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Ambiente, società e tecnologia

The Africa Green Hydrogen Alliance: investire sull’energia pulita

Come alcuni stati del grande continente africano contribuiranno a salvare il mondo dal surriscaldamento climatico. Un bene per la comunità ma anche un possibile asset sul quale investire.

 

Chi è ‘AGHA’?

‘AGHA’, The Africa Green Hydrogen Alliance, è un consorzio di stati del continente africano. Nata a Glasgow in Scozia durante la COP26, ventiseiesima edizione della ‘Conference of the Parties’ (anche nota come United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC, ovvero la Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici), AGHA si prefigge lo scopo di sfruttare l’importante potenziale tecnico e di mercato della produzione di idrogeno verde e dei suoi derivati in favore di tutto il mondo.

Fanno parte di questa alleanza l’Egitto (col Ministero dell’Elettricità e delle Energie rinnovabili, MOERE), il Kenya (col Ministero dell’Energia), la Mauritania (Ministero del Petrolio, dell’Energia e delle Miniere), il Marocco (con IRESEN), il Namibia (Commissione dell’Idrogeno Verde), il Sudafrica (con ‘Industrial Development Corporation’).

Questi paesi sono tutti mossi dall’obiettivo di divenire una potenza energetica cardine nello sviluppo mondiale. Oltre alla finalità ben chiara vi sono anche un progetto ed una coordinazione tali da poter garantire una concreta stabilità dell’Alleanza. Va detto, però, che tra le consociate il Kenya è lo stato che avrebbe maggiore disponibilità di produrre idrogeno verde in quanto già avvezza a produrre il 90% della sua elettricità da idroelettrico, energia geotermica, solare ed eolica, nonché biomassa.

 

Cos’è l’idrogeno verde?

Ma cos’è l’idrogeno verde? Come lo si produce? Ci addentriamo in una spiegazione un po’ più tecnica, che semplificherò per la massima comprensione.

L’idrogeno, come fonte energetica così come la conosciamo, per sprigionare energia deve essere nella sua forma semplice: H2. Nell’universo l’idrogeno è l’elemento di gran lunga più disponibile, ma sulla terra lo troviamo principalmente legato ad altri elementi. Bisogna dunque separare l’idrogeno dal resto dei composti in cui si trova e per fare ciò è richiesto un grande dispendio di energia. Ci sono circa 40 metodi per creare H2, ma certamente il più efficiente è l’elettrolisi.

Se l’energia utilizzata per ricavare H2 deriva da fonti di energia rinnovabile si parla di “idrogeno verde”, diversamente si parla di “idrogeno grigio” nel caso si utilizzino combustibili fossili e di “idrogeno blu” ove le emissioni di combustibili fossili utilizzati per produrre idrogeno vengano catturate.

Verrebbe naturale domandarsi perché usare una fonte di energia primaria, quali ad esempio i combustibili fossili, per produrre altra energia primaria invece che produrre energia elettrica. La risposta è semplice: perché è più conveniente!

Ebbene, l’energia elettrica è una fonte di energia secondaria poiché per crearla serve l’ausilio di un’altra fonte. L’assenza di batterie di stoccaggio capaci di conservare ingenti quantità di energia elettrica fa sì che l’energia prodotta debba essere consumata in un lasso di tempo breve. L’idrogeno dal suo canto ha invece il valore aggiunto di poter essere facilmente stoccato nel sottosuolo, immesso nelle condutture del gas, trasportato anche liquido. Inoltre, l’idrogeno ha un’alta densità energetica: un chilogrammo sprigiona 120 megajoule di energia. Una potenza ben tre volte in più grande di quella sprigionata dalla benzina.

Nel mondo attualmente la più grande produzione di idrogeno verde avviene in un impianto realizzato in soli due anni, tra il 2018 e il 2020, a Fukushima, a 250 km da Tokyo. Denominato ‘Fukushima Hydrogen Energy Research Field’ (anche conosciuto come ‘FH2R’), lo stabilimento include 40 mila m2 di estensione per l’impianto e 180 mila m2 di pannelli fotovoltaici. Produce 1.200 m3/h di H2. Ovvero l’equivalente del fabbisogno di 150 abitazioni per un mese stando alle stime giapponesi.

 

Perché investire in Africa?

AGHA inizia il suo “pitch” (ndr. presentazione a fini di promozione di un nuovo progetto o di una nuova impresa) affermando che «C’è un crescente consenso internazionale che vede giocare all’idrogeno verde un probabile ruolo vitale nella transizione del mondo verso un futuro energetico sostenibile. Prodotto utilizzando energia generata da fonti rinnovabili […] potrebbe inoltre contribuire ad aumentare la sicurezza energetica attraverso la diversificazione delle fonti, riducendo nel contempo le emissioni di gas serra per aiutare il mondo a raggiungere lo zero netto» [TdA]. Con questo incipit AGHA vuole trasmettere un chiaro messaggio ambientalista, oltre che affermarsi come principale esportatore di una fonte di energia sulla quale garantisce in prima persona.

L’Alleanza stima una crescita della domanda mondiale di idrogeno di circa 7 volte il valore registrato nel 2020 di 89 Mt (ndr. Milioni di tonnellate) vedendo entrare nel mercato come possibili clienti, oltre alle industrie chimiche e di raffinazione che attualmente coprono la quasi totalità della richiesta di idrogeno, l’industria dei trasporti, quella del riscaldamento di edifici, l’industria del ferro e dell’acciaio, quella dell’energia, oltre che altre tipologie di industrie non considerate nello specifico.

Secondo le loro previsioni «la mobilità, che rappresenta circa il 19% delle emissioni globali oggi, dovrebbe essere il segmento di utilizzo finale dell’idrogeno più grande entro il 2050» in quanto «l’idrogeno può essere utilizzato […] specialmente nei settori difficili da decarbonizzare, come i mezzi di trasporto a lungo raggio e l’industria pesante».

Alla luce della nuova rotta politica intrapresa a livello globale riguardo alla riduzione delle emissioni di CO2, The Africa Green Hydrogen Alliance stima un taglio dei costi di produzione di idrogeno verde del 60% entro il 2030. Arrivando addirittura ad eguagliare già nel 2028, grazie all’introduzione di tariffe sull’anidride carbonica, il costo dell’idrogeno grigio. In questo modo l’idrogeno verde diverrebbe più competitivo rispetto ad altre alternative a basse emissioni di carbonio entro il 2030, in circa 20 applicazioni pratiche.

 

 

Il grande continente

C’è un elemento fondamentale che determina un mix di successo per AGHA: il continente africano! Morfologicamente parlando l’Africa presenta vaste aree di terra non abitata. Per non parlare della quantità di Sole da cui è ben irradiata. Perché questi fattori rappresentano un vantaggio? Per capirlo basta pensare alla quantità di suolo occupato per la centrale di Fukushima, citata poco fa. L’Africa ne dispone in quantità ben più elevate che potrebbero essere utilizzate senza sottrarre suolo agli abitanti.

Tirando le somme, AGHA e il continente africano hanno tutte le carte in regola per porsi al mondo come operatore chiave di un mercato che ancora non conosce molti player, ma che ben sappiamo esistere. Ciò l’ha dimostrato non solo ufficializzando la sua esistenza e la sua mission in una conferenza internazionale ma annunciandola parallelamente anche al lancio di ‘RepowerEu’ (ndr. Programma di accelerazione per la diffusione delle energie rinnovabili nell’Unione Europea). Ciò fa ben sperare per quanto riguarda la diversificazione del rifornimento energetico europeo e la disintossicazione dal petrolio e dal gas russo.

 

Fonti:

https://climatechampions.unfccc.int/africa-green-hydrogen-alliance/

https://gh2.org/sites/default/files/2022-11/Africa’s%27s%20Green%20Hydrogen%20Potential.pdf

https://www.italiaoggi.it/news/africa-idrogeno-verde-per-la-ue-2607204#:~:text=L’Africa%20green%20hydrogen%20alliance,di%20nuovi%20posti%20di%20lavoro

https://www.geopop.it/perche-l-idrogeno-e-il-combustibile-ideale-per-la-transizione-energetica/

https://www.geopop.it/a-fukushima-si-trova-il-piu-grande-impianto-per-la-produzione-di-idrogeno-verde-al-mondo/

https://www.afsiasolar.com/suez-could-become-africas-gateway-to-a-green-hydrogen-economy/

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Henry Mintzberg e l’impatto delle pratiche aziendali sulla stabilità economica

 

Le imprese: insiemi di individui che svolgono la propria attività in un intreccio di visioni, strategie e azioni, al fine di produrre e distribuire beni e servizi.

Il loro impatto, tuttavia, va ben oltre: sono il cuore pulsante dell’economia globale, le forze motrici di un mondo in costante movimento e una parte integrante della nostra società, in quanto influenzano, con le proprie mosse, la sua stabilità sia economica che sociale.

A esaminare da vicino il ruolo delle imprese nell’ecosistema economico fu, nel 2010, un articolo alquanto critico, denominato “how the enterprises trashed the economy” (trad. “Come le imprese hanno distrutto l’economia”), pubblicato sulla rivista The Economist e firmato dal rinomato economista, professore e scrittore canadese Henry Mintzberg. La sua analisi era incentrata, in realtà, sulle imprese americane.

Nel corso del tempo si sono susseguite numerose teorie economiche volte a risanare i problemi derivanti dalla mala gestione dell’economia americana. Secondo Mintzberg l’errore primario sarebbe da cercare all’interno delle imprese stesse, che hanno creato il più grande problema che permea l’economia moderna. Ma andiamo con ordine.

 

Lo scandalo delle compensazioni esecutive

 

Le dinamiche del mondo aziendale vedono le imprese e i leader agire da attori principali e gli economisti assumere il ruolo di osservatori. Mintzberg, nel suo articolo, ritiene impossibile assumere che tutti i leader abbiano, nel corso del tempo, un comportamento corretto e ciò rappresenta, sia nel breve che nel lungo termine, un danno consistente.

In molti casi, gli amministratori delegati e altri dirigenti aziendali delle più grandi imprese statunitensi hanno ricevuto dei compensi e dei bonus astronomici, spesso sproporzionati rispetto alle prestazioni effettive dell’azienda: generose stock-option (cioè possibilità di acquistare azioni dell’azienda a un prezzo inferiore rispetto al valore di mercato), bonus in denaro e incentivi basati sulle performance.

Negli Stati Uniti il concetto di leadership è, ormai, ampiamente consolidato.

Ma se la leadership consiste nel trasmettere segnali positivi che coinvolgono tutte le altre persone nell’azienda, qualsiasi CEO disposto ad accettare un pacchetto di compensi esclusivi non può essere considerato un leader. E, se è vero che “un pesce marcisce dalla testa” (come vuole un vecchio detto), allora anche in economia deve valere l’assunzione in base alla quale le cause di malcontento di un subordinato devono essere cercate, in molti casi, tra coloro che occupano posizioni di maggiore responsabilità.

Al contrario, la realtà vuole che a subirne le conseguenze siano i dipendenti: mentre i dirigenti si avvantaggiano di compensazioni sempre più esose, i lavoratori sono costretti a lottare per mantenere dei salari dignitosi e delle condizioni di lavoro quantomeno adeguate. Le conseguenze, inoltre, non sono limitate all’aumento di divari e disuguaglianze all’interno delle aziende, ma anche a un impatto negativo sull’efficienza e sulle prestazioni complessive delle imprese stesse: quando i dirigenti sono incentivati principalmente dal raggiungimento di obiettivi finanziari a breve termine, possono essere portati a fare scelte che danneggiano la stabilità a lungo termine dell’azienda.

E tutto ciò si traduce, molto spesso, in licenziamenti di massa e fallimenti.

 

Il grande problema dell’economia

Se il CEO è l’incarnazione stessa dell’azienda, allora gli altri sono ridotti a meri numeri da tagliare alla minima flessione dei risultati finanziari. Ma i licenziamenti massicci delle “risorse umane”, volti a salvaguardare i costi, rappresentano davvero una soluzione valida? Il costo di questi licenziamenti, poi, è tangibile: si riflette non solo sull’etica aziendale, ma anche sui lavoratori e sui middle manager oberati, poco apprezzati, scoraggiati e stanchi.

Il problema risiede nei leader che restano in cima, senza scendere tra le fila e senza calarsi nella realtà operativa dell’azienda.

Chi tra gli alti dirigenti delle banche e delle compagnie di assicurazioni fallite sapeva davvero cosa stesse succedendo quando hanno rischiato il futuro delle loro imprese?

 

IKEA: un’azienda solida?

 

Un’azienda robusta non è una collezione di risorse umane, ma è una comunità di esseri umani. L’efficacia di una strategia aziendale non deriva tanto da un processo decisionale che si origina dall’alto, quanto piuttosto da un processo di apprendimento che può emergere da qualsiasi angolo dell’azienda.

Ma quante, tra le grandi aziende americane, possono davvero vantare una simile solidità? La chiave del successo di IKEA, ad esempio, sta nell’offerta di mobili non assemblati ma facilmente trasportabili: si tratta di un’idea nata da un lavoratore che, per far entrare un tavolo nella sua auto, ha dovuto rimuoverne le gambe. Questa persona non è stata né scoraggiata né ridimensionata dalla leadership aziendale.

Quando le persone all’interno di un’azienda sono trattate con rispetto e ricevono il giusto riconoscimento da una leadership impegnata nel coinvolgere tutti, si crea un legame autentico con i prodotti, i clienti e l’intera strategia aziendale.

È questo tipo di coinvolgimento genuino a fare la differenza.

Nel caso degli impiegati delle banche e delle compagnie di assicurazioni fallite, gli si chiedeva se fossero realmente coinvolti e interessati alle attività aziendali, proprio come lo era la loro leadership?

 

Aziende esploratrici e aziende sfruttatrici

Per Mintzberg esistono due vie fondamentali per far salire il valore delle azioni: l’esplorazione e lo sfruttamento.

Le aziende che esplorano raggiungono quest’obiettivo attraverso una ricerca accurata, la creazione di prodotti migliorati e un servizio superiore; si tratta di un percorso impegnativo, che richiede tempo e dedizione.

D’altra parte, le aziende che sfruttano scelgono una strada più agevole: deprezzano il valore del marchio, riducono gli investimenti in ricerca, confondono i clienti con prezzi ingannevoli e cercano di muoversi sempre al limite della legalità, spingendo i politici per ridurre il livello delle normative. Questi comportamenti possono far aumentare il valore delle azioni per un periodo sufficiente a consentire agli esecutivi di incassare i propri bonus e trasferirsi altrove, com’è accaduto in molte delle grandi aziende americane.

 

Qual è la soluzione?

La critica di Mintzberg parte proprio dall’assunzione che se ad aver portato le proprie imprese sull’orlo del baratro sono stati i leader aziendali, la soluzione ai problemi sarebbe dovuta arrivare da loro e non dalle teorie economiche, le quali, come detto, provengono dagli economisti, cioè dei meri osservatori.

Il comportamento delle imprese rischia di trasformare il loro ruolo all’interno della società: da motori di crescita e innovazione a macchine orientate esclusivamente al profitto a breve termine.

È fondamentale porre l’accento su una leadership aziendale autentica e responsabile: i dirigenti non devono essere solamente gestori di sé stessi, ma delle guide in grado di ispirare e coinvolgere l’intera organizzazione verso degli obiettivi comuni.

Solo così le imprese potranno recuperare quel senso di solidità e intraprendenza che le ha caratterizzate in passato, contribuendo così a una crescita economica più equa e sostenibile per tutti.

 

Fonti:

The Economist: Henry Mintzberg on how the enterprises trashed the economy

Abuso di compensazione esecutiva

Il successo di IKEA

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Innovazione economica: come cambierà il nostro modo di fare business

L’innovazione economica rappresenta un affascinante campo di studio in costante evoluzione. In un contesto globale sempre più interconnesso e caratterizzato da rapidi progressi tecnologici, le imprese si trovano costantemente di fronte a sfide dinamiche che richiedono un adattamento continuo per mantenere la competitività. È imperativo comprendere come questi cambiamenti influenzeranno il nostro approccio nel mondo degli affari.

Nel tessuto sempre più complesso dell’economia contemporanea, osserviamo con attenzione alcuni trend chiave che plasmeranno il futuro del business: la digitalizzazione, ad esempio, sta rivoluzionando la modalità con cui le imprese operano, introducendo nuove opportunità e, al contempo, nuove sfide. L’adozione di tecnologie emergenti, come l’intelligenza artificiale e l’Internet delle cose, è fondamentale per rimanere al passo con un panorama competitivo in costante mutamento.Inoltre, la sostenibilità ambientale è sempre più al centro delle strategie aziendali, poiché le imprese si rendono conto dell’importanza di un approccio responsabile verso l’ambiente.

Quindi, l’innovazione economica non riguarda solo l’aspetto tecnologico, ma anche la capacità di integrare pratiche sostenibili nel core business. Vediamole nel dettaglio.

 

Digitalizzazione

La trasformazione digitale sta rivoluzionando il modo in cui le imprese operano, nel modo in cui le informazioni vengono raccolte, elaborate e condivise. Le imprese stanno abbracciando sempre più le tecnologie digitali per migliorare l’efficienza operativa, la comunicazione e la creazione di valore per i clienti: dalla gestione dei dati all’automazione dei processi, le aziende devono abbracciare la tecnologia per rimanere efficienti e competitive.

La digitalizzazione permette l’ automazione dei processi aziendali, ciò significa che l’attività ripetitive e time-consuming possono essere gestite in modo più rapido ed efficiente attraverso l’uso di software e sistemi automatizzati. Questo non solo aumenta la produttività, ma libera anche risorse umane per compiti più strategici. Attraverso il processo di digitalizzazione si ha la formazione dei Big Data, ovvero l’accumulo massiccio di dati. Le imprese possono raccogliere e analizzare grandi quantità di dati per ottenere insights significativi sul comportamento del cliente, le tendenze di mercato e le prestazioni aziendali. Questa analisi informata è cruciale per prendere decisioni strategiche. Ma ti chiederai: “dove si trovano questi dati?”.

La risposta è: non c’è niente di fisico, questi dati si trovano tutti sul Cloud (memorie esterne accessibili tramite internet). Questa soluzione è fondamentale perché offre flessibilità e accessibilità ai dati. Le imprese possono archiviare informazioni in modo sicuro e accedervi da qualsiasi luogo, facilitando il lavoro remoto e migliorando la collaborazione tra team.
Un esempio tangibile di digitalizzazione è l’espansione dell’e-commerce e di come ciò influenzi la vendita al dettaglio: le imprese devono offrire un’esperienza di acquisto online intuitiva e sicura per soddisfare le aspettative dei consumatori digitali.

Infine, con una crescente dipendenza dalla tecnologia digitale, la sicurezza informatica diventa cruciale (cybersecurity). Le imprese devono investire in robuste misure di sicurezza per proteggere i dati sensibili e garantire la continuità operativa.

Intelligenza artificiale

L’AI consente alle aziende di analizzare grandi quantità di dati per identificare modelli e trend. Questa analisi predittiva può essere utilizzata per prevedere comportamenti futuri dei clienti, tendenze di mercato e performance operativa, consentendo alle aziende di prendere decisioni informate; grazie all’analisi dei dati dei clienti le aziende possono offrire esperienze personalizzate ai customer: si possono creare offerte e servizi su misura, migliorando la soddisfazione del cliente e la fidelizzazione. Inoltre, gli algoritmi di apprendimento automatico possono automatizzare una varietà di compiti ripetitivi, riducendo il carico di lavoro manuale. Ciò consente alle risorse umane di concentrarsi su attività più complesse e creative, migliorando l’efficienza operativa complessiva.

Sostenibilità aziendale

Le imprese stanno sempre più riconoscendo che la sostenibilità ambientale non dovrebbe essere solo un’aggiunta o un aspetto separato delle loro attività, ma dovrebbe essere incorporata nel cuore stesso della strategia aziendale. Ciò implica una riflessione su come ogni aspetto delle operazioni aziendali, dalla catena di approvvigionamento alla produzione, alla distribuzione e oltre, può essere reso più sostenibile. Inoltre, la sostenibilità può costituire un vantaggio competitivo perché i consumatori moderni sempre più attenti all’impatto ambientale delle aziende e preferiscono quelle che dimostrano un impegno autentico verso la sostenibilità, quindi integrare pratiche sostenibili influenza positivamente la reputazione e la fedeltà del cliente.

Non solo il cliente, bensì qualsiasi stakeholder, compresi gli investitori che considerano la sostenibilità come un criterio importante nella loro decisione di investimento e quindi questi sono interessati ad investire in aziende che adottano approcci sostenibili verso l’ambiente. A livello pratico, quindi l’azienda deve sicuramente impegnarsi sulla riduzione delle emissioni di gas terra, con l’uso di energie rinnovabili. Inoltre, si devono concentrare sull’ottimizzazione dell’uso dell’energia, quindi ridurre il consumo energetico, attraverso per esempio sistemi di illuminazione a basso consumo e isolamenti efficienti. La sostenibilità ambientale implica anche una gestione responsabile delle risorse naturali: le aziende possono adottare politiche che promuovono il riciclo e riducono l’uso di materiali non sostenibili. Inoltre, tutto ciò va spiegato attraverso una comunicazione trasparente: le aziende devono comunicare apertamente le proprie pratiche sostenibili, i progressi compiuti e gli obiettivi futuri. Questa trasparenza contribuisce a costruire la fiducia dei clienti e degli investitori.

Sostenibilità ambientale: il caso studio

Un esempio pratico di sostenibilità ambientale è l’azienda Nespresso che si occupa della produzione e vendita di macchine da caffè espresso e capsule di caffè. Innanzitutto, Nespresso è una B corp, una certificazione che viene data da un ente esterno e attesta l’impegno dell’azienda sulle tematiche ambientali. Infatti, alcuni dei principali elementi di sostenibilità associati a Nespresso includono:

  • Programma AAA Sustainable Quality™: Nespresso lavora in collaborazione con l’organizzazione non-profit Rainforest Alliance per implementare il Programma AAA Sustainable Quality™.

    Questo programma mira a migliorare la sostenibilità sociale, economica e ambientale nelle comunità agricole di caffè. Fornisce supporto agli agricoltori per adottare pratiche agricole sostenibili e migliorare la qualità del loro caffè.

    In 11 anni il programma si è esteso dai 300 coltivatori coinvolti nella fase di lancio alle 63.000 piantagioni che adottano oggi le pratiche Nespresso AAA Sustainable Quality™.
    Il Programma AAA Sustainable Quality™ si basa su un approccio dinamico, in costante evoluzione, che riunisce le idee più innovative in materia di qualità, produttività e sostenibilità, rivolgendo una particolare attenzione ai parametri sociali, ambientali ed economici.
    I risultati sono lampanti. I dati rilevati da CRECE mostrano ad esempio l’impatto positivo del programma sulle piantagioni aderenti in Colombia. Secondo le valutazioni indipendenti dell’ente, i coltivatori AAA Sustainable Quality™ della regione ottengono performance notevolmente più elevate rispetto a quelle di un gruppo di controllo non iscritto al programma.”, così possiamo leggere dal sito.

  • Perché nel negozio Nespresso quando noi compriamo le capsule ci viene dato anche un sacchetto?
    La risposta è semplice, in funzione del riciclo; infatti questo sacchetto va riempito con le capsule usate che sono in alluminio (quindi in teoria andrebbero buttate nella plastica o nel vetro, a seconda del comune, ma non sono puliti perché contengono anche del caffè), poi noi consumatori possiamo riportare le capsule esauste in negozio dove le buttiamo in particolari cestini; lì c’è già un grande schermo che ci informa su come sta andando la raccolta di capsule esauste (comunicazione trasparente), quindi ci informa sulla CO2 risparmiata, sul numero di capsule riciclato, e così via.

Da questo punto in poi è l’azienda stessa che si preoccupa di dividere il caffè dalla capsula in alluminio, così da poterlo riutilizzare, mentre il caffè viene riciclato per fare compost che viene utilizzato per la coltivazione di riso, il quale viene acquistato da Nespresso e donato al Banco alimentare. Nel 2022 sono 780 i quintali di riso donati a Banco alimentare della Lombardia, Banco alimentare del Lazio e a Banco alimentare del Piemonte.

Quali direzioni intraprendere?

Come sta facendo Nespresso, tutte le aziende stanno implementato diverse iniziative per promuovere la sostenibilità nei loro processi produttivi e nelle catene di approvvigionamento. È importante notare che la sostenibilità è un percorso continuo, e le aziende continuano a cercare nuovi modi per migliorare le loro pratiche aziendali e ridurre l’impatto ambientale complessivo perché la sostenibilità ambientale è diventata un elemento cruciale per il mondo. Queste tendenze influenzano la struttura delle aziende, le dinamiche di mercato e le strategie competitive.

Bisogna prestare molta attenzione anche alla digitalizzazione e all’intelligenza artificiale; quindi, le aziende devono farsi un’idea su come navigare in questo ambiente digitale in costante evoluzione. Affrontare queste sfide richiede una comprensione approfondita delle dinamiche economiche globali e una capacità costante di apprendimento e adattamento. In conclusione, esplorare l’innovazione economica è un viaggio che ci permette di cogliere le opportunità emergenti e di affrontare le sfide in un mondo in costante trasformazione.

 

 

Fonti:

B corp

AAA-sustainable

Riciclo capsule

Credits:

Immagine di copertina

Immagine 1

 

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Economia e innovazione digitale: Come si evolvono insieme?

La rivoluzione digitale ha decisamente scosso le fondamenta dell’economia globale, introducendo dei veri e propri cambiamenti sismici e plasmando un panorama in cui l’innovazione tecnologica viene identificata come il motore trainante della crescita economica. Ma in che modo il legame, di per sé intricato, tra l’economia e l’innovazione digitale ha permesso la trasformazione tecnologica delle industrie tradizionali?

 

Il primo incontro

Innanzitutto, occorre prendere in considerazione le dinamiche di produzione, distribuzione e consumo; la ridefinizione di queste ultime è stato un passo fondamentale nella formazione di nuovi modelli di business e nello sviluppo di settori innovativi.

Basti pensare all’e-commerce, tramite la quale aziende come Amazon hanno ridefinito il commercio al dettaglio; o ancora, alla sharing economy, che ha rivoluzionato i settori del trasporto (Uber) e dell’alloggio (Airbnb).

 

Si sta parlando, ad ogni modo, di una trasformazione che, se rapportata al mero percorso di innovazione aziendale, ha permesso alle imprese di diventare più moderne e competitive: il fenomeno dell’industria 4.0, in particolare, ha introdotto, oltre alla connettività tra macchinari, l’analisi dei dati, migliorando l’efficienza e rivoluzionando in maniera impattante il settore.

 

IoT o Internet of Things (trad. “Internet delle cose”) è la terminologia tramite la quale viene indicato questo fenomeno: una vera e propria rete di oggetti e dispositivi tecnologici che permette ad essi sia di trasmettere che di ricevere, da parte di altri sistemi, i dati. Questo primo incontro tra economia e innovazione digitale è stato, forse, il più incisivo: riuscire ad evolversi, esplorando le possibilità date dall’intelligenza artificiale, ha consentito di analizzare i dati aziendali in maniera più semplice e immediata (seppur con una cospicua percentuale di rischio), permettendo alle imprese una crescita più sicura e controllata.

 

Cluster Analysis: svelare le connessioni invisibili tra i dati

La prima innovazione dell’IoT in ambito statistico è nata in seno a una particolare tecnica, denominata cluster analysis (trad. “analisi di clustering”) e utilizzata per raggruppare all’interno di gruppi omogenei gli elementi simili tra loro presenti in qualsivoglia insieme più ampio. Un cluster rappresenta, infatti, un gruppo.

 

Questo primo metodo di analisi dei dati aiuta, senza ombra di dubbio, a organizzare grandi dataset in gruppi di dati più contenuti, uguali tra loro e, conseguentemente, più semplici da analizzare. È interessante notare come anche i sistemi più conosciuti utilizzino da tempo questa tecnica: questo fenomeno riguarda, ad esempio, il funzionamento del motore di ricerca immagini di Google.

 

Tuttavia, anche le aziende utilizzano da tempo la cluster analysis: al fine di adattare le proprie strategie di marketing alle esigenze specifiche di qualsiasi persona, è essenziale suddividere il mercato in segmenti omogenei di clienti, aventi caratteristiche e comportamenti simili tra loro. Si tratta del motivo per il quale le raccomandazioni di prodotti sponsorizzati online, come le pubblicità mirate sui social, differiscono per ogni singola persona.

 

Sentiment Analysis: navigando tra le emozioni digitali

Per antonomasia, tuttavia, quando si parla di analisi dei dati si fa automaticamente riferimento alla cosiddetta sentiment analysis (trad. “analisi del sentiment”), una branca dell’Intelligenza Artificiale che mira a comprendere i testi valutando le opinioni, le emozioni e il tono delle espressioni umane, determinandone un sentiment positivo, negativo o neutro.

Principalmente utilizzata per il monitoraggio della reputazione online, questa seconda tipologia di analisi dei dati consente alle aziende di esaminare le opinioni dei propri clienti sui social media, sulle recensioni e nei forum, facilitando la comprensione del feedback e, nel caso di sentiment negativi, l’adozione di misure correttive. Ma si tratta di un elemento fondamentale anche nel contesto del servizio clienti: è la sentiment analysis che permette di valutare il tono delle conversazioni, consentendo alle aziende di identificare rapidamente i sentiment negativi e di risolvere prontamente gli eventuali problemi.

 

La sentiment analysis viene utilizzata dalle imprese anche e soprattutto per valutare la soddisfazione dei dipendenti: ad oggi risulta difficile, per la salvaguardia di sé stessi e della propria salute mentale, immaginare un contesto lavorativo in cui non si presti attenzione a un clima aziendale ottimale, che consente, poi, un ottimo tasso di produttività. Non a caso, si tratta di un prezioso strumento nella prevenzione delle crisi: rilevando gli eventuali segnali di insoddisfazione è possibile gestire prontamente situazioni più o meno critiche e contribuire a mantenere una reputazione positiva nel mercato attuale, che è molto competitivo.

 

La trasformazione digitale nell’industria manifatturiera

Ad ogni modo, l’adozione dell’IoT, dell’intelligenza artificiale e dell’automazione intelligente sta definitivamente ridefinendo i processi di produzione.

Mentre i sensori IoT integrati consentono la raccolta in tempo reale di dati cruciali, ottimizzando la manutenzione preventiva dei macchinari, prevenendone gli eventuali guasti, migliorando la gestione delle risorse e ottimizzando la produzione, l’automazione intelligente (inclusa la robotica avanzata) permette di aumentare sia la produttività che la flessibilità nelle linee di produzione.

 

Innovazione tecnologica nelle fabbriche: il caso Stellantis

Stellantis, leader nell’industria automobilistica, ha abbracciato l’innovazione tecnologica all’interno delle sue fabbriche tramite l’implementazione dell’industria 4.0. Tramite l’utilizzo del concetto di fabbriche intelligenti, questa azienda ha integrato l’IoT in quella che è la connessione tra le macchine e i sistemi e ha così ottimizzato i processi produttivi, riducendo i tempi di ciclo e aumentando la precisione. La raccolta di dati in tempo reale consente anche una manutenzione predittiva, riducendo i tempi di fermo delle macchine.

 

Risulta chiaro che l’implementazione di queste tecnologie all’interno delle aziende, oltre a ridurre i costi e gli sprechi, crea anche un ecosistema manifatturiero più agile e reattivo alle sfide del mercato: la sinergia tra l’uomo e la macchina diventa sempre più evidente, in un’ottica che delega all’innovazione tecnologica il futuro dell’industria manifatturiera.

 

 

Fonti

 

Cos’è l’IoT e come funziona?

Amazon e il commercio al dettaglio

Il caso Uber: la sharing economy

Airbnb, la regina della sharing economy

Cluster Analysis

Sentiment Analysis

Industria 4.0: Stellantis spinge sulla Cognitive Diagnostics

 

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Il secondo polmone verde del mondo

Il Green Deal europeo punta ad un continente a impatto zero

Nell’ambito del piano ‘NextGenerationEU’ la Commissione europea punta ad un futuro più verde. Come annunciato dalla Presidente Ursula von der Leyen nella presentazione della tabella di marcia ‘Green Deal europeo’, l’Unione Europea punta a diventare un continente a emissioni zero entro il 2050.

Il ‘Green Deal europeo’

Il Green Deal europeo è una tabella di marcia che rientra nel più ampio piano ‘NextGenerationEU’ con il quale l’Unione Europea punta a migliorare le vite dei propri cittadini investendo e sviluppando nuove tecnologie per rendere il futuro più verde, sano, digitale ed egualitario. L’Unione Europea si impegna, fissando come data limite il 2050, a non produrre più emissioni di CO2 di quanto il suo ecosistema non riesca ad assorbire, compensando pienamente l’impronta ecologica dell’uomo.

Il pacchetto ‘Pronti per il 55%’

Con l’adozione integrale del pacchetto ‘Pronti per il 55%’, presentato a luglio 2021, “l’UE potrà raggiungere i suoi obiettivi climatici entro il 2030 in modo equo, competitivo ed efficiente in termini di costi”. Con questo pacchetto contenente misure in merito alla energia, al clima, ai trasporti e alla fiscalità l’Unione Europea mira a ridurre del 55% le emissioni del gas serra entro il 2030 rispetto alle emissioni del 1990. Strizzando l’occhio alle Nazioni Unite in vista della COP28 sul clima e delle elezioni europee del 2024.

La nuova iniziativa: 3 milioni di alberi

Ma l’UE torna alla ribalta sul tema con un piano ambientale che coinvolgerà anche i cittadini. 3 milioni di alberi da piantare entro il 2030 è il target che si è prefissata. Ogni cittadino potrà contribuire piantando un albero o donando ad associazioni che lo facciano per lui. L’albero aggiuntivo, che dovrà portare benefici alla biodiversità e al clima, non dovrà essere parte delle piantagioni abituali e non dovrà costituire una problematica per le condizioni climatiche, del suolo e delle acque.

Per poter registrare l’albero, l’Agenzia europea dell’ambiente, ha sviluppato un’applicazione “Map My Tree” che permetterà in aggiunta di visionare l’andamento delle segnalazione per raggiungere l’obiettivo. Potranno essere registrati gli alberi che rispettino i requisiti imposti dal piano, piantati dal 20 maggio 2020 in poi. Data dell’adozione della strategia da parte dell’UE.

“Chiunque può piantare un albero. Per raggiungere questo ambizioso traguardo, abbiamo bisogno di cittadini europei motivati a piantare alberi e a farli crescere.”

 

Fonti:

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Ambiente, società e tecnologia

Agricoltura nel nuovo millennio: evoluzione dell’agricoltura in risposta ai cambiamenti economici, tendenze di mercato e innovazioni tecnologiche

L’agricoltura nel nuovo millennio ha subito un profondo processo di trasformazione, determinato da una complessa intersezione di fattori economici, richieste del mercato e innovazioni tecnologiche. Questa convergenza di influenze ha modellato un nuovo panorama agricolo caratterizzato da una crescente consapevolezza verso la sostenibilità e la necessità di migliorare l’efficienza operativa.

Uno degli sviluppi più significativi è rappresentato dall’adozione diffusa di tecnologie avanzate, come l’Internet of Things (IoT), l’intelligenza artificiale e la robotica agricola. Queste innovazioni hanno permesso ai coltivatori di monitorare in tempo reale le condizioni dei campi, ottimizzare l’irrigazione, e gestire le colture in modo più preciso ed efficiente. Inoltre, l’uso di droni e sensori ha contribuito a una raccolta di dati più accurata e dettagliata, consentendo una migliore pianificazione delle attività agricole.

Un altro aspetto fondamentale è la sostenibilità che è diventata una priorità fondamentale nel contesto agricolo contemporaneo. I coltivatori stanno adottando pratiche agricole sostenibili, riducendo l’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici, e adottando metodi di coltivazione che preservano la salute del suolo. Inoltre, cresce l’interesse per la produzione agricola biologica e per la riduzione delle emissioni di gas serra legate all’agricoltura. Le dinamiche del mercato globale stanno influenzando le scelte degli agricoltori: la crescente domanda di prodotti alimentari di alta qualità e la consapevolezza dei consumatori riguardo all’origine e alla produzione sostenibile stanno guidando le decisioni degli agricoltori nella selezione delle colture e nelle pratiche di produzione.

Impulso verso la sostenibilità

La congiunzione tra sostenibilità e agricoltura biologica è diventata una tematica cruciale, alimentata dalla crescente consapevolezza dei consumatori nei confronti dell’impatto ambientale e della salute associati alla produzione alimentare. L’esigenza di prodotti alimentari sostenibili e biologici ha dato impulso a una serie di cambiamenti nel settore agricolo, con gli agricoltori che stanno abbracciando pratiche più ecologiche per soddisfare questa domanda emergente.

L’impulso verso la sostenibilità ha portato a una significativa riduzione dell’uso di pesticidi e fertilizzanti sintetici nell’agricoltura biologica. Gli agricoltori stanno optando per soluzioni alternative, come il compostaggio, l’utilizzo di concimi organici e il controllo biologico delle infestazioni, al fine di mantenere la salute delle colture senza ricorrere a sostanze chimiche nocive. Questa transizione verso pratiche agricole più ecocompatibili contribuisce non solo a preservare l’ecosistema, ma anche a mitigare gli impatti negativi sulla biodiversità.

 

Un elemento chiave in questo contesto è rappresentato dalla certificazione biologica, che è diventata un prezioso vantaggio competitivo per molti agricoltori. Ottenere la certificazione biologica implica conformarsi a rigorosi standard di produzione che garantiscono il rispetto di pratiche sostenibili e il ricorso limitato o nullo a sostanze chimiche. Questo marchio di approvazione non solo conferisce fiducia ai consumatori che cercano prodotti alimentari salubri e rispettosi dell’ambiente, ma può anche aprirsi a nuovi mercati e opportunità commerciali, sottolineando l’engagement dell’agricoltore verso la responsabilità ambientale. Oltre a ciò, l’agricoltura biologica promuove la salute del suolo e la conservazione delle risorse idriche, contribuendo a preservare l’integrità degli ecosistemi agricoli.


Una rivoluzione di precisione

L’adozione dell’agricoltura di precisione ha rappresentato una vera rivoluzione nell’approccio alla gestione agricola, integrando avanzate tecnologie per ottimizzare ogni aspetto delle operazioni colturali. L’utilizzo di sensori altamente sofisticati, droni all’avanguardia e sistemi GPS ha permesso agli agricoltori di raggiungere nuovi livelli di precisione nella gestione delle colture, trasformando radicalmente il modo in cui vengono pianificate e eseguite le attività agricole. La presenza diffusa di sensori nei campi agricoli consente una raccolta di dati dettagliata e in tempo reale sulle condizioni del suolo, della coltura e dell’ambiente circostante.

Questi dati forniscono una base informativa robusta per prendere decisioni mirate, consentendo agli agricoltori di rispondere prontamente alle variazioni nelle condizioni climatiche e di terreno. I droni, in particolare, ampliano la portata di questa raccolta dati, permettendo una copertura aerea estesa e la rilevazione di anomalie non visibili da terra. Grazie a queste informazioni dettagliate, gli agricoltori possono ottimizzare l’uso delle risorse in maniera mirata ed efficiente. L’irrigazione, ad esempio, può essere regolata in base alle effettive necessità delle colture, riducendo sprechi d’acqua e contribuendo alla sostenibilità idrica. Similmente, la dosatura dei fertilizzanti e l’applicazione di pesticidi possono essere calibrate con precisione, limitando gli impatti ambientali e riducendo l’esposizione delle colture a sostanze chimiche in eccesso.

Questo approccio tecnologico non solo migliora l’efficienza operativa degli agricoltori, ma ha anche un impatto positivo sulla redditività complessiva delle operazioni agricole. L’ottimizzazione delle risorse, la riduzione degli sprechi e la maggiore resilienza alle sfide ambientali posizionano l’agricoltura di precisione al centro di una nuova era agricola, in cui la tecnologia svolge un ruolo chiave nel plasmare un settore agricolo più sostenibile, intelligente ed efficiente.


Manipolazione genetica responsabile

 

L’avanzamento delle innovazioni genetiche e della biotecnologia nel contesto agricolo ha rivoluzionato la capacità umana di potenziare le caratteristiche delle colture per rispondere alle sfide ambientali e alle esigenze alimentari crescenti, in particolare la modifica genetica delle colture sta emergendo come un potente strumento per affrontare le minacce alle produzioni agricole, migliorando la resistenza delle piante alle malattie e agli agenti atmosferici.

Attraverso la manipolazione genetica, gli scienziati possono introdurre specifiche sequenze di DNA nelle colture, conferendo loro caratteristiche desiderate. La creazione di varietà di colture resistenti alle malattie è diventata una priorità, poiché contribuisce a ridurre la dipendenza dagli agenti chimici per il controllo delle malattie e limita la perdita di colture dovuta a patogeni. Un risultato chiave di queste innovazioni è l’aumento della produttività agricola. Coltivare varietà di colture geneticamente modificate può portare a rese più elevate, migliorando la sicurezza alimentare e contribuendo a soddisfare la crescente domanda globale di cibo.

Tuttavia, è importante considerare anche le implicazioni etiche e ambientali associate a queste innovazioni. La gestione responsabile della biotecnologia è essenziale per garantire che gli impatti sulla biodiversità, la sicurezza alimentare e la salute umana siano adeguatamente valutati e mitigati. L’equilibrio tra i benefici delle innovazioni genetiche e le preoccupazioni etiche e ambientali è un aspetto cruciale da considerare nel contesto dell’adozione di queste tecnologie.

Flessibilità e adattamento del settore

Nell’adattamento alle mutevoli dinamiche economiche, gli agricoltori si trovano a fronteggiare una complessa interazione di fattori globali, quali i cambiamenti nei modelli di consumo, le pressioni economiche e le sfide legate al commercio internazionale. La flessibilità e la capacità di adattamento diventano essenziali per navigare in questo scenario dinamico. La diversificazione delle colture, la ricerca di nuovi mercati e la partecipazione a filiere sostenibili sono strategie che gli agricoltori stanno abbracciando per affrontare le incertezze economiche.

In conclusione, la crescente domanda da parte dei consumatori per prodotti alimentari sostenibili ha spinto gli agricoltori verso un cambiamento significativo, abbracciando l’agricoltura biologica come un modo per rispondere a queste aspettative. Questo connubio tra sostenibilità e pratiche agricole ecologiche non solo promuove la salute ambientale, ma si traduce anche in un vantaggio distintivo nell’ambito del mercato alimentare, offrendo una via prospera per il settore agricolo e un futuro più sostenibile per la produzione alimentare globale.

L’agricoltura nel nuovo millennio si configura come un terreno fertile per l’innovazione, la sostenibilità e l’adattamento strategico. Gli agricoltori, in sinergia con le più recenti tecnologie e una prospettiva orientata al futuro, stanno plasmando un settore agricolo più resiliente, efficiente e attento all’equilibrio tra la produzione alimentare e la tutela dell’ambiente.

 

Fonti

agriregionieuropa

wiforagri

blog.osservatori.

abacogroup

 

Credits

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Alla ricerca di equilibrio: è possibile riconsiderare le 8 ore di lavoro standard in Italia?

Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) è identificato dal diritto italiano come la principale fonte normativa in cui i sindacati dei lavoratori e le associazioni dei datori di lavoro concordano le regole che regolamentano il rapporto di lavoro. Si tratta di contratti volti a trattare sia gli aspetti normativi che quelli economici, senza ignorare le disposizioni adatte a regolare le relazioni sindacali.

Le finalità fondamentali di questo contratto, ad ogni modo, riguardano la definizione delle regole per i rapporti di lavoro in specifici settori (che si tratti, ad esempio, dei trasporti o del pubblico impiego) e la disciplina delle relazioni tra le parti firmatarie dell’accordo.

 

Da Owen a Ford: la rivoluzione delle 8 ore

 

L’instaurarsi della giornata lavorativa di 8 ore fu il risultato, nei primi anni del XX secolo, di numerose lotte sindacali, originariamente proposte su un modello di 48 ore settimanali distribuite su 6 giorni.

Nei primi anni della rivoluzione industriale, gli operai potevano arrivare a lavorare fino a 100 ore a settimana. Robert Owen, un influente sindacalista gallese del XIX secolo, introdusse allora il concetto della riduzione delle ore di lavoro giornaliere, con l’obiettivo di dividere la giornata in tre parti uguali: lavoro, svago e riposo.

Fu solo nel gennaio 1914 che questo standard originario venne modificato. Si trattò del momento in cui Henry Ford adattò questa formula a degli studi sperimentali sulla produttività: riducendo le ore lavorate a 40 a settimana su 5 giorni, Ford notò un aumento significativo della produttività, dimostrando che meno ore potevano portare a risultati migliori. Ford ridusse la giornata lavorativa dei suoi dipendenti da 9 a 8 ore, incrementando il salario giornaliero da 3 a 5 dollari.

Cinque dollari per una giornata lavorativa di otto ore è stata una delle più efficaci strategie di riduzione dei costi che abbiamo mai messo in atto”: così Ford giustificò la propria mossa imprenditoriale, dichiarando che l’investimento in salari più elevati avrebbe creato una base solida per lo sviluppo aziendale.

La decisione di pagare salari più alti si rivelò un successo: numerosi storici e analisti, tra i quali Gregory Mankiw, dimostrarono che questa mossa contribuì a consolidare la disciplina, la lealtà e l’efficienza dei lavoratori.

Tuttavia, è evidente che la decisione di introdurre una settimana lavorativa non è nata in virtù di ragioni come la giustizia o il benessere, ma come risposta alla necessità di massimizzare la produttività; l’iniziale benessere dei lavoratori, in quel contesto storico, è emerso come un mero effetto collaterale.

 

L’Italia oggi

 

Ancora oggi, la connessione tra retribuzione e produttività rimane un elemento cruciale per stimolare la competitività dell’Italia. Nel contesto del dibattito sulla riforma del mercato del lavoro è emersa, nel 2011, la proposta di favorire la contrattazione aziendale come strumento chiave per stringere questa connessione, contribuendo così al rilancio della competitività nazionale.

Dal 2013 il contratto collettivo aziendale (CCIA) rappresenta un accordo stipulato dal datore di lavoro e dai rappresentanti dei lavoratori, avente spesso l’obiettivo di modificare le disposizioni del CCNL in base alle proprie esigenze.

Le disposizioni di tali contratti non possono prevedere, di norma, delle condizioni meno favorevoli rispetto a quelle stabilite dalla Legge. Il rapporto tra contratti aziendali e quelli di livello superiore è stato delineato dagli Accordi interconfederali, stabilendo che il contratto di categoria rimane centrale, mentre quello aziendale deve limitarsi a disciplinare argomenti già individuati dal CCNL e a garantire aumenti retributivi legati a miglioramenti di produttività e organizzazione del lavoro.

La produttività e la retribuzione rimangono degli elementi imprescindibili. Ma la domanda rimane sempre la stessa: e il benessere dei lavoratori?

 

Pandemia e nuove esigenze: la nascita dello smart working

 

Il recente fenomeno dello smart working, che rappresenta la possibilità, in determinati settori, di lavorare da casa, ha registrato un aumento della produttività del 15-20%. Ha sollevato, tuttavia, molti interrogativi riguardanti la sostenibilità e l’impatto sul benessere dei lavoratori.

La questione principale, oggetto di numerosi dibattiti successivi al lockdown nazionale provocato dal fenomeno della pandemia, era una: sarebbe stato giusto sfruttare questo “plusvalore” in maniera capitalistica o sarebbe stato opportuno tradurlo, invece, in benefici per i dipendenti, riscontrabili in un’ulteriore riduzione dell’orario lavorativo?

In poco tempo, questo dibattito ha assunto una rilevanza significativa. Uno studio, pubblicato il 12 giugno 2021 sull’European Journal of Investigation in Health, Psychology and Education, offre una visione approfondita su tre aspetti principali: la dedizione al lavoro, il fenomeno del cosiddetto technostress e la mediazione del rapporto tra smart working e benessere.

 

Smart working e dedizione al lavoro

 

L’indagine rivela che durante la pandemia il coinvolgimento attivo dei responsabili delle risorse umane ha influenzato positivamente l’impegno dei lavoratori.

La partecipazione attiva ai cambiamenti organizzativi ha fatto sì che questi ultimi venissero percepiti come il risultato del proprio impegno e non più degli ordini imposti dall’alto: questo fenomeno è emerso come un vero e proprio antidoto alla demotivazione. La ricerca ha evidenziato, inoltre, che una cultura organizzativa positiva potrebbe proteggere da sintomi come lo stress, l’ansia e la depressione. Il desiderio, nel 2021 e in base a tali presupposti, era quello di trasformare una situazione di emergenza in un’opportunità di crescita.

 

Smart working e technostress

 

Technostress è una terminologia che comprende, in maniera simultanea, una varietà di problematiche significative: il sovraccarico tecnologico, la complessità, l’insicurezza lavorativa e l’incertezza. I livelli più elevati  di technostress sono osservabili tra coloro che sono costretti a fare un uso intensivo di dispositivi digitali e di applicazioni di messaggistica istantanea, oltre che tra gli addetti alla gestione delle attività lavorative durante le pause. L’indagine, in questo contesto, sottolinea il ruolo critico della gestione equilibrata tra vita professionale e vita privata, in un’ottica volta a salvaguardare la salute mentale dei lavoratori.

 

I mediatori del rapporto tra smart working e benessere

 

L’autonomia nella scelta di pratiche di lavoro a distanza, le competenze personali e organizzative e la fiducia da parte dell’azienda sono caratteristiche identificate come i mediatori chiave tra smart working e benessere. Tuttavia, anche in questo caso la problematica principale risiede nella gestione dei confini tra tempo personale e orario di lavoro: la necessità è quella di promuovere una comunicazione efficace, delle crescenti relazioni al di fuori dell’orario di lavoro e un vero e proprio supporto psicologico per i dipendenti.

Ne conviene che l’iperconnettività abbia portato anche lo smart working, nei settori in cui questo fenomeno è presente e possibile, verso numerosi ed evidenti effetti negativi: un esempio sono le comunicazioni prolungate fino a tarda notte nel contesto lavorativo.

Questo fenomeno è stato descritto da alcuni come un nuovo presenzialismo, caratterizzato dall’incessante motto “always on“, che può minare la qualità della vita e il benessere dei lavoratori. La riflessione critica si concentra sull’importanza di bilanciare l’efficienza lavorativa con il rispetto per il tempo personale e la salute mentale. Perché non esplorare, quindi, la possibilità di ridurre l’orario di lavoro in maniera da mantenere attive l’efficacia e la produttività?

Secondo le statistiche Istat, in Italia la settimana lavorativa moderna corrisponde, laddove regolamentata, a 33 ore; questo dato supera di 3 ore la media europea, di 4 ore quella francese e di 7 ore quella tedesca. Nonostante ciò, la produttività italiana si posiziona come la penultima in Europa, con un rendimento superiore solo alla Grecia.

Uno studio, condotto da Domenico De Masi e commissionato da Mercedes Italia, riflette a pieno questa dinamica: i dirigenti tedeschi dell’azienda automobilistica, sebbene abbiano un carico di obiettivi superiore del 30% rispetto ai loro omologhi italiani, riescono a lavorare il 30% in meno, ottenendo, al contempo, il 30% di obiettivi in più.

Dal 2014, la Ducati, grazie a un referendum vinto con il 75% dei voti e in collaborazione con i sindacati, ha implementato un piano che impegna i dipendenti per circa 30 ore settimanali (compresi gli eventuali turni nei weekend) e con una quasi totale saturazione degli impianti. Secondo Mario Morgese, il responsabile delle risorse umane dell’azienda, questa iniziativa ha portato a un aumento del 40% nella produttività e a una riduzione dell’assenteismo.

Nel 2019, Microsoft ha effettuato, in Giappone, una prova della settimana lavorativa di 4 giorni. Durante questo periodo, ha concesso ai suoi 2300 dipendenti ben 5 venerdì liberi ad agosto, senza però ridurre gli stipendi. I risultati sono stati sorprendenti: non solo il 92% degli impiegati si è dichiarato più soddisfatto, ma la produttività è aumentata del 40%. Inoltre, è stato registrato un calo del 25% nelle pause, una diminuzione del 23% nell’uso dell’elettricità e una riduzione del 59% nel consumo di carta/stampe.

 

Nuova Zelanda: un passo verso il futuro dei lavoratori?

 

L’esempio più importante e significativo ha avuto sede in Nuova Zelanda, dove il movimento ‘Four Day Week’ ha condotto uno studio sperimentale sulla tattica utilizzata da Microsoft nel 2019.

I risultati hanno mostrato un aumento della produttività, una diminuzione dello stress, un miglioramento dell’equilibrio tra vita e lavoro, un maggiore coinvolgimento e benessere dei lavoratori, un aumento della fiducia e una diminuzione dell’assenteismo, in un’ottica in cui gli stessi manager continuano a sottolineare la priorità del mantenimento della produttività e del raggiungimento degli obiettivi.

 

Verso una rivoluzione lavorativa: sperimentare la riduzione dell’orario per un futuro migliore

Sperimentare queste soluzioni su larga scala, mediante un approccio temporaneo che coinvolga sia il settore profit che il settore non profit, potrebbe rappresentare una strategia ottimale per il benessere dei dipendenti. Davvero non siamo pronti a intraprendere questo cammino?

Fonti

 

Wikilabour – Il CCNL

Indagine: quale relazione esiste tra smart working e benessere del lavoratore?

Wikilabour – il CCIA

Smart working e produttività

Microsoft – Work Life Choice Challenge Summer 2019

The four-day week guidelines for an outcome-based trial – Raising productivity and engagement

Agende piene di impegni: fenomeno dell’always on

Domenico De Masi e la riduzione dell’orario di lavoro

Nuova Zelanda e la settimana lavorativa di 4 giorni

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Inganni etici nell’automazione industriale. I robot minacciano davvero le nostre occupazioni?

Il processo di automazione industriale, intrinsecamente propenso a un’evoluzione continua, affonda le sue radici nell’introduzione pionieristica dei primi dispositivi autonomi nelle fabbriche tessili britanniche; si tratta di una metamorfosi che ha attraversato secoli di sviluppo, culminando, poi, in una fase attuale, in cui la tecnologia si fonde sinergicamente con la produzione industriale. Il focus è posto, in questo caso, sul dibattito riguardante l’impatto occupazionale delle tecnologie di automazione, che costituisce un tema di notevole complessità.

 

Da una parte, la letteratura scientifica presenta numerosi studi che corroborano l’esistenza di una correlazione positiva tra gli investimenti delle imprese in automazione e l’incremento del tasso di disoccupazione. La condizione italiana, per esempio, è stata oggetto di un’analisi approfondita in uno studio, diffuso nel numero di dicembre 2021 della rivista “Stato e Mercato” e intitolato “Rischi di automazione delle occupazioni: una stima per l’Italia”, in base al quale il numero di lavoratori italiani a rischio si collocherebbe tra i 4 e i 7 milioni.

 

In base a questo scenario, che rimane prettamente teorico, l’intento ergonomico di questo processo, cioè quello di sollevare l’uomo da azioni usuranti e abitudinarie, potrebbe essere cambiato. L’automazione odierna non costituirebbe più un mero ausilio all’attività umana, ma anche, molto spesso, un sistema di strumenti in grado di renderla superflua. Tuttavia, la questione in oggetto riveste uno spettro molto più ampio: il mondo del lavoro italiano si confronta con delle sfide diverse, quali la carenza di competenze e la discrepanza tra quelle richieste e quelle disponibili.

 

 

Si tratterebbe, quindi, di una preoccupazione infondata se riguardante la realtà italiana: un altro studio, condotto dall’INAPP nel 2021 e intitolato “Stop worrying and love the robot: An activity-based approach to assess the impact of robotization on employment dynamics”, ha rivelato che in Italia l’introduzione di robot industriali non ha influenzato negativamente il tasso di occupazione, ma ha contribuito a ridurre, seppur in misura contenuta, quello di disoccupazione. Ad aver subito un aumento è stata, invece, la domanda di professionisti legati al ciclo di vita dei robot, che va dalla loro progettazione all’utilizzo effettivo negli stabilimenti.

 

Contrariamente alle ipotesi, quindi, l’obiettivo originario continua a esistere: nei Paesi sviluppati le attività fisiche ripetitive sono state automatizzate, in maniera tale da ridurre il rischio per la salute degli operatori, mentre le attività a contenuto cognitivo elevato continuano a registrare un aumento favorevole.

 

Ad ogni modo, l’obiettivo principale di questo articolo non è esaminare contesti come quello italiano, dove il settore dell’automazione ha avuto uno sviluppo adeguato nel tempo, in linea con le necessità umane. Oltretutto, in questi contesti è necessario evidenziare un aspetto fondamentale, seppur spesso trascurato, che prescinde dalle visioni in merito, siano esse ottimistiche o pessimistiche: nonostante l’applicazione avanzata dell’apprendimento automatico, i posti di lavoro non sono scomparsi. E, probabilmente, sulla base di molti studi, non lo faranno neanche nel prossimo futuro.

 

“Robots and Organization Studies: Why Robots Might Not Want to Steal Your Job” è il titolo di uno studio condotto nel 2019 da Peter Fleming, che  considera la necessità di affrontare delle questioni più ampie, riguardanti la giustizia sociale nella realtà globale. Nello specifico Fleming, nel corso del suo studio, affronta le condizioni di Devi Lal, un uomo residente a Delhi, in India, la cui mansione era stata individuata, in un report del 2012 (Miller, 2012) come il lavoro peggiore del mondo.

 

L’occupazione di Devi era quella del “manual scavenger”. Si tratta di una figura addetta a calarsi senza corde nelle fogne e pulire a mani nude le fogne intasate, immergendosi nudo e per diverse ore tra i rifiuti e i gas tossici. Per questo lavoro Devi veniva pagato l’equivalente in rupie di 3.50 euro al giorno.

 

In base a quanto riporta Fleming, in città come Londra e Oslo la pulizia manuale delle fogne è relativamente rara. E, se una persona venisse incaricata di immergersi in un ambiente tanto deplorevole, si tratterebbe di un tecnico specializzato, adeguatamente equipaggiato e soggetto a degli specifici protocolli di sicurezza e igiene. Questo fenomeno indica una vera e propria discrepanza: “la differenza tra Delhi e Londra -sottolinea Fleming- è il costo della manodopera di Devi: il suo tasso salariale è decisamente inferiore al costo che si potrebbe investire in una macchina”.

 

Tuttavia, la stessa logica caratterizza anche i Paesi più ricchi; si tratta del motivo per il quale un robot, almeno per il breve periodo, non si preoccuperà di pulire le nostre case. L’impiego di persone è semplicemente più economico, soprattutto a causa della presenza di lavoratori di minoranza etnica, che sono sovra-rappresentati nella forza di lavoro sottopagata. I costi di capitale e manutenzione per investire in attrezzature di intelligenza artificiale sono considerevoli e, a tal proposito, le aziende valutano non solo la possibilità di meccanizzare un lavoro, ma, data la disponibilità di manodopera a basso costo, anche l’eventuale vantaggio economico.

 

Una delle principali cause di lavoro precario e stagnazione salariale è stata individuata nella de-sindacalizzazione (Kalleberg, 2011): i datori di lavoro che operano in luoghi che sono rimasti fortemente sindacalizzati hanno un forte interesse nei confronti dell’automazione, soprattutto laddove il sindacato è (o minaccia di essere) militante. È necessario, quindi, analizzare anche quei contesti in cui la sindacalizzazione non esiste.

 

Un esempio è l’azienda di ride-hailing Uber, che ingloba una serie di aspetti fondamentali. Innanzitutto, l’applicazione di Uber comporta un’automazione parziale della mansione, in quanto riduce il livello di competenze necessarie ai tassisti tradizionali, che ricevono una formazione. Inoltre i conducenti, individuati come lavoratori autonomi, ricevono salari significativamente più bassi. Questo accade sia in Europa che negli Stati Uniti ed è il motivo principale per cui i lavoratori di Uber si sono rapidamente sindacalizzati, chiedendo pieni diritti lavorativi.

 

Prendendo in considerazione delle realtà diverse da quelle europee e statunitensi, come l’Egitto, in cui la contrattazione tra commerciante e cliente è molto forte e, in generale, le condizioni dei lavoratori sono peggiori, il rapporto tra paga e soddisfazione dei lavoratori è inversamente proporzionale. Nonostante la paga sia molto bassa, i conducenti di Uber svolgono con piacere il proprio lavoro. Al tempo stesso, dato il particolare rapporto qualità-prezzo, Uber è preferito dai turisti rispetto ai sistemi tradizionali, in quanto è l’alternativa più economica e l’unica soggetta a una regolamentazione.

 

Non sorprende, quindi, il fatto che Uber abbia annunciato un significativo investimento nella tecnologia delle auto a guida autonoma solo nei Paesi in cui i conducenti hanno portato avanti delle rivolte (Morris, 2017).

 

In conclusione, non si può affermare con certezza che il ruolo dell’intelligenza artificiale non avrà alcuna influenza sulle occupazioni in futuro. Rimane però costante la tendenza di alcune aziende, soprattutto quelle che operano nei Paesi più poveri, a voler rimanere ancorate al proprio status quo unicamente a causa del vantaggio economico fornito dalla persistenza dei lavoratori sottopagati.

FONTI

rivisteweb.it

fortune.com

jstor.org

dailymail.co.uk

journals.sagepub.com

oa.inapp.org

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Punti quantici: un premio Nobel dalle molte applicazioni in medicina

Il premio Nobel per la chimica di quest’anno è stato assegnato il 4 ottobre a Moungi G. Bawendi, Louis E. Brus e Alexei I. Ekimov “per la scoperta e la sintesi dei punti quantici”, ottenuti per la prima volta negli anni 80. Si tratta di strutture artificiali, cristalline, semi-conduttrici ed estremamente piccole: le loro dimensioni vanno da alcune unità fino a poche decine di nanometri, che corrispondono a un miliardesimo di metro. Dalle loro dimensioni e struttura dipendono le loro peculiari proprietà, che li rendono potenzialmente utili in moltissimi settori tra cui l’ottica, l’elettronica, l’energia e la medicina.

I punti quantici rientrano a pieno titolo tra le nanotecnologie: uno dei principi teorici fondamentali di questo campo scientifico è il cambiamento osservabile nelle proprietà di un composto a seconda della sua dimensione. Se in una grande porzione di materia notiamo certi fenomeni, a scale molto piccole ne emergeranno altri, principalmente dovuti a effetti quantistici. Molte proprietà possono essere modificate solamente variando la dimensione delle particelle: tra queste, quella di maggiore interesse per i punti quantici è la fluorescenza. In questo fenomeno, una sostanza emette luce a una lunghezza d’onda diversa da quella che ha ricevuto in precedenza. I punti quantici possono dunque assorbire radiazione elettromagnetica ultravioletta e riemettere luce visibile di differenti colori a seconda delle loro dimensioni.

Questa loro caratteristica, assieme alla capacità di trasportare elettroni, li rende utili come componenti all’interno dei moderni display, dei LED o come strumento per il bioimaging (un insieme di tecniche utilizzate per ottenere immagini di tessuti e organi di organismi viventi), dato che la loro fluorescenza può essere molto più intensa di quella di altre sostanze. Ad oggi è possibile ottenere punti quantici di dimensioni desiderate in modo accurato e con tecniche chimico-fisiche relativamente poco costose.

Quantum dots e nanomedicina: quali sono le applicazioni possibili?

Queste strutture cristalline sono spesso formate da metalli pesanti, come il cadmio; sono dunque tossici per le cellule e per gli organismi. Esistono però dei punti quantici formati da strutture di grafene, potenzialmente combinate con altri tipi di composti (procedura che viene chiamata “funzionalizzazione”), che attualmente rappresentano la variante più biocompatibile. Si apre quindi la strada a numerose applicazioni nella branca della nanomedicina, cioè “l’applicazione della nanotecnologia in campo medico”.

Questi punti quantici sono in grado di superare la barriera ematoencefalica (la struttura che “regola selettivamente il passaggio sanguigno di sostanze chimiche da e verso il cervello”), caratteristica che li rende potenzialmente utili nel trattamento di alcune malattie neurodegenerative, come il morbo di Alzheimer. È stato osservato che i punti quantici di grafene possono funzionare come inibitori dell’aggregazione all’esterno dei neuroni della proteina amiloide, responsabile del decorso della malattia.

Un’altra applicazione per i punti quantici di grafene è il drug delivery: queste nanostrutture possono diventare dei veri e propri trasportatori di farmaci affinché essi vengano rilasciati esattamente nel punto desiderato del corpo. La loro stabilità una volta entrati a contatto con i fluidi corporei e la capacità che hanno di conservare i farmaci che trasportano li rendono dei buoni candidati per questa applicazione. Grazie a questo si potrebbe diventare così in grado, per esempio, di rilasciare molecole nelle cellule tumorali senza intaccare quelle normali. Un vantaggio dei punti quantici rispetto ad altri tipi di molecole usate come trasportatori dipende dall’intensa fluorescenza prima descritta: è possibile infatti monitorarne il comportamento all’interno dell’organismo grazie a tecniche di bioimaging.

Tutte queste applicazioni sono ancora in fase di studio e sperimentazione: i punti quantici hanno e potranno avere un grande potenziale tecnologico in molte applicazioni biomediche, così come in altri ambiti.

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Come valorizzare le biomasse di scarto grazie alle bioraffinerie

E se la buccia delle patate e altre biomasse di scarto diventassero una materia prima preziosa da cui ricavare prodotti chimici, combustibili e altri materiali? La valorizzazione delle biomasse di scarto è possibile anche grazie a una serie di approcci sperimentali e industriali che possono essere raggruppati sotto il nome di “bioraffineria”.

Per capire meglio di cosa si tratta, prendiamo come riferimento la definizione data da IEA: “una bioraffineria è un insieme di processi sostenibili volti a trasformare le biomasse in uno spettro di prodotti commercialmente rilevanti”. Le biomasse che possono essere utilizzate vanno da scarti di lavorazione del legno, paglia, amido, fino ad alghe e altri sottoprodotti dell’industria agroalimentare. Queste possono essere trasformate in prodotti chimici di alto valore o combustibili utili per i trasporti ed energia.

Ma quali sono i processi più sfruttati? Le materie prime possono, per esempio, essere gassificate (cioè portate allo stato gassoso), trasformazione che permette la loro scissione in componenti più piccoli, che saranno poi necessari per la sintesi di molecole più complesse. Un altro processo molto sfruttato è la pirolisi, che consente la decomposizione chimica delle materie prime unicamente grazie al calore fornito. Si possono altrimenti condurre una serie di reazioni chimiche che permettano la separazione di tutti i componenti di interesse. Un’ultima via disponibile è quella della fermentazione, che sfrutta la capacità di microrganismi (come batteri) di trasformare grazie al loro metabolismo sostanze come gli zuccheri: in quest’ottica è e sarà molto importante la ricerca su microrganismi GM (geneticamente modificati), il cui metabolismo può essere modificato per ottenere prodotti altrimenti difficilmente raggiungibili con una sintesi chimica.

Come valorizzare la buccia delle patate

A livello teorico, moltissimi tipi di biomasse potrebbero essere processate grazie alle bioraffinerie. Ne esistono però alcune più interessanti e studiate di altre: per esempio, la buccia delle patate. Questo tipo di scarto largamente prodotto a livello industriale può essere fonte di composti interessanti in vari ambiti. Può essere usato non solo come mangime per animali da allevamento o come materia per compostaggio: dalla buccia di patata possono essere estratti, grazie a solventi chimici, delle molecole antiossidanti naturali utili alla conservazione dei cibi (normalmente, antiossidanti sintetici vengono addizionati per garantirne la durata). Si può produrre bioetanolo come combustibile da fonti rinnovabili (si tratta di etanolo in tutto e per tutto, per cui il prefisso “bio” indica solamente la sua provenienza): attualmente la maggior parte del bioetanolo (circa il 60%) deriva dalla fermentazione della scorza della canna da zucchero, ma esiste una domanda in crescita data dalla spinta ad emanciparsi sempre di più dai combustibili fossili. Infine, a partire dalla buccia di patata e dai suoi nanocristalli di cellulosa si sta cercando di produrre una bioplastica, un altro tipo di manufatto concepito per diminuire la dipendenza odierna dai combustibili fossili: ad oggi le sue proprietà meccaniche però non sono ancora ottimali.

L’approccio delle bioraffinerie è quindi utile per valorizzare biomasse di scarto non solo riutilizzandole, ma trasformandole in prodotti ad alto valore aggiunto.

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Ambiente, società e tecnologia

Perché non dobbiamo preoccuparci per lo sversamento delle acque di Fukushima

Il 24 agosto 2023 in Giappone è iniziato il rilascio delle acque della centrale nucleare in dismissione di Fukushima Dai-ichi. A seguito dell’incidente avvenuto a marzo 2011, che ha causato la fusione del combustibile all’interno del reattore, ne è stato effettuato il raffreddamento con acqua, che ne è rimasta contaminata. In riposta a questa notizia non sono mancati titoli allarmistici, polemiche e dichiarazioni contrarie: ma questi sono davvero giustificati alla luce dei fatti scientifici?

Perché non bisogna preoccuparsi

L’acqua entrata in contatto con il combustibile fuso è stata filtrata grazie a un sistema chiamato “ALPS” (Advanced Liquid Processing System): questa operazione ha reso possibile, grazie a dei processi chimici, la rimozione di 62 radionuclidi, cioè “nuclei atomici instabili che decadono emettendo energia sottoforma di radiazioni”. L’unica specie chimica che non è stato possibile rimuovere è il trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno. Non dobbiamo però allarmarci: infatti la sua concentrazione nell’acqua di Fukushima è circa 7 volte inferiore al limite fissato dall’OMS per l’acqua potabile, risultato che è stato possibile raggiungere diluendo l’acqua precedentemente contaminata con acqua di mare. L’intero procedimento è stato costantemente monitorato dalla IAEA, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, che ha dichiarato tramite un report scientifico che le misurazioni condotte sull’acqua in Giappone sono state “accurate e precise”. Inoltre, lo sversamento di circa 1 milione di tonnellate di acqua iniziato il 24 agosto durerà circa 30 anni e sarà ulteriormente seguito da IAEA.

Alla luce di tutti i sistemi di sicurezza e delle precauzioni messi in atto, si può affermare che l’impatto di questa operazione sull’ecosistema marino e sulla salute umana sarà del tutto trascurabile e non causerà dunque alcun danno.

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Ambiente, società e tecnologia

Com’è fatto un metaborgo?

Le possibilità connesse all’avvento delle tecnologie digitali coinvolgono sempre più ambiti, sia economici che sociali: dal gaming alla medicina, dall’industria al settore turistico, in particolare quest’ultimo, dove il metaverso ha trasformato un piccolo paese della Valtellina nel primo Metaborgo d’Italia.

Questo grazie a un progetto innovativo, presentato a Bruxelles in occasione dell’European Tourism Day e inaugurato lo scorso 3 giugno ad Albaredo San Marco, piccolo comune di 300 abitanti in provincia di Sondrio.

Sviluppato dall’azienda Carraro Lab in collaborazione con l’Università di Milano Bicocca, il Metaborgo consentirà ai visitatori, grazie a visori VR da noleggiare in loco o  utilizzando semplicemente il proprio smartphone, di immergersi nella storia di questo piccolo borgo montano; infatti, percorrendo 12 tappe di un tour interattivo, che alterna realtà virtuale e realtà aumentata, si potranno osservare scene di vita quotidiana passata e conoscere le  vicende storiche di Albaredo, con la possibilità, per gli utenti, di incontrare gli abitanti dell’epoca, scoprirne usi e costumi e apprezzare le tradizioni che caratterizzano quest’angolo della Valtellina.

 

L’iniziativa del Metaborgo, secondo Barbara Mazzali, assessore al Turismo della regione Lombardia, “può rappresentare una parte della nuova frontiera del turismo”.

Sono numerose, infatti, le strutture alberghiere, le destinazioni turistiche e le istituzioni museali, tra cui un autentico Museo delle Esperienze di Realtà Virtuale, “La Macchina del Tempo” di Bologna, che, implementando queste soluzioni tecnologiche nelle loro strategie commerciali e di valorizzazione, hanno come obiettivo il miglioramento dell’ambiente di riferimento e la volontà di rendere indimenticabile l’esperienza di turisti e visitatori.

 

Metatourism, inoltre, è stato l’argomento principale anche di convegni e fiere di settore, tra cui l’edizione 2022 della BTO (Buy Tourism Online) di Firenze, dove molti interventi si sono concentrati sulle opportunità e le possibilità offerte dal legame tra turismo e metaverso.

Sono esempi significativi che testimoniano come le tecnologie VR e AR stiano rivoluzionando sempre di più il settore dei viaggi e del turismo.