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Ambiente, società e tecnologia

Le quote ambientali: il diritto ad inquinare

Cosa sono le quote ambientali e perché si parla di diritto ad inquinare? Ecco come funziona il meccanismo a tutela dell’ambiente ma anche del diritto a fare impresa.

 

Si sente spesso parlare delle quote ambientali, vendute e acquistate su appositi mercati da vari soggetti economici: ma di che cosa si tratta esattamente? Approfondiamo il funzionamento di questo sistema di scambio che mira a far coincidere opportunità commerciali e lotta al cambiamento climatico.

Cosa sono le quote ambientali?

Le “quote ambientali” o “carbon credit” sono emissioni di CO2 che le aziende sono autorizzate ad emettere. Queste quote a disposizione delle aziende sono parte di un grande Mercato nel quale le si possono vendere, cedere o acquistare. Entrando più nel tecnico, stiamo parlando del “Sistema Europeo di Scambio quote di gas a effetto serra” (nel suo nome originale “European Union Emissions Trading System” abbreviato EU ETS). Questo strumento è il principale mezzo utilizzato dall’Unione Europea per raggiungere l’obiettivo di abbattimento delle emissioni nei principali settori industriali e in quello dell’aviazione.

È stato introdotto con la Direttiva 2003/87/CE e poi modificato dalla Direttiva UE 2018/410 per adempiere agli impegni presi ratificando il Protocollo di Kyoto del 1997 (entrato in vigore nel 2005).

A cosa servono?

L’obiettivo che spinse all’introduzione delle quote di carbonio era quello di ridurre del 62% rispetto ai livelli del 2005 le emissioni di gas climalteranti da parte dei settori disciplinati dal sistema, entro il 2030.

Con queste pratiche i Paesi firmatari mirano, sfruttando gli stessi meccanismi di mercato, ad abbattere l’anidride carbonica (CO2) derivante da produzione di energia elettrica e di calore; dai settori industriali ad alta intensità energetica, comprese raffinerie di petrolio, acciaierie e produzione di ferro, metalli, alluminio, cemento, calce, vetro, ceramica, pasta di legno, carta, cartone, acidi e prodotti chimici organici su larga scala; dall’aviazione civile.

Inoltre, si vogliono contrastare le emissioni di ossido di diazoto (N2O) derivante dalla produzione di acido nitrico, adipico, gliossilico, gliossale, e di perfluorocarburi (PFC) derivanti dalla produzione di alluminio.

 

Come funziona questo meccanismo?

Il principale strumento utilizzato dall’UE per contrastare il cambiamento climatico sono per l’appunto le quote ambientali. Esso si basa su un meccanismo di tipocap&trade” : ovvero consiste nel fissare viene fissato un tetto massimo complessivo alle emissioni consentite sul territorio europeo (cap), a cui corrisponde un equivalente numero quote” (1 tonnellata di CO2 è uguale ad 1 quota) che possono essere acquistate e vendute su un apposito Mercato (trade). Ogni operatore industriale e aereo attivo nei settori coperti dallo schema deve compensare su base annua le proprie emissioni effettive (verificate da un soggetto terzo indipendente) con un corrispondente quantitativo di quote.

Per agevolare i controlli e la contabilità sono stati istituiti anche dei Registri: ovvero dei sistemi di banche dati elettroniche e standardizzate suddivise in conti per il rilevamento delle quote e delle transazioni effettuate. Uno di questi è “ITL” (International transaction log) che garantisce la conformità di tutte le transazioni con le regole stabilite dal Protocollo di Kyoto, gestendo controlli automatici in tempo reale per assicurare che ogni Unità di Emissione sia presente esclusivamente in un conto e che non sia già stata ritirata o cancellata.

Le transazioni che è possibile effettuare si dividono in 8 tipi:

  1. Issuance: creazione dell’Unità di Emissione (quota);
  2. Conversion: Trasformazione da una tipologia ad un’altra;
  3. External transfer: trasferimento esterno verso un altro registro;
  4. Cancellation: trasferimento interno al fine di non rendere la quota disponibile;
  5. Replacement: trasferimento interno per rimpiazzare una tipologia mancante;
  6. Retirement: trasferimento interno per poter essere utilizzata da un altro paese;
  7. Carry-Over: cambio del periodo di validità;
  8. Expiry date change: cambio della data di scadenza.

È bene precisare che il quantitativo complessivo di quote disponibili per gli operatori (cap) diminuisce nel tempo imponendo di fatto una riduzione delle emissioni di gas serra nei settori soggetti ad ETS: in particolare, al 2030, il meccanismo garantirà un calo del 43% rispetto ai livelli del 2005.

 

Il “carbon leakage”

Le quote possono essere allocate a titolo oneroso o gratuito. Nel primo caso vengono vendute attraverso aste pubbliche alle quali partecipano soggetti accreditati che acquistano principalmente per compensare le proprie emissioni. Le transazioni vengono poi registrate secondo le caratteristiche esposte sopra. Nel secondo caso, le quote vengono assegnate gratuitamente agli operatori a rischio di delocalizzazione delle produzioni in Paesi caratterizzati da standard ambientali meno stringenti rispetto a quelli europei (c.d. carbon leakage o fuga di carbonio). Le assegnazioni gratuite sono appannaggio dei settori manifatturieri e sono calcolate prendendo come riferimento le emissioni degli impianti più virtuosi, detti “benchmarks”, prevalentemente basati sulle produzioni più efficienti.

Tra i Paesi più famosi per le politiche poco virtuose sul carbonio, troviamo gli Stati Uniti d’America, la Russia, l’Australia e la quasi totalità dei paesi del continente africano.

Va detto che non in tutti i paesi del mondo si adotta il medesimo meccanismo europeo, molti applicano direttamente una tassa sull’emissione di carbonio

 

Ecotasse

Le tasse sul carbonio (note anche come “ecotasse”) sono applicate proporzionalmente alle emissioni e possono fornire un incentivo significativo alla decarbonizzazione, in quanto le aziende riducono le loro emissioni per evitare di pagare la tassa.

Ad oggi sono in vigore 68 Mercati del carbonio nazionali e subnazionali, che coprono circa il 30 per cento delle emissioni globali. Di questi circa un terzo è coperto dalla Cina; gli altri 44 sono in fase di studio. Dei meccanismi implementati, circa la metà sono sistemi di scambio di emissioni (come gli EU ETS) e l’altra metà sono tasse sul carbonio.

Il prezzo medio del carbonio, basandoci sui dati del 2021, è stato di 21,2 dollari/tonnellata di CO2e (CO2 equivalente, misura che esprime l’impatto sul riscaldamento globale di una certa quantità di gas serra, prendendo l’anidride carbonica come valore di riferimento), con variazioni significative tra i vari Paesi. Alcuni di questi prezzi sono molto alti; per esempio, il sistema ETS dell’Unione Europea ha raggiunto un picco di quasi 90 euro/tonnellata di CO2e nel dicembre 2021.

Il prezzo necessario per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione stabiliti nella COP21 di Parigi è nell’ordine di 150-200 dollari/tonnellata di CO2e entro il 2050 (con una certa differenziazione a seconda dei Paesi): è evidente che la strada da percorrere è ancora lunga.

 

Le opportunità del Mercato del carbonio

I Mercati del carbonio obbligatori incentivano le aziende a trovare soluzioni intelligenti per la decarbonizzazione, più di quanto farebbero se avessero una soglia di regolamentazione statica, come ad esempio le tasse sul carbonio. Con quest’ultima, come già descritto, le aziende ridurrebbero le loro emissioni fino a raggiungere lo standard regolamentato; con i Mercati del carbonio, invece, più le aziende decarbonizzano più possono creare valore. Sui Mercati del carbonio le aziende possono infatti vendere le proprie quote di emissione in eccesso ad altri operatori del Mercato. Possono anche sviluppare progetti di sviluppo ambientale e vendere le compensazioni che ne derivano, o acquistare da altre ditte compensazioni in eccesso rispetto alle loro esigenze di decarbonizzazione per poi commercializzarle, come se fossero un vero e proprio asset in borsa.

Ciò è un vantaggio anche per i governi e i cittadini in generale, poiché con il sistema del mercato del carbonio è probabile che la transizione energetica avvenga più velocemente. Purché, ovviamente, questo asset venga ben sfruttato e non se ne abusi ai danni dello Stato e di noi cittadini – il che purtroppo può accadere, si veda il caso di questi giorni che vede coinvolto Arcelor Mittal (conosciuto comunemente col nome di “Ilva” di Taranto), sul quale potete trovare un approfondimento qui.

In uno scenario mondiale dove il clima è in inesorabile peggioramento, ogni strumento per contrastare il declino ambientale è fondamentale. Forse, però, bisognerebbe avere il coraggio di stringere di più i parametri e prefiggersi obiettivi più elevati, per spingersi verso una sempre maggiore efficacia delle politiche intraprese.

 

Fonti:

https://www.mase.gov.it/pagina/emission-trading

https://www.mase.gov.it/pagina/il-mercato-delle-quote-di-co2

https://www.esg360.it/esg-world/ets-come-funziona-il-mercato-delle-emissioni-di-co2-in-europa/

https://www.isprambiente.gov.it/it/attivita/cambiamenti-climatici/politiche-sul-clima-e-scenari-emissivi

https://it.wikipedia.org/wiki/Carbon_tax

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2024/07/04/ilva-truffa-sulla-c02-lex-ad-ammetteva-i-dati-sono-finti/7610992/

https://www.ilsole24ore.com/art/ex-ilva-truffa-stato-quote-co2-10-indagati-vecchia-gestione-AFs4RJSC?refresh_ce=1

 

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Il fenomeno del “Washing”: quando il marketing diventa ingannevole

Il “washing” è un termine generico che descrive le pratiche di marketing e comunicazione ingannevoli messe in atto da aziende ed enti per farsi pubblicità e migliorare la loro immagine, fingendo di sostenere determinate cause o valori di cui in realtà non si fanno realmente promotori. Questo fenomeno assume diverse forme, come il greenwashing (ambientalismo), il pinkwashing (parità di genere), il rainbow-washing (diritti LGBTQ+), e così via adattando i neologismi. Sebbene queste campagne possano sembrare lodevoli a prima vista, in realtà rappresentano una forma di inganno nei confronti dei consumatori, che vengono fuorviati sul reale pensiero dell’azienda.

 

Che cos’è il greenwashing

Il greenwashing è probabilmente la forma più conosciuta di washing. Si tratta di una pratica attraverso la quale le aziende si presentano come più ecologiche e rispettose dell’ambiente di quanto non siano in realtà. Questo può avvenire attraverso pubblicità fuorvianti, etichette chimeriche sui prodotti o dichiarazioni di sostenibilità non supportate da azioni concrete.

Un esempio noto di greenwashing è stata la campagna pubblicitaria che BP “Beyond Petroleum” ha messo in pratica da inizio 2000. Essa promuoveva un’immagine verde nonostante l’azienda fosse ancora fortemente dipendente dai combustibili fossili. L’azienda, a distanza di quasi un quarto di secolo, è ancora concretamente affezionata al petrolio. Internet, d’altro canto, è pieno di notizie su aziende criticate per aver esagerato i benefici ambientali dei loro prodotti o per aver utilizzato certificazioni ambientali discutibili.

Il greenwashing non solo inganna i consumatori, ma può anche rallentare gli sforzi per affrontare problemi ambientali reali, poiché le aziende possono utilizzarlo per cullarsi di prassi vetuste e ormai già entrate nelle consuetudini aziendali, evitando di apportare  cambiamenti reali.

 

Il rainbow-washing e lo sfruttamento dei diritti LGBTQ+

Il rainbow-washing è la forma di washing che coinvolge lo sfruttamento dei diritti e delle cause legate alla comunità LGBTQ+ a fini di marketing. Questo fenomeno si verifica quando le aziende promuovono prodotti o campagne pubblicitarie che sembrano supportare l’inclusione e l’uguaglianza LGBTQ+, ma in realtà non intraprendono azioni concrete per sostenere questa comunità, per contrastare la discriminazione intra-colleghi sul posto di lavoro, o addirittura l’azienda fa discriminazione in prima persona con le assunzioni, arrivando a finanziare organizzazioni o politici che ne ostacolano i diritti.

Vi sono casi che vedono coinvolte anche grandi aziende come Coca-Cola, McDonald’s e AT&T, che hanno lanciato campagne pubblicitarie pro-LGBTQ+ ma allo stesso tempo hanno sostenuto politici o organizzazioni contrarie ai diritti di questa comunità.

Un caso eclatante di questa pratica lo si può trovare proprio nel calcio e da ultimo nei Mondiali 2022. Potete approfondire l’argomento nell’articolo di Cecilia Palese che trovate qui.

 

Vegan-Washing e altri casi di appropriazione

Il vegan-washing, o veggie-washing, è una pratica simile al greenwashing, ma incentrata sul veganismo o i diritti degli animali. Si verifica quando le aziende pubblicizzano prodotti o servizi come vegetali o vegani. Ad esempio, quando un’azienda introduce alternative a base vegetale alla sua linea di prodotti non vegani per migliorare la propria immagine tra i consumatori più compassionevoli e competere per una quota del Mercato vegano/vegetariano senza mai effettivamente ridurre il loro contributo alla sofferenza degli animali.

Un’ipotesi eclatante di veggie-washing è stata il caso della catena di fast-food Burger King, che nel 2019 ha lanciato un veggie burger chiamato “Veggie Steakhouse” che in realtà veniva cotto sulla stessa griglia della carne, rendendolo non vegetariano.

Altre forme di washing includono il pinkwashing femminista, in cui le aziende fingono di sostenere l’empowerment delle donne a scopo di marketing, e il washing culturale, il fenomeno per cui aziende socialmente e ambientalmente irresponsabili puntano a migliorare la loro immagine promuovendo iniziative artistiche e culturali, senza per questo cambiare le loro politiche aziendali. Famoso è il caso di alcune grandi industrie petrolifere: potete trovare un approfondimento qui.

 

Le conseguenze del Washing sulle aziende

Il washing può avere gravi conseguenze per le aziende che lo praticano. In primo luogo, queste pratiche fasulle possono portare a una perdita di credibilità e fiducia da parte dei consumatori, che si sentiranno traditi e ingannati. Questo può danneggiare gravemente la reputazione e l’immagine del marchio, portando a boicottaggi e campagne di sensibilizzazione da parte di attivisti e associazioni di consumatori.

Inoltre, il washing può esporre le aziende a rischi legali per pubblicità ingannevole o false dichiarazioni. Diverse autorità di regolamentazione e organizzazioni di tutela dei consumatori hanno intrapreso azioni legali contro aziende colpevoli di greenwashing o di altre forme di washing.

 

L’UE in campo contro il greenwashing

Il 17 gennaio 2024, il Parlamento Europeo ha approvato in definitiva la Direttiva UE che mira a migliorare l’etichettatura e mette al bando l’uso di dichiarazioni ambientali fuorvianti. Questa Direttiva ha trovato il favore di tutti gli stati membri che l’hanno approvata e pubblicata in Gazzetta Ufficiale UE.

Le nuove regole vietano l’uso di indicazioni ambientali generiche come “rispettoso dell’ambiente“, “rispettoso degli animali”, “verde”, “naturale“, “biodegradabile“, “a impatto climatico zero” o “eco” se non supportate da prove.

La Direttiva bandisce anche l’uso dei marchi di sostenibilità, data la confusione causata dalla loro proliferazione e dal mancato utilizzo di dati comparativi. In futuro nell’UE saranno autorizzati solo marchi di sostenibilità basati su sistemi di certificazione approvati o creati da autorità pubbliche.

Inoltre, vieterà le dichiarazioni che suggeriscono un impatto sull’ambiente neutro, ridotto o positivo in virtù della partecipazione a sistemi di compensazione delle emissioni. Ovvero quel meccanismo che permette alle aziende di vendere o acquistare quote ambientali per poter rientrare in determinati standard di inquinamento.

 

Come riconoscere il Washing

Per evitare di cadere vittime del washing, è importante che i consumatori siano in grado di riconoscere i segnali di allarme nelle comunicazioni aziendali. Ecco alcuni aspetti da tenere d’occhio:

  1. Dichiarazioni vaghe o esagerate: Le affermazioni ambientali, etiche o sociali dovrebbero essere specifiche e supportate da prove concrete.
  2. Mancanza di trasparenza: Le aziende autenticamente impegnate in una causa saranno aperte e trasparenti sulle loro pratiche e sui loro sforzi. Le informazioni dovrebbero essere facilmente reperibili dal sito.
  3. Pubblicità contraddittoria: Se un’azienda promuove una causa con una mano ma la contraddice con le sue azioni o altri messaggi pubblicitari, è un potenziale segnale di washing.

 

È fondamentale che i consumatori non si fidino ciecamente delle affermazioni di marketing, ma verifichino le reali azioni e politiche dell’azienda prima di supportarla. Allo stesso modo, le aziende dovrebbero adottare una comunicazione autentica e trasparente, evitando di sfruttare indebitamente cause nobili per scopi pubblicitari.

 

 

Fonti:

https://www.greenpeace.org/usa/recapping-on-bps-long-history-of-greenwashing/

 

https://www.corriere.it/economia/22_dicembre_28/greenwashing-bp-investe-piu-petrolio-che-fonti-rinnovabili-6039d3f0-867c-11ed-95ee-af8dc55ce986.shtml

 

https://thevision.com/attualita/pride-sponsor/

 

https://www.lettera43.it/gabbana-post-gay-grillini-coming-out-lgbt/

 

https://www.today.it/donna/dolce-gabbana-boicottati-vip-omosessuali.html

 

https://jacobinitalia.it/il-cultural-washing-delle-aziende-petrolifere/

 

https://www.europarl.europa.eu/news/it/press-room/20240112IPR16772/il-pe-adotta-una-nuova-legge-contro-greenwashing-e-informazioni-ingannevoli

 

http://www.collectivelyfree.org/veganwashing-the-lie-of-vegan-unity/#:~:text=“Veganwashing”%20refers%20to%20a%20form,with%20veganism%20or%20animal%20rights.

 

https://ibicocca.unimib.it/latomizzazione-nel-calcio-la-fifa/

 

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Scamcoins come casinò: com’è cambiata la percezione del denaro nell’era dell’economia digitale e delle criptovalute

Era il mese di gennaio del 2009 quando un gruppo di visionari, celati sotto lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto, gettò le fondamenta di una rivoluzione finanziaria senza precedenti: il Bitcoin, la prima valuta digitale (o criptovaluta).

 

Nel corso del suo primo anno di esistenza, il Bitcoin si misurava in mere frazioni di centesimi di dollaro statunitense o, addirittura, con un valore vicino allo zero. Nessuno, all’epoca, avrebbe potuto prevedere che la modesta (e apparentemente trascurabile) nascita di una valuta virtuale avrebbe rappresentato il nucleo di un fenomeno globale, destinato a rivoluzionare irrimediabilmente il panorama economico mondiale.

 

Bitcoin: l’avventura nell’incognita finanziaria

 

È inevitabile che, nel tempo, il modo di gestire e concepire il denaro cambi in base alle implicazioni culturali, economiche e sociali di riferimento. A differenza del mondo reale, il settore dell’informatica e della tecnologia concepisce 15 anni come un periodo di tempo molto lungo. Sarebbe stato impensabile, all’epoca, pensare di affidarsi quotidianamente alle piattaforme digitali per effettuare pagamenti, investimenti e transazioni finanziarie, come accade oggi.

 

Acquistare un Bitcoin significava, nel 2009, investire in qualcosa di estremamente incerto: l’esposizione al rischio di hackeraggio, la mancanza di regolamentazioni chiare e le fluttuazioni estreme del valore erano solo alcune delle preoccupazioni di quei pochi interessati a scommettere su questo nuovo software.

 

Seppur sia difficile fornire una cifra precisa sul numero di persone che decisero di investire in Bitcoin, è invece chiaro che i primi a gettarsi nella mischia furono solo degli “avventurieri digitali”: informatici, programmatori e appassionati di tecnologia che, spinti dalla determinazione e dalla voglia di esplorare il promettente mondo delle criptovalute, sfidarono il rischio e si lanciarono in questa nuova frontiera finanziaria. Acquistarono alcuni Bitcoin per cifre irrisorie e questi vennero trasferiti all’interno di un primo embrione di portafoglio digitale, custodito da password private.

 

L’investitore più famoso è sicuramente Lazlo Hanyecz, un programmatore di Jacksonville (Florida) che il 22 maggio 2010 utilizzò, per la prima volta nel mondo reale, i propri Bitcoin come valuta di scambio: 10.000 Bitcoin per due pizze. Scelta abbastanza discutibile, considerando il fatto che di lì a poco (per l’esattezza il 6 novembre dello stesso anno) la capitalizzazione del Bitcoin avrebbe raggiunto il milione di dollari, con un tasso di cambio pari a mezzo dollaro per Bitcoin. Ad ogni modo, era solo l’inizio di un cammino che, seppur tortuoso, portò il Bitcoin a raggiungere cifre inimmaginabili.

 

Nessuna valuta al mondo ha raggiunto, in 10 anni, una quotazione pari a quella del Bitcoin. Al momento in cui si scrive, un Bitcoin vale ben 47.888,06 dollari; il prezzo viene aggiornato ogni 5 minuti dal sito Soldionline.it.

 

Perdita di accesso, perdita di fortuna: i Bitcoin persi nelle profondità digitali

 

Ciò che viene simpaticamente mostrato nel nono episodio dell’undicesima stagione di The Big Bang Theory, “La complicazione dei Bitcoin” (o The Bitcoin Entanglement), rispecchia la realtà: come il protagonista Leonard Hofstadter, molte persone che investirono anche pochi centesimi in questa valuta nel 2009 lo fecero in maniera del tutto informale o per mera curiosità. Ironicamente (o meglio, drammaticamente) questi ultimi si sono ritrovati ad affrontare, più che un possibile rischio, un problema reale: quello di aver perso le password dei propri portafogli digitali e di aver reso impossibile l’accesso ai propri fondi, inevitabilmente maturati nel corso degli anni.

 

Si tratta di un evento esemplare, che dovrebbe servire da ammonimento sulla necessità di trattare con serietà i propri investimenti finanziari, anche quando sembrano solo un gioco. Tuttavia, ciò non accade: anzi, oggi il mondo delle criptovalute, oltre a essersi consolidato in maniera massiccia, ha visto emergere sfide ben più significative e complesse.

 

La proliferazione delle scamcoins

 

Le scamcoins (o criptovalute truffa) sono criptovalute create con l’intento di ingannare gli investitori e ottenere denaro o informazioni personali in modo fraudolento.

 

I creatori delle scamcoins sono tutt’altro che sprovveduti e, tramite campagne marketing ingannevoli, profili falsi sui social e cloni di criptovalute legittime riescono a far diventare virali i propri progetti, seppur vuoti o addirittura fasulli. Tutto ciò non ha a che fare e non dev’essere confuso con il termine cryptoscam, che si riferisce, invece, a qualsiasi truffa o frode che coinvolga le criptovalute.

 

I principali canali di diffusione delle scamcoins sono l’app di messaggistica Telegram e diverse piattaforme online. Poocoin, ad esempio, è un sito web che si occupa di aggregare i dati (come il prezzo in tempo reale) e fornire grafici dettagliati sull’andamento delle diverse criptovalute; in aggiunta, permette agli investitori di monitorare i propri wallets (portafogli digitali) e di interagire tra loro, promuovendo alcune crypto e creando avvisi personalizzati. Premettendo che questo sito non è direttamente coinvolto nella creazione e nella promozione delle scamcoins, queste ultime possono essere in esso pubblicizzate dagli utenti stessi, i quali sono esenti da controlli di sicurezza mirati e, conseguentemente, sono esposti a vari tipi di minacce online.

 

“Squid Game” e “Rug Pull”: tra finzione e realtà

 

Un esempio di scamcoin ormai famoso è il token non ufficiale (ma omonimo) legato alla serie Netflix sudcoreana Squid Game, reso disponibile agli investitori il 20 ottobre 2021 sottoforma di un pay-to-play: acquistando queste criptovalute, gli utenti avrebbero potuto giocare a un gioco ispirato alla serie tv e sarebbero stati premiati, all’interno di esso, con “token $SQUID”.

O almeno, questo è ciò che gli fecero credere i promotori.

 

 

In sole due settimane, Squid Game arrivò a valere ben 2.861 dollari e il market cap (cioè il valore totale in dollari) arrivò a 2,1 milioni di dollari (il picco più alto fu, addirittura, di 7 milioni). Crescita piuttosto irregolare; affiancata al fatto che gli utenti stavano riscontrando alcune difficoltà nel ritirare i propri soldi (che nel frattempo continuavano ad aumentare), ciò spinse l’ex Twitter (ora X) a limitare temporaneamente l’account della criptovaluta, con l’accusa di attività sospette.

 

Tutto ciò non ha impedito ai creatori di prelevare l’intera liquidità (pari, in quel momento, a poco meno di 3,4 milioni di dollari) e riscontrare che, come previsto, si trattava di una scamcoin.

 

Quest’operazione è stata un gigantesco rug pull: questo termine si riferisce a una manovra dannosa che si verifica quando gli sviluppatori di una criptovaluta abbandonano improvvisamente il progetto, fuggendo con i fondi degli investitori e facendo precipitare il valore della criptovaluta (nel caso di $SQUID si era giunti a quasi una frazione di centesimo). In poche parole, è una truffa con la quale si “tira il tappeto” dai piedi degli investitori, lasciandoli senza alcuna possibilità di recupero dei loro fondi.

 

La riduzione delle truffe online

 

Squid Game è stata solo una delle molteplici scamcoins ad aver truffato gli investitori; si tratta di un fenomeno che persiste e continuerà a farlo, seppur (forse) con un impatto minore. Le truffe facilitate sono diminuite da 55,4 milioni di dollari nel secondo trimestre del 2023 a 13,6 milioni nel terzo trimestre dello stesso anno, con una diminuzione del 75% dell’importo perso dagli investitori a causa delle truffe.

 

Secondo le analisi, questa diminuzione può essere attribuita a vari fattori: un aumento della consapevolezza complessiva tra i membri della comunità, un’impennata nei prodotti di sicurezza che segnalano siti web e attività dannose e la numerosità di utenti che individuano le truffe in anticipo e forniscono avvisi prima che i truffatori possano avere successo.

 

Scamcoins come casinò

 

Perché, allora, le persone continuano a investire nelle scamcoins, pur conoscendone i rischi?

 

Le scamcoins, a differenza delle critpovalute tradizionali, raggiungono picchi di valore molto alti in poco tempo, arrivando a market cap davvero elevati. Gli utenti sanno riconoscere una criptovaluta legale da una seconda truffaldina, ma decidono consapevolmente di rischiare e provare a far maturare molti soldi in poco tempo per poi battere sul tempo gli sviluppatori, ritirando per primi la propria liquidità.

 

Verrebbe da chiedersi: davvero le persone tengono così poco alle proprie risorse finanziarie?

 

Ci sono molti modi di investire i propri soldi e le criptovalute sono, ormai, largamente diffuse. La scelta di fidarsi delle scamcoins sembra essere quella che, in questo campo, richiede il minimo sforzo e fa ottenere il massimo risultato ed è per questo che potrebbe essere paragonata al gioco d’azzardo.

È un po’ come scommettere su un mazzo di carte truccato: si potrebbe vincere qualche volta, ma alla fine il banco (o, in questo caso, lo sviluppatore truffaldino) ha sempre la meglio, perché lascia l’investitore senza speranze e con un portafoglio più leggero.

 

 

Fonti:

Wired, Storia breve del Bitcoin

“The Bitcoin Entanglement”, The Big Bang Theory

PooCoin

Soldionline.it

Cosa sono le scamcoins?

Squid Game, la criptovaluta truffaldina

Rug Pull

La riduzione delle truffe online

 

Immagini:

Il pump and dump del prezzo di SQUID, fonte CoinMarketCap

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L’atomizzazione nel calcio: la FIFA

Guidate dalla bramosia dei social media, le società calcistiche odierne si trovano ad agire in un equilibrio precario tra immagine pubblica e ricerca di profitti.

Questo equilibrio, tuttavia, è spesso macchiato da una profonda ipocrisia.

 

Lega Serie A e pride

 

Ormai da tempo il 30 giugno rappresenta la fine del mese del pride; con esso, ogni anno svanisce anche la tintura arcobaleno che va momentaneamente a dipingere molte aziende, istituzioni e società.

Ma c’è un angolo di mondo in cui, durante questo mese, questa bandiera non ha mai sventolato: non si parla banalmente di Paesi a religione musulmana (aventi, quindi, una cultura diversa dalla nostra), ma di luoghi in cui le stesse aziende che in occidente abbracciano la retorica LGBTQ+ diventano improvvisamente silenziose.

 

La Lega Serie A, massima divisione professionistica del calcio italiano, non ha fatto eccezione. Ogni profilo X (ex Twitter) della Lega, col sopraggiungere dell’estate, si colora di arcobaleno, tranne uno: quello dedicato al pubblico arabo, che rimane sempre neutro.

 

La FIFA nel calcio

 

Non si parla solo di Serie A; il discorso, molto più ampio e complesso, è esteso (quasi) da sempre all’intera federazione FIFA.

 

Nonostante il suo ruolo di centralità sociale (sia diretta che indiretta) il calcio viene spesso sottovalutato dal punto di vista storico.

Ormai questo sport non rappresenta solo una mera forma di intrattenimento, ma un terreno in cui cultura di massa, economia e politica convergono, dando vita a un universo di nazioni in competizione tra loro. Non è un  caso che, ad oggi, il vincitore di questo torneo venga considerato non solo un campione sportivo, ma anche un simbolo di unità e eccellenza nazionale.

 

Fu con la nascita della Football Association (FA) nel 1863 che il calcio si affermò come sport nazionale; qui cominciarono a delinearsi, oltre che delle regole simili a quelle che conosciamo oggi, anche i valori capitalistici di questo sport: coloro che dimostravano di essere più intraprendenti sul campo riuscivano a raggiungere, poi, anche una maggiore ascensione sociale.

 

La nascita del calcio è un fenomeno che viene collocato nella Gran Bretagna antecedente all’Età Vittoriana, la quale, tuttavia, ne rappresenta il periodo di massima affermazione. Si tratta di un periodo durante il quale nacquero, nelle campagne britanniche, nuovi sport aventi l’obiettivo di limitare la violenza e diffondere valori come l’autocontrollo e la disciplina. Il calcio rappresentava, nello specifico, una causa di identificazione per gruppi e comunità di individui.

 

In concomitanza all’introduzione del concetto di tempo libero nel mondo lavorativo, il calcio iniziò a permeare sempre di più la vita quotidiana dei cittadini: dapprima solo all’intero dell’impero britannico e in seguito anche al di là dei suoi confini, crebbe la partecipazione della classe lavoratrice e nacquero i primi professionisti del calcio.

 

Mentre la Gran Bretagna rinunciava al ruolo di guida nel calcio internazionale, nel 1904 venne fondata la FIFA, un organismo in grado di regolamentare e coordinare questo sport su scala internazionale.

 

Nata all’insegna all’apoliticità e alla continuità del calcio internazionale, nel 1904 l’allora piccola federazione FIFA aveva come motto “for the good of the game”. Fu grazie ad essa che a molte squadre venne permesso, senza distinzione di status, di partecipare alle competizioni internazionali. E fu sempre grazie alla FIFA che i calciatori, nel tempo, cominciarono a essere retribuiti.

 

Il suo successo economico, tuttavia, arrivò solo nel 1932, quando si dotò di un sistema giuridico e costituì il proprio quartier generale a Zurigo.

 

Calcio e politica

 

Non è facile, per società di questo calibro, mantenere l’obiettivo di apoliticità. Basti pensare che in questo periodo si tennero il Mondiale italiano del 1934, conosciuto con la nomea di “Coppa del Duce”, e il Mondiale del 1938 in Francia: qui gli italiani, nella partita contro i francesi, si presentarono con una divisa nera e, alla fine della partita, si esibirono in un saluto romano, affiancato da un un telegramma di Mussolini che recitava “vincere o morire”.

 

La Repubblica Federale Tedesca e i Mondiali del 1974

 

Facciamo un salto temporale: nel 1974, durante il Mondiale di calcio nella Repubblica Federale Tedesca, la FIFA dimostrò chiaramente di seguire una politica basata principalmente sui possibili riscontri economici, anche a discapito di questioni morali ed etiche.

 

L’episodio emblematico di questo Mondiale fu la partita tra Cile e Unione Sovietica, che si svolse in un contesto carico di tensioni politiche internazionali. La partita era stata organizzata a Mosca, al fine di distogliere l’attenzione dal reale utilizzo che si stava facendo dello stadio nella capitale cilena: veniva usato come campo di concentramento. La FIFA, informata dei fatti, inviò sul campo dei delegati conservatori, i quali ignorarono le violazioni dei diritti umani e decisero di mandare avanti l’incontro.

 

Il colpo di Stato di Pinochet in Cile dell’11 settembre 1973 portò l’Unione Sovietica a ritirarsi; il Cile, nonostante la mancanza di avversari sul campo, venne costretto dalla FIFA a segnare un goal simbolico; i giocatori cileni, per lo più socialisti, vennero minacciati e costretti a giocare.

 

È molto importante tener vivo il ricordo di questi eventi: il Mondiale del 1974 riuscì a far raccogliere molti soldi alla FIFA, molti di più rispetto alle edizioni precedenti, alimentati, oltre che da un crescente interesse globale dato dalla partecipazione di nuove squadre e nazioni, anche dall’avanzamento tecnologico che negli anni ‘70 caratterizzò il mondo televisivo e pubblicitario. Il marketing vide l’entrata di marchi e aziende che iniziarono a vedere nel calcio una vetrina ideale per promuovere i propri prodotti, sponsorizzandosi sulle divise.

 

Il Qatar e i Mondiali del 2022

 

Spostiamo l’attenzione ai giorni nostri. I Mondiali di calcio del 2022 vengono ormai ricordati a causa della straordinaria vittoria dell’Argentina di Messi, vincente ai rigori contro la Francia; ci si dimentica spesso che sono anche stati i Mondiali in Qatar.

 

Il Qatar è noto per le sue pratiche discutibili in materia di diritti umani e, in particolare, per la sua scarsa attenzione ai diritti delle donne. Inoltre, durante un’intervista nel programma “Uncensored” condotto da Piers Morgan, il segretario generale del comitato supremo dei Mondiali di calcio del Qatar, Hassan al Thawadi, ha rivelato che la costruzione degli impianti sportivi (che avrebbe poi permesso lo svolgersi del Mondiale) ha causato la morte a circa 400/500 lavoratori. In realtà, secondo il Guardian la cifra reale è pari a circa 6.500, se non più alta.

 

Nonostante ciò, molti club (anche in Serie A) mantengono relazioni strette con questo Paese, firmando accordi di sponsorizzazione e partecipando a tornei e competizioni lì organizzate. Molte delle partnership con il Qatar sono strettamente legate alle ingenti somme di denaro che circolano nell’ambiente: si pensi, ad esempio, all’acquisizione di club come il Paris Saint-Germain, rilevante a livello nazionale a causa dell’entità del monte ingaggi degli atleti che ne fanno parte. Stipendi altissimi: 100 milioni per Neymar, 72 milioni per Kylian Mbappè, 54 milioni per Lionel Messi.

O, ancora, si pensi all’incasso di ben 260 milioni di dollari per la stagione corrente (2023/2024) di Cristiano Ronaldo nel club saudita Al-Nassr.

 

La fascia One Love

 

Veniamo al fatto più eclatante: in vista dell’edizione in Qatar, otto nazionali si sono trovate di fronte a un rifiuto della FIFA nel voler indossare, come segno di sostegno alla comunità LGBTQ+, la “fascia One Love”, creata nel 2020 per iniziativa dell’Olanda: una fascia bianca con un cuore arcobaleno. Le otto Nazionali coinvolte (oltre alla Norvegia, che non ha partecipato ai Mondiali) avevano già utilizzato la fascia durante le partite della Nations League, previa approvazione da parte della UEFA.

Tuttavia, in vista dei mondiali e citando l’Articolo 13.81 del suo regolamento sull’equipaggiamento, la FIFA dichiarò che:

 

Per le competizioni finali FIFA, il capitano di ciascuna squadra deve indossare la fascia da capitano fornita dalla FIFA

 

e distribuì quindi alle 32 Nazionali una fascia con la scritta “No Discrimination“.

Il protagonista dell’opposizione fu Manuel Neuer, portiere e capitano della Germania, che dichiarò la sua intenzione di scendere in campo con la fascia One Love anche a rischio di sanzioni; alla fine optò per la seconda scelta (cioè la fascia No Discrimination), ma la squadra tedesca lanciò lo stesso un messaggio di protesta: tutti i giocatori decisero di coprirsi la bocca con le mani in occasione della foto di gruppo.

 

I Mondiali di calcio femminili

 

Nessuna fascia arcobaleno e One Love neanche ai Mondiali femminili di calcio del 2023, ospitati in Australia e Nuova Zelanda. La FIFA, anche in questo caso, ha posto un chiaro veto sulle calciatrici: chiunque la indossasse sarebbe stata sanzionata o, addirittura, costretta a lasciare il campo.

 

Perché parliamo di “atomizzazione”

 

Generalmente, quando si fa riferimento a quel processo intenzionale e coercitivo di manipolazione volto a influenzare le credenze, le percezioni e i comportamenti di un individuo – spesso attraverso tecniche di controllo dell’informazione – si sta parlando di “brainwashing” (letteralmente “lavaggio del cervello”). Questo processo può essere utilizzato per indurre un cambiamento nell’atteggiamento delle persone, in modo da conformarli a determinate ideologie, credenze o obiettivi.

In un certo senso, è questo che accade attraverso il bombardamento di informazioni che riceviamo quotidianamente tramite i social media e la pubblicità: uno stimolo costante di immagini, frasi, idee che tendono a plasmare la mentalità, le idee, i desideri.

 

Un fenomeno relativamente recente connesso a questo è quello del “washing” dell’immagine di un marchio o di un ente, che a seconda delle istanze socio-politiche più sentite in certi contesti prende vari prefissi (dal “greenwashing” al “pinkwashing”, al “rainbow-washing” e via dicendo): si aderisce ad una causa gradita al pubblico, ma solo in modo apparente, comunicando messaggi contraddittori con le proprie azioni concrete che però inducono potenziali clienti, difficilmente in grado di verificare se ciò che è comunicato sia veritiero, a preferire il proprio marchio ad altri.

 

Per indicare il fenomeno che ci siamo sforzati di descrivere è però interessante usare anche un’altra categoria, che inserisce questi esempi in un ragionamento più ampio sulla società contemporanea: quella di “atomizzazione”. Questo termine si riferisce al processo attraverso il quale le comunità e le relazioni sociali diventano sempre più frammentate e individualizzate, con un’attenzione crescente ai bisogni dei singoli piuttosto che alle reali strutture collettive. Fenomeno che, in determinati contesti, porta delle conseguenze negative: si pensi all’aumento dell’isolamento sociale, o ancora alla perdita di solidarietà e coesione sociale.

L’atomizzazione delle aziende in relazione ai temi sociali fa riferimento al modo in cui le imprese, per interessi prettamente economici, possono reagire o adattarsi a questioni sociali rilevanti – i movimenti per i diritti umani, l’uguaglianza di genere, l’inclusione LGBTQ+ e la sostenibilità ambientale, per esempio – in modo da ottenere un ritorno d’immagine.

 

Il profitto

 

Gli esempi di doppi standard sopra descritti (scelti tra i tanti) sono un riflesso diretto dell’atomizzazione delle aziende calcistiche: mentre i dirigenti si affrettano a sostenere le giuste cause per apparire progressisti e socialmente responsabili, dietro le quinte c’è una ricerca spregiudicata del profitto. I club sono disposti a sacrificare non solo i principi morali e gli ideali che sostengono pubblicamente, ma anche la fiducia e l’integrità dei propri giocatori pur di ottenere sponsorizzazioni lucrative e faraonici accordi commerciali.

 

Per i tifosi e gli appassionati di calcio, questo scenario solleva molte domande importanti. Come possono le squadre giustificare il loro impegno a favore della giustizia sociale quando le loro azioni dimostrano il contrario?

Come si può continuare a sostenere delle cause nobili mentre si stringono accordi con Paesi che calpestano i diritti umani?

Il calcio, ormai, fa parte a tutti gli effetti della nostra società: sono davvero questi i valori che gli alti dirigenti delle Federazioni vogliono lasciare ai tifosi di tutto il mondo?

 

Fonti:

L’ipocrisia della Lega Serie A: bandiera arcobaleno sì, ma non nei Paesi arabi

Riccardo Brizzi, Nicola Sbetti, “Storia della Coppa del Mondo di Calcio”

Prime ammissioni sui morti sul lavoro in Qatar

6.500 morti tra i lavoratori in Qatar

I mondiali del 2022 e la fascia One Love

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Ambiente, società e tecnologia

Dove nascono i dati per istruire l’AI

Si sente spesso parlare di intelligenza artificiale, ma di cosa si tratta esattamente e di cosa ha bisogno per funzionare e svilupparsi? I dati sintetici che alimentano le AI e rispondono ai nostri quesiti.

 

Introduzione al Machine Learning

Il machine learning, o apprendimento automatico, è un campo dell’intelligenza artificiale che permette ai computer di imparare e migliorare dalle esperienze, senza essere esplicitamente programmati. I sistemi di machine learning utilizzano algoritmi che analizzano grandi quantità di dati per individuare relazioni, costruendo modelli che li rendano capaci di compiere previsioni o decisioni senza ulteriori istruzioni.

Questo approccio ha rivoluzionato molti settori, come il riconoscimento vocale, la visione artificiale, il processo decisionale automatizzato e molto altro ancora. Tuttavia, il successo del machine learning dipende fortemente dalla disponibilità di dati di addestramento di alta qualità e rappresentativi del problema da risolvere.

La nascita dei dati sintetici

Con l’aumento delle applicazioni di machine learning, è emersa la necessità di grandi quantità di dati di alta qualità per l’addestramento. Raccogliere e annotare manualmente questi dati può essere un processo lungo, costoso e soggetto a errori. Inoltre, in alcuni casi, i dati reali potrebbero essere limitati o addirittura impossibili da ottenere a causa di vincoli legali, etici o pratici.

Per superare questa sfida, i ricercatori hanno sviluppato tecniche per generare dati sintetici, ovvero dati artificiali creati al computer. Questi dati sintetici mirano a replicare le proprietà dei dati reali, pur mantenendo la privacy e riducendo i costi e gli sforzi di raccolta dei dati.

Cosa sono i dati sintetici

I dati sintetici sono dati artificiali generati tramite modelli o simulazioni al computer invece di essere raccolti dal mondo reale. Questi dati cercano di replicare le caratteristiche statistiche e le proprietà dei dati reali, come la distribuzione, la varianza, le correlazioni e le dipendenze tra le variabili.

A differenza dei dati reali, i dati sintetici non contengono informazioni personali identificabili o dati sensibili, riducendo così i rischi di violazione della privacy. Inoltre, poiché sono generati al computer, possono essere prodotti in quantità pressoché illimitate e con una vasta gamma di variazioni, superando i vincoli e i costi associati alla raccolta di dati reali.

 

Le tipologie di dati sintetici

Esistono diverse tipologie di dati sintetici, ognuna con le proprie caratteristiche e applicazioni:

  1. Dati sintetici generati da modelli: sono creati utilizzando modelli matematici o statistici che cercano di replicare le proprietà dei dati reali. Ad esempio, i modelli generativi avversari (GAN) possono essere addestrati su dati reali e quindi utilizzati per generare nuovi dati sintetici con caratteristiche simili.
  2. Dati sintetici da simulazioni: questa tipologia di dati sintetici è generata attraverso simulazioni al computer che modellano ambienti o processi realistici. Un esempio di utilizzo di questi dati lo troviamo nei giochi o nelle applicazioni di guida autonoma, dove i dati sintetici possono essere generati da simulazioni in ambienti virtuali con diverse condizioni di illuminazione, meteorologiche e di traffico.
  3. Dati sintetici ibridi: questi combinano dati reali e sintetici per massimizzare i vantaggi di entrambi. Possono essere utilizzati come base per generare variazioni sintetiche, aumentando così la diversità e la quantità dei dati di addestramento.
  4. Dati sintetici specifici al dominio: generati per applicazioni particolari, come ad esempio l’imaging medico (ndr. diagnostica per immagini), la visione artificiale per la produzione o la guida autonoma. Questi dati sintetici sono progettati per catturare le caratteristiche specifiche di un determinato dominio o problema.

Quando si utilizzano i dati sintetici

I dati sintetici vengono utilizzati in vari casi, ad esempio quando i dati reali sono limitati o costosi da raccogliere: in alcuni ambiti, come la medicina o le applicazioni militari, la raccolta di dati reali può essere estremamente costosa o addirittura impossibile. I dati sintetici offrono un’alternativa economica e scalabile.

Risultano utili anche per mantenere la privacy dei dati sensibili: nei casi in cui i dati contengano informazioni personali o sensibili, l’uso di dati sintetici può garantire la privacy e la conformità normativa.

Infine, si possono sfruttare anche per creare set di dati di addestramento più ampi e diversificati. I dati sintetici, infatti, possono essere generati con una vasta gamma di variazioni, aumentando la diversità e la rappresentatività dei set di dati di addestramento.

Si possono quindi utilizzare per simulare casi estremi o rari che sarebbero difficili o pericolosi da riprodurre nel mondo reale.

Infine, quando si esplorano nuovi domini o concetti, i dati sintetici sono preziosi in quanto perfetti per generare esempi iniziali e valutare la fattibilità di un’applicazione di machine learning.

 

Performance dei dati sintetici

Numerosi studi hanno dimostrato che i modelli di machine learning addestrati con dati sintetici possono raggiungere prestazioni comparabili o addirittura superiori a quelli addestrati con soli dati reali.

In generale, l’uso di dati sintetici può migliorare le prestazioni dei modelli di machine learning in diverse situazioni:

  • Quando i dati reali sono limitati o distorti: i dati sintetici possono compensare la mancanza di dati reali o le distorsioni nei set sperimentali di dati esistenti.
  • Per migliorare la generalizzazione: i dati sintetici possono introdurre variazioni che aiutano i modelli a generalizzare meglio a nuove situazioni.
  • Per affrontare i problemi di overfitting ossia un adattamento eccessivo che avviene quando un modello statistico molto complesso si adatta ai dati osservati perché ha un numero eccessivo di parametri rispetto al numero di osservazioni. L’aggiunta di dati sintetici può ridurre il rischio di overfitting o la tendenza dei modelli a memorizzare i dati di addestramento invece di imparare concetti generalizzabili.

 

Vi è da evidenziare, però, che la qualità dei dati sintetici dipende dai modelli e dagli algoritmi utilizzati per generarli, nonché dalla rappresentatività dei dati di addestramento originali. La generazione di dati sintetici di alta qualità e rappresentativi richiede una profonda comprensione dei dati reali e dei modelli statistici sottostanti. Se non sono generati correttamente, i dati sintetici possono introdurre distorsioni o artefatti che potrebbero influenzare negativamente le prestazioni dei modelli di machine learning.

In molti casi, l’approccio migliore è una combinazione di dati reali e sintetici, che sfrutta i punti di forza di entrambi.

Il rispetto della privacy

Ciononostante, i dati sintetici hanno un grande vantaggio pratico rispetto a quelli reali, perché evitano ogni problematica relativa alla privacy. Poiché questi dati non contengono informazioni identificabili o dati sensibili, possono essere condivisi e utilizzati per l’addestramento dell’AI senza violare la privacy degli individui.

Questo aspetto è di fondamentale importanza in settori come la sanità, le finanze e il governo, dove la protezione dei dati personali è una priorità assoluta. I dati sintetici consentono di sfruttare i vantaggi dell’apprendimento automatico senza compromettere la privacy dei cittadini o dei clienti.

Inoltre, l’uso di dati sintetici può ridurre i rischi legali e di conformità associati alla condivisione o all’elaborazione di dati personali, semplificando la collaborazione tra organizzazioni e la condivisione di conoscenze, grazie per l’appunto ai loro vantaggi sotto l’aspetto della tutela della privacy.

 

Non c’è dubbio sul fatto che l’intelligenza artificiale sta entrando a grandi passi nelle nostre società, e molto probabilmente sarà sempre più diffusa e impattante in futuro. Come per ogni tecnologia – e forse particolarmente in questo caso, vista la delicata natura cognitiva dei compiti che per la prima volta assegniamo alle macchine tramite l’uso di AI – è fondamentale sviluppare attenzione rispetto al suo metodo di funzionamento e alle conseguenze del suo utilizzo. Questo articolo spera di contribuire almeno in minima parte a tale obiettivo: formare una coscienza collettiva rispetto alla natura dell’intelligenza artificiale e delle sue applicazioni concrete.

 

Fonti:

 

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Ambiente, società e tecnologia

Cannabis, la rinascita “green” dell’Italia: un occhio alla Carmagnola

Cannabis”: un termine spesso frainteso, associato al mero spettro della droga e relegato, poi, nell’ombra della legalità.

 

È a tal proposito che la situazione legale e la concezione sociale di questa pianta è molto variegata, sia in Europa che nel mondo: ponendo sotto la lente d’ingrandimento anche solo i Paesi europei, è possibile notare una netta differenza fra quelli che hanno adottato politiche più liberali e quelli che, invece, mantengono leggi più restrittive.

 

I primi Paesi a legalizzare del tutto la cannabis sono stati, nel 2021, il Lussemburgo e Malta : qui, ogni maggiorenne può coltivare, acquistare e consumare cannabis a uso personale, senza limiti di THC (un principio attivo il cui nome scientifico è delta-9-tetraidrocannabinolo). Inoltre, è disponibile la cannabis medica per i pazienti che ne hanno bisogno.

Particolarmente importante, negli ultimi mesi, l’evoluzione della situazione tedesca: il 23 febbraio 2024 la Germania ha approvato una legge riguardante l’uso e la coltivazione privata della cannabis.

 

Ad ogni modo, non è difficile venire a conoscenza degli svariati e possibili utilizzi della cannabis. Ciò che rimane tra storia e mistero è, invece, la prestigiosa tradizione italiana nel campo della produzione della cannabis, sia in termini di qualità che di quantità. Una realtà storica che sembra paradossale, se si pensa all’attuale concezione che gli italiani hanno di questa pianta.

 

Cannabis e fascismo: è davvero un binomio perfetto?

 

Paradossale è davvero il termine giusto per descrivere la nostra relazione con questa pianta: il settore canapicolo italiano raggiunse il suo massimo splendore durante il periodo fascista, tra i primi anni ‘20 e la metà degli anni ’40.

 

Nel 1918 nacque il Sindacato di Filatori e Tessitori di Canapa e il settore cominciò a essere coordinato e vigilato dalla Confederazione Fascista Agricoltori, che controllava tutti i consorzi. Si trattava di un organismo che disciplinava la produzione, proporzionandola alla domanda, valorizzava i prodotti e promuoveva i processi di lavorazione della fibra. Il filato di canapa italiano era rinomato in tutto il mondo a causa della sua morbidezza, lucentezza e bianchezza.

 

Come riportato dal Catalogo del Linificio e Canapificio Nazionale, nel 1923 il settore impiegava circa 20.000 persone, con stabilimenti concentrati maggiormente nel nord; si pensi a quelli di Cassano d’Adda e di Genova, città la cui azienda di filati per l’industria navale divenne la prima nel Mediterraneo per produzione.

 

L’importanza della canapa per l’economia italiana divenne tale che Benito Mussolini, nel 1925, arrivò a pronunciarsi in questo modo:

 

La Canapa è stata posta all’ordine del giorno della nazione, perché per eccellenza autarchica è destinata ad emanciparci quanto più possibile dal gravoso tributo che abbiamo ancora verso l’estero nel settore delle fibre tessili. Non è solo il lato economico agrario, c’è anche il lato sociale la cui incidenza non potrebbe essere posta meglio in luce che dalla seguente cifra: 30.000 operai ai quali dà lavoro l’industria canapiera italiana“.

 

Tuttavia, il declino della reputazione della cannabis ebbe inizio pochi anni dopo, quando iniziò il processo storico alla base delle mistificazioni odierne. L’hashish, un derivato puramente ricreativo della cannabis, venne dichiarato dallo stesso Mussolini “nemico della razza” (e, in vero stile fascista, venne definita una droga da “ne**i”).

 

Il proibizionismo statunitense

 

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale l’utilizzo industriale della pianta sembrò ricominciare a crescere, sia in termini monetari che qualitativi. Ma la storia aveva in serbo ben altro.

 

Occorre infatti ricordare che il tracollo dell’industria della cannabis in Italia avvenne durante gli stessi anni del proibizionismo statunitense circa l’alcool e le droghe, che culminò nella messa al bando di cannabis e hashish. Il fenomeno può quindi essere visto come un riflesso sul nostro paese delle influenze globali e delle pressioni politiche dell’epoca.

 

Le politiche proibizioniste adottate dagli Stati Uniti esercitarono una notevole influenza sull’opinione pubblica internazionale e sull’adozione di politiche simili in altri Paesi, portando dapprima alla demonizzazione della cannabis e poi alla graduale scomparsa dall’industria dall’economia italiana, che ne definì un tracollo inarrestabile. Così in Italia il declino della canapa, una delle piante più utili per l’uomo, divenne una questione ideologica.

 

L’Italia oggi: una questione di THC

 

La situazione legale attuale della cannabis in Italia si dirama in due sottogruppi, in base alla dose di THC (o delta-9-tetraidrocannabinolo) contenuta nella pianta: una sostanza psicotropa prodotta dai fiori di cannabis e avente effetti stimolanti e analgesici.

 

La cannabis ad alto contenuto di THC, comunemente nota come marijuana, è illegale in Italia per uso ricreativo e viene considerata una sostanza stupefacente ai sensi della legge: in Italia sono puniti il possesso, la coltivazione, la vendita e il consumo di marijuana. La base legale per la proibizione della cannabis ad alto contenuto di THC è insita nella Legge 685/1975, cioè la Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, che classifica la cannabis come una sostanza stupefacente.

 

La situazione è diversa per la cannabis a basso contenuto di THC, come la varietà industriale di canapa: nel 2016, infatti, è stata approvata la Legge 242/2016, che ha permesso la produzione di canapa con un contenuto di THC inferiore allo 0,6%, purché venga utilizzata per la produzione di fibre tessili, materiali edili, alimenti e cosmetici.

 

Inoltre, la Legge 94/1998 in materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico e la successiva Ordinanza del 2006 sull’importazione di medicinali a base di THC hanno aperto la strada alla produzione e alla vendita di prodotti a base di cannabis per uso medico, creando le basi per l’utilizzo terapeutico della cannabis in Italia (sebbene la sua attuazione sia stata progressiva e soggetta a regolamentazioni specifiche).

 

Seppur la produzione canapicola sembri suddivisa in due prodotti ben distinti, la situazione è molto complessa, a causa della concezione che i diversi partiti politici hanno della stessa. Si pensi alle ultime dichiarazioni di Matteo Salvini: sebbene l’attuale codice della strada preveda già il ritiro della patente per chi guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, durante l’evento conclusivo della campagna elettorale del centrodestra in Sardegna, tenutosi il 21 febbraio 2024, il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti ha proposto di “ritirare la patente a chi viene trovato alla guida drogato”.

Risulta chiaro che la riforma, ancora in attesa dell’approvazione del Parlamento, mira unicamente a rendere più severa la norma già esistente.

 

AssoCanapa

 

Nel 2018 l’Associazione Coordinamento Nazionale per la Canapicoltura in Italia, meglio conosciuta come AssoCanapa, ha iniziato a contrastare le conseguenze che avevano (e hanno) le norme molto restrittive del nostro Paese a riguardo della cannabis.

 

Fondata circa venti anni fa, AssoCanapa ha più volte difeso soci e clienti accusati di spaccio di droga, a causa della somiglianza che le proprie piante di canapa industriale avevano con le varietà ad alto contenuto di THC. Un malinteso non da poco, considerando l’arresto di quei coltivatori che, come dimostrato in diversi casi, stavano semplicemente coltivando la canapa per usi industriali.

 

La Carmagnola

 

Uno dei pionieri di questo movimento è stato Felice Giraudo, un uomo di 83 anni, perito agrario ed ex sindaco di Carmagnola, una città situata a trenta chilometri da Torino.

 

Negli anni ’90, Giraudo e la sua ex assistente Margherita Baravalle decisero di riportare in produzione le varietà tradizionali e locali di canapa, come l’omonima Carmagnola, al fine di utilizzarle come isolante termico e acustico nelle case.

La Carmagnola è una storica varietà di cannabis italiana, avente una dose di THC inferiore allo 0,2%. Ciononostante, il percorso intrapreso per ricominciare a produrla è stato molto tormentato.

 

L’aspetto più interessante di questa storia rimane il potenziale economico: secondo le stime di Giraudo, isolando due terzi delle case italiane con la Carmagnola lo Stato avrebbe potuto risparmiare circa 45 miliardi di euro all’anno in costi di riscaldamento e raffreddamento. Possibile che non siano stati (e non vengano tuttora) presi in considerazione questi dati così importanti?

 

Una cosa è certa: la cannabis continuerà sempre a far parlare di sé, ad aprire menti e a offrire nuove prospettive. Sia che si tratti di una antica varietà come la Carmagnola che delle più moderne coltivate in laboratorio, la cannabis rimane una pianta dalle moltissime potenzialità.

 

Oggi, mentre assistiamo a una rinascita dell’interesse per le sue molteplici applicazioni, dalla produzione di biomassa alle potenzialità nel campo medico e industriale, questa pianta continua a rappresentare un simbolo di resilienza e adattabilità; la sua presenza persiste come un legame forte con la storia agricola e industriale dell’Italia.

 

Fonti:

Sindacato di Filatori e Tessitori di Canapa

Catalogo del Linificio e Canapificio Nazionale

Confederazione fascista dei lavoratori dell’agricoltura

Il discorso di Mussolini

  1. 22-12-1975 n. 685 Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza.

Legge 242/2016

Intervista al presidente di AssoCanapa Felice Giraudo

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Ambiente, società e tecnologia

The Africa Green Hydrogen Alliance: investire sull’energia pulita

Come alcuni stati del grande continente africano contribuiranno a salvare il mondo dal surriscaldamento climatico. Un bene per la comunità ma anche un possibile asset sul quale investire.

 

Chi è ‘AGHA’?

‘AGHA’, The Africa Green Hydrogen Alliance, è un consorzio di stati del continente africano. Nata a Glasgow in Scozia durante la COP26, ventiseiesima edizione della ‘Conference of the Parties’ (anche nota come United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC, ovvero la Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici), AGHA si prefigge lo scopo di sfruttare l’importante potenziale tecnico e di mercato della produzione di idrogeno verde e dei suoi derivati in favore di tutto il mondo.

Fanno parte di questa alleanza l’Egitto (col Ministero dell’Elettricità e delle Energie rinnovabili, MOERE), il Kenya (col Ministero dell’Energia), la Mauritania (Ministero del Petrolio, dell’Energia e delle Miniere), il Marocco (con IRESEN), il Namibia (Commissione dell’Idrogeno Verde), il Sudafrica (con ‘Industrial Development Corporation’).

Questi paesi sono tutti mossi dall’obiettivo di divenire una potenza energetica cardine nello sviluppo mondiale. Oltre alla finalità ben chiara vi sono anche un progetto ed una coordinazione tali da poter garantire una concreta stabilità dell’Alleanza. Va detto, però, che tra le consociate il Kenya è lo stato che avrebbe maggiore disponibilità di produrre idrogeno verde in quanto già avvezza a produrre il 90% della sua elettricità da idroelettrico, energia geotermica, solare ed eolica, nonché biomassa.

 

Cos’è l’idrogeno verde?

Ma cos’è l’idrogeno verde? Come lo si produce? Ci addentriamo in una spiegazione un po’ più tecnica, che semplificherò per la massima comprensione.

L’idrogeno, come fonte energetica così come la conosciamo, per sprigionare energia deve essere nella sua forma semplice: H2. Nell’universo l’idrogeno è l’elemento di gran lunga più disponibile, ma sulla terra lo troviamo principalmente legato ad altri elementi. Bisogna dunque separare l’idrogeno dal resto dei composti in cui si trova e per fare ciò è richiesto un grande dispendio di energia. Ci sono circa 40 metodi per creare H2, ma certamente il più efficiente è l’elettrolisi.

Se l’energia utilizzata per ricavare H2 deriva da fonti di energia rinnovabile si parla di “idrogeno verde”, diversamente si parla di “idrogeno grigio” nel caso si utilizzino combustibili fossili e di “idrogeno blu” ove le emissioni di combustibili fossili utilizzati per produrre idrogeno vengano catturate.

Verrebbe naturale domandarsi perché usare una fonte di energia primaria, quali ad esempio i combustibili fossili, per produrre altra energia primaria invece che produrre energia elettrica. La risposta è semplice: perché è più conveniente!

Ebbene, l’energia elettrica è una fonte di energia secondaria poiché per crearla serve l’ausilio di un’altra fonte. L’assenza di batterie di stoccaggio capaci di conservare ingenti quantità di energia elettrica fa sì che l’energia prodotta debba essere consumata in un lasso di tempo breve. L’idrogeno dal suo canto ha invece il valore aggiunto di poter essere facilmente stoccato nel sottosuolo, immesso nelle condutture del gas, trasportato anche liquido. Inoltre, l’idrogeno ha un’alta densità energetica: un chilogrammo sprigiona 120 megajoule di energia. Una potenza ben tre volte in più grande di quella sprigionata dalla benzina.

Nel mondo attualmente la più grande produzione di idrogeno verde avviene in un impianto realizzato in soli due anni, tra il 2018 e il 2020, a Fukushima, a 250 km da Tokyo. Denominato ‘Fukushima Hydrogen Energy Research Field’ (anche conosciuto come ‘FH2R’), lo stabilimento include 40 mila m2 di estensione per l’impianto e 180 mila m2 di pannelli fotovoltaici. Produce 1.200 m3/h di H2. Ovvero l’equivalente del fabbisogno di 150 abitazioni per un mese stando alle stime giapponesi.

 

Perché investire in Africa?

AGHA inizia il suo “pitch” (ndr. presentazione a fini di promozione di un nuovo progetto o di una nuova impresa) affermando che «C’è un crescente consenso internazionale che vede giocare all’idrogeno verde un probabile ruolo vitale nella transizione del mondo verso un futuro energetico sostenibile. Prodotto utilizzando energia generata da fonti rinnovabili […] potrebbe inoltre contribuire ad aumentare la sicurezza energetica attraverso la diversificazione delle fonti, riducendo nel contempo le emissioni di gas serra per aiutare il mondo a raggiungere lo zero netto» [TdA]. Con questo incipit AGHA vuole trasmettere un chiaro messaggio ambientalista, oltre che affermarsi come principale esportatore di una fonte di energia sulla quale garantisce in prima persona.

L’Alleanza stima una crescita della domanda mondiale di idrogeno di circa 7 volte il valore registrato nel 2020 di 89 Mt (ndr. Milioni di tonnellate) vedendo entrare nel mercato come possibili clienti, oltre alle industrie chimiche e di raffinazione che attualmente coprono la quasi totalità della richiesta di idrogeno, l’industria dei trasporti, quella del riscaldamento di edifici, l’industria del ferro e dell’acciaio, quella dell’energia, oltre che altre tipologie di industrie non considerate nello specifico.

Secondo le loro previsioni «la mobilità, che rappresenta circa il 19% delle emissioni globali oggi, dovrebbe essere il segmento di utilizzo finale dell’idrogeno più grande entro il 2050» in quanto «l’idrogeno può essere utilizzato […] specialmente nei settori difficili da decarbonizzare, come i mezzi di trasporto a lungo raggio e l’industria pesante».

Alla luce della nuova rotta politica intrapresa a livello globale riguardo alla riduzione delle emissioni di CO2, The Africa Green Hydrogen Alliance stima un taglio dei costi di produzione di idrogeno verde del 60% entro il 2030. Arrivando addirittura ad eguagliare già nel 2028, grazie all’introduzione di tariffe sull’anidride carbonica, il costo dell’idrogeno grigio. In questo modo l’idrogeno verde diverrebbe più competitivo rispetto ad altre alternative a basse emissioni di carbonio entro il 2030, in circa 20 applicazioni pratiche.

 

 

Il grande continente

C’è un elemento fondamentale che determina un mix di successo per AGHA: il continente africano! Morfologicamente parlando l’Africa presenta vaste aree di terra non abitata. Per non parlare della quantità di Sole da cui è ben irradiata. Perché questi fattori rappresentano un vantaggio? Per capirlo basta pensare alla quantità di suolo occupato per la centrale di Fukushima, citata poco fa. L’Africa ne dispone in quantità ben più elevate che potrebbero essere utilizzate senza sottrarre suolo agli abitanti.

Tirando le somme, AGHA e il continente africano hanno tutte le carte in regola per porsi al mondo come operatore chiave di un mercato che ancora non conosce molti player, ma che ben sappiamo esistere. Ciò l’ha dimostrato non solo ufficializzando la sua esistenza e la sua mission in una conferenza internazionale ma annunciandola parallelamente anche al lancio di ‘RepowerEu’ (ndr. Programma di accelerazione per la diffusione delle energie rinnovabili nell’Unione Europea). Ciò fa ben sperare per quanto riguarda la diversificazione del rifornimento energetico europeo e la disintossicazione dal petrolio e dal gas russo.

 

Fonti:

https://climatechampions.unfccc.int/africa-green-hydrogen-alliance/

https://gh2.org/sites/default/files/2022-11/Africa’s%27s%20Green%20Hydrogen%20Potential.pdf

https://www.italiaoggi.it/news/africa-idrogeno-verde-per-la-ue-2607204#:~:text=L’Africa%20green%20hydrogen%20alliance,di%20nuovi%20posti%20di%20lavoro

https://www.geopop.it/perche-l-idrogeno-e-il-combustibile-ideale-per-la-transizione-energetica/

https://www.geopop.it/a-fukushima-si-trova-il-piu-grande-impianto-per-la-produzione-di-idrogeno-verde-al-mondo/

https://www.afsiasolar.com/suez-could-become-africas-gateway-to-a-green-hydrogen-economy/

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Ambiente, società e tecnologia

Esplorando i bias cognitivi: scorciatoie mentali e decisioni irrazionali

Dallo sviluppo della coscienza, ovvero la consapevolezza che il soggetto ha di sé stesso e del mondo esterno, gli esseri umani sono in grado di riflettere, progettare, organizzare e prendere decisioni razionali per realizzare scenari futuri anche molto distanti dal presente. Questo è stato uno dei principali fattori che ha permesso agli esseri umani di diffondersi in tutto il globo e prevalere sulle altre specie. Tuttavia, il nostro cervello ha energie limitate e adotta scorciatoie per prendere decisioni. In gergo, si parla di euristiche e bias (Kahneman & Tversky, 1974) volti ad assicurare l’economia cognitiva, ovvero l’uso efficace delle risorse cognitive. 

Dunque, il processo decisionale umano, fondamentale per lo sviluppo economico e sociale, è influenzato da complessi meccanismi cognitivi. Dallo sviluppo della coscienza alla prevalenza di bias cognitivi, l’essere umano si trova costantemente ad affrontare sfide nell’interpretazione e nella valutazione degli eventi, con ripercussioni dirette sull’economia e sulla società. Questo studio si propone di esaminare il ruolo cruciale che i bias cognitivi giocano nel processo decisionale e le loro implicazioni per il mondo economico.

 

Il ruolo dei bias cognitivi nell’elaborazione delle decisioni

I bias cognitivi rappresentano distorsioni nelle valutazioni di fatti e eventi, che inducono le persone a creare una visione soggettiva della realtà. In sostanza, ciò significa che il nostro cervello tende a deformare la realtà costruendo mappe mentali, ovvero stereotipi, in cui si collocano questi bias. Queste distorsioni derivano da esperienze e concetti preesistenti, senza necessariamente avere legami logici validi tra di loro. Ogni giorno, molte delle nostre decisioni sono influenzate da questi bias e stereotipi. Le persone affrontano costantemente questioni, criticità, problemi e scelte, utilizzando un approccio “euristico”, un metodo logico che comprende diverse strategie, tecniche e processi creativi per trovare soluzioni. Infatti, un approccio logico-scientifico può essere impegnativo e insostenibile se applicato quotidianamente a tutte le decisioni, pertanto, il nostro cervello spesso opta per un approccio più rapido. I bias sono, in pratica, scorciatoie che il nostro cervello adotta per risparmiare energia. Queste scorciatoie sono per lo più corrette e ci consentono di interpretare la realtà in modo rapido ed efficiente. Tuttavia, in alcuni casi, possono condurci a errori di valutazione. Quando un processo euristico porta a imprecisioni o errori di valutazione, siamo di fronte a un bias cognitivo.

Analisi e classificazione dei bias cognitivi

Ad oggi, sono stati studiati più di 100 bias e classificati in:

  • i “representativeness biases” sono caratterizzati dalla deviazione dalle regole probabilistiche a favore di opzioni che sono percepite come più rappresentative o più facilmente accessibili;
  • i “wish biases ” sono caratterizzati dall’influenza dei desideri personali sulla presa di decisione;
  • i “cost biases” sono caratterizzati dalla distorsione del valore dei costi o delle perdite nella valutazione delle opzioni;
  • i “framing biases ” sono caratterizzati dall’influenza del contesto circostante sulla decisione;
  • gli “anchoring biases” sono caratterizzati dall’influenza di un valore iniziale di riferimento sulla decisione.

 

Si tratta di categorie di distorsioni cognitive che possono influenzare il processo decisionale in modi specifici, portando a scelte non sempre razionali o ottimali. Di seguito, elenchiamo i bias più comuni:

  • il bias di conferma induce ad accettare e ricordare più facilmente le informazioni che confermano convinzioni preesistenti, ignorando quelle contrastanti. Ad esempio, una persona convinta che le diete drastiche siano la chiave per la perdita di peso potrebbe cercare e dare più credito a studi o testimonianze che confermano questa convinzione, ignorando ricerche che suggeriscono approcci più moderati ed equilibrati;
  • il bias di disponibilità porta a dare maggiore importanza a informazioni immediatamente disponibili, spesso trascurando dati più rappresentativi. Ad esempio, dopo aver sentito una storia di un incidente d’aereo, qualcuno potrebbe evitare di volare percependo il volo come più pericoloso, anche se le statistiche dimostrano che è un mezzo di trasporto molto sicuro;
  • il bias dell’ancoraggio influisce sulle decisioni attraverso un valore iniziale di riferimento, noto come “ancora”. In un negoziato, la prima offerta fatta da una delle parti può influenzare significativamente l’esito. Se la prima offerta è molto alta, le controfferte successive saranno influenzate da questo “ancoraggio”;
  • il bias di attribuzione fondamentale spinge a spiegare il comportamento altrui con attributi personali, trascurando i fattori situazionali, e viceversa per il proprio comportamento. Se qualcuno commette un errore, potremmo tendere ad attribuirlo alla sua incompetenza (attribuzione personale), ignorando possibili fattori esterni, come la mancanza di risorse o la complessità della situazione;
  • il bias di gruppo genera preferenze o pregiudizi verso membri del proprio gruppo rispetto a quelli esterni, contribuendo a stereotipi e discriminazioni. In un contesto di lavoro, potrebbe verificarsi il bias di gruppo quando i membri di un team sopravvalutano le capacità dei propri colleghi, ignorando le competenze di individui provenienti da altri reparti;
  • il bias di conformità inclina a conformarsi alle opinioni della maggioranza, anche a discapito delle proprie convinzioni. In un gruppo in cui la maggioranza sostiene un’opinione, un individuo potrebbe conformarsi a quella visione anche se personalmente in disaccordo, per evitare conflitti o essere accettato dal gruppo;
  • il bias di sopravvalutazione dell’abilità porta a sovrastimare le proprie competenze, noto come “effetto illusione di superiorità”. Ad esempio, un conducente potrebbe sovrastimare le proprie capacità di guida, ritenendo di essere al di sopra della media, nonostante la realtà statistica che la maggior parte dei conducenti non può essere sopra la media in termini di abilità di guida;
  • il bias di retroguardia attribuisce più importanza alle informazioni recenti rispetto a quelle passate durante le decisioni. Per esempio, nel valutare le prestazioni di un dipendente, un supervisore potrebbe dare più peso agli ultimi risultati ottenuti durante un periodo di valutazione, ignorando successi o difficoltà passati;
  • il bias di prospettiva guida le valutazioni basate sulla propria prospettiva, spesso ignorando il punto di vista degli altri. In una discussione politica, una persona potrebbe valutare le proprie opinioni come più valide semplicemente perché rispecchiano la propria prospettiva, ignorando le legittime preoccupazioni degli altri;
  • il bias di selezione si manifesta nella raccolta o interpretazione selettiva delle informazioni per supportare opinioni o convinzioni. Una persona che sostiene una particolare teoria scientifica potrebbe selezionare e presentare solo gli studi che supportano tale teoria, ignorando ricerche contrastanti che potrebbero mettere in discussione le sue convinzioni.

 

In conclusione, l’economia, come la società nel suo complesso, è plasmata dalle decisioni prese dagli individui. Tuttavia, il riconoscimento dei bias cognitivi e la consapevolezza della loro influenza possono contribuire a migliorare la qualità delle decisioni, con impatti significativi sull’efficienza economica e sulla gestione delle risorse. In un contesto in cui la velocità e l’accuratezza delle decisioni sono cruciali, comprendere e gestire i bias cognitivi diventa un elemento essenziale per il successo economico e sociale. Ognuno di noi ha pregiudizi generati dalla propria esperienza di vita e dal proprio tessuto valoriale. In ciascuno di noi, perciò, esiste una zona cieca della nostra consapevolezza: gli studiosi la definiscono il “bias blind spot (E. Pronin, The Bias Blind Spot: perception of bias in self versus others). Esserne a conoscenza è importante per gestirla al meglio e prendere decisioni migliori.

 

Fonti:

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Economia e innovazione digitale: Come si evolvono insieme?

La rivoluzione digitale ha decisamente scosso le fondamenta dell’economia globale, introducendo dei veri e propri cambiamenti sismici e plasmando un panorama in cui l’innovazione tecnologica viene identificata come il motore trainante della crescita economica. Ma in che modo il legame, di per sé intricato, tra l’economia e l’innovazione digitale ha permesso la trasformazione tecnologica delle industrie tradizionali?

 

Il primo incontro

Innanzitutto, occorre prendere in considerazione le dinamiche di produzione, distribuzione e consumo; la ridefinizione di queste ultime è stato un passo fondamentale nella formazione di nuovi modelli di business e nello sviluppo di settori innovativi.

Basti pensare all’e-commerce, tramite la quale aziende come Amazon hanno ridefinito il commercio al dettaglio; o ancora, alla sharing economy, che ha rivoluzionato i settori del trasporto (Uber) e dell’alloggio (Airbnb).

 

Si sta parlando, ad ogni modo, di una trasformazione che, se rapportata al mero percorso di innovazione aziendale, ha permesso alle imprese di diventare più moderne e competitive: il fenomeno dell’industria 4.0, in particolare, ha introdotto, oltre alla connettività tra macchinari, l’analisi dei dati, migliorando l’efficienza e rivoluzionando in maniera impattante il settore.

 

IoT o Internet of Things (trad. “Internet delle cose”) è la terminologia tramite la quale viene indicato questo fenomeno: una vera e propria rete di oggetti e dispositivi tecnologici che permette ad essi sia di trasmettere che di ricevere, da parte di altri sistemi, i dati. Questo primo incontro tra economia e innovazione digitale è stato, forse, il più incisivo: riuscire ad evolversi, esplorando le possibilità date dall’intelligenza artificiale, ha consentito di analizzare i dati aziendali in maniera più semplice e immediata (seppur con una cospicua percentuale di rischio), permettendo alle imprese una crescita più sicura e controllata.

 

Cluster Analysis: svelare le connessioni invisibili tra i dati

La prima innovazione dell’IoT in ambito statistico è nata in seno a una particolare tecnica, denominata cluster analysis (trad. “analisi di clustering”) e utilizzata per raggruppare all’interno di gruppi omogenei gli elementi simili tra loro presenti in qualsivoglia insieme più ampio. Un cluster rappresenta, infatti, un gruppo.

 

Questo primo metodo di analisi dei dati aiuta, senza ombra di dubbio, a organizzare grandi dataset in gruppi di dati più contenuti, uguali tra loro e, conseguentemente, più semplici da analizzare. È interessante notare come anche i sistemi più conosciuti utilizzino da tempo questa tecnica: questo fenomeno riguarda, ad esempio, il funzionamento del motore di ricerca immagini di Google.

 

Tuttavia, anche le aziende utilizzano da tempo la cluster analysis: al fine di adattare le proprie strategie di marketing alle esigenze specifiche di qualsiasi persona, è essenziale suddividere il mercato in segmenti omogenei di clienti, aventi caratteristiche e comportamenti simili tra loro. Si tratta del motivo per il quale le raccomandazioni di prodotti sponsorizzati online, come le pubblicità mirate sui social, differiscono per ogni singola persona.

 

Sentiment Analysis: navigando tra le emozioni digitali

Per antonomasia, tuttavia, quando si parla di analisi dei dati si fa automaticamente riferimento alla cosiddetta sentiment analysis (trad. “analisi del sentiment”), una branca dell’Intelligenza Artificiale che mira a comprendere i testi valutando le opinioni, le emozioni e il tono delle espressioni umane, determinandone un sentiment positivo, negativo o neutro.

Principalmente utilizzata per il monitoraggio della reputazione online, questa seconda tipologia di analisi dei dati consente alle aziende di esaminare le opinioni dei propri clienti sui social media, sulle recensioni e nei forum, facilitando la comprensione del feedback e, nel caso di sentiment negativi, l’adozione di misure correttive. Ma si tratta di un elemento fondamentale anche nel contesto del servizio clienti: è la sentiment analysis che permette di valutare il tono delle conversazioni, consentendo alle aziende di identificare rapidamente i sentiment negativi e di risolvere prontamente gli eventuali problemi.

 

La sentiment analysis viene utilizzata dalle imprese anche e soprattutto per valutare la soddisfazione dei dipendenti: ad oggi risulta difficile, per la salvaguardia di sé stessi e della propria salute mentale, immaginare un contesto lavorativo in cui non si presti attenzione a un clima aziendale ottimale, che consente, poi, un ottimo tasso di produttività. Non a caso, si tratta di un prezioso strumento nella prevenzione delle crisi: rilevando gli eventuali segnali di insoddisfazione è possibile gestire prontamente situazioni più o meno critiche e contribuire a mantenere una reputazione positiva nel mercato attuale, che è molto competitivo.

 

La trasformazione digitale nell’industria manifatturiera

Ad ogni modo, l’adozione dell’IoT, dell’intelligenza artificiale e dell’automazione intelligente sta definitivamente ridefinendo i processi di produzione.

Mentre i sensori IoT integrati consentono la raccolta in tempo reale di dati cruciali, ottimizzando la manutenzione preventiva dei macchinari, prevenendone gli eventuali guasti, migliorando la gestione delle risorse e ottimizzando la produzione, l’automazione intelligente (inclusa la robotica avanzata) permette di aumentare sia la produttività che la flessibilità nelle linee di produzione.

 

Innovazione tecnologica nelle fabbriche: il caso Stellantis

Stellantis, leader nell’industria automobilistica, ha abbracciato l’innovazione tecnologica all’interno delle sue fabbriche tramite l’implementazione dell’industria 4.0. Tramite l’utilizzo del concetto di fabbriche intelligenti, questa azienda ha integrato l’IoT in quella che è la connessione tra le macchine e i sistemi e ha così ottimizzato i processi produttivi, riducendo i tempi di ciclo e aumentando la precisione. La raccolta di dati in tempo reale consente anche una manutenzione predittiva, riducendo i tempi di fermo delle macchine.

 

Risulta chiaro che l’implementazione di queste tecnologie all’interno delle aziende, oltre a ridurre i costi e gli sprechi, crea anche un ecosistema manifatturiero più agile e reattivo alle sfide del mercato: la sinergia tra l’uomo e la macchina diventa sempre più evidente, in un’ottica che delega all’innovazione tecnologica il futuro dell’industria manifatturiera.

 

 

Fonti

 

Cos’è l’IoT e come funziona?

Amazon e il commercio al dettaglio

Il caso Uber: la sharing economy

Airbnb, la regina della sharing economy

Cluster Analysis

Sentiment Analysis

Industria 4.0: Stellantis spinge sulla Cognitive Diagnostics

 

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Il secondo polmone verde del mondo

Il Green Deal europeo punta ad un continente a impatto zero

Nell’ambito del piano ‘NextGenerationEU’ la Commissione europea punta ad un futuro più verde. Come annunciato dalla Presidente Ursula von der Leyen nella presentazione della tabella di marcia ‘Green Deal europeo’, l’Unione Europea punta a diventare un continente a emissioni zero entro il 2050.

Il ‘Green Deal europeo’

Il Green Deal europeo è una tabella di marcia che rientra nel più ampio piano ‘NextGenerationEU’ con il quale l’Unione Europea punta a migliorare le vite dei propri cittadini investendo e sviluppando nuove tecnologie per rendere il futuro più verde, sano, digitale ed egualitario. L’Unione Europea si impegna, fissando come data limite il 2050, a non produrre più emissioni di CO2 di quanto il suo ecosistema non riesca ad assorbire, compensando pienamente l’impronta ecologica dell’uomo.

Il pacchetto ‘Pronti per il 55%’

Con l’adozione integrale del pacchetto ‘Pronti per il 55%’, presentato a luglio 2021, “l’UE potrà raggiungere i suoi obiettivi climatici entro il 2030 in modo equo, competitivo ed efficiente in termini di costi”. Con questo pacchetto contenente misure in merito alla energia, al clima, ai trasporti e alla fiscalità l’Unione Europea mira a ridurre del 55% le emissioni del gas serra entro il 2030 rispetto alle emissioni del 1990. Strizzando l’occhio alle Nazioni Unite in vista della COP28 sul clima e delle elezioni europee del 2024.

La nuova iniziativa: 3 milioni di alberi

Ma l’UE torna alla ribalta sul tema con un piano ambientale che coinvolgerà anche i cittadini. 3 milioni di alberi da piantare entro il 2030 è il target che si è prefissata. Ogni cittadino potrà contribuire piantando un albero o donando ad associazioni che lo facciano per lui. L’albero aggiuntivo, che dovrà portare benefici alla biodiversità e al clima, non dovrà essere parte delle piantagioni abituali e non dovrà costituire una problematica per le condizioni climatiche, del suolo e delle acque.

Per poter registrare l’albero, l’Agenzia europea dell’ambiente, ha sviluppato un’applicazione “Map My Tree” che permetterà in aggiunta di visionare l’andamento delle segnalazione per raggiungere l’obiettivo. Potranno essere registrati gli alberi che rispettino i requisiti imposti dal piano, piantati dal 20 maggio 2020 in poi. Data dell’adozione della strategia da parte dell’UE.

“Chiunque può piantare un albero. Per raggiungere questo ambizioso traguardo, abbiamo bisogno di cittadini europei motivati a piantare alberi e a farli crescere.”

 

Fonti:

commission.europa.eu

learning-corner.learning.europa.eu

environment.ec.europa.eu

next-generation-eu.europa.eu

ec.europa.eu

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Agricoltura nel nuovo millennio: evoluzione dell’agricoltura in risposta ai cambiamenti economici, tendenze di mercato e innovazioni tecnologiche

L’agricoltura nel nuovo millennio ha subito un profondo processo di trasformazione, determinato da una complessa intersezione di fattori economici, richieste del mercato e innovazioni tecnologiche. Questa convergenza di influenze ha modellato un nuovo panorama agricolo caratterizzato da una crescente consapevolezza verso la sostenibilità e la necessità di migliorare l’efficienza operativa.

Uno degli sviluppi più significativi è rappresentato dall’adozione diffusa di tecnologie avanzate, come l’Internet of Things (IoT), l’intelligenza artificiale e la robotica agricola. Queste innovazioni hanno permesso ai coltivatori di monitorare in tempo reale le condizioni dei campi, ottimizzare l’irrigazione, e gestire le colture in modo più preciso ed efficiente. Inoltre, l’uso di droni e sensori ha contribuito a una raccolta di dati più accurata e dettagliata, consentendo una migliore pianificazione delle attività agricole.

Un altro aspetto fondamentale è la sostenibilità che è diventata una priorità fondamentale nel contesto agricolo contemporaneo. I coltivatori stanno adottando pratiche agricole sostenibili, riducendo l’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici, e adottando metodi di coltivazione che preservano la salute del suolo. Inoltre, cresce l’interesse per la produzione agricola biologica e per la riduzione delle emissioni di gas serra legate all’agricoltura. Le dinamiche del mercato globale stanno influenzando le scelte degli agricoltori: la crescente domanda di prodotti alimentari di alta qualità e la consapevolezza dei consumatori riguardo all’origine e alla produzione sostenibile stanno guidando le decisioni degli agricoltori nella selezione delle colture e nelle pratiche di produzione.

Impulso verso la sostenibilità

La congiunzione tra sostenibilità e agricoltura biologica è diventata una tematica cruciale, alimentata dalla crescente consapevolezza dei consumatori nei confronti dell’impatto ambientale e della salute associati alla produzione alimentare. L’esigenza di prodotti alimentari sostenibili e biologici ha dato impulso a una serie di cambiamenti nel settore agricolo, con gli agricoltori che stanno abbracciando pratiche più ecologiche per soddisfare questa domanda emergente.

L’impulso verso la sostenibilità ha portato a una significativa riduzione dell’uso di pesticidi e fertilizzanti sintetici nell’agricoltura biologica. Gli agricoltori stanno optando per soluzioni alternative, come il compostaggio, l’utilizzo di concimi organici e il controllo biologico delle infestazioni, al fine di mantenere la salute delle colture senza ricorrere a sostanze chimiche nocive. Questa transizione verso pratiche agricole più ecocompatibili contribuisce non solo a preservare l’ecosistema, ma anche a mitigare gli impatti negativi sulla biodiversità.

 

Un elemento chiave in questo contesto è rappresentato dalla certificazione biologica, che è diventata un prezioso vantaggio competitivo per molti agricoltori. Ottenere la certificazione biologica implica conformarsi a rigorosi standard di produzione che garantiscono il rispetto di pratiche sostenibili e il ricorso limitato o nullo a sostanze chimiche. Questo marchio di approvazione non solo conferisce fiducia ai consumatori che cercano prodotti alimentari salubri e rispettosi dell’ambiente, ma può anche aprirsi a nuovi mercati e opportunità commerciali, sottolineando l’engagement dell’agricoltore verso la responsabilità ambientale. Oltre a ciò, l’agricoltura biologica promuove la salute del suolo e la conservazione delle risorse idriche, contribuendo a preservare l’integrità degli ecosistemi agricoli.


Una rivoluzione di precisione

L’adozione dell’agricoltura di precisione ha rappresentato una vera rivoluzione nell’approccio alla gestione agricola, integrando avanzate tecnologie per ottimizzare ogni aspetto delle operazioni colturali. L’utilizzo di sensori altamente sofisticati, droni all’avanguardia e sistemi GPS ha permesso agli agricoltori di raggiungere nuovi livelli di precisione nella gestione delle colture, trasformando radicalmente il modo in cui vengono pianificate e eseguite le attività agricole. La presenza diffusa di sensori nei campi agricoli consente una raccolta di dati dettagliata e in tempo reale sulle condizioni del suolo, della coltura e dell’ambiente circostante.

Questi dati forniscono una base informativa robusta per prendere decisioni mirate, consentendo agli agricoltori di rispondere prontamente alle variazioni nelle condizioni climatiche e di terreno. I droni, in particolare, ampliano la portata di questa raccolta dati, permettendo una copertura aerea estesa e la rilevazione di anomalie non visibili da terra. Grazie a queste informazioni dettagliate, gli agricoltori possono ottimizzare l’uso delle risorse in maniera mirata ed efficiente. L’irrigazione, ad esempio, può essere regolata in base alle effettive necessità delle colture, riducendo sprechi d’acqua e contribuendo alla sostenibilità idrica. Similmente, la dosatura dei fertilizzanti e l’applicazione di pesticidi possono essere calibrate con precisione, limitando gli impatti ambientali e riducendo l’esposizione delle colture a sostanze chimiche in eccesso.

Questo approccio tecnologico non solo migliora l’efficienza operativa degli agricoltori, ma ha anche un impatto positivo sulla redditività complessiva delle operazioni agricole. L’ottimizzazione delle risorse, la riduzione degli sprechi e la maggiore resilienza alle sfide ambientali posizionano l’agricoltura di precisione al centro di una nuova era agricola, in cui la tecnologia svolge un ruolo chiave nel plasmare un settore agricolo più sostenibile, intelligente ed efficiente.


Manipolazione genetica responsabile

 

L’avanzamento delle innovazioni genetiche e della biotecnologia nel contesto agricolo ha rivoluzionato la capacità umana di potenziare le caratteristiche delle colture per rispondere alle sfide ambientali e alle esigenze alimentari crescenti, in particolare la modifica genetica delle colture sta emergendo come un potente strumento per affrontare le minacce alle produzioni agricole, migliorando la resistenza delle piante alle malattie e agli agenti atmosferici.

Attraverso la manipolazione genetica, gli scienziati possono introdurre specifiche sequenze di DNA nelle colture, conferendo loro caratteristiche desiderate. La creazione di varietà di colture resistenti alle malattie è diventata una priorità, poiché contribuisce a ridurre la dipendenza dagli agenti chimici per il controllo delle malattie e limita la perdita di colture dovuta a patogeni. Un risultato chiave di queste innovazioni è l’aumento della produttività agricola. Coltivare varietà di colture geneticamente modificate può portare a rese più elevate, migliorando la sicurezza alimentare e contribuendo a soddisfare la crescente domanda globale di cibo.

Tuttavia, è importante considerare anche le implicazioni etiche e ambientali associate a queste innovazioni. La gestione responsabile della biotecnologia è essenziale per garantire che gli impatti sulla biodiversità, la sicurezza alimentare e la salute umana siano adeguatamente valutati e mitigati. L’equilibrio tra i benefici delle innovazioni genetiche e le preoccupazioni etiche e ambientali è un aspetto cruciale da considerare nel contesto dell’adozione di queste tecnologie.

Flessibilità e adattamento del settore

Nell’adattamento alle mutevoli dinamiche economiche, gli agricoltori si trovano a fronteggiare una complessa interazione di fattori globali, quali i cambiamenti nei modelli di consumo, le pressioni economiche e le sfide legate al commercio internazionale. La flessibilità e la capacità di adattamento diventano essenziali per navigare in questo scenario dinamico. La diversificazione delle colture, la ricerca di nuovi mercati e la partecipazione a filiere sostenibili sono strategie che gli agricoltori stanno abbracciando per affrontare le incertezze economiche.

In conclusione, la crescente domanda da parte dei consumatori per prodotti alimentari sostenibili ha spinto gli agricoltori verso un cambiamento significativo, abbracciando l’agricoltura biologica come un modo per rispondere a queste aspettative. Questo connubio tra sostenibilità e pratiche agricole ecologiche non solo promuove la salute ambientale, ma si traduce anche in un vantaggio distintivo nell’ambito del mercato alimentare, offrendo una via prospera per il settore agricolo e un futuro più sostenibile per la produzione alimentare globale.

L’agricoltura nel nuovo millennio si configura come un terreno fertile per l’innovazione, la sostenibilità e l’adattamento strategico. Gli agricoltori, in sinergia con le più recenti tecnologie e una prospettiva orientata al futuro, stanno plasmando un settore agricolo più resiliente, efficiente e attento all’equilibrio tra la produzione alimentare e la tutela dell’ambiente.

 

Fonti

agriregionieuropa

wiforagri

blog.osservatori.

abacogroup

 

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Alla ricerca di equilibrio: è possibile riconsiderare le 8 ore di lavoro standard in Italia?

Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) è identificato dal diritto italiano come la principale fonte normativa in cui i sindacati dei lavoratori e le associazioni dei datori di lavoro concordano le regole che regolamentano il rapporto di lavoro. Si tratta di contratti volti a trattare sia gli aspetti normativi che quelli economici, senza ignorare le disposizioni adatte a regolare le relazioni sindacali.

Le finalità fondamentali di questo contratto, ad ogni modo, riguardano la definizione delle regole per i rapporti di lavoro in specifici settori (che si tratti, ad esempio, dei trasporti o del pubblico impiego) e la disciplina delle relazioni tra le parti firmatarie dell’accordo.

 

Da Owen a Ford: la rivoluzione delle 8 ore

 

L’instaurarsi della giornata lavorativa di 8 ore fu il risultato, nei primi anni del XX secolo, di numerose lotte sindacali, originariamente proposte su un modello di 48 ore settimanali distribuite su 6 giorni.

Nei primi anni della rivoluzione industriale, gli operai potevano arrivare a lavorare fino a 100 ore a settimana. Robert Owen, un influente sindacalista gallese del XIX secolo, introdusse allora il concetto della riduzione delle ore di lavoro giornaliere, con l’obiettivo di dividere la giornata in tre parti uguali: lavoro, svago e riposo.

Fu solo nel gennaio 1914 che questo standard originario venne modificato. Si trattò del momento in cui Henry Ford adattò questa formula a degli studi sperimentali sulla produttività: riducendo le ore lavorate a 40 a settimana su 5 giorni, Ford notò un aumento significativo della produttività, dimostrando che meno ore potevano portare a risultati migliori. Ford ridusse la giornata lavorativa dei suoi dipendenti da 9 a 8 ore, incrementando il salario giornaliero da 3 a 5 dollari.

Cinque dollari per una giornata lavorativa di otto ore è stata una delle più efficaci strategie di riduzione dei costi che abbiamo mai messo in atto”: così Ford giustificò la propria mossa imprenditoriale, dichiarando che l’investimento in salari più elevati avrebbe creato una base solida per lo sviluppo aziendale.

La decisione di pagare salari più alti si rivelò un successo: numerosi storici e analisti, tra i quali Gregory Mankiw, dimostrarono che questa mossa contribuì a consolidare la disciplina, la lealtà e l’efficienza dei lavoratori.

Tuttavia, è evidente che la decisione di introdurre una settimana lavorativa non è nata in virtù di ragioni come la giustizia o il benessere, ma come risposta alla necessità di massimizzare la produttività; l’iniziale benessere dei lavoratori, in quel contesto storico, è emerso come un mero effetto collaterale.

 

L’Italia oggi

 

Ancora oggi, la connessione tra retribuzione e produttività rimane un elemento cruciale per stimolare la competitività dell’Italia. Nel contesto del dibattito sulla riforma del mercato del lavoro è emersa, nel 2011, la proposta di favorire la contrattazione aziendale come strumento chiave per stringere questa connessione, contribuendo così al rilancio della competitività nazionale.

Dal 2013 il contratto collettivo aziendale (CCIA) rappresenta un accordo stipulato dal datore di lavoro e dai rappresentanti dei lavoratori, avente spesso l’obiettivo di modificare le disposizioni del CCNL in base alle proprie esigenze.

Le disposizioni di tali contratti non possono prevedere, di norma, delle condizioni meno favorevoli rispetto a quelle stabilite dalla Legge. Il rapporto tra contratti aziendali e quelli di livello superiore è stato delineato dagli Accordi interconfederali, stabilendo che il contratto di categoria rimane centrale, mentre quello aziendale deve limitarsi a disciplinare argomenti già individuati dal CCNL e a garantire aumenti retributivi legati a miglioramenti di produttività e organizzazione del lavoro.

La produttività e la retribuzione rimangono degli elementi imprescindibili. Ma la domanda rimane sempre la stessa: e il benessere dei lavoratori?

 

Pandemia e nuove esigenze: la nascita dello smart working

 

Il recente fenomeno dello smart working, che rappresenta la possibilità, in determinati settori, di lavorare da casa, ha registrato un aumento della produttività del 15-20%. Ha sollevato, tuttavia, molti interrogativi riguardanti la sostenibilità e l’impatto sul benessere dei lavoratori.

La questione principale, oggetto di numerosi dibattiti successivi al lockdown nazionale provocato dal fenomeno della pandemia, era una: sarebbe stato giusto sfruttare questo “plusvalore” in maniera capitalistica o sarebbe stato opportuno tradurlo, invece, in benefici per i dipendenti, riscontrabili in un’ulteriore riduzione dell’orario lavorativo?

In poco tempo, questo dibattito ha assunto una rilevanza significativa. Uno studio, pubblicato il 12 giugno 2021 sull’European Journal of Investigation in Health, Psychology and Education, offre una visione approfondita su tre aspetti principali: la dedizione al lavoro, il fenomeno del cosiddetto technostress e la mediazione del rapporto tra smart working e benessere.

 

Smart working e dedizione al lavoro

 

L’indagine rivela che durante la pandemia il coinvolgimento attivo dei responsabili delle risorse umane ha influenzato positivamente l’impegno dei lavoratori.

La partecipazione attiva ai cambiamenti organizzativi ha fatto sì che questi ultimi venissero percepiti come il risultato del proprio impegno e non più degli ordini imposti dall’alto: questo fenomeno è emerso come un vero e proprio antidoto alla demotivazione. La ricerca ha evidenziato, inoltre, che una cultura organizzativa positiva potrebbe proteggere da sintomi come lo stress, l’ansia e la depressione. Il desiderio, nel 2021 e in base a tali presupposti, era quello di trasformare una situazione di emergenza in un’opportunità di crescita.

 

Smart working e technostress

 

Technostress è una terminologia che comprende, in maniera simultanea, una varietà di problematiche significative: il sovraccarico tecnologico, la complessità, l’insicurezza lavorativa e l’incertezza. I livelli più elevati  di technostress sono osservabili tra coloro che sono costretti a fare un uso intensivo di dispositivi digitali e di applicazioni di messaggistica istantanea, oltre che tra gli addetti alla gestione delle attività lavorative durante le pause. L’indagine, in questo contesto, sottolinea il ruolo critico della gestione equilibrata tra vita professionale e vita privata, in un’ottica volta a salvaguardare la salute mentale dei lavoratori.

 

I mediatori del rapporto tra smart working e benessere

 

L’autonomia nella scelta di pratiche di lavoro a distanza, le competenze personali e organizzative e la fiducia da parte dell’azienda sono caratteristiche identificate come i mediatori chiave tra smart working e benessere. Tuttavia, anche in questo caso la problematica principale risiede nella gestione dei confini tra tempo personale e orario di lavoro: la necessità è quella di promuovere una comunicazione efficace, delle crescenti relazioni al di fuori dell’orario di lavoro e un vero e proprio supporto psicologico per i dipendenti.

Ne conviene che l’iperconnettività abbia portato anche lo smart working, nei settori in cui questo fenomeno è presente e possibile, verso numerosi ed evidenti effetti negativi: un esempio sono le comunicazioni prolungate fino a tarda notte nel contesto lavorativo.

Questo fenomeno è stato descritto da alcuni come un nuovo presenzialismo, caratterizzato dall’incessante motto “always on“, che può minare la qualità della vita e il benessere dei lavoratori. La riflessione critica si concentra sull’importanza di bilanciare l’efficienza lavorativa con il rispetto per il tempo personale e la salute mentale. Perché non esplorare, quindi, la possibilità di ridurre l’orario di lavoro in maniera da mantenere attive l’efficacia e la produttività?

Secondo le statistiche Istat, in Italia la settimana lavorativa moderna corrisponde, laddove regolamentata, a 33 ore; questo dato supera di 3 ore la media europea, di 4 ore quella francese e di 7 ore quella tedesca. Nonostante ciò, la produttività italiana si posiziona come la penultima in Europa, con un rendimento superiore solo alla Grecia.

Uno studio, condotto da Domenico De Masi e commissionato da Mercedes Italia, riflette a pieno questa dinamica: i dirigenti tedeschi dell’azienda automobilistica, sebbene abbiano un carico di obiettivi superiore del 30% rispetto ai loro omologhi italiani, riescono a lavorare il 30% in meno, ottenendo, al contempo, il 30% di obiettivi in più.

Dal 2014, la Ducati, grazie a un referendum vinto con il 75% dei voti e in collaborazione con i sindacati, ha implementato un piano che impegna i dipendenti per circa 30 ore settimanali (compresi gli eventuali turni nei weekend) e con una quasi totale saturazione degli impianti. Secondo Mario Morgese, il responsabile delle risorse umane dell’azienda, questa iniziativa ha portato a un aumento del 40% nella produttività e a una riduzione dell’assenteismo.

Nel 2019, Microsoft ha effettuato, in Giappone, una prova della settimana lavorativa di 4 giorni. Durante questo periodo, ha concesso ai suoi 2300 dipendenti ben 5 venerdì liberi ad agosto, senza però ridurre gli stipendi. I risultati sono stati sorprendenti: non solo il 92% degli impiegati si è dichiarato più soddisfatto, ma la produttività è aumentata del 40%. Inoltre, è stato registrato un calo del 25% nelle pause, una diminuzione del 23% nell’uso dell’elettricità e una riduzione del 59% nel consumo di carta/stampe.

 

Nuova Zelanda: un passo verso il futuro dei lavoratori?

 

L’esempio più importante e significativo ha avuto sede in Nuova Zelanda, dove il movimento ‘Four Day Week’ ha condotto uno studio sperimentale sulla tattica utilizzata da Microsoft nel 2019.

I risultati hanno mostrato un aumento della produttività, una diminuzione dello stress, un miglioramento dell’equilibrio tra vita e lavoro, un maggiore coinvolgimento e benessere dei lavoratori, un aumento della fiducia e una diminuzione dell’assenteismo, in un’ottica in cui gli stessi manager continuano a sottolineare la priorità del mantenimento della produttività e del raggiungimento degli obiettivi.

 

Verso una rivoluzione lavorativa: sperimentare la riduzione dell’orario per un futuro migliore

Sperimentare queste soluzioni su larga scala, mediante un approccio temporaneo che coinvolga sia il settore profit che il settore non profit, potrebbe rappresentare una strategia ottimale per il benessere dei dipendenti. Davvero non siamo pronti a intraprendere questo cammino?

Fonti

 

Wikilabour – Il CCNL

Indagine: quale relazione esiste tra smart working e benessere del lavoratore?

Wikilabour – il CCIA

Smart working e produttività

Microsoft – Work Life Choice Challenge Summer 2019

The four-day week guidelines for an outcome-based trial – Raising productivity and engagement

Agende piene di impegni: fenomeno dell’always on

Domenico De Masi e la riduzione dell’orario di lavoro

Nuova Zelanda e la settimana lavorativa di 4 giorni