ognuno è libero di farsi chiamare come vuole, è giusto riferirsi alla Venezi come “direttore” dato che questa è la sua volontà. Ciò non giustifica però la grande ottusità che si cela dietro all’affermazione. Accade spesso infatti che, volontariamente (come in questo caso) o involontariamente, ci si riferisca a ruoli femminili utilizzando termini al maschile.

Le motivazioni che si celano dietro questa scelta sono molte ma in primis riguardano un retaggio culturale, dovuto al fatto che molti lavori sono stati per secoli accessibili solo a uomini. A ciò si aggiunge l’esistenza di una sorta di “imperativo maschile” sulle parole che fa percepire il femminile come subalterno, opzionale o inferiore.

La giustificazione spesso utilizzata quando si sceglie di non usare i termini femminili corretti è che questi risultano cacofonici, cioè “suonano male”. Il punto è che questo accade perché non li utilizziamo mai, e non li utilizziamo mai perché molti ruoli sono rimasti inaccessibili alle donne per secoli: ora che hanno conquistato i diritti per svolgere questi lavori (sebbene ancora con molti ostacoli), è nostro dovere chiamare le cose col loro nome.

Per cui, il “direttore” Venezi ha tutto il diritto di farsi chiamare come vuole ma ciò dimostra solo quanto lei stessa sia vittima di quel meccanismo patriarcale che soggioga la donna all’uomo, condannandola ad esserne un’ombra, una sbavatura, una parola che suona male.

Il sessismo intriso nella nostra cultura si riflette, senza che ce ne accorgiamo, nel modo in cui pensiamo e nel nostro linguaggio. Pretendere di non adattarci alle nuove dinamiche significa voler chiudere gli occhi ad un cambiamento propositivo e diretto verso una maggiore equità, sia formale che sostanziale.

Vera Gheno, sociolinguista e scrittrice, ritiene che sia fondamentale che la lingua evolva insieme ad un popolo in quanto ne è lo specchio dei meccanismi e delle dinamiche sociali.

Come la stessa Gheno spiegherà in un’intervista condotta da Tlon.it, è necessario valutare il peso sociale delle parole che utilizziamo ed il loro significato in relazione al contesto.

Abbiamo sempre avuto l’esigenza di nominare le cose e cambiamenti nel linguaggio non sono altro che la manifestazione di una cultura che si sta evolvendo.

Dobbiamo smettere di pensare che le parole siano solo parole: le parole sono ciò che ci rende umani.

Per Michela Murgia, scrittrice ed intellettuale sarda, la lingua è un atto creativo genuino che non può essere ingabbiato in stereotipi o modelli fissi e segue un continuo flusso di riadattamento. Il suo ultimo libro STAI ZITTA e altre nove frasi che non vogliamo sentire più” nasce proprio dall’esigenza di analizzare il linguaggio che utilizziamo, troppo spesso trattato con superficialità, e svelarne i meccanismi di potere (maschile) che vi si manifestano. La motivazione che l’ha spinta a scriverlo è arrivata quando il noto psichiatra Raffaele Morelli, dopo aver rilasciato dichiarazioni deplorevoli sulle donne (e sulla presunta esistenza di una “radice del femminile”), interrompe brutalmente Murgia dicendole “zitta, zitta, zitta e ascolta”. Cosa ha fatto Michela Murgia dopo essere stata pubblicamente umiliata? Scrive un libro per combattere quell’ignoranza e quella presunta superiorità di cui Morelli si è fatto paladino, e lo fa per tutti noi.

Lo studio condotto dalla Murgia pone ancora una volta l’accento sulle cause socioculturali di quelle discriminazioni di genere che si riflettono nelle parole che scegliamo di utilizzare.

In una delle interviste che ha condotto per la presentazione del libro ha come ospite Alessandro Giammei, professore di italianistica al Bryn Mawr College negli USA, con cui concorda nel dire che il linguaggio è sostanza, in quanto è il mezzo attraverso cui modelliamo la realtà. Per questo motivo, fissare la definizione di una parola nello spazio e nel tempo significa paralizzarla nella gabbia delle sue lettere.

Il patrimonio storico delle parole dovrebbe quindi essere costantemente rivisto in una chiave inclusiva e più rispettosa, secondo le esigenze della società.

Espressioni come “donna con le palle” sono dei comodi cliché che spesso utilizziamo senza cognizione di causa mentre invece dovrebbero farci inorridire. Sebbene siamo consapevoli di quanto questo sia un modo di dire svilente verso le donne, continuiamo ad usarlo perché riassume perfettamente la credenza comune secondo cui forza e coraggio sono qualità tipicamente maschili.

Il nostro compito allora è quello di trovare altre espressioni che mettano in risalto la forza o il carattere di una donna senza ricorrere ai genitali maschili. Fare questo adesso ci richiede uno sforzo, ma in futuro non lo richiederà più: solo allora avremo rinnovato il linguaggio.

Cambiare le parole infatti non significa altro che connotare la realtà in modo che ci somigli di più.

Sempre su questa linea si muove la proposta della Gheno per la costruzione di un linguaggio più equo ed inclusivo, anche in vista delle nuove soggettività non-binarie (la cui identità non si riconosce né nel genere femminile né in quello maschile): questo sarà possibile solo adottando nuove soluzioni, come l’asterisco al posto di i/e al termine delle parole (esempio: tutt* al posto di tutti/e) o una vocale neutra chiamata schwa(ə).

Come lei stessa spiega nel suo saggio “Femminili singolari”, la schwa corrisponde ad una vocale media-centrale ed è sostanzialmente il suono che emettiamo quando la nostra bocca è in rilassamento (per sentire il suono, cliccate qui). Si rappresenta con il simbolo ”ə” ed è il primo passo verso un italiano più inclusivo. Secondo la Gheno infatti, nel sistema-lingua possono “convivere sia le regole che un certo grado di libertà” affinché l’insieme sia funzionale e rispecchi l’anima di chi parla.

Al giorno d’oggi, esistono persone che si sentono ingabbiate nel binarismo di genere maschile/femminile ed è quindi necessario venire incontro anche a questa nuova esigenza sociale. La scelta della schwa si muove anche verso il raggiungimento della parità di genere nel parlato in quanto potrebbe sostituire quel “maschile sovraesteso” che nasconde il femminile quando ci si riferisce alle moltitudini.

Dato che continuamente assorbiamo e riadattiamo termini dall’inglese, cosa ci impedisce di aprirci a nuove alternative, svecchiando la nostra lingua?

Il linguaggio è (anche) sostanza e solo attraverso una narrazione più inclusiva, corretta, rispettosa e (quanto più possibile) libera da quel filtro cognitivo compromesso dall’ambiente socio-culturale in cui ogni individuo è cresciuto si può contribuire ad un effettivo cambiamento: la lotta comincia dalle parole e solo la curiosità potrà salvarci dalla paralisi del linguaggio.

Del perché il femminismo è roba da uomini

Data la grande confusione che si genera attorno al termine, ripetiamo che si definisce femminismo quel movimento socioculturale che sostiene la parità politica, sociale ed economica tra i sessi, rivendicando uguali diritti e dignità tra uomini e donne alla luce di quella discriminazione di genere ancora protagonista della nostra quotidianità.

Solitamente però, tendiamo a credere che il femminismo sia “roba da donne” o, peggio ancora, “l’antitesi del maschilismo” quando in realtà non è assolutamente così.

Se il maschilismo, come dice Garzanti, è quell’atteggiamento psicologico e sociale fondato sulla presunta superiorità dell’uomo sulla donna, il femminismo è invece un movimento trasversale nato proprio per opporsi a comportamenti e pensieri discriminanti ed ha come obiettivo principale quello di conquistare la giusta parità, indipendentemente dal sesso di appartenenza.

Ed è esattamente questo il motivo per cui dovremmo essere tutti femministi.

Lorenzo Gasparrini, filosofo e scrittore, si definisce orgogliosamente uomo femminista. Con i suoi libri “Non sono sessista, ma…” e “Perché il femminismo serve anche agli uomini” ci spiega perché la cultura patriarcale e l’ideologia maschilista siano deleterie tanto per le donne quanto per gli uomini. Gasparrini infatti mette nero su bianco una scomoda verità che molti si rifiutano di accettare: i “veri maschi” non esistono.

Quella che ci viene quotidianamente fornita è un’idea distorta di essere uomini, come se esistesse una sola versione di mascolinità che è possibile impacchettare e comprare al bar, insieme alle Haribo. É questa la “mascolinità tossica” che, secondo il New York Times, consiste in un insieme di comportamenti e credenze che comprendono il sopprimere le emozioni, mascherare il disagio o la tristezza ed utilizzare la violenza come indicatore di potere.

La società patriarcale promuove quindi un solo modello: quello dell’uomo-macho, virile, forte e superiore. Questo meccanismo li spinge (involontariamente) a conformarsi a quelle che sono fatte passare come le “tipiche qualità dell’uomo” quando in realtà sono le sbarre della gabbia che lui stesso si sta costruendo intorno.

Sebbene la sua sia una condizione decisamente più favorevole di quella femminile, anche lui è schiavo della stessa cultura misogina e maschilista che, se da un lato discrimina e oggettifica la donna, dall’altro impone una sola versione di uomo, quella “vera”, fatta di testosterone, maschilismo e sete di dominio.

Ed è così che il passo è breve per appellare un uomo gentile a “gay” (come se si trattasse di un’offesa), insultarlo perché “secco” o denigrarlo perché giustamente si occupa delle faccende di casa, per non parlare del “machismo da spogliatoio” che si verifica nel mondo dello sport.

Insomma, anche l’uomo è costretto nella prigione del suo sesso.

Negli ultimi anni, un caso esemplare che ha fatto esplodere la “bolla di vetro” satura di mascolinità tossica e distinzioni di genere è stato  Achille Lauro. Il cantante e showman nella scorsa edizione di Sanremo ha sconvolto il pubblico della TV popolare attraverso comportamenti e dichiarazioni decisamente fuori dagli schemi. Per Lauro, è la confusione dei generi il suo personale modo di dissentire ad una realtà maschilista e rifiutare quelle convenzioni da cui poi si generano discriminazione e violenza. Questo approccio alla vita si riflette nel linguaggio, nelle azioni e nell’apparenza, intesa come modo di vestirsi e di mostrarsi.

Sempre sul palco dell’Ariston quest’anno è stata Madame, artista giovanissima e di immensa consapevolezza, a rompere un bel po’ di schemi. Nelle sue canzoni, tra le altre cose, emerge la necessità genuina di una fluidità in grado di riportarci ad essere carne ed anima, ad essere persone prima di “maschi” e “femmine”, diventati ormai concetti sterili e fini a se stessi.

Il primo passo per demolire e superare questo sistema divisivo e discriminante è perciò ammettere di essere il prodotto ben riuscito di una cultura patriarcale di cui abbiamo interiorizzato gli schemi. Solo dopo aver raggiunto questa consapevolezza sarà possibile liberarci da quei claustrofobici stereotipi che costituiscono la “norma”.

Certo, lottare contro i modelli sociali, le abitudini culturali e gli elementi linguistici discriminanti con cui siamo cresciuti fin dall’infanzia è un processo faticoso (almeno inizialmente) ma solo così potremo costruire una società più giusta ed inclusiva.

Nasciamo tuttə maschilistə ma dovremmo diventare tuttə femministə.

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La scimmia di Elon Musk gioca a pong con il pensiero grazie a Neuralink

Una scimmietta davanti a un monitor gioca al famoso videogame Pong, è quello che si vede da un video pubblicato dall’azienda di Elon Musk: Neuralink. Non ci sarebbe nulla di strano nel vedere un primate addestrato per giocare a un videogioco, se solo non fosse che lo stava controllando soltanto con il pensiero.

Cos’è e come funziona:

Il protagonista del video diventato virale è Pager, un macaco di 9 anni, scelto dalla compagnia statunitense di neurotecnologie per lo sviluppo di interfacce uomo-macchina per questo esperimento che Musk stesso sul social vocale Clubhouse aveva dichiarato già a febbraio di quest’anno. Nella prima metà del video si vede come il primate, attaccato ad una cannuccia che eroga del frullato di banana, con la mano destra su un joystick, gioca al videogioco Pong, rinominato per l’occasione MindPong. In un secondo momento, terminata la fase di apprendimento, il joystick viene scollegato ma Pager continua tranquillamente a giocare come se nulla fosse successo. Ciò che la fa proseguire senza dover controllare il gioco con la mano, è un dispositivo che le permette di farlo con la mente:  il chip wireless N1 Link, abbreviato “The Link” impiantato nel suo cranio.

Questo chip è un dispositivo di registrazione neurale e di trasmissione dati dotato di 1.024 elettrodi e alla scimmia ne sono stati impiantati due: uno a livello della corteccia motoria di destra e l’altro a sinistra. Nella prima fase di apprendimento, non solo il macaco stava imparando a giocare, ma anche i ricercatori hanno potuto costruire un modello di attività neurale dell’animale a computer. Partendo dal Link che riesce a captare i potenziali d’azione dei neuroni, ovvero la “scossa elettrica” che rilasciano quando vengono attivati da scambi di informazioni, questi vengono aggregati e conteggiati ogni 25 millisecondi per ognuno dei 1.024 elettrodi. Contemporaneamente, sempre ogni 25 millisecondi il chip trasmette i conteggi aggregati via Bluetooth ad un computer in grado di eseguire un software di decodifica apposito: un algoritmo di machine learning che sia in grado di tradurre i segnali elettrici del cervello in segnali digitali e arrivare anche a prevedere le potenziali mosse future dell’animale.

L’esperimento con Pager ha fatto fare dei grossi passi avanti all’azienda, se teniamo conto del fatto che il massimo a cui si era arrivati l’anno scorso con la maialina Gertrude era rilevare i segnali cerebrali quando questa, usando il suo olfatto, rilevava qualcosa di gustoso; ma questo test secondo Musk è solo l’inizio, perché il progetto in sé è molto più ambizioso.

Il vero progetto del CEO visionario

L’esperimento non è stato fine a sè stesso, ma fa parte del processo di studio e sviluppo di questa  tecnologia per aiutare le persone con disturbi neurologici e che hanno subito amputazioni agli arti, attraverso un impianto neurale wireless poco invasivo che permetterebbe loro di riavere alcune abilità, anche motorie.

L’idea sarebbe quella di collegare The Link , precedentemente impiantato nel cranio del paziente e delle dimensioni di una monetina, ai dispositivi d’uso quotidiano come gli smartphone per permettergli di utilizzarlo, oppure ad un arto bionico riuscendo a muoverlo così come muoviamo i nostri arti funzionanti.

Aiutare i pazienti paralizzati, che hanno subito amputazioni ma anche con malattie neurodegenerative come il Parkinson, è il risultato ideale che se Musk riuscisse a raggiungere potrebbe portare ad una vera rivoluzione; come lui stesso ha affermato: “può effettivamente risolvere problemi come ictus, paralisi, cecità, perdita dell’udito, disturbo dello spettro autistico, Parkinson e patologie come ansia e depressione, ma molte persone non se ne rendono conto. Tutti i sensi – vista, udito, olfatto -, ma anche sensazioni di vario tipo come il dolore sono segnali inviati dai neuroni al cervello. Correggendo questi segnali si può correggere tutto

Le sue mire però non finiscono qui: il suo piano sarebbe non solo di portare questa tecnologia a malati di questo tipo, ma arrivare anche alle persone sane, facendola diventare un prodotto di massa in modo tale che impiantata sulla maggior parte delle persone, ci renda in grado di difenderci dall’avanzata dell’intelligenza artificiale che a suo avviso potrebbe, in un futuro non troppo lontano, superare completamente l’essere umano nella folle corsa verso il progresso.

Nonostante sembri fantascienza, non è una novità totale

L’idea di Elon Musk di registrare segnali cerebrali e trasmetterli ad un computer può sembrare innovativa, ma altri neuroscienziati, hanno provato a portare avanti questi studi ben prima dell’imprenditore sudafricano. Già nel 1963, José Manuel Rodriguez Delgado creò un dispositivo predecessore delle attuali interfacce uomo-macchina impiantando un elettrodo radiocomandato nel nucleo caudato del cervello di un toro e fermando la corsa dell’animale premendo un pulsante di un trasmettitore remoto. Uno dei primi esperimenti con un chip è stato portato avanti dal neuroscienziato Eberhard Fetz che nel 1969 effettuò uno studio in cui delle scimmie furono addestrate ad attivare un segnale elettrico nel loro cervello per controllare l’attività di un singolo neurone, appositamente registrata da un microelettrodo metallico.

Un’altra vicenda degna di nota in questo ambito è quella del giovane Neil Harbisson che nel 2004 è diventato la prima persona al mondo ad indossare un’“antenna” che gli permette di “sentire i colori” a seconda della frequenza espressa, nonostante la sua acromatopsia (impossibilità totale di vedere i colori a livello cerebrale), diventando il primo uomo-cyborg riconosciuto. Nel 2010 ha inoltre fondato la Cyborg Foundation, un’organizzazione internazionale per aiutare gli umani a “diventare” cyborg; lui probabilmente si direbbe d’accordo con i progetti di Neuralink.

Prospettive future e problemi: gli ostacoli e le opportunità per Neuralink

Nonostante l’idea di base di impiantare un chip nel cervello, sia già realtà in ambito biomedico, la volontà di Musk di spingersi oltre potrebbe presentare dei problemi.

In primis il fatto che il chip tenderebbe a deteriorarsi nel cranio provocando delle potenziali infezioni e successivamente il danneggiamento dei neuroni a cui The Link stesso è collegato, nonostante l’obiettivo sia farlo durare “per decenni”. In secondo luogo il prezzo potrebbe non essere accessibile a chiunque, anzi,  a detta sua verrebbe a costare “fino a qualche migliaio di dollari”, rendendolo un lusso di pochissimi e aumentando il divario tra ricchi e poveri andando a creare una classe elitaria con dei “superpoteri” che altri potrebbero solo sognare. Infine anche chi se lo può permettere, potrebbe avere dei seri dubbi nel farsi impiantare un apparecchio nel cranio laddove questa necessità non fosse impellente, con la consapevolezza che, come tutte le tecnologie, anche The Link potrebbe essere hackerato e a quel punto gli effetti catastrofici si potrebbero solo immaginare.

Tuttavia, adesso che The Link ha ricevuto tutte le autorizzazioni dalla FDA (Food and Drug Administration) la sperimentazione sugli esseri umani potrebbe essere più vicina che mai: con uno dei suoi tweet il CEO ha annunciato i primi test entro la fine di questo 2021, non ci resta che attendere, sperando di non diventare degli ostaggi dell’AI ancora prima di iniziare.

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Ambiente, società e tecnologia

Apprendere tramite la realtà virtuale: la nuova frontiera dell’istruzione

Indossare dei visori in aula per vedere comparire sul banco una cellula, una molecola o un pianeta, fare un esperimento di elettronica e maneggiare dei materiali pericolosi in totale sicurezza: queste sono solo alcune delle attività che si possono fare con la realtà virtuale per imparare meglio arrivando a “toccare con mano” e visualizzare oggetti normalmente impossibili. La missione di aziende come Google è portare tutto ciò quotidianamente nelle aule di scuole e università con l’obiettivo di rivoluzionare per sempre il mondo dell’apprendimento grazie a questa tecnologia.

Cosa sono realtà virtuale, realtà aumentata e le differenze

La realtà aumentata, augmented reality in inglese, è una tecnologia che permette di aggiungere le informazioni nel nostro campo visivo, andando ad arricchirlo di elementi nuovi grazie alla fotocamera dei dispositivi mobili sui quali sono stati installati appositi programmi. Il principio è quello dell’overlay ovvero la sovrapposizione di informazioni aggiuntive, definite ologrammi, a quelle già esistenti.

La realtà virtuale, virtual reality, riesce ad andare oltre: è una tecnologia immersiva che grazie ad un apposito visore, permette di immergersi in una realtà simulata alla perfezione, costruita in tre dimensioni e a 360 gradi che coinvolge non solo gli occhi ma anche l’udito e la propriocezione. Questi strumenti riescono a percepire i nostri movimenti, ricreando la scena come se fossimo nel mondo naturale: se si alza un braccio nel mondo esterno, si alzerà il corrispettivo ricreato nella simulazione, facendo credere al nostro cervello di trovarsi proprio lì; perché nonostante la consapevolezza di fondo di aver indosso un visore, la sensazione di embodiment crea un inganno per il cervello che si sente completamente presente.  A differenza della realtà aumentata, che si limita ad apparire in sovrapposizione, rimanendo ben distinguibile dal resto, la VR permette di immergersi totalmente nella scena rendendo difficile discernere ciò che è vero da ciò che è stato ricreato.

Esiste inoltre un terzo tipo, di realtà virtuale/aumentata, la cosiddetta mixed reality in cui AR e VR vengono unite: gli ologrammi già presenti nell’AR superano la staticità permettendo l’interazione come accade nella VR, rimanendo però nettamente distinguibili dalla realtà e perciò non è definibile immersiva.

AR/VR e ambiti di applicazione

Le realtà estese, citando una macro-categoria per racchiuderle tutte, hanno fatto il loro debutto nel mondo dell’entertaiment dando vita a videogiochi ultraimmersivi, ma negli ultimi anni è stato possibile vedere come possono essere applicate ad un’infinità di ambiti.

Alcuni sono più ovvi di altri, come quello industriale, dove diventerebbe possibile, semplicemente inquadrando un macchinario sconosciuto, visualizzare tutte le istruzioni  per il funzionamento sottoforma di animazioni dettagliate. Allo stesso modo può essere utilizzata per le training di addetti alla manutenzione di sistemi pericolosi come i tralicci dell’alta tensione dove sbagliare può costare la vita ed è anche molto facile per una persona alle prime armi; come sostiene Lorenzo Cappannari di AnotheReality: “se prima lo si insegna in modo altrettanto realistico ma totalmente sicuro in una simulazione, si può sbagliare tutte le volte che si vuole senza problemi e sbagliando, imparare”.

Grazie alle realtà estese è realmente possibile continuare a sbagliare senza nessuna conseguenza, caratteristica utile a professionisti come il pilota di velivoli, ma anche il chirurgo. Proprio a supporto di quest’ultimo, è il progetto della startup italiana Artiness che ha l’obiettivo di portare la realtà aumentata in sala operatoria per rendere gli interventi delicati più sicuri.

Realtà virtuale solo per settori “di rischio”?

L’industria e l’healthcare tuttavia non sono gli unici settori coinvolti, perché questo tipo di tecnologia ben si sposa con un ambito fondamentale: la formazione. In questi anni si sta fortemente sperimentando la VR per la formazione del personale delle aziende che invece di dover organizzare dei continui e dispendiosi corsi di formazione in presenza possono creare una simulazione ad hoc per il tipo di mansione che deve essere svolta, e presentarla ad ogni nuovo impiegato che, dotato di un visore, può imparare efficacemente la procedura, alla quale è stata aggiunta la componente di gamification.

Realtà estesa e apprendimento: ecco perché è così efficace

Il forte potenziale non si trova solo in ambiente lavorativo, ma anche in quello scolastico con bambini e ragazzi. La tecnologia evolve di giorno in giorno, ma nelle aule spesso rimane ancora la lavagna con il gesso quando invece sarebbero disponibili gli strumenti per rendere l’apprendimento non solo più interessante ma anche molto più efficace.

Per spiegare il perché dell’efficacia, è necessario fare riferimento alle neuroscienze: le ultime scoperte sul cervello spiegano che per apprendere meglio e quindi ricordare più a lungo comprendendo a livello profondo quello che si sta studiando, il modo migliore è fare. Il cono dell’apprendimento è un grafico che fa notare come dopo due settimane si ricorda solo il 10% di quanto si è letto, ma ben il 90% di quello che si è fatto rendendo l’apprendimento attivo.

In aggiunta, i mondi creati da AR e VR rendono l’esperienza di apprendimento coinvolgente e quindi emozionante, parola chiave in contesto di memoria in quanto, come dimostrano molteplici studi, più il materiale da imparare si lega alle emozioni e maggiore sarà il ricordo, perché concepito come rilevante per il cervello. Proprio per la loro capacità di generare e modificare emozioni anche permanentemente, sono considerate le prime tecnologie “trasformative”.

La nuova frontiera scolastica: i visori per tutti

Con le dovute premesse diventa evidente come la mixed reality possa essere rivoluzionaria per scuole e università. Già a partire dalle elementari, fino alla formazione superiore, le realtà estese possono aiutare gli insegnanti a spiegare concetti complessi e visualizzare oggetti fisici difficilmente comprensibili dalle immagini appiattite e poco realistiche dei libri; permettendo così di studiare in modo coinvolgente tutti gli argomenti: dalla biologia all’arte, dalla fisica alla chimica fino all’informatica e le lingue.  Si avrà dunque l’opportunità di capire a fondo teorie che sarebbero altrimenti estremamente nozionistiche, rendendole invece fortemente esperienziali.

Aziende come Google in partnership con Labster, ma anche Lenovo, hanno compreso a pieno la potenzialità e stanno lavorando a delle soluzioni per estendere quando più possibile l’utilizzo di queste tecnologie nella didattica di tutti i giorni. L’azienda californiana con il progetto “for education” ha trovato una possibile soluzione in continua evoluzione per portare la mixed reality nelle scuole, senza costi eccessivi: le Cardboard, delle custodie di materiale non fragile come cartone o plastica in cui inserire uno smartphone e utilizzarlo come prototipo di visore. La proposta è avvalorata dal fatto che esistono già delle applicazioni installabili sui devices che accompagnano gli studenti nella didattica interattiva. Nonostante Google stessa abbia ammesso che sia un progetto ancora parecchio acerbo, la prima scintilla è stata accesa e le potenzialità di sviluppo futuro sono molte, ciò che va ridimensionato è il sistema d’istruzione.

La strada potrebbe essere lunga

La scuola deve fare ancora molti progressi su questo fronte e gli ostacoli da superare per portare la trasformazione digitale in tutti gli istituti d’Italia non sono sicuramente pochi: a partire dai fondi per le tecnologie stesse e la formazione degli insegnanti, come sostiene Stefania Strignano, dirigente dell’Istituto Ungaretti di Melzo, una delle prime scuola statali italiane che ha rivoluzionato il metodo d’insegnamento tramite laboratori creativi, utilizzo di strumenti digitali e didattica personalizzata: “in primo luogo c’è da investire sul capitale umano ovvero i professori che per primi devono interiorizzare il cambiamento e saperlo portare agli alunni”.

Il lavoro da fare è parecchio ma il potenziale ancora di più e le ricerche scientifiche oltre che i risultati ottenuti da scuole pioniere, lo dimostrano. Vale la pena approfondire lasciandosi immergere nella trasformazione digitale.

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Ambiente, società e tecnologia

Un semaforo per gli alimenti? Non esattamente: cos’é e come funziona il Nutri-score

Immaginate un sistema di etichettatura alimentare semplice, intuitivo e che aiuti a compiere scelte di acquisto consapevoli: si tratta dell’obiettivo di Nutri-Score, ideato dalla Public Health Agency francese e utilizzato per la prima volta proprio in Francia nel 2017. Si torna a discuterne oggi perché il 25 gennaio di quest’anno è avvenuta la prima riunione ufficiale della commissione transnazionale, di cui fanno parte Spagna, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Francia e Lussemburgo, creata allo scopo di coordinare, monitorare e incoraggiare l’utilizzo di Nutri-Score. Ma si torna a discuterne, soprattutto in termini scettici, in Italia: se da una parte alcuni paesi europei lo hanno accolto volontariamente, molti ritengono che questo sistema possa penalizzare fortemente i prodotti made in Italy. Da cosa nascono questo timore e queste critiche? Ma soprattutto, che cos’è e come funziona il sistema Nutri-score?

Nutri-score: cinque colori per orientare i consumatori

Quanti di noi conoscono precisamente il significato della dichiarazione nutrizionale specifica per ogni prodotto e sanno interpretare il valore nutrizionale delle percentuali di macronutrienti riportati sul retro delle confezioni? O ancora, quante volte leggiamo questa etichetta prima di scegliere quali prodotti mettere nel carrello? Nutri-score nasce per semplificare queste informazioni e renderle accessibili grazie a una scala di cinque colori, dal verde all’arancione scuro e dalla “A” alla “E”, attribuiti ad ogni prodotto sulla base di un algoritmo che assegna un punteggio considerando numerosi fattori nutrizionali. Più basso sarà il punteggio ottenuto da un prodotto, più si avvicinerà ad ottenere una “A”. I fattori che fanno avvicinare un prodotto a un’etichettatura verde sono la presenza di fibre, la quantità di frutta e verdura presente in esso e il contenuto proteico; i nutrienti invece da limitare in una dieta equilibrata, e che quindi fanno tendere il risultato ad un’etichettatura gialla o arancione, sono i grassi saturi, il sale, gli zuccheri e un contenuto calorico molto elevato; i punteggi ricavati da ogni fattore vengono sommati fino ad ottenere il Nutri-score effettivo.

Sono stati condotti esperimenti per mettere alla prova l’efficacia del Nutri-score nell’accrescere la consapevolezza dei consumatori: in uno dei più recenti, pubblicato nel sul “International Journal of Behavioral Nutrition and Physical Activity” nel novembre 2020, è stato chiesto a diversi campioni di popolazione scelti tra paesi diversi di ordinare tre prodotti della stessa categoria alimentare in base al valore nutrizionale che ognuno dei partecipanti gli avrebbe attribuito. I partecipanti avrebbero dovuto farlo prima avendo a disposizione solamente la dichiarazione nutrizionale, poi in base al punteggio assegnato ad ogni prodotto. Il risultato sembra scontato, ma é indicativo: Nutri-score si è dimostrato più efficace della semplice dichiarazione nutrizionale nell’aiutare i consumatori a mettere nel giusto ordine i prodotti che erano stati proposti (si trattava, nel caso di questo esperimento, di  cereali per la colazione e di tipi differenti di pizze surgelate).

Le critiche al Nutri-score: quali sono le perplessità che sorgono?

Nonostante alcuni paesi europei abbiano trovato un accordo per incentivare l’utilizzo di questa etichettatura (che rimane su base volontaria per le aziende produttrici), molte critiche sono arrivate soprattutto da parte dell’Italia. Le principali sono la potenziale non aderenza di questa etichettatura al modello della dieta mediterranea e il timore che alcuni prodotti made in Italy molto apprezzati, come il Parmigiano Reggiano o il prosciutto di Parma, vengano penalizzati da un punteggio molto basso (vicino alla “D”),fino a boicottarne l’export.

Questo sistema semplifica informazioni complesse, perció non deve essere considerato un indice assoluto da cui non discostarsi. Uno dei problemi fondamentali di queste critiche sta infatti nel fraintendimento dell’obiettivo dell’etichetta Nutri-score stessa: non è stata ideata per scoraggiare i consumatori dall’acquistare prodotti etichettati con “D” o “E”, come se fossero cibi da escludere categoricamente, così come non considera il valore gastronomico e tradizionale di un prodotto. I professionisti della nutrizione sono concordi nell’affermare che nessun alimento, escluso dal contesto dell’alimentazione individuale, sia “buono” o “cattivo”: un’etichettatura di questo tipo dovrebbe aiutare il consumatore a scegliere quali prodotti acquistare più frequentemente e quali più raramente. Alla luce di questo non dovrebbe stupire il punteggio ottenuto, per esempio, da un prodotto come il prosciutto, che in quanto prodotto a base di carne lavorata dovrebbe essere limitato nella nostra alimentazione. Il fraintendimento potrebbe derivare dall’impatto grafico che ha questa etichetta: siamo infatti abituati ad associare al rosso divieto o pericolo. Una comunicazione corretta in merito a questo sistema dovrebbe allora divulgare il fatto che non si tratti di un vero e proprio “semaforo alimentare”, ma di una scala indicativa.

Un’altra critica ha avuto origine da una comparazione tra l’etichetta che questo sistema assegnerebbe all’olio di oliva, una “C”, e alla Coca Cola zero, una “B”. Questo non significa però che la prima sia più salutare o che debba essere più presente in un regime alimentare rispetto al primo: il Nutri-score è molto più utile nel momento in cui i consumatori devono comparare prodotti della stessa categoria alimentare (come è stato richiesto nell’esperimento precedentemente citato). In questo caso i consumatori sapranno cogliere immediatamente la differenza tra l’olio di oliva e altri tipi di grassi vegetali o animali, così come quella tra la Coca Cola zero e bevande molto più zuccherate. Esistono inoltre algoritmi leggermente diversi da quello usato per gli alimenti in generale sia per i prodotti composti da grassi alimentari (come olio di oliva o burro) sia per le bevande (come succhi di frutta o bibite gassate).

È inevitabile pensare che, senza una corretta guida su come interpretare le etichette Nutri-score, si possa generare la stessa confusione che il questo sistema avrebbe l’obiettivo di risolvere. Non bisogna fare l’errore però di ignorare a priori questa ed altre proposte di etichettatura volte a semplificare e guidare la scelta dei consumatori in un campo complesso come quello dell’alimentazione.

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Verso una detergenza eco-sostenibile

Impiegati quotidianamente, con modi quasi rituali, i prodotti di igiene personale e di pulizia domestica ci accompagnano nelle diverse fasi della giornata, scandendo le nostre routine e fungendo da continua manutenzione per il corpo, la casa, lo spazio di lavoro, la macchina. Oggi più che mai se ne promuove l’azione battericida e germicida, proprio come il medico greco Galeno consigliava per prevenire malattie.

Ciò che viene immesso nel mercato è frutto di test di sicurezza e vasta ricerca, ma naturalmente ci sono conseguenze  – quali intossicazione, avvelenamento, irritazioni, allergie – piuttosto gravi su chi li impiega, nonché sull’ambiente, che subisce un forte inquinamento, sia in fase di produzione, sia durante e dopo l’utilizzo di tali prodotti chimici altamente aggressivi. Spesso i detergenti per la casa sono accompagnati da simboli indicano che i prodotti sono nocivi, corrosivi, tossici, dannosi, (altamente) infiammabili.

L’anno 2020 è stato importante per ritornare a parlare di clima, con diversi disastri climatici da convincere una buona fetta di popolazione mondiale a optare per uno stile di vita più sostenibile. Complice anche il maggiore tempo a casa, i consumatori cercano soluzioni fai-da-te lungimiranti per ammortizzare i costi e l’impatto ambientale.

Questo trend porta le imprese a dover modificare o, addirittura ripensare, le proprie linee lavorando con ingredienti naturali e packaging riciclabili, per poter stare al passo e vendere.

Ma basta comprare prodotti con etichette che riportano la dicitura “Bio”?

Decisamente no! Di seguito approfondiremo, ma basti sapere che “biologico” è soltanto una sottocategoria di “sostenibile”, che comprende anche un’etica di diritto dei lavoratori, di rispetto del territorio e della società.

Leggendo il report di Google (datato febbraio 2021) rivolto alle aziende “adattarsi al futuro – 5 tendenze di consumo che ogni retailer dovrebbe conoscere” appare subito evidente che i consumatori abbiano due comportamenti primari nella scelta dei prodotti e dei servizi da acquistare:

  • C’è sempre maggiore interesse a rispettare valori etici di produzione e distribuzione;
  • Cercano costantemente prezzi convenienti e offerte.

Infatti, la ricerca di “ethical brands” ha registrato un picco del +300% in tutto il mondo nel 2020 rispetto al 2019. Elevato è anche il picco (+200%) di ricerche di punti vendita vicini al domicilio del cliente, certamente per questioni sanitarie legate alla pandemia, ma anche per offrire un sostegno alle piccole e medie attività locali.

 

L’arrivo del BIO nei supermercati

Nella maggior parte dei casi, i prodotti che effettivamente rispettano i criteri stabiliti per essere definiti “bio” sono pochi, più costosi da fabbricare (e quindi anche da vendere), spesso venduti in negozi di nicchia o comunque poco pubblicizzati.

Nella grande distribuzione, dove la maggior parte dei consumatori acquista i prodotti di detersione, gli scaffali sono organizzati in modo da dare rilievo innanzitutto alle offerte dei maggiori marchi e in secondo luogo ai competitors più popolari. Solo nei supermercati più forniti è possibile trovare articoli che siano conformi a standard veramente sostenibili.

Per la diffusione di una mentalità ecologica è imprescindibile essere consapevoli di poter trovare prodotti (detergenti) sostenibili e ad un costo contenuto in tutti i negozi più frequentati anche dalle fasce di reddito minore. Altrimenti, il risultato è ciò che viene descritto nell’articolo “Il tramonto del consumatore etico” di Elizabeth Cline, dove chi è informato e ha la possibilità economica, agisce sostenibile, mentre aziende non etiche continuano impunite a vendere prodotti che sfruttano i lavoratori e l’ambiente.

Vari brand, pur non avendo raggiunto nella completa totalità gli standard, stanno però facendo passi avanti e avvicinando sempre più consumatori con le loro offerte sostenibili, per (quasi) tutte le tasche e per l’ambiente.

Sono quindi necessari ulteriori provvedimenti legali e governativi per annullare i danni di chi non rispetta le normative pur potendolo fare, e al contempo per accrescere le risorse di coloro che le meritano, affinché si raggiungano gli obiettivi prefissati dalla comunità internazionale.

Vale la pena citare Garnier, figlio naturalista del colosso L’Óreal Paris, propone al pubblico nuovi prodotti piuttosto ecologici a prezzi bassi rispetto alla media, senza essere scadente. Non lo nomino perché sia campione nell’innovazione sostenibile – ci sono sicuramente molti altri brand meno noti che lo fanno meglio e da più tempo, ma è apprezzabile il fatto che abbiano reso mainstream ingredienti e formati ignorati da altri grandi aziende. Shampoo solido, packaging 100% riciclabile e lista degli ingredienti distesa e di facile consultazione, suddivisa per percentuali contenute (di cui il 98% di questi è di origine naturale).

Un altro è PuroBio, brand di make-up che dichiara di non utilizzare microplastiche e ingredienti plastici di alcun tipo e risulta sorprendentemente vero dalle analisi.

Alcuni brand ecologici specializzati nella sostenibilità

Spesso, nel percepito comune, si tende ad associare “biologico” e “sostenibile” a “meno performante” ma, come abbiamo visto precedentemente, gli ingredienti per ottenere l’efficacia desiderata sono pochi e non è necessario che siano aggressivi come l’industria ci ha fatto credere. Non tutto ciò che è chimico è nocivo o male. Al contrario, in molti campi soluzioni come la plastica o i composti sintetici sono insostituibili.

Bisogna trovare soluzioni proprio negli ambiti in cui è possibile cambiare le abitudini e fortunatamente la detersione personale e domestica sono uno di questi.

Ad esempio, minimoimpatto.com vende detersivi, detergenti e articoli per la casa che consentono di risparmiare non solo denaro, ma anche prodotto ed energia. Mentre invece Negozio Leggero vende kit per creare detersivi e detergenti personalizzati, flaconi riutilizzabili da riempire alle spine dello store e ritiro (ogni 20 flaconi, per ottimizzare i consumi del trasporto) dei vuoti a domicilio. La sostenibilità è qui resa coinvolgente grazie all’Eroe leggero dell’area personale degli users, dove possono tenere traccia dei risparmi e della riduzione del proprio impatto.

Si conta che si utilizzino annualmente 17 flaconi di sapone pro capite. Si crea quindi, per famiglia di 4 persone, una fila di 24 metri che equivale alla altezza di 8 piani.

Saponette, liquidi sfusi e packaging biodegradabili sono un buon inizio per combattere sprechi e rifiuti.

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Extreme E: il rally innovativo e sostenibile tutto da scoprire

Gli sport automobilistici hanno sempre appassionato milioni di tifosi in tutto il mondo. Nell’ultimo periodo però, a causa dei dibattiti sul cambiamento climatico, sono nate diverse polemiche su quanto sia corretto seguire uno sport che inquina.

Proprio negli ultimi anni è stata trovata una soluzione molto interessante e promettente che potrebbe rivoluzionare il mondo delle corse automobilistiche.

Questo weekend, sabato 3 e domenica 4 Aprile, nel deserto dell’Arabia Saudita, avrà inizio la prima stagione di una nuova serie sportiva che ha già suscitato molta curiosità: stiamo parlando di Extreme E.

Si tratta di un campionato che ha come protagonisti dei SUV in grado di gareggiare in ambienti estremi.

Cosa li distingue dagli altri veicoli da corsa rally? Il fatto che siano provvisti di un motore elettrico a zero impatto ambientale.

Lo scopo di Extreme E è di organizzare delle competizioni con protagoniste vetture elettriche in alcuni degli angoli più remoti del pianeta, con l’intenzione di sensibilizzare gli spettatori sui temi legati alla salvaguardia dell’ambiente ed evidenziare le sfide che i differenti ecosistemi sono costretti ad affrontare a causa dell’uomo.

In questo modo si cerca di incoraggiare il pubblico a dare il proprio contributo attraverso il maggiore utilizzo di energie rinnovabili.

Com’è nato Extreme E

L’idea di questo sport automobilistico innovativo è nata un paio di anni fa dalla mente dell’attuale CEO di Extreme E, Alejandro Agag, e dal campione del mondo nella Champ Car Gil de Ferran, i quali si sono posti l’obiettivo di realizzare un’”avventura spettacolare e affascinante per mostrare gli effetti del cambiamento climatico sul nostro pianeta attraverso la scoperta di ambienti remoti per mezzo di una competizione sportiva”.

Il progetto è diventato realtà in soli due mesi e gli E-SUV sono stati mostrati per la prima volta al pubblico nel 2019.

Tra pochi giorni Extreme E affronterà la sua prima stagione di sempre e noi spettatori avremo finalmente modo di scoprire ed esplorare questa nuova competizione, carica di tanta adrenalina sempre nel rispetto della natura.

Modalità di svolgimento delle gare

La sfida che porterà alla vittoria vede coinvolte otto squadre: ogni team è costituito da due piloti, un uomo e una donna, che durante ogni gara dovranno completare due giri del percorso stabilito, per un totale di 16 chilometri.

Ogni pilota dovrà guidare per un giro, mentre l’ordine dei conducenti è scelto dal team stesso, in quanto è considerato una scelta strategica.

Il weekend della corsa sarà caratterizzato da una serie di prove specifiche divise tra le due giornate: il sabato sarà dedicato alle qualifiche per decretare la griglia di partenza per la corsa finale, mentre la domenica si focalizzerà sulla gara in seguito alla quale scopriremo il team vincitore del weekend.

Costituzione dei team

I team protagonisti di Extreme E sono formati da piloti validi e con esperienza.

Alcuni protagonisti della Formula 1, tra cui il campione Lewis Hamilton e l’ex campione Nico Rosberg, hanno contribuito alla realizzazione del progetto tramite la creazione dei propri team da corsa.

Un altro ex campione di Formula 1, Jenson Button, ha invece deciso di parteciparvi in prima persona.

Si tratta sicuramente di un ulteriore modo per attirare l’attenzione su uno sport molto promettente che si fa carico di un’ottima causa.

Come abbiamo già accennato in precedenza, le squadre di Extreme E sono tutte costituite da due piloti, un uomo e una donna.

Ciò dovrebbe sembrare normale, ma non è affatto così dal momento in cui è estremamente raro che il numero di uomini e donne coinvolte in una competizione sportiva sia uguale, soprattutto quando si gareggia su vetture da corsa.

Extreme E si impegna così anche a ridurre il gender gap, creando un contesto sportivo in cui la disuguaglianza di genere non esiste e in cui entrambi i piloti della squadra hanno le stesse responsabilità e meriti.

Per promuovere l’uguaglianza di genere, Extreme E ha inoltre creato un video in cui racconta come uomini e donne gareggeranno insieme in maniera equa, dimostrando quanto ciò dovrebbe diventare consueto.

 

Dove ci porterà il viaggio?

Extreme E ha pianificato un itinerario insolito e molto particolare per far svolgere le competizioni dei SUV.

Infatti, non avranno luogo in circuiti attrezzati, ma lo spettatore verrà coinvolto in un vero e proprio viaggio alla scoperta di paesaggi mozzafiato di natura incontaminata.

Per la prima volta, la location in cui si svolgeranno le gare non sarà semplicemente una cornice per le vetture, ma diventerà anch’essa protagonista dell’evento.

I cinque ambienti scelti dagli organizzatori di Extreme E sono completamente diversi tra loro, ma tutti affascinanti e accomunati dal fatto che il cambiamento climatico e le azioni irresponsabili dell’uomo li stiano mettendo in pericolo.

Nel corso di quest’anno verranno scoperti cinque ecosistemi di quattro continenti differenti: il deserto dell’Arabia Saudita, il lago Retba in Senegal, la regione artica in Groenlandia, la foresta tropicale del Brasile e infine la Terra del Fuoco in Argentina.

L’opportunità di gareggiare e scoprire questi ecosistemi è possibile solamente grazie al fatto che i SUV non inquinino.

In futuro, oltre a stringere ulteriori collaborazioni con partner che hanno a cuore la questione ambientale, Extreme E si impegnerà anche a supportare ricerche scientifiche per trovare soluzioni che possano ripristinare questi luoghi già danneggiati e a rischio di sopravvivenza.

La meta di Extreme E

Alejandro Agag, CEO di Extreme E, ha spiegato il motivo che lo ha spinto a realizzare questo progetto: “…Ho visto con i miei occhi gli impatti del cambiamento climatico e ho incontrato persone che stanno subendo i suoi effetti. Per tutti coloro che negano la sua esistenza o che sono inconsapevoli dei problemi che sta causando, vi invito ad accompagnarci durante questo viaggio”.

Inoltre, ha affermato: “Abbiamo raggiunto molti obiettivi in pochissimo tempo, ma siamo solo all’inizio. Prima Extreme E era solamente un’idea ma ora è diventata realtà, una speciale odissea senza precedenti che guiderà il vero cambiamento”.

Non ci resta che scoprire le emozioni che la nuova competizione sarà in grado di regalarci, impegnandoci anche a dare il nostro contributo per costruire un futuro più sostenibile perché, come suggerito dal motto di Extreme E, “la corsa per il pianeta è adesso”!

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Ambiente, società e tecnologia

PsyNot: analisi di uno stigma

La “notizia”

“Secondo i dati forniti dall’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, nel suo focus “Fare i conti con la salute mentale”, la depressione grave, il disturbo bipolare, la schizofrenia e le altre malattie mentali gravi riducono la speranza di vita in media di 20 anni rispetto alla popolazione generale, in modo analogo alle malattie croniche come le malattie cardiovascolari. Il 5% della popolazione mondiale in età lavorativa ha una severa malattia mentale e un ulteriore 15% è affetto da una forma più comune. Una persona su due, nel corso della vita, avrà esperienza di un problema di salute mentale e ciò ridurrà le prospettive di occupazione, la produttività e i salari.”

Queste sono le frasi più dure che l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) sceglie di usare per introdurre il lettore ad una dimensione socialmente e culturalmente ramificata in tutte le “classi di uomini”; una dimensione che si è ritrovata, come improvvisamente, al centro del dibattito mondiale mostrando la sua elevata capacità di impattare “sulla salute, sulla qualità della vita della popolazione e sulla sostenibilità dei costi dell’assistenza alle terapie farmacologiche e di supporto”.

“Come improvvisamente” tra le virgolette perché in realtà c’erano già i presupposti per impedire l’intensificarsi delle malattie mentali: nel 1997, infatti, era stata indetta, a Jakarta, la 4° Conferenza internazionale sulla promozione della salute, durante la quale era stato siglato l’accordo che porta il nome di Dichiarazione di Jakarta su come guidare la promozione della salute nel 21° secolo. In tale accordo vennero definiti gli aspetti necessari per riuscire ad abbattere le disparità in campo sanitario quali “la pace, una casa, l’istruzione, la sicurezza sociale, le relazioni sociali, il cibo, un reddito, l’attribuzione di maggiori poteri alle donne, un ecosistema stabile, un uso sostenibile delle risorse, la giustizia sociale, il rispetto dei diritti umani e l’equità”.

Ancora oggi, però, essi risultano essere aspetti che il settore della sanità, da solo, non è in grado di garantire; quindi i governi, i vari settori socio-economici, le organizzazioni governative e quelle volontarie, sono tenuti a definire un piano di azione comune con strategie e programmi di promozione alla salute adattabili ai bisogni locali in sé dei paesi e delle regioni, nonché ai diversi sistemi sociali, culturali ed economici.

Il discorso così trattato, mette in luce una costante della dimensione moderna ovvero la nozione di “normale” nella sua duplice veste: la troviamo nella sua asserzione descrittiva (da qui “normalità”) perché rappresenta “il risultato di un calcolo statistico, di un’osservazione empirica su comportamenti comuni e diffusi in un determinato contesto storico-sociale”; e in quella prescrittiva ad indicare normatività ovvero ad indicare le regole comuni da seguire per rientrare in una determinata categoria e così rispettare l’equilibrio socio-culturale di ogni società.

Basti pensare che la diagnosi stessa della malattia mentale dipende dai progressi della farmacologia e dal suo potere decisionale oltre che dalle credenze di uno stato: negli Stati Uniti, per esempio, il sistema assicurativo sanitario si regola in base alle definizioni fornite dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSMManuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) redatto dall’American Psychiatric Association (APA), mentre nella maggior parte degli stati (193 per la precisione) ci si rifà al sistema di classificazione chiamato International Classification of Diseases (ICDClassificazione Internazionale delle Malattie) stilato dall’OMS.

Detto ciò, risulta quindi evidente e doveroso guardare indietro prima di trattare le soluzioni ad ora adottate (in funzione di queste linee guida generali e standard)…

Le cause economico-giuridiche

Riprendendo i concetti di normalità e normatività sopra citati, è possibile arrivare alle cause dietro l’aumento delle malattie mentali.

Li si collega, infatti, a quanto detto da Sigmund Freud nel suo libro “Disagio della civiltà” (1929): l’uomo è disposto a vivere in una civiltà che ne limiti le libertà e, di conseguenza, ne limiti la capacità (spesso assoluta) di essere felice, pur di non perdere la garanzia di sopravvivenza e la sicurezza economica e giuridica che gli spetta.

Se ne deduce che quando tale equilibrio viene meno, l’insicurezza trova terreno fertile. E a quale periodo si riconduce l’inizio della fine? Agli anni ‘70, ovvero agli anni della crisi energetica provocata da un sostanziale aumento del prezzo del petrolio a scapito di Israele e dell’Occidente. Una decisione presa dall’OPEC per dimostrare solidarietà all’Egitto e alla Siria durante la Guerra del Kippur (contro Israele). Una guerra di potere che ha messo in ginocchio l’economia dei più deboli e che ha costretto le loro aziende a riorganizzarsi e a rimboccarsi le maniche: la soluzione a cui giunsero vedeva la “creazione” di organizzazioni basate su una maggiore pressione sui tempi di lavoro (l’economia doveva riprendersi nel minor tempo possibile e andare di pari passo allo sviluppo tecnologico), su uno scarso potere decisionale (i membri di un’azienda, in situazioni problematiche, prendono decisioni sulla base di regole fisse e pensate a priori dall’organizzazione stessa) e su un’incertezza rispetto alla continuità della carriera professionale (a causa, ad esempio, di agevolazioni fiscali a favore dell’azienda per nuove e giovani assunzioni).

Le classi sociali appartenenti alla generazioni delle lotte sindacali arrivano a sentirsi abbandonate perché ignorate e private di quanto erano riuscite ad ottenere, mentre le nuove generazioni si trovano a vivere le ingiustizie come condizione normale per la loro posizione non privilegiata. Si viene così a definire una crescente incertezza verso il futuro, una maggiore disuguaglianza lavorativa e una propensione ad instaurare relazioni dipendenti e distruttive col potere.

Non solo, l’accelerazione della tecnologia che ne seguì, ha comportato una riduzione dei contatti fisici reali oltre che una riduzione e modifica dei rituali tipici “maschili” e “femminili” di integrazione sociale (viene meno il confronto diretto e reale e, quindi, viene limitata la crescita personale). Si riduce considerevolmente la “dieta” emotiva, portando l’individuo ad essere una pedina dei poteri forti, anche al di fuori dell’ambito lavorativo. Il quadro generale si aggrava quando queste condizioni si inseriscono nella vita dei bambini e degli adolescenti: con uno sviluppo già caratterizzato da una propensione all’isolamento, ridurre al virtuale gli spazi di condivisione porta il minore a chiudersi in se stesso e a non esternalizzare i propri problemi o le proprie preoccupazioni.

La velocità e l’insicurezza, poi, non permettono l’assimilazione corretta dei cambiamenti in atto e non ricreano gli ammortizzatori sociali contro lo stress e gli altri disagi psicologici: si riduce il sonno con conseguente riduzione dello sviluppo del cervello (soprattutto nei bambini e negli adolescenti).

Ed è così che si arriva, anche in giovane età, ad avere disturbi mentali intesi sia come “patologie psichiatriche quali ansia, depressione o disturbi bipolari, che come disturbi neurologici, come Alzheimer e demenze”, disturbi che diventano nei Paesi ad alto reddito “la principale causa di perdita di anni di vita per morte prematura e disabilità (17,4%), seguiti dal cancro (15,9%), dalle malattie cardiovascolari (14,8%), dagli infortuni (12.9%) e dalla malattie muscolo-scheletriche (9,2%)”.

Le cause socio-culturali

Gli altri punti su cui riflettere si basano su questi due interrogativi: perché quando si soffre di un dolore fisico contattiamo subito il medico di riferimento, mentre quando la sofferenza è di tipo mentale no?

Cosa ci ferma dal chiedere aiuto?

La salute mentale è un argomento carico di pregiudizi; chi vorrebbe chiedere aiuto teme le critiche delle persone presenti nella sua rete sociale ed il giudizio dello specialista a cui vorrebbe rivolgersi.

Il gruppo dei pari gioca un ruolo importante perché si vive in preda alla paura dell’esclusione, della derisione, dell’incomprensione o, peggio ancora, di essere considerati come pericolosi per se stessi e per gli altri, quando in realtà il silenzio rappresenta il vero pericolo.

Il secondo fattore da considerare è il costo. La persona che già prova vergogna di chiedere aiuto ad uno specialista si troverà ad ideare tutta una serie di stratagemmi per nascondersi e per capire come poter sostenere le costanti spese di una consulenza psicologica.

Non solo, un’aderenza bassa ai trattamenti unita all’insorgere di altre problematiche, peggiorerebbe la condizione del paziente richiedendo tempi di “riabilitazione” più lunghi. Problema già quantificato in un rapporto dell’Harvard School of Public Health e del World Economic Forum (WEF), in cui si stima che “tra il 2011 e il 2030 il costo delle malattie mentali in tutto il mondo sarà di oltre 16 trilioni di dollari in termini di mancata produzione, più di patologie oncologiche, cardiovascolari, respiratorie croniche e del diabete”.

Quali mezzi abbiamo a disposizione in questo mondo digitalizzato per aiutarci?

Il fenomeno del online counseling ha iniziato a prendere piede quando la vita si è fatta più frenetica e le persone hanno acquisito la dote del multitasking, per riuscire a fronteggiare tutti gli impegni della quotidianità. Ha poi ricevuto una spinta naturale dalla pandemia, data la migrazione dei rapporti umani nelle piattaforme di messaggistica e per i problemi psicosociali emersi in seguito.

Il supporto psicologico online presenta numerosi vantaggi: l’anonimato dell’utente permette di superare il disagio derivante dal confronto diretto con lo specialista e agisce come fattore rassicurante; il giudizio esterno non è più un fattore rilevante perché, svolgendosi il percorso mediante un device, l’utente è consapevole del rispetto della sua privacy; permette a qualsiasi tipo di utente di farne uso, qualunque sia la posizione geografica.

In nostro soccorso giunge l’ecosistema delle applicazioni multipiattaforma:

  • AiutoPsicologi è un’applicazione di sostegno momentaneo, si propone come un primo soccorso da utilizzare in situazioni di forte stress, ansia e attacchi di panico fornendo strumenti, tecniche utili per superare i momenti di crisi, e contatti diretti con personale qualificato. Presenta un layout semplice ed intuitivo.
  • Soultrainer è una piattaforma di counseling gratuito che mette in contatto la domanda di supporto con l’offerta professionale, garantendo l’anonimato agli utenti. Questa piattaforma consente di comunicare con gli esperti tramite chat di gruppo tematiche. Il bot presente nella piattaforma spiega brevemente agli utenti le modalità di utilizzo e consigliando di effettuare un test, così da permettere una migliore user experience. E’ presente anche il blog, in cui vengono trattati i più svariati temi dell’ambito psicologico, così da creare anche informazione per gli utenti iscritti e non, e conferire un valore aggiunto non indifferente.
  • Cozily, invece, ricrea un colloquio psicologico a tutto tondo. Composto da psicologi e psicoterapeuti iscritti all’Albo e selezionati tramite attenti criteri di valutazione. Il percorso ha inizio con un periodo di prova dove l’utente ha modo di capire se il servizio può soddisfare le proprie esigenze, in cui conosce le modalità di funzionamento ed ha le prime interazioni conoscitive con lo specialista. Se il giudizio è positivo, al termine della prova, l’utente sottoscrive un abbonamento mensile il cui costo è nettamente inferiore ad un classico percorso di psicoterapia. In particolare “con la sottoscrizione dell’abbonamento si avrà accesso all’anamnesi iniziale, alla programmazione delle attività, all’assegnazione di esercizi graduali, all’utilizzo del diario per registrare i progressi e al supporto continuativo del terapeuta via chat”. La forza dell’applicativo sta proprio nel cercare di rendere l’iter terapeutico il più simile alla reale seduta di terapia psicologica.
  • ItaliaTiAscolto: ecco un’applicazione firmata Bicocca, nata per supportare chiunque si trovi in una situazione di malessere emotivo e forte stress causati dalla grave emergenza sanitaria in cui ci troviamo. L’applicativo è stato inizialmente finanziato dalla Fondazione di Comunità Milano, propone degli incontri virtuali che trattano temi come la gestione delle emozioni, del lutto, della gravidanza, e che danno vita a momenti di condivisione in cui i partecipanti possono condividere le proprie esperienze. Tutti argomenti che sono pensati per crescere e sostenersi.

Se qualcuno volesse intraprendere un percorso di terapia psicologica ma non sapesse a chi rivolgersi?

L’offerta di cui è possibile disporre nell’epoca digitale è aumentata non di poco: basti pensare che è possibile svolgere sessioni da remoto con specialisti provenienti da tutto il territorio nazionale.

Il Servizio Italiano di Psicologia Online mette a disposizione un portale completo con la descrizione di ogni specialista, il tipo di applicazione utilizzata per svolgere le sedute ed il costo. Inoltre è possibile aggiungere dei filtri nella propria ricerca in base al tipo di specializzazione ricercata.

L’introspezione è una risorsa alla portata di tutti: il primo passo da compiere per prendersi cura del proprio stato mentale è informarsi.

Nella rete bisogna prestare attenzione ed attingere da fonti attendibili, costruendosi un bagaglio di conoscenze basilari, diventando così più consapevoli di se stessi.

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Ambiente, società e tecnologia

Nuova vita alle mascherine: no allo spreco, sì al riciclo!

È possibile riutilizzare le mascherine? Se sì, come?

In questo articolo analizzeremo una serie di proposte innovative elaborate da scienziati ed aziende per far fronte all’enorme spreco quotidiano di mascherine monouso, cercando di dare loro una nuova “vita”.

Pandemia e danni ambientali

Se da un lato l’emissione di CO2 è diminuita a seguito dei lockdown emanati dai governi per contrastare la diffusione del Covid-19, dall’altro i danni ambientali hanno subito un incremento soprattutto a causa dell’elevato utilizzo di prodotti usa e getta, la maggior parte di essi di natura plastica. Tra questi, i guanti e le mascherine monouso hanno sicuramente rappresentato i principali dispositivi di protezione di uso comune, gettati quotidianamente in enormi quantità. Si stima che ogni giorno siano 6,8 miliardi le mascherine usa e getta utilizzate in tutto il mondo, per un consumo mensile di circa 129 miliardi: questi dati arrivano da uno studio pubblicato su Environmental Science & Technology, rivista scientifica bisettimanale pubblicata dalla American Chemical Society. Tali oggetti vengono gettati per strada, finiscono in discarica, o, peggio, ad inquinare i mari e gli oceani.

La proposta di una startup francese

L’azienda francese Plaxtil di Châtellerault ha sviluppato un processo innovativo per riutilizzare le mascherine usa e getta. Costituite da microfibre di polipropilene, un materiale plastico che le rende non biodegradabili, le mascherine vengono trasformate da questa azienda in plastica utilizzabile per creare apri porta (piccoli strumenti utilizzati per aprire la porta senza toccare la maniglia) o visiere protettive contro il virus. Innanzitutto le mascherine vengono raccolte e messe in “quarantena” per 4 giorni dall’azienda Audacie con cui la startup lavora; successivamente passano per una sorta di “frantoio” e poi lungo un tunnel con raggi ultravioletti per essere completamente decontaminate; in ultima fase il materiale prodotto viene mescolato con della resina per diventare più duro. Questa nuova plastica ottenuta può essere utilizzata per realizzare vari tipi di oggetti; attualmente però l’azienda è incentrata nel creare prodotti utili alla lotta contro il coronavirus, tra cui principalmente apri porta e visiere protettive.

Visto l’interesse che tale iniziativa ha suscitato, molte aziende hanno partecipato alla raccolta e grazie ad essa un numero non indifferente di mascherine è stato riutilizzato.

Riciclare le mascherine per costruire strade

Un’altra proposta interessante arriva da un gruppo di ricercatori del Royal Melbourne Institute of Technology (RMIT), il quale ha dimostrato che le mascherine chirurgiche possono essere riciclate ed utilizzate per produrre materiali utili alla costruzione di strade. Il loro studio dimostra che per realizzare un chilometro di una strada a due corsie, potrebbero essere utilizzate circa 3 milioni di mascherine riciclate sminuzzate, impedendo così che costituiscano circa 93 tonnellate di rifiuti che finirebbero in discarica. Si tratta della prima ricerca nel suo genere ed indaga il potenziale per l’utilizzo di mascherine chirurgiche monouso nel settore dell’edilizia civile. Questo nuovo materiale, prodotto con una miscela di mascherine riciclate e macerie di edifici civili lavorate, soddisfa gli standard di sicurezza dell’ingegneria civile: questi DPI (dispositivi di protezione individuale) aiutano infatti ad aggiungere rigidità e resistenza al prodotto finale, progettato per essere utilizzato per strati di base per strade e marciapiedi. Questa iniziativa costituisce inoltre una soluzione di economia circolare per i rifiuti generati dalla pandemia di Covid-19 e quindi una possibile soluzione per fronteggiare le sfide ambientali.

Source: https://www.rmit.edu.au/news/all-news/2021/feb/recycling-face-masks-into-roads-to-tackle-covid-generated-waste

Riciclare sempre!

Qualunque sia il modo scelto per riciclare e riutilizzare le mascherine, è importante l’impegno da parte di ognuno di noi nel rispettare l’ambiente che ci circonda, differenziando i rifiuti in maniera corretta per mantenere pulito il mondo in cui viviamo.

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Ambiente, società e tecnologia

Gli insetti sulle tavole dei consumatori occidentali: quali sono le ragioni per inserirli nella nostra dieta?

Il 2021 si apre con la valutazione scientifica completa condotta da EFSA, l’Autorità Europea per la sicurezza alimentare, sulla possibilità di introdurre sul mercato a scopo alimentare larve essiccate di Tenebrio molitor (comunemente chiamate tarme della farina), appartenenti alla famiglia dei Coleotteri. Sarà la prima di una lunga lista di future valutazioni sui novel foods, ovvero prodotti “privi di una storia di consumo significativo in UE” che ancora aspettano di ricevere l’autorizzazione dalla Commissione Europea. Molti di questi sono a base di insetti: potrebbero essere i primi piccoli passi verso un cambiamento delle nostre abitudini alimentari? Ma quanto sono effettivamente desiderabili, per noi e per il pianeta, questi cambiamenti? E soprattutto, ci sono i presupposti affinché questo accada?

Allevare insetti per l’alimentazione umana: una scelta sostenibile

Perché dovremmo vincere il naturale disgusto verso gli insetti e inserirli nella nostra dieta? I motivi principali, sostenuti da dati riportati nel documento redatto da FAO Edible insects: future prospects for food and feed security”, riguardano la loro maggiore sostenibilità a livello ambientale rispetto ad altri prodotti animali tipici della cultura culinaria occidentale. Per allevare un chilogrammo di grilli servono circa 1.7 chilogrammi di mangime: una quantità notevolmente minore rispetto ai 10 chilogrammi necessari per ogni chilogrammo di peso acquistato da un bovino, o rispetto ai 5 chilogrammi necessari per i maiali e ai 2.5 chilogrammi per i polli. Inoltre, se fossero allevati su larga scala, gli insetti produrrebbero minori emissioni di gas serra e rappresenterebbero una risorsa contro lo spreco di acqua, grazie alla loro elevata resistenza alla siccità.

Potremmo pensare che, poiché in alcuni paesi il consumo di insetti è una tradizione consolidata, lo sia anche il loro sistema di allevamento industriale: invece, a livello mondiale, solo il 2% degli insetti destinati all’alimentazione umana viene prodotto grazie a queste tecniche. Se visitassimo uno di questi stabilimenti (esperienza virtualmente possibile ad esempio attraverso un mini-documentario girato nello stabilimento “Grubs Up”, in Australia) potremmo convincerci del perché possono essere considerati un modello di sostenibilità: gli insetti infatti vengono cresciuti in unità contenitrici separate (solitamente catini in plastica o contenitori simili), disposte e impilate in modo da occupare meno spazio possibile e ridurre lo spreco di suolo. In particolare, per l’allevamento dei grilli è importante che i contenitori siano arricchiti, per esempio, con i cartoni delle uova, che secondo la “Guidance on sustainable cricket farming” aumentano la superficie disponibile per gli insetti e la loro possibilità di movimento.

Inoltre il substrato necessario alla sopravvivenza degli insetti è costituito da materiale organico e biomassa di scarto, una pratica in linea con uno dei principi fondamentali dell’economia circolare: trasformare i rifiuti in risorse riutilizzabili.

Una fonte alternativa di nutrienti

Sebbene non sia corretto pensare agli insetti come a un “supercibo” dalle incredibili proprietà, i prodotti da loro derivati sono considerati una buona fonte proteica, di grassi, di fibre e di alcuni micronutrienti come ferro e zinco; la quantità di proteine però cambia sia tra specie diverse, sia a seconda del mangime con cui sono stati nutriti, sia rispetto al metodo di lavorazione della materia prima. Anche EFSA, nella sua opinion scientifica sulle larve di Tenebrio molitor, avverte che i metodi di analisi più utilizzati possono portare a sovrastimarne il contenuto proteico. La motivazione? Per quantificarlo solitamente si misurano i livelli di azoto, un elemento contenuto nelle proteine e quindi indice della loro presenza, ma, nel caso degli insetti, anche in una molecola che costituisce il loro esoscheletro, la chitina: non si tratta di una proteina, ma di un polisaccaride che non siamo in grado di digerire.

Insetti per (quasi) tutti i gusti

Per quanto gli insetti siano da sempre l’unica alternativa alla carne in molti paesi del mondo, il profilo nutrizionale non è l’unica cosa che conta: saremmo in grado, soprattutto noi consumatori occidentali, di superare l’avversione verso gli insetti e di considerarli come cibo? Una strategia efficace già esiste: trasformare un alimento all’apparenza inappetibile in un prodotto che ricordi il meno possibile la sua origine. Così gli stessi grilli che possono essere venduti arrostiti come snack pronto possono essere trasformati in polvere da aggiungere al “Dukkha” (uno dei prodotti dell’azienda Grubs Up), un mix di spezie arricchito. Basta visitare il sito di 21bites, uno dei primi e-commerce in Europa a proporre prodotti a base di novel foods, per capire come gli insetti possano essere un ingrediente versatile: si possono acquistare grilli ricoperti di cioccolato, chips, muesli per la colazione, pasta e molto altro. Per di più, ogni specie ha un sapore diverso: si va da quelle che ricordano la frutta secca, come le tarme della farina, a quelle che hanno un retrogusto piccante o persino dolce.

Se considerati da questi punti di vista, gli insetti potrebbero essere un buon alimento da inserire nella nostra dieta, un prodotto sostenibile e, una volta che ne sia stata accertata la sicurezza (come è avvenuto per le larve di Tenebrio molitor), non preoccupante dal punto di vista tossicologico. Quel che resta da scoprire è se arriveranno sulle nostre tavole e se diventeranno, un giorno, un alimento comune anche per i consumatori occidentali.

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Ambiente, società e tecnologia

PotatoPlastic: dalla padella al packaging

Il consumo di plastica è ormai al centro del dibattito ambientale da molti anni. La produzione di oggetti di plastica ( in particolare quelli monouso) è infatti tra le maggiori cause dell’inquinamento del nostro Pianeta e rappresenta una delle minacce principali per il nostro ambiente.

Secondo un recente studio pubblicato sul Science Advance, l’Italia conquista (a malincuore) la top-ten tra produttori di plastica procapite, aggiudicandosi un 9° posto nella classifica globale che vede in vetta gli USA con una produzione di plastica per ogni cittadino di circa 105kg l’anno.

Secondo i dati del 2020, un italiano medio produce 56kg di plastica l’anno, il che significa generare circa 1kg di rifiuti di plastica alla settimana.

I dati italiani sono sicuramente allarmanti in quanto ci mostrano chiaramente come, negli ultimi decenni, ci siamo trasformati sempre di più in un popolo di consumatori seriali. Abbiamo gradualmente perso ogni tipo di rispetto sia per la Natura, che ci ospita la nostra specie da secoli, che per noi stessi. Come se non bastassero i danni ambientali da noi causati fino ad ora, continuiamo a guardare all’incombente crisi climatica con scetticismo ed indifferenza, ignorando o screditando ogni possibile impegno in merito ad una sua risoluzione e condannando così, in totale inerzia tra un sospiro e l’altro mentre compriamo l’ennesima bottiglietta di acqua minerale al supermercato, la Terra ad una morte precoce e sofferente.

Secondo un’indagine del national Geographic, ogni anno circa 8 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica finiscono negli oceani, dove spesso perdurano fino a 400 anni prima di degradarsi.

Tutti questi dati erano sicuramente noti a Pontus Törnqvist, studente svedese di 24 anni, e al team con cui ha realizzato il progetto della “Potato Plastic”: il nuovo materiale biodegradabile a base di fecola di patate che potrebbe sostituire gli oggetti monouso in plastica.

Il progetto e l’ingrediente segreto: la fecola di patate

L’obiettivo del progetto è semplice nella sua straordinarietà: sostituire la plastica, poco durevole ma molto inquinante, con un altro materiale innovativo, biodegradabile e 100% Bio-based, cioè totalmente a base biologica: la fecola di patate.

La fecola di patate è attualmente utilizzata in più ambiti del settore industriale e trova in particolar modo applicazione nel mondo della cosmesi e dei prodotti per la cura della persona.

Proprio da questa consapevolezza nasce l’idea innovativa che ha portato il team, composto da Pontus, Hanna Johanssona e Elin Tornblad, a vincere l’edizione svedese del James Dyson Award, concorso internazionale di design che ispira le prossime generazioni di ingegneri a realizzare idee innovative, volte a stimolare il problem-solving dei partecipanti.

La PotatoPlastic è un materiale termoplastico, composto da fecola di patate ed acqua. Questi due componenti, se opportunamente mescolati e riscaldati, possono dare origine ad un composto compatto che si rivela essere un efficiente alternativa alla comune plastica.

Come emerge dal loro sito (di cui vi invito a dare un’occhiata), la finta plastica a base di patate è costituita da ingredienti esclusivamente naturali. La sua produzione parte infatti dall’utilizzo di scarti del tubero ed il prodotto finito è completamente organico e compostabile.

Lo scopo principale dell’invenzione è quello di sostituire la plastica tradizionalmente utilizzata per gli articoli monouso, fornendo un’alternativa non dannosa che possa contribuire a diminuire l’inquinamento causato dalla plastica a livello globale.

La questione dell’utilizzo di oggetti monouso infatti si è spinta ai limiti del paradossale: prodotti come piatti e posate in plastica hanno una vita media di soli 15-20 minuti ma un tempo di smaltimento di circa 450 anni. Occorre quindi chiederci, ne vale veramente la pena?

In un’ottica realistica in cui queste evidenze sono ormai inaccettabili, l’utilizzo della PotatoPlastic si rivela essere sempre di più una scelta vincente, specie se si considera che dal 2021 la nuova direttiva dell’Unione Europea vieta i prodotti di plastica monouso.

Perciò, se ancora non si vuole rinunciare alla comodità del monouso, occorre allora trovare delle alternative valide ecosostenibili alla cara, vecchia e dannosa plastica.

In questa prospettiva, la Potato Plastic si dimostra essere sicuramente un fulmine a ciel sereno.

La lotta alle microplastiche

Anche sulla homepage del sito, il Potato-team puntualizza che questo nuovo biomateriale non si trasformerà mai in microplastiche, cioè minuscoli pezzi di materiale plastico, generalmente inferiori ai 5 millimetri, rilasciate nell’ambiente e dagli effetti potenzialmente tossici.

Da dove viene però quest’impellente necessità di contrastarne la diffusione?

Nel novembre del 2020 è stata portata alla luce una scoperta sconcertante: sono state ritrovate delle microplastiche nelle placenta umana, cioè l’interfaccia tra madre e feto, il luogo più sacro e incontaminato che ha il compito di nutrire e supportare la nuova vita che si sta sviluppando nel grembo materno. Ma come è potuto accadere?

Il meccanismo che si instaura dal momento in cui la plastica finisce in mare è una sorta di catena di contaminazione alimentare. I raggi UV, gli agenti atmosferici ed i batteri presenti nei mari contribuiscono infatti alla frammentazione della plastica in particelle sempre più piccole che possono essere facilmente ingerite dagli animali marini che poi entrano nella catena alimentare. É così che, alla fine, il cibo contaminato finisce sulle nostre tavole.

A rincarare la dose e velocizzare la nostra trasformazione in “cyborg”, contribuisce anche il fatto che spesso i cosmetici che utilizziamo, come creme, prodotti per l’igiene del corpo e make-up, sono a base di plastiche che rilasciano agenti chimici in grado di penetrare la nostra pelle ed entrare in circolo nel nostro organismo. Le microplastiche possono quindi innestarsi nei nostri tessuti e nei nostri organi, entrando letteralmente in simbiosi con noi stessi. Ciò che  più spaventa della questione, è che i loro effetti sulla salute dell’essere umano non sono ancora del tutto noti.

Spesso inoltre il materiale plastico contiene additivi, come bisefenoli e ftalati (utilizzati per conferire flessibilità al prodotto), che interferiscono con il nostro sistema endocrino e possono avere delle serie ripercussioni sullo sviluppo dell’individuo.

La plastica è un materiale macromolecolare composto da vari polimeri, una sorta di miscela di molte sostanze diverse. Alcune di queste, come il Pvc (cloruro di polivinile) ed il poliuretano, hanno un livello di tossicità così alto da essere vietati nelle bottigliette e negli imballaggi, come riportato dalla ricerca pubblicata sulla rivista Environmental Science and Technology. Lo stesso vale per i prodotti di cosmesi, troppo spesso saturi di derivati del petrolio potenzialmente tossici che negli anni possono penetrare nel nostro organismo.

Dallo studio condotto dai ricercatori dell’Ospedale Fatebenefratelli di Roma e dall’Università politecnica delle Marche sulle placente di neo-mamme è emerso che l’organo placentare, una volta prelevato ed analizzato tramite tecniche spettroscopiche, conteneva ben 12 tipologie di microplastiche. Sono stati ritrovati infatti piccoli frammenti di plastica pigmentati in 4 placente sulle 6 totali studiate.

É la prima volta nella storia della sperimentazione scientifica che si trovano particelle artificiali nella placenta, il luogo più sacro e incontaminato dell’essere umano, o meglio della donna, tramite cui avviene l’unione vitale tra madre e feto. Da questi risultati si deduce che le microplastiche, una volta penetrate perché ingerite con gli alimenti o attraverso l’utilizzo di altri prodotti contenenti plastica, possono entrare in circolo e diffondersi in tutto il corpo tramite i vasi sanguigni, raggiugnendo la placenta e, da lì, anche il feto.

Un’altra constatazione emersa dallo studio è inoltre che la presenza di particelle artificiali nel nostro corpo può alterare la risposta del nostro sistema immunitario. Le cellule deputate alla difesa del nostro organismo, che si occupano di eliminare eventuali parassiti e di proteggerci da agenti estranei riconoscendo il “self” dal “not-self”, cioè ciò che appartiene al nostro organismo da ciò che è estraneo, hanno iniziato a riconoscere come “self” anche ciò che non è organico: la plastica.

Stiamo quindi iniziando ad assimilare il materiale plastico che, lentamente, sta diventando parte del noi.

Dopo essere entrata nelle nostre vite in modo prorompente, conquistando ogni oggetto della nostra quotidianità, la plastica è lentamente e silenziosamente penetrata dentro il nostro corpo, facendo sembrare sempre più realistica quella prospettiva fantascientifica dell’uomo-macchina. Di questo passo, la verità è che ci stiamo lentamente trasformando in “cyborg” e nessuno se ne sta accorgendo.

Il progetto di PotatoPlastic si propone proprio di invertire la rotta di questo meccanismo per ricondurre ognuno di noi ad un’esistenza quanto più salutare possibile e rispettosa nei confronti dell’ambiente.

La soluzione: più patate meno spreco

Il primo passo verso un minor consumo della plastica è sicuramente informarsi e prendere consapevolezza della gravità della situazione. Se nell’ultimo anno sono state prodotte 310 milioni tonnellate di plastica e la terra sta implodendo su se stessa, la colpa non può che gravare sull’essere umano e sull’utilizzo sconsiderato che fa delle risorse di cui dispone.

In una visione un po’ Leopardiana, l’essere umano si rivela comunque debole ed impotente di fronte a Madre Terra ed alle varie calamità naturali, riflesso di una natura che si ribella ai soprusi sofferti per decenni. Ciò è ampiamente dimostrato dalla crisi climatica attualmente in atto che sta mettendo in ginocchio una larga fetta della popolazione mondiale (basti pensare agli incendi che hanno dilaniato l’Australia o alla recente crisi causata dal freddo polare in Texas).

Occorre quindi ridurre l’inquinamento da plastica, aumentarne il riciclo ed incentivare lo sviluppo di proposte alternative, come la PotatoPlastic.

Secondo un’indagine di GreenPeace, queste nuove misure potrebbero ridurre il carico di plastica nei rifiuti di circa il 57%: si parla di ben 188 milioni di tonnellate di plastica in meno ogni anno. Coadiuvando ciò allo sviluppo del riciclo e del riutilizzo, si implementerebbe anche una nuova economia basata sulla plastica ecosostenibile, che porterebbe oltre 1 milione di posti di lavoro nel settore della rilavorazione dei rifiuti.

La PotatoPlastic rappresenta sicuramente un primo passo valido verso la riduzione dell’inquinamento causato dalla plastica ma la strada da fare verso uno stile di vita ed una società ecosostenibile è ancora molta.

Se è vero che un individuo da solo non potrà risolvere la crisi climatica, Greta Thunberg, l’attivista Svedese sedicenne impegnata nello sviluppo sostenibile e creatrice del movimento degli “scioperi per il Clima”, ci insegna che lottare per una giusta causa con impegno porterà sempre a dei risultati.

Occorre quindi sforzarci nel nostro piccolo per condurre una vita più rispettosa nei confronti dell’ambiente e parallelamente incentivare la ricerca ecosostenibile, richiedendo strette e regolamentazioni sull’inquinamento. Solo così potremo efficacemente contrastare l’inevitabile tracollo climatico che noi stessi abbiamo causato.

La Terra non può più aspettare.

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Ambiente, società e tecnologia

Food delivery: verso una regolamentazione del lavoro dei riders

Source: https://about.glovoapp.com/en/press/

La sempre maggiore digitalizzazione della nostra società ha portato alla nascita e allo sviluppo, specialmente negli ultimi anni, di un nuovo modello economico, la “gig economy”, che non si basa più su prestazioni lavorative continue e a tempo indeterminato, ma sul lavoro on demand, cioè a richiesta, in cui domanda e offerta sono gestite da apposite piattaforme online o app.

Un esempio di gig economy è rappresentato dal settore dell’online food delivery, cioè la consegna a domicilio di cibi e bevande ordinate dai clienti di bar e ristoranti direttamente da internet e che vengono consegnati a casa o in ufficio tramite i riders, ossia i fattorini che si occupano del trasporto dei prodotti ordinati a bordo delle loro biciclette o motocicli.

Il lavoro dei riders

I riders, rientrando nella categoria dei “gig workers”, son stati considerati fin dalla loro comparsa nel mercato del lavoro come lavoratori autonomi, che svolgono questa occupazione a tempo perso come seconda fonte di sostentamento, per incrementare il proprio reddito. Il loro veniva classificato come “lavoretto”.

Per questo la loro attività lavorativa è rimasta a lungo priva di una qualsiasi tutela e regolamentazione normativa, anche per la difficoltà di inquadrare questo nuovo fenomeno economico nelle categorie classiche.

Nel corso degli ultimi anni però, sia in seguito all’incremento dell’online food delivery con il conseguente aumento di richiesta di fattorini da parte delle aziende che si occupano della consegna a domicilio, sia per esigenze economiche legate anche alla crisi portata dalla pandemia, sempre più persone hanno iniziato a svolgere il lavoro di rider a tempo pieno, come principale fonte di sostentamento.

Questo ha portato l’insorgere di forti discussioni e proteste da parte dei ciclofattorini, che chiedono di non essere più considerati come lavoratori autonomi, ma come veri e propri dipendenti delle aziende di food delivery per le quali lavorano (essendo di fatto queste a determinare le modalità di esecuzione della prestazione di lavoro), di avere un salario minimo pagato a ore invece di essere pagati a cottimo e il riconoscimento di una tutela sanitaria in caso di malattia o infortuni.

Verso una regolamentazione del lavoro dei riders

Negli ultimi anni sono stati fatti passi avanti per il riconoscimento di alcune tutele e diritti dei fattorini delle aziende del food delivery.

Il primo è stato il Decreto legge 101 del 2019, convertito poi in legge il 2 novembre 2019, che ha introdotto alcune tutele per “i lavoratori impiegati nelle attività di consegna di  beni per conto altrui, in ambito urbano  e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore, anche attraverso piattaforme digitali”, non dando però una definitiva risposta al problema.

Questa normativa stabilisce anzitutto l’impossibilità di prevedere una retribuzione interamente a cottimo, cioè in base alle consegne effettuate, ma deve essere previsto un compenso minimo orario, anche se poi rimanda ai contratti collettivi la definizione dei criteri per stabilire i compensi. Inoltre, prevede per i prestatori di lavoro la copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

Il 16 settembre 2020 è stato raggiunto un accordo tra il sindacato UGL e Assodelivery, l’associazione italiana dell’industria del food delivery alla quale aderiscono Glovo, Deliveroo, SocialFood e Uber Eats, che hanno sottoscritto un contratto collettivo nazionale volto a tutelare il lavoro dei riders, primo in tutta Europa, il quale ha previsto un compenso minimo di 10 euro l’ora, con il riconoscimento di un ulteriore indennizzo nel caso in cui le condizioni meteorologiche siano particolarmente sfavorevoli, durante le ore notturne e i giorni festivi, nonché la possibilità dei riders di accedere a delle attività di formazione professionale.

Tuttavia, questo accordo è stato oggetto di forti critiche da parte dei ciclofattorini, che hanno organizzato diverse proteste in varie città italiane. A suscitare le lamentele è stata soprattutto l’affermazione della natura autonoma e non subordinata del lavoro dei rider, che preclude a quest’ultimi il riconoscimento di una serie di diritti di cui gode chi è dipendente, come ad esempio le ferie e la malattia.

Particolarmente importante è poi stata la sentenza del tribunale di Palermo del 20 novembre 2020, che ha affermato per la prima volta il diritto di un fattorino che lavorava per l’azienda di food delivery spagnola Glovo il diritto di essere assunto come lavoratore dipendente a tempo indeterminato.

Ultimo e forse più significativo provvedimento è stato quello dello scordo 24 febbraio con il quale la procura di Milano, al termine di una maxi indagine sulle condizioni di lavoro dei riders estesa a livello nazionale, ha stabilito la notifica ad alcune imprese di food delivery (Deliveroo, Just Eat, Glovo e Uber Eats) di verbali che impongono di assumere i ciclofattorini con contratto di lavoro coordinato e continuativo, con conseguente passaggio da lavoratori autonomi a parasubordinati.