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Ambiente, società e tecnologia

Neutralità climatica: cos’è e perché non la raggiungeremo nel 2050

Nonostante sia ormai da mezzo secolo che gli esperti parlano di “cambiamento climatico”, si sono rese necessarie due cose affinché questo argomento riuscisse ad affermarsi come attuale: il quinto rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) e un impermeabile giallo. Il primo è servito al processo di affermazione giudiziaria del cambiamento climatico in quanto per la prima volta volta sono state fornite le prove scientifiche circa l’esistenza dello stesso e della sua origine antropica; mentre il secondo lo ha reso finalmente un fatto mediatico, degno di essere sulla bocca di tutti.

Perché è necessario raggiungere la neutralità climatica

L’IPCC, che dal 1988 si occupa di cambiamenti climatici, stima la probabilità di accadimento del riscaldamento globale tra il 95 e il 100%, e gli attribuisce una serie di conseguenze quali: l’innalzamento del livello del mare, l’incremento delle ondate di calore e dei periodi di intensa siccità, ai quali seguirebbero poi violente alluvioni, e un aumento in numero delle tempeste e degli uragani.

Mantenere l’innalzamento della temperatura media globale al di sotto del dato stimato non è solo necessario ma vitale; ed è per questo che è nato il concetto di neutralità climatica, un concetto con il quale si intende l’azzeramento delle emissioni nette, ossia il pareggio nel bilancio tra le emissioni in atmosfera e la quantità di gas che il Pianeta riesce ad assorbire. La neutralità climatica, tra l’altro, è ben lontana dal poter essere considerata una garanzia protettiva rispetto all’imminente catastrofe dato che, almeno per ora, tutto ciò che è stato emesso in passato continua a rimanere in atmosfera e perciò a esercitare inesorabilmente la sua azione “riscaldante”.

Della situazione venutasi a creare, l’opinione pubblica ha finalmente preso coscienza e ciò ha costretto le forze politiche a intervenire sul tema: a partire dal 2015 sul piano internazionale e sul piano sovranazionale è iniziato un processo di fissazione degli obiettivi, forse un po’ troppo ambiziosi, a tutela del pianeta terra che hanno poi portato l’Europa a poter ipotizzare il miraggio della neutralità climatica entro il 2050.

Perché non sarà raggiunta entro il 2050

Proprio con questi obiettivi la Commissione Europea, guidata da Ursula von der Leyen, ha promosso il Green Deal Europeo: una vera e propria tabella di marcia ricca di linee guida e suggerimenti per rendere sostenibile l’economia UE e migliorare lo stile di vita dei cittadini.

Nel comunicato ufficiale, il Green Deal viene definito come “una strategia che mira a trasformare l’Unione Europea in una società giusta e prospera, con un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva in cui non ci sono emissioni nette di gas a effetto serra nel 2050 e in cui la crescita economica è disaccoppiata dall’uso delle risorse.

Il raggiungimento di obiettivi così ambiziosi e significativi è tuttavia ostacolato da diverse problematiche; prima fra tutte la vastità ed eterogeneità di Stati coinvolti.

Come affermato da Andrea Quaranta nel suo articolo, il perseguimento dell’azzeramento delle emissioni avrà costi e tempi diversi per i vari paesi dell’Unione. Gli stati dell’Unione Europea differiscono infatti per cultura, tradizione, sfondo economico e risorse a disposizione, pertanto sarà necessario individuare procedure e strategie attuabili da tutti gli stati, in modo da fornire a tutti un’opportunità di trasformazione.

Secondo GreenPeace, le misure attualmente indicate sono “troppo deboli o hanno ancora bisogno di essere cucite insieme”.

Alle problematiche di individuazione di misure europee si affiancheranno presto complicazioni nella definizione di un iter legislativo e di misure a garantire l’applicazione delle stesse, operazioni che restano a discrezione dei singoli stati.

Un altro ostacolo è sicuramente l’elevato numero di finanziamenti necessari all’attuazione di tali progetti. Come spiegato da Simona Rizza sull’Eco Internazionale, il Green Deal Europeo sfrutterà InvestUE: uno strumento finanziario per la raccolta di finanziamenti pubblici e privati. Si stima un raggiungimento di un bilione di euro, fondi tuttavia considerati insufficienti dall’analisi di le monde, riportata da Insideover.

Nello stesso articolo vengono inoltre evidenziati risvolti negativi che potrebbero essere introdotti dall’applicazione di un cambiamento economico così forte: l’aumento dei prezzi in risposta all’introduzione di regolamenti stringenti ed una mancata crescita produttiva potrebbero portare a gravi conseguenze a sfavore dell’Europa nelle logiche commerciali internazionali.

La sfida: la rinuncia al petrolio

Un ulteriore motivo per il quale non raggiungeremo la neutralità climatica è che a pesare maggiormente sulle nostre emissioni in atmosfera è il comparto fossile seguito a distanza dagli allevamenti intensivi; questo è un bel problema se si pensa che, sebbene non tutta la popolazione può definirsi onnivora, ormai quasi tutti gli ospiti del Pianeta sono energivori.

Come ricorda il Professor Nicolazzi nel suo libro “Elogio del petrolio. Energia e disuguaglianza dal mammut all’auto elettrica”, l’energia, per l’Homo Sapiens, è stata la vera guida al successo evolutivo. Inizialmente l’uomo disponeva solo di se stesso come convertitore di energia, poi ha addomesticato altre specie e all’energia propria ha affiancato quella animale. In seguito, l’uomo ha compreso come catturare l’energia dalla natura e ha costruito i mulini: strutture che pur senza nutrirsi, sono in grado di svolgere il lavoro di 60 persone. Infine, sono arrivate le fonti fossili e il petrolio. A questo punto la qualità della vita è migliorata così tanto che sembra impossibile separarsene.

Ad oggi più del 60% delle emissioni in atmosfera sono dovute al fossile e, per quanto la nascita del Ministero della transizione ecologica ci faccia pensare, e sperare, che quella energetica sia vicina, rimane una serie di problemi che ci separano dall’agognato obiettivo “fossile zero”. Primo tra tutti la sua sostituzione nel campo della produzione industriale particolarmente in tutti quei settori in cui si renda necessario il raggiungimento di elevate temperature.

Il secondo grande quesito della separazione dal fossile sta proprio nella produzione di energia pulita. Infatti, a differenza di quanto comunemente si pensi, il problema non risiede solo nel raggiungimento di una densità elettrica utile a svolgere il lavoro che fino a oggi ha egregiamente svolto il fossile, ma risiede anche nel posizionamento delle strutture che generino la nuova energia pulita tenendo conto che l’offshore non può rappresentare la totale soluzione.

Ammesso che si trovi il sistema per produrre l’energia green, per puntare alla neutralità climatica entro il 2050 si renderebbe necessaria una rivoluzione della rete energetica integrata con un ottimizzato sistema di accumulo, i cui costi sono molto più elevati di quelli derivati dalla lavorazione del vecchio amico petrolio. Infatti, per quanto si trovi lo spazio per posizionare le strutture necessarie, possibilmente senza disboscare, è necessario fare i conti con l’intermittenza nell’erogazione dell’energia. Il petrolio, una volta estratto è sempre pronto ad entrare in azione: delle fonti rinnovabili si può dire lo stesso? Se si alimentasse la propria casa esclusivamente con l’energia solare, tutte le docce fatte dopo il tramonto sarebbero piacevoli come secchiate d’acqua gelida: non è esattamente quello che ci si aspetta al termine una giornata impegnativa.

Indissolubilmente legata alla tematica del petrolio, abbiamo quella dei trasporti dove, anche in questo caso, l’immaginario comune a volte sembra ben lontano dall’aver fatto i conti con l’oste. Visto che il comparto navale e quello aereo sono ancora ben lontani dalla possibilità di un’alimentazione green essendo improponibile, specie per il trasporto navale, la rinuncia al fossile, ci limiteremo ad accennare solo al settore automobilistico. Il 12% delle auto immatricolate in Italia nel 2020 appartiene alla categoria “vetture elettriche pure o ibride plug-in”, ma questo non rappresenta un dato confortante. Infatti per quanto una vettura elettrica o ibrida in funzionamento elettrico non immetta anidride carbonica in atmosfera, l’impianto che ha generato l’energia con la quale l’auto si è mossa quasi sicuramente lo ha fatto. Uno scenario del genere non prevede la riduzione delle emissioni in atmosfera ma solo la loro delocalizzazione nello spazio e nel tempo. Quanto appena descritto non vuole essere una profezia di Cassandra, piuttosto è ciò che può essere dedotto dal  rapporto TERNA riferito al mese di Gennaio, secondo cui solo un terzo della domanda energetica del Belpaese è soddisfatta da energia derivante da fonti alternative.

Tra miraggio e realtà

Quasi sicuramente il 2050 non rappresenterà l’anno del raggiungimento della neutralità climatica ma questo non significa affatto che impegnarsi al suo perseguimento sia uno sforzo vano. Il cambiamento climatico e le sue dannose conseguenze sono praticamente dati per certi e imminenti e, piuttosto che non fare nulla, è sempre meglio agire pur correndo il rischio che quanto fatto non sia bastato. Il susseguirsi di azioni concrete non migliorerà da subito la situazione del Pianeta, ma siamo chiamati ad agire adesso nel rispetto delle generazioni future, perché non siano private dei benefici di cui i loro predecessori hanno goduto, e purtroppo abusato.

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Perché potrebbe essere possibile raggiungere la neutralità climatica nel 2050

Negli ultimi 40 anni l’umanità ha sempre più preso coscienza della realtà dei cambiamenti climatici e dell’impatto devastante che hanno (e avranno). Una consapevolezza che è cresciuta fino ad arrivare nel 2015 agli accordi di Parigi, il più importante impegno internazionale per tutelare l’ambiente: oggi ne fanno parte 197 Paesi.

Seguendo l’ammonimento della scienza, vuole contenere il riscaldamento del pianeta a 2 gradi rispetto all’era preindustriale, soglia considerata critica e di non ritorno per raggiungere la neutralità climatica.

Grandi obiettivi a lungo termine che non ammettono perdite di tempo, ma riusciremo a metterli in pratica concretamente e partendo adesso?

Alcuni si riferiscono al periodo che stiamo vivendo come una nuova rivoluzione industriale, che ponga la questione ambientale al centro e riveda il concetto di produzione da lineare a circolare, quanto più possibile. L’Unione Europea in questa rivoluzione ambisce al ruolo di protagonista, perché con il suo Green Deal si è posta obiettivi importanti volti al raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050.

La crisi causata dal Covid-19, contrariamente alle aspettative di qualcuno, non solo non ha fermato i progetti della commissione europea, li ha addirittura rafforzati. Di fronte a una forte crisi le società sono maggiormente disposte a cambiamenti drastici nei loro piani.

Basti pensare al recovery fund e all’ingente parte di questo dedicato agli investimenti green da attuare nei vari stati membri.

Certo è che non possono rimanere promesse vaghe, c’è bisogno di una governance competente e coordinata tra i paesi membri che si ponga obiettivi raggiungibili e misurabili nel breve periodo.

Anche gli USA sono in campo per giocarsi un ruolo di primo piano, dopo l’amministrazione Trump notoriamente negazionista della questione climatica. Biden ha infatti promesso un piano di investimenti da 1,7 trilioni di dollari in energia pulita nei prossimi dieci anni, per creare nuovi posti di lavoro e convertire gli attuali impiegati nel settore energetico dei combustibili fossili. Non è da meno la Cina, che dall’altra parte del mondo intensifica i suoi sforzi specialmente per migliorare la qualità dell’aria, ponendosi obiettivi e controlli quinquennali.

Ci sono 4 settori in particolare che sono responsabili di gran parte delle emissioni di gas serra: energia, trasporti, edilizia e filiera alimentare.

Alimentazione

La filiera alimentare è un enorme contribuente al cambiamento climatico, specialmente quella degli allevamenti intensivi di bovini. Questi sono responsabili di emissioni di metano più che di anidride carbonica, per non parlare del consumo di suolo e acqua. “Se la popolazione delle mucche nel mondo fosse considerata come un paese, sarebbe uno tra i primi tre al mondo per emissioni di gas serra”, è l’ammonimento di Kimberly Henderson, esperta di sostenibilità e partner di McKinsey.

Segnali incoraggianti però arrivano dalle aziende, che stanno mettendo a punto e perfezionando varie tecniche di riduzione delle emissioni di metano (qui l’approfondimento de Il Post) ma anche dai consumatori, sempre più consapevoli dell’impatto delle loro scelte a tavola. Ridurre il consumo di carne e acquistare prodotti a KM0 sono entrambi trend in crescita.

Trasporti

Il settore automobilistico è responsabile del 15% delle emissioni di CO2 e ha dunque un ruolo centrale per la lotta al riscaldamento globale su due fronti, quello delle emissioni di scarico e le emissioni dei materiali dei veicoli. Le prospettive sono positive: le vetture elettriche stanno prendendo sempre più piede e c’è una crescente pressione per aumentarne ancora di più la quota di mercato, sia dagli investitori che dalle autorità. Sta anche facendo progressi l’industria delle batterie al litio, che diventa sempre più efficiente e circolare (è da poco nata Reneos, la piattaforma europea di raccolta e riciclo delle batterie esauste in grado di recuperarne la maggior parte dei componenti). Aziende come Tesla, poi, stanno studiando nuovi metodi per la produzione di batterie, come le LFP.

Le innovazioni nei trasporti più in senso lato corrono veloci: prosegue la sperimentazione di Hyperloop e si studiano nuovi combustibili, come l’idrogeno per gli aerei.

Energia

Il settore energetico costituisce la chiave di volta per la decarbonizzazione del nostro pianeta, a fronte di una richiesta energetica destinata ad aumentare. L’utilizzo di fonti esclusivamente rinnovabili non sarà una sfida facile.

Se, infatti, i combustibili fossili sono in grado di produrre energia 24 ore al giorno, le rinnovabili sono per lo più vincolate alle condizioni atmosferiche: di notte o in una giornata nuvolosa il solare non sarà sfruttabile, così come l’eolico in una giornata senza vento.

Sono in corso numerosi studi su come immagazzinare l’energia proveniente da queste fonti, magari in giga batterie, ma al momento si tratta di soluzioni estremamente costose.

Un ruolo molto importante potrebbe essere giocato dal nucleare, ma in assenza di un effettivo reimpiego delle scorie nucleari si tratterebbe solamente di spostare il problema.

C’è poi la questione del consumo di suolo: una “wind farm”, ad esempio, richiede un territorio molto più ampio rispetto a una centrale tradizionale, a parità di energia prodotta. E le dighe necessarie alla produzione di idroelettricità hanno il loro impatto sul territorio circostante.

In questo senso vengono in aiuto tecnologie come l’eolico offshore, di cui la Danimarca è leader, e nuove tecnologie in grado di sfruttare l’energia incessante delle onde marine, con impatto pressoché nullo sugli ecosistemi in cui vengono inserite.

E in realtà come l’Europa, la maxi-rete energetica interconnessa permetterebbe di sfruttare al massimo l’energia pulita dei vari paesi: eolico della Danimarca, solare dei paesi mediterranei, nucleare francese, geotermico italiano e così via.

Edilizia

La produzione di cemento è una delle attività più inquinanti, ma il settore dell’edilizia sostenibile (incentivato, ad esempio, dal Green Deal europeo) è in rapidissima ascesa: si stima che entro 6 anni raggiungerà un valore di mercato (mondiale) di oltre 180 miliardi di dollari, con una crescita dell’8,6% annuo.

Alcuni elementi chiave della nuova edilizia sono il prefabbricato con ampio uso di legname proveniente da foreste gestite in modo sostenibile e con certificazioni green.

Oltre al ripensamento dei materiali, il fatto di avere case prefabbricate aiuta a migliorare l’isolamento, con conseguente ottimizzazione dei consumi energetici.

Altro elemento chiave per il raggiungimento di questa ottimizzazione è l’intelligenza artificiale e l’indipendenza energetica, con il crescente utilizzo di pannelli solari e sistemi di domotica intelligente.

Questi sono solo gli aspetti più importanti che la nuova edilizia deve tenere d’occhio, ma certamente non gli unici. Se le previsioni saranno rispettate, il settore edilizio contribuirà a ridurre del 40% le emissioni di CO2 entro il 2030.

Mercati

Tutta questa questione di new economy e piani per il clima si basa su previsioni future dall’esito molto incerto, e altrettanto volatili sono i mercati. Proprio su questi possiamo tentare di indagare per scoprire il destino (almeno nel breve termine) dello sviluppo sostenibile.

Tesla, la cui mission è “accelerare la transizione del mondo verso l’energia sostenibile” ha avuto un boom in borsa ed il suo CEO è attualmente l’uomo più ricco del mondo, con super investimenti in vari campi di innovazione tecnologica.

Gli investimenti in energia rinnovabile sono sempre di più, da governi e privati, e nello scorso anno il settore automobilistico a 0 emissioni è cresciuto enormemente rispetto alla controparte a combustione interna, anche in Italia. Sembrerebbe, dunque, che la sostenibilità stia vincendo.

Alla luce di tutto questo, con così tante variabili in gioco e così tanta incertezza, risulta veramente difficile affermare con certezza se le emissioni verranno azzerate nel 2050 o qualche anno dopo. La rapidità con cui il mercato sta cambiando in pochi anni, però, non può che lasciarci fiduciosi.

Un altro fattore che ci rende ottimisti è la ricerca di metodologie per catturare i gas serra già presenti nell’atmosfera, a partire dal più semplice e naturale di tutti: la riforestazione. Oltre a ciò, alcuni personaggi influenti della scena internazionale (come Bill Gates ed Elon Musk) stanno incentivando la ricerca per metodi artificiali di carbon capture technology e sensibilizzando l’opinione pubblica sull’importanza di agire.


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Come l’uomo più ricco del mondo vuole spendere i suoi soldi e salvare il pianeta

L’8 gennaio di quest’anno Elon Musk è diventato l’uomo più ricco del mondo con un patrimonio di quasi 190 miliardi di dollari, superando persino Jeff Bezos proprietario di Amazon; Tesla, la sua azienda più redditizia vale più di Facebook ed è il CEO di altre 3 realtà altrettanto futuristiche: Space X, Neuralink e The Boring Company. Nei suoi tweet dichiara come vuole utilizzare quei soldi: per salvare l’umanità.

Quando ha saputo della notizia, ha riflettuto solo un secondo, per poi replicare: “bene, torniamo al lavoro”, Elon Musk è il tipico genio che lavora sodo e negli ultimi tempi si è fatto conoscere da tutto il mondo per i grandi risultati ottenuti: ben 26 missioni spaziali nell’anno del Covid-19, le azioni di Tesla che salgono del +500% in un anno, il suo Falcon 9 che si conferma come miglior razzo riutilizzabile esistente, il progetto “LaunchAmerica” con il quale gli Stati Uniti sono tornati a decollare dal suolo americano grazie alla Crew Dragon – la prima navicella commerciale – e la recente acquisizione di due piattaforme petrolifere per lanciare i razzi. Ciò che desta ancora più scalpore sono le sue intenzioni future che puntualmente dichiara tramite degli enigmatici e a volte folli tweet: da creare una sorta di treno velocissimo (1220 km/h) denominato Hyperloop a levitazione magnetica che in poco tempo permette di viaggiare tra le grandi città del mondo, ad impiantare un chip nel cervello umano che consenta la cura di malattie neurodegenerative e il movimento di arti robotici con il pensiero per aiutare chi ha subito amputazioni, fino alla Tequila marcata Tesla.

Tuttavia è noto da anni che l’obiettivo principale del CEO visionario è, tra tutti, colonizzare Marte per dare all’umanità una seconda casa.  Secondo il co-founder di PayPal l’uomo metterà piede su Marte nel 2025. Ci vorranno una ventina d’anni e circa 1000 Starships per costruire la prima città sostenibile sul pianeta rosso; su questo progetto è pronto a scommettere gran parte dei suoi soldi.

Negli ultimi giorni si è però aggiunta una novità: “donerò 100 milioni di dollari come premio per la miglior tecnologia di cattura del carbonio” recita il tweet a cui ha fatto seguito un secondo in cui promette maggiori informazioni durante la settimana successiva. Un sistema in grado di catturare l’anidride carbonica dall’atmosfera terreste e trasformarla è una delle possibili soluzioni per contrastare il cambiamento climatico, in linea con questa proposta c’è persino il presidente Joe Biden che oltre ad aver firmato per rientrare negli accordi di Parigi, ha intenzione di prendere dei provvedimenti per accelerare lo sviluppo di questa tecnologia.

Un sistema simile esiste già e viene utilizzato in alcuni impianti industriali: catturare la CO2 alla fonte stessa prima che venga emessa nell’atmosfera e trasportarla in una struttura apposita per essere stoccata (sistemi chiamati Ccs). I problemi principali però sono 2: i costi elevati e il rischio per la sicurezza: eventi geologici o problemi interni, potrebbero danneggiare gli impianti di stoccaggio e una fuoriuscita improvvisa di questo gas può avere importanti effetti di cui già si sono registrati casi di vittime in passato. Per ovviare a ciò sono state fatte delle proposte di sistemi alternativi detti Ccu (Carbon Capture and Utilization) che catturano anidride carbonica e invece di immagazzinarla, la utilizzano trasformandola in sostanza utile. Un’altra problematica che bisogna affrontare è il fatto che il biossido di carbonio non può essere comodamente catturato dal camino di un qualsiasi impianto industriale, bensì direttamente dall’atmosfera terrestre la quale, oltre a rendere difficile un sistema di cattura e separazione delle componenti, contiene molta CO2, ma in maniera estremamente diluita.

La proposta di alcuni è prendere spunto dagli organismi che sono maestri in questo tipo di attività di cattura e trasformazione dell’inquinante: gli alberi, il come però rimane una sfida a cui alcuni laboratori stanno già lavorando; non ci resta che aspettare il genio che farà la miglior proposta guadagnandosi i 100 milioni di Elon Musk…basterà questo per salvare il pianeta?


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Disney censura i suoi capolavori: una scelta giusta?

Negli ultimi giorni si è fatto un gran parlare di una scelta che Disney ha deciso di operare sulla sua piattaforma di streaming Disney+, ovverosia quella di “vietare” alcuni classici – Dumbo, Peter Pan e gli Aristogatti – agli spettatori con meno di 7 anni di età.

Una scelta, senza dubbio discutibile ma che pone le sue radici, per quanto possa sembrare un controsenso, nell’identità stessa della compagnia.

È stata una scelta giusta? Perchè Disney ha deciso di agire in questo modo?

La Storia

Prima di affrontare l’approccio del colosso americano alle tematiche sociali è necessario, però, ripercorre brevemente la sua storia.

Come ogni storia americana che si rispetti, tutto ebbe inizio a seguito di diversi fallimenti di Walter Elias Disney (1901- 1966). Così, in serie difficoltà economiche, Walt iniziò a fare degli esperimenti con una cinepresa in un garage.

Esperimenti di successo che, nel 1923, portarono il fratello Roy a invitarlo in California per fondare insieme la “Disney Brothers Cartoon Studio”.

Fra alti e bassi i due contribuirono alla creazione di vari cortometraggi animati fino a quando, grazie al personaggio di Topolino, nel 1928, i problemi economici si attenuarono (nonostante la casa di produzione non riuscì, ancora, a rendersi indipendente dalle altre società di Hollywood).

Nel 1932, l’uso del colore diede un ulteriore slancio in avanti ed è in quegli anni che vediamo la prima apparizione di Paperini ne “La Gallinella saggia”.

L’uscita nelle sale, poi, del lungometraggio d’animazione “Biancaneve e i sette nani” fece fare il vero balzo in avanti all’azienda, generando incassi per 4,2 milioni di dollari, che portarono alla quotazione in borsa nel 1940.

E’ in questi anni che vediamo l’uso della camera multipiano, tecnica con la quale si riuscì a dare profondità alle riprese nonostante l’utilizzo di immagini a due dimensioni. Tale strumento rinnovò profondamente il settore e fu una tecnica chiave utilizzata poi per i i film d’animazione più riusciti come Pinocchio, Bambi e Peter Pan.

Scoppiata la guerra, e non più accessibile il redditizio mercato europeo, l’esercito requisì l’esercizio trasformando i Walt Disney Studios in una base militare e, così, i disegnatori dovettero realizzare volantini di propaganda e di educazione militare.

Nel 1950, su richiesta dell’azienda radiotelevisiva NBC, Disney iniziò a distribuire dei corti d’animazione con protagonisti i personaggi di Topolino, Pippo e Paperino. Nello stesso anno vediamo la produzione dei primi film di cui il primo in assoluto fu “L’isola del tesoro”.

Successivamente Walt iniziò a concepire l’idea del parco a tema Disneyland. Il primo fu inaugurato a Los Angeles ne 1955 rivelandosi poi un successo, tanto che, ad oggi, ne esistono 5 nel mondo: in Florida, in Giappone, in Francia e in Cina.

Nel 1961 fu aperta l’azienda di distribuzione, Walt Disney Studios Motion Pictures, per gestire i diritti delle licenze dei vari personaggi.  Nel 1966 Walt Disney morì di cancro ai polmoni e così l’azienda, ormai con un grande capitale finanziario, passò al fratello Roy il quale cercò di perseguire la rotta che il fratello aveva dato.

Varie aziende e film uscirono negli anni successivi fra questi ricordiamo Un maggiolino tutto matto e la creazione della Walt Disney Educational Productions per la produzione di materiali didattici.

Alla morte di Roy Disney, nel 1970, il nuovo CEO, Card Walker, promosse vari progetti di Walt ma la sua spinta presto iniziò ad esaurirsi e così vediamo l’apertura di una filiale in Giappone (conseguente all’inaugurazione del parco di DisneyLand a Tokyo), il rilascio del film Tron, e il lancio del canale Disney Channel.

Nel 1984, la creazione del marchio Touchstone Pictures ampliò il mercato Disney ad un pubblico più adulto.

Gli anni ’90 per Disney furono denominati “l’era del rinascimento” in cui nella stragrande maggioranza di aree ottenne grandi successi con film quali: La Bella e la Bestia, Aladdin e Il Re leone. L’azienda ampliò il proprio raggio d’azione con la compagnia di navigazione Disney Cruise Line, la catena alberghiera dei DisneyLand Hotels o i complessi commerciali dei Disney Springs.

Agli inizi degli anni duemila la Disney subì un rallentamento causato da vari fattori e che costrinse l’azienda a dover cedere la partecipazione dell’azienda di canali sportivi quali Eurosport e delle squadre Los Angeles Angels e Anaheim Ducks rispettivamente di football americano e hockey sul ghiaccio.

Nonostante ciò la ripresa fu molto veloce grazie anche all’espansione in paesi quali Cina e Russia.
L’acquisizione prima di Pixar e poi di Marvel e LucasFilm diedero nuovo slancio e il successo a livello globale di Disney gli permise di espandersi nel campo on demand, con l’acqusizione di Hulue di BAMTech i quali permisero di acqusire il know how necessario per la creazione di un servizio streaming lanciato poi nel 2019 con il nome di Disney+.

E’ relativo al 2017, invece, l’accordo con cui l’azienda acquista molte divisioni della Fox quali gli studi cinematografici 20th Century Fox, Fox Searchlight Pictures e Fox 2000 e gli studi televisivi fra cui ricordiamo: 20th Century Fox Television, Fx Networks, National Geographic Partners, Fox Sports Regional Networks e Sky.

La mission: essere d’ispirazione

Per capire la scelta di Disney, tuttavia, è necessario indagare, innanzitutto, la parte istituzionale del sito ufficiale.

Come ogni grande compagnia, infatti, anche The Walt Disney Company dedica una pagina del suo sito a raccontare sè stessa, e quindi alla sua identità e ai suoi obiettivi.

Il primo contenuto che è possibile visionare visitandola è anche il più interessante: la mission, ovverosia il fine ultimo dell’impresa e ciò che la contraddistingue dalla concorrenza, una sorta di dichiarazione di intenti.

Nella poche righe che la compongono Disney enuncia le tre parole chiave del suo operato: “informare, intrattenere e ispirare”. In questo modo, viene messa in luce fin da subito la responsabilità sociale e morale di cui Disney si fa carico – quella di ispirare le future generazioni – chiarendo, subito dopo, di rivolgersi a “tutte le persone del mondo”.

Non stupisce, quindi, la recente attenzione della compagnia sulle tematiche sociali e la sensibilità sul razzismo.

La domanda che, una volta letta la mission, ci si potrebbe porre è: The Walt Disney Company è stata sempre coerente?

Sarebbe impensabile credere che in un lasso di tempo così ampio i valori e le tradizioni restino invariati, da ciò è derivata una continua necessità di rinnovamento strategico.

Ciò nonostante, la multinazionale è stata capace di adattare la sua strategia d’impresa in maniera coerente, ricercando elementi di innovazione ma mantenendo sempre salda la sua fede nel volontariato e nella dedizione alla responsabilità sociale, vista come un vantaggio competitivo e non solo come metodo promozionale.

I fatti concreti

Ma in quali campi Disney ha effettivamente lavorato per il bene comune? Alcuni di questi sono i seguenti:

  • Volontariato: nel 2018 l’azienda firma un piano quinquennale del valore di cento milioni di dollari per creare dei programmi che alleviano ai bambini la degenza in ospedale, con l’aiuto dei Disney Imagineers. Il programma è stato avviato presso il Children’s Hospital di Houston. Disney ha, inoltre, fondato l’organizzazione “Disney Voluntears” con la quale si occupa di assistere e aiutare le altre associazioni benefiche con cui collabora in tutto il mondo.
  • Sostenibilità ambientale: “conservation isn’t just the business of a few people. It’s a matter that concerns all of us” questa è l’opinione di Walt Disney riguardo la tematica. L’azienda ha dato il suo contributo mettendo a disposizione un impianto ad energia solare nel suo parco a tema di Orlando, riuscendo ad alimentare i vari parchi tematici con l’energia generata in questo modo. Altri esempi possono essere l’utilizzo di generatori elettrici sui set televisivi, le politiche aziendali volte a ridurre gli sprechi, cercare di evitare lo spreco d’acqua, la creazione di aree protette per le specie in via d’estinzione.
  • Welfare aziendale: Disney ha lanciato il suo “programma ILS” per garantire a tutti i dipendenti della multinazionale condizioni lavorative dignitose e migliorarle ove possibile

L’attenzione alla diversità

Più di recente, la multinazionale si è posta come obiettivo principale permettere agli spettatori di potersi rispecchiare nelle sue produzioni, di massimizzare il coinvolgimento personale di ognuno di loro nei contenuti che crea. Per fare ciò è emersa la necessità di disporre di team il più possibile variegati a livello culturale ed etnico.

Gli storytellers hanno, così, piena libertà creativa e la maggior multiculturalità dei team pone le basi per lavori più vicini al mondo “reale”. A tal proposito, l’azienda vanta settanta Business Employee Resource Groups in tutto il mondo che, insieme a lei, hanno il compito di plasmare un ambiente lavorativo che consenta ai dipendenti di accrescere ed esprimere appieno le loro potenzialità.

Un’ambiente che sia, quindi, un contesto aperto, dove vi sia un clima di fiducia e positività e in cui tutti si sentano rispettati senza alcuna discriminazione. Secondo Disney, tutto ciò stimola la creatività e consente di creare un’ampia proposta di potenziali nuovi prodotti innovativi.

Disney, inoltre, pone un’attenzione a 360° sulle tematiche sociali e, di conseguenza, è anche sostenitrice della comunità LGBTQ, impegnandosi per porre eliminare ogni possibile discriminazione riguardante l’identità di genere e sessuale tra i suoi dipendenti. L’impegno sociale su questi temi si è tradotto in azione più volte.

Di recente, Bob Chapec, il CEO di Disney, ha annunciato in una intervista del 3 giugno 2020, a seguito dell’episodio della morte di George Floyd, la donazione di cinque milioni di dollari a supporto delle organizzazioni no profit come la NAACP che promuovono il tema della giustizia sociale cercando di eliminare le disparità e le discriminazioni razziali e attuando programmi di difesa ed istruzione.

Negli anni Disney ha mostrato solidarietà lavorando a stretto contatto con gruppi cherafforzano le comunità di colore negli Stati Uniti, dando vita a sovvenzioni volte ad aiutare gli studenti ad accedere all’istruzione superiore e politiche aziendali attraverso cui i dipendenti possono donare prodotti direttamente alle comunità locali.

La corporate utilizza tutte le risorse di cui dispone, non solo in termini monetari ma anche creativi per produrre contenuti che sensibilizzino gli spettatori affrontando le tematiche a lei care.

Revisione della libreria di contenuti

Ad oggi Disney sta portando avanti un meticoloso processo di revisione della sua intera libreria di contenuti, avvertendo gli spettatori qualora rischiassero di trovarsi davanti a tematiche che si allontanano dal suo orientamento strategico di fondo come la violenza o la discriminazione.

Importante specificare che non si sta parlando di eliminazione di questi contenuti, ma di un’azione fatta per salvaguardare la sensibilità della propria audience, inserendo i contenuti non ritenuti in linea coi valori semplicemente in categorie separate, in modo che i bambini non possano venire a contatto con quelli ritenuti non idonei dall’azienda.

Ciò spiega la scelta dietro il cambio di categoria di film come Dumbo, Peter Pan e gli Aristogatti che, come abbiamo detto, non sono più suggeriti ai bambini sotto i 7 anni.

Per quanto, lo ammettiamo, parlare di razzismo all’interno di contenuti destinati ai bambini di decenni fa possa sembrare ridicolo, bisogna sforzarsi di capire che Disney è un’azienda americana. Gli Stati Uniti sono, infatti, la nazione multietnica per eccellenza, dove il tema dell’identità è centrale e cruciale non solo nel dibattito pubblico ma anche nella vita di tutti i giorni.

Ciò che qui in Europa, e specialmente in Italia dove l’omogeneità etnica è particolarmente calcata, può sembrare assurdo, negli Stati Uniti è all’ordine del giorno ed è perfettamente normale. Se, poi, tutto ciò sia giusto o sbagliato, semplicemente, non sta noi a deciderlo. Sicuramente dietro a queste operazioni ci sono ragioni economiche e comunicative, come abbiamo visto Disney vede la responsabilità sociale come un asset strategico, tuttavia è innegabile che per il gigante americano sia pratica comune farsi porta bandiera del pensiero dei suoi connazionali.

Disney ha, da sempre, esercitato il suo soft-power in tutto il mondo per veicolare e diffondere gli ideali e i valori in cui credeva e, di riflesso, in cui credevano e che più premevano agli americani. Ieri era la libertà, oggi è l’anti-razzismo e la parità.


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Ambiente, società e tecnologia

L’inversione di rotta di Joe Biden sul cambiamento climatico

Il 20 gennaio 2021 si è ufficialmente insediato alla Casa Bianca il 46esimo Presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden, il quale ha posto tra i principali obiettivi del suo mandato la lotta al cambiamento climatico.

Il suo predecessore, Donald Trump, durante i quattro anni della sua presidenza si era sempre mostrato contrario all’adozione di una politica di tutela dell’ambiente, negando l’esistenza del surriscaldamento globale.

Aveva infatti deciso di uscire dall’Accordo di Parigi del 2015 firmato da Obama, definendolo economicamente svantaggioso per gli Stati Uniti, abrogato le norme poste durante le precedenti amministrazioni a tutela del clima e adottato misure economiche che non tengono conto dei problemi causati dall’inquinamento alla salute dei cittadini e all’ambiente. Secondo un’indagine del New York Times Trump ha annullato più di 100 norme ambientali, tra le quali quelle volte a limitare le emissioni di gas a effetto serra e di sostanze tossiche prodotte dalle industrie.

Cosa cambierà con Biden?

Il neopresidente fin dagli inizi della sua campagna elettorale ha affermato che, se eletto, avrebbe messo il problema ambientale al centro del suo mandato governativo, iniziando con il rientro degli Stati Uniti nell’Accordo di Parigi. E così è stato: il giorno dopo il suo insediamento alla Casa Bianca ha iniziato l’iter per rientrare nell’Accordo, di cui fanno parte 190 Paesi e che ha come obiettivo principale quello di mantenere l’aumento della temperatura globale entro i 2° C rispetto ai livelli preindustriali.

Biden ha poi promesso un piano di investimenti da 2 trilioni di dollari da distribuire durante i quattro anni del suo mandato volto a risolvere la crisi climatica, proteggere l’ambiente e creare nuovi posti di lavoro nel settore dell’energia pulita.  L’obiettivo di Biden è di dare un impulso alla ripresa economica del Paese, messo in ginocchio dal Covid 19, creando però una economia green, non inquinante e rispettosa dell’ambiente, che porti gli Stati Uniti ad essere un Paese ad emissioni 0 entro il 2050.

Il nuovo presidente ha anche presentato un team di esperti sull’inquinamento climatico che avrà il compito di preparare i lavori necessari per ridurre le emissioni che causano il riscaldamento del pianeta e per proteggere l’ambiente, e ha creato un nuovo Ufficio per la politica climatica presso la Casa Bianca.

Le iniziative del nuovo presidente nell’ambito della politica ambientale rappresentano sicuramente un importante passo avanti nella lotta al cambiamento climatico. Secondo un’analisi del sito Climate Action Tracker se Biden andrà avanti con il suo programma questo potrebbe ridurre il surriscaldamento del pianeta del 0,1°C entro il 2100, contribuendo così al raggiungimento degli obiettivi fissati dagli Stati nell’Accordo di Parigi.


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Ambiente, società e tecnologia

5 febbraio: giornata nazionale contro lo spreco alimentare

Oggi è il 5 febbraio 2021 e se ci fermassimo un secondo a riflettere su quanto è accaduto negli ultimi mesi potremmo dire che è già passato quasi un anno dal primo caso di Coronavirus in Italia, si è rinunciato alle vacanze esotiche, alle festività in famiglia e magari anche a celebrare quei traguardi attesi per tutta la vita. Ma solo una cosa è rimasta costante nella nostra quotidianità: il cibo; in fondo non c’è nulla che non possa essere risolto davanti ad una buona una pizza e una birra.

Il cibo, in particolar modo in Italia, non è solo un modo per far fronte alle necessità vitali, bensì rappresenta anche un vero e proprio piacere. Pensiamo al pane, alla pizza, alla pasta: alcuni cibi hanno un loro valore culturale. Ciò che invece non è insito nella nostra cultura è il valore materiale del cibo.

I dati dello spreco alimentare in Italia e nel mondo

Secondo l’Osservatorio Waste Watcher, il primo osservatorio italiano sugli sprechi alimentari, nel 2019, ciascun italiano ha buttato circa 36 kg di cibo, per una perdita economica di circa 15 miliardi di euro, ovvero quasi lo 0,88% del PIL; è come se ogni domenica mattina, ogni italiano, si svegliasse e buttasse più di 5 euro nel cestino marrone che solitamente si trova posizionato sotto al lavandino. Nessuno lo farebbe realmente, eppure si hanno molti meno problemi a farlo col cibo…infatti ben più del 50% dello spreco alimentare avviene in casa per la scarsa sensibilità dei cittadini.

Cifre del tutto simili sono state registrate sia in Europa e persino negli Stati Uniti, dove nel 2017, la NRDC, una delle più importanti organizzazioni ambientaliste della nazione, ha stilato il primo report sul fenomeno del food waste nelle città e deducendo che, anche in questo caso, ben più del 50% dello spreco del cibo avveniva tra le mura domestiche. Inoltre, dallo studio si evince come ben il 57% del cibo gettato in America sia “typically edible”, ossia generalmente ancora commestibile. Con un buon grado di astrazione, anche se non sono presenti studi in materia, è lecito pensare che percentuali simili siano presenti anche in Italia.

Cos’è veramente lo spreco alimentare?

Generalmente, ci si riferisce alla nozione di spreco alimentare per riferirsi al cibo acquistato e non consumato e che inesorabilmente finisce nella spazzatura, ma questa non è di certo l’unica accezione valida. Infatti, è più corretto riferirsi allo spreco alimentare come fa l’ISPRA che lo definisce come “la parte di produzione che eccede i fabbisogni nutrizionali o le capacità ecologiche”. La descrizione che ci viene fornita permette di annoverare nello spreco alimentare tutte le perdite di quella quantità di prodotti alimentari che viene persa o gettata lungo la catena di produzione e di lavorazione delle materie prime, fino alla distribuzione e al consumo.

Sebbene manchi una definizione riconosciuta a livello internazionale, solitamente ci si riferisce alla nozione di “food waste”. Waste è un termine inglese e secondo il Collins, può assumere ben due significati: spreco ma anche rifiuto…così, è lecito chiedersi: cos’è un rifiuto? La risposta è presente nel Testo Unico dell’Ambiente (art.183 comma1), secondo cui può essere definito rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”, eppure nella spazzatura finiscono anche: i prodotti acerbi, i prodotti non conformi agli standard qualitativi/estetici e anche prodotti che giacciono troppo a lungo nei magazzini. È forse necessario disfarsi di essi? È forse obbligatorio? No, nemmeno questo!

Le conseguenze dello spreco alimentare

Secondo i dati diffusi dalla FAO, a livello globale, circa il 14% del cibo prodotto viene perso tra la raccolta e la vendita al dettaglio. Lo scorso settembre, António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, in un messaggio diffuso in occasione della Prima Giornata internazionale della consapevolezza della perdita e dello spreco alimentare ha definito questi fenomeni come un’”offesa etica”, considerato l’elevato numero di persone che soffrono la fame. In somma la questione dei rifiuti alimentari finisce per inasprire il problema della sicurezza alimentare, tanto che il food-waste assume le caratteristiche di un fenomeno socio-economico a tutti gli effetti.

Inoltre, non possono essere tralasciate i danni ecologici provocati dallo spreco alimentare. Infatti, allo spreco dei prodotti edibili corrisponde un inesorabile spreco di risorse: il suolo utilizzato per la coltura non consumata è un suolo che è stato impoverito inutilmente per non parlare della preziosissima acqua utilizzata per favorire la crescita dello stesso prodotto; un discorso analogo può essere fatto per prodotti animali e per i loro derivati. Senza contare che sia nel caso di prodotti vegetali che nel caso dei prodotti animali, è stata rovinosamente emessa anidride carbonica in atmosfera la quale dà un enorme contribuito a quel noto fenomeno che minaccia l’esistenza della vita sul Pianeta ossia il cambiamento climatico.

Chiunque può contribuire a migliorare la situazione

Le perdite e gli sprechi alimentari rappresentano una grande sfida per la nostra epoca,” ha dichiarato il Direttore Generale della FAO, QU Dongyu, tanto che successivamente ha esortato i Paesi membri alla collaborazione mediante partenariati più stretti. Inoltre, ha auspicato un aumento degli investimenti nella formazione dei piccoli agricoltori, nelle tecnologie e nell’innovazione con apporti del settore sia pubblico che privato.

Nell’ultimo anno, anche “grazie” alla pandemia gli Italiani hanno dimostrato di aver intrapreso il giusto percorso tanto che, secondo Coldiretti: “Più di 1 italiano su 2 (54%) ha diminuito o annullato gli sprechi alimentari adottando strategie che vanno dal ritorno in cucina degli avanzi ad una maggiore attenzione alla data di scadenza, fino alla spesa a chilometri zero dal campo alla tavola con prodotti più freschi che durano di più.” Questo ci dimostra come è possibile porre gradualmente fine al fenomeno del food-waste, ma ciascuno di noi deve contribuire secondo la propria misura.


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Ambiente, società e tecnologia

1000km, 0 emissioni

La lotta ai cambiamenti climatici si fa sempre più intensa, e l’elettrificazione dei trasporti (e in particolare del settore automobilistico) è una delle strategie che potrebbero garantirci la vittoria.

Il mercato, però, è attualmente spaccato tra gli entusiasti e i fedeli ai motori termici che sollevano una serie di perplessità.

Prima tra tutte, la cosiddetta ”range anxiety”. Rispetto a una tradizionale vettura a combustione interna, un’auto full electric spesso si presenta con un’autonomia notevolmente inferiore – a fronte di tempi per “fare il pieno” decisamente più lunghi.

Una sfida invincibile per l’elettrico?

Sembrerebbe proprio di no.

Sia perché negli ultimi anni il mercato a zero emissioni è in rapida ascesa (a conferma del fatto che molte persone non reputino un problema le basse autonomie nella loro quotidianità), sia perché l’industria sta muovendo passi da gigante per conquistare anche quella fetta di mercato che ha esigenza di percorrere più km.

L’ultima innovazione in tal senso arriva dalla Cina, e si chiama Nio ET7.

Se sicuramente l’auto stupisce per la tecnologia avanzatissima (tra cui la guida autonoma e una miriade di sensori di ultima generazione), la vera rivoluzione sta nella batteria.

Nel 2022, promette la casa, sarà introdotta la versione a stato solido, che garantirà un’autonomia da 1.000 km.
Un risultato strabiliante che fa sfigurare la top di gamma del leader di mercato Tesla (che con la sua Model S garantisce circa 840 km con una ricarica).

La super batteria da 150kwh sfrutta al meglio gli spazi a disposizione, aumentando la densità a 360 Wh/Km, il 50% in più dei 100Kwh utilizzati oggi.

Non solo, sarà anche più sicura: il fatto che ora l’elettrolita non sia liquido (è la prima auto a potersene vantare) scongiura il rischio di incendi e del Thermal Runaway causato dalle reazioni di celle vicine.

Questa nuova architettura, se accompagnata da una parallela evoluzione delle colonnine, permetterebbe anche di accorciare i tempi di ricarica.

E a proposito di ricarica, arriviamo alla seconda innovazione.A Nio hanno pensato che piuttosto che investire in una rete di colonnine più potenti valesse la pena dirigersi verso il battery swap.

Come suggerisce il nome, è la possibilità di fare il cambio rapido di batteria in meno di 5 minuti.

Proprio come fare benzina, insomma: si arriva, un tecnico smonta la batteria scarica e la sostituisce con una al 100%, e si è subito pronti per ripartire.

Già testato sui modelli precedenti della casa, il modello swap sembra avere un discreto successo: a giugno 2020, a circa due anni dal lancio, sono state effettuate 500 mila sostituzioni in 131 stazioni in Cina.

Questo permette anche di abbassare il prezzo finale della macchina, che verrebbe acquistata senza le batterie di proprietà.

Soluzione impegnativa specie per un mercato liberale come quello europeo, che richiederebbe uno standard di progettazione per tutti i produttori per diventare di massa.

Le auto alla spina hanno ancora diversi nodi da sciogliere, come i problemi legati all’etica dell’estrazione delle materie prime o alla non totale circolarità della filiera, ma innovazioni come questa ci fanno capire che una valida alternativa ai combustibili fossili c’è e migliora di giorno in giorno.


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Digital Services Act e Digital Markets Act: le nuove normative europee sul mondo digitale

Il 15 dicembre 2020 la Commissione europea ha proposto una riforma dello spazio digitale al fine di renderlo più sicuro, aperto e conforme ai valori europei, introducendo nuove norme che disciplinano i servizi digitali applicabili in tutta l’Ue.

Tale riforma consiste in due nuove iniziative legislative: il Digital services Act e il Digital markets Act.

Secondo quanto dichiarato dalla Vicepresidente esecutiva per un’Europa adatta all’era digitale e alla concorrenza, Margrethe Vestager: “le due proposte perseguono un unico obiettivo: garantire a noi, in quanto utenti, l’accesso a un’ampia gamma di prodotti e servizi sicuri online e alle aziende che operano in Europa di competere liberamente ed equamente online così come offline. Si tratta di un unico mondo. Dovremmo potere fare acquisti in modo sicuro e poterci fidare delle notizie che leggiamo, in quanto ciò che è illegale offline è altrettanto illegale online.”

Perché la Commissione europea ha ritenuto necessario introdurre nuove regole?

La Commissione ha preso atto del fatto che l’enorme sviluppo dei servizi digitali che si è avuto negli ultimi decenni ha inciso significativamente sul nostro modo di vivere, introducendo nuovi modi di comunicare, informarsi e acquistare. Questo ha reso necessario introdurre normative a livello europeo per regolamentare i nuovi servizi digitali, i quali hanno sicuramente apportato notevoli vantaggi, come agevolare i consumatori nell’acquisto di beni e servizi e creare nuove opportunità per imprese e operatori economici, ma hanno anche causato alcuni problemi, in particolare l’illegalità dei contenuti e dei servizi on line.

Il Digital services Act


Questa legge ha lo scopo di disciplinare i servizi di intermediazione on line, che collegano i consumatori a beni, servizi o contenuti. Gli obiettivi principali sono: garantire una maggior protezione dei consumatori e dei loro diritti fondamentali on line; introdurre nuovi obblighi in materia di trasparenza e una maggiore responsabilità delle piattaforme on line; creare un mercato unico europeo che incentivi la competitività, l’innovazione e la crescita.

In concreto la Legge sui servizi digitali:

  • Consente agli utenti di segnalare con maggiore facilità la presenza on line di contenuti, beni o servizi illeciti e contrastare le decisioni delle piattaforme circa la rimozione dei contenuti;
  • Prevede obblighi di trasparenza per le piattaforme on line riguardo le norme sulla moderazione dei contenuti e sulla pubblicità
  • Introduce nuove norme sulla tracciabilità degli utenti commerciali nei mercati on line, al fine di scoraggiare la vendita di prodotti o servizi illegali;
  • Introduce maggiori obblighi per le piattaforme on line dette sistemiche, cioè quelle che raggiungono oltre il 10% della popolazione dell’Ue, le quali sono tenute a prevenire possibili abusi dei loro sistemi adottando misure basate sul rischio e alla introduzione di una nuova struttura di sorveglianza;
  • Al fine di garantire l’applicazione delle norme in tutto il mercato unico europeo, prevede l’obbligo per ogni Stati membro di designare un Coordinatore dei servizi digitali, organo indipendente che ha il compito di vigilare sul rispetto delle norme sul proprio territorio e che sarà sostenuto nello svolgimento delle proprie funzioni da un Comitato europei per i servizi digitali.

Il Digital Markets Act


Introduce nuove norme per cercare di risolvere i problemi causati dai comportamenti scorretti delle cosiddette “Gatekeeper”, cioè quelle “piattaforme on line di grandi dimensioni che esercitano una funzione di controllo dell’accesso”, che spesso approfittano del forte impatto che hanno sul mercato digitale mettendo in atto pratiche commerciali sleali.

In base alla legge un’impresa per poter essere definita Gatekeeper deve rispettare tre criteri:

  • Detenere una posizione economica forte
  • Avere una forte posizione di intermediazione tra utenti e imprese
  • Detenere una posizione solida e duratura sul mercato.

Per queste piattaforme on line sono previsti determinati obblighi e divieti che hanno lo scopo di creare un mercato unico più equo, competitivo e innovativo, consentire ai consumatori di disporre di più servizi e a prezzi più convenienti e di impedire ai Gatekeeper di tenere comportamenti iniqui.

Le due leggi sul mondo digitale proposte dalla Commissione nei prossimi mesi saranno discusse dal Parlamento europeo e una volta adottate saranno direttamente applicabili in tutti gli Stati membri.


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Come le produzioni Netflix possono realizzare trend inaspettati

Lo scorso 25 dicembre sulla piattaforma Netflix è uscita una nuova serie tv: si chiama “Bridgerton” e in pochissimi giorni è riuscita a conquistare oltre 63 milioni di spettatori in tutto il mondo.

Proprio in queste ore, Netflix ha annunciato attraverso i propri canali social che la serie è stata confermata per la seconda stagione.

L’aspetto più curioso di questo fenomeno però non riguarda solamente la straordinaria popolarità che ha raggiunto la serie, quanto più le conseguenze che si sono verificate in seguito alla sua diffusione.

Il successo di Bridgerton

Ambientata nella Londra del 1823, “Bridgerton” si differenzia molto da altre storie simili sull’alta società inglese.

L’aspetto principale che a primo impatto la contraddistingue è il fatto che i personaggi siano di etnie differenti, e che persone di colore ricoprano i ruoli più vari, compresi quelli di duchi, nobili e della stessa regina, aspetto alquanto insolito per il diciannovesimo secolo.

In questa serie vi è inoltre un’evidente cura dei dettagli, degli allestimenti scenografici, dei costumi e il tutto è accompagnato da un tocco moderno identificabile nella scelta delle musiche o di altri elementi introdotti nel corso della narrazione.

Per chi non ne fosse a conoscenza, questa nuova serie tv di successo ha preso ispirazione da una saga scritta dall’autrice statunitense Julia Quinn, che è rimasta altrettanto sorpresa dal buon risultato che ha raggiunto “Bridgerton”.

La curiosità nata tra gli spettatori e fan della storia è stata così grande che i libri della scrittrice, pubblicati per la prima volta ormai più di venti anni fa, sono letteralmente scomparsi da scaffali fisici e digitali, prima negli Stati Uniti e in questi giorni anche in Italia, cogliendo totalmente impreparate le case editrici che si sono trovate a dover ristampare rapidamente tutti i volumi in modo tale da poter soddisfare la domanda di mercato.

Dato che in queste settimane trovare i libri è diventata un’ardua impresa, i pochi volumi rimasti sono stati venduti online a prezzi esorbitanti, che negli Stati Uniti hanno addirittura superato i 700 dollari.

La stessa Julia Quinn, attraverso i propri canali social, ha chiaramente raccomandato di evitare di spendere cifre assurde per i suoi libri, e di attendere l’uscita delle copie ristampate in modo tale da poterle acquistare a prezzi ragionevoli!

In questi giorni, in Italia, sono già disponibili le nuove edizioni.

L’aspetto più curioso di questa situazione consiste nel fatto che i volumi hanno suscitato questo inaspettato boom esclusivamente in seguito alla creazione dell’omonima serie e naturalmente grazie alla sua diffusione attraverso Netflix.

La regina degli scacchi

Un fenomeno analogo è stato l’aumento delle vendite delle scacchiere in conseguenza al successo della miniserie Netflix più vista di sempre: “La regina degli scacchi”.

Gli spettatori, dopo solo quattro settimane dal suo lancio il 23 ottobre, sono diventati circa 62 milioni.

L’avvenimento interessante che ha aperto moltissimi dibattiti online è stato il rapido incremento delle vendite di oggetti ed accessori inerenti al mondo degli scacchi.

Secondo la società di ricerca NDP Group, in seguito alla diffusione de “La regina degli scacchi”, la vendita delle scacchiere è aumentata dell’87% negli Stati Uniti e la vendita dei libri dedicati alle strategie del gioco (che nel corso degli episodi vengono inquadrati spesso) addirittura del 603%!

(https://www.npd.com/wps/portal/npd/us/news/press-releases/2020/sales-spikes-for-chess-books-and-sets-follow-debut-of-queens-gambit/)

Sono inoltre aumentati anche gli accessi a portali di gioco online e l’utilizzo di applicazioni attraverso cui potersi esercitare e organizzare competizioni con altri giocatori.

Insomma, un successo del tutto inaspettato! Soprattutto considerando il fatto che in questi ultimi anni la vendita di scacchiere, accessori e libri dedicati al gioco era addirittura vittima di un costante declino.

La situazione si è bruscamente ribaltata nel momento in cui “La regina degli scacchi” è diventata una serie-tv popolare, esattamente come è accaduto per i volumi della saga di “Bridgerton”.

Entrambi i fenomeni si sono quindi verificati in seguito alla popolarità raggiunta da parte di due serie tv diffuse da Netflix.

Che questi trend siano il risultato di efficaci strategie messe in atto da Netflix è ovvio, il che dovrebbe farci riflettere sulle abilità di questa azienda in grado anche di condizionare gli interessi delle persone.

La cultura di successo di Netflix

Netflix è molto abile nelle attività di marketing che svolge, tanto da suscitare sempre moltissima curiosità nei confronti delle proprie produzioni.

Non ci si potrebbe aspettare di meno da una delle aziende più efficienti e innovative degli ultimi anni!

Nel libro “L’unica regola è che non ci sono regole” uscito lo scorso ottobre e dedicato a Netflix, sono state evidenziate le caratteristiche principali che distinguono l’azienda e che l’hanno portata a raggiungere numerosi traguardi nel corso degli anni.

Alcuni esempi sono: la mancanza quasi totale di regole che potrebbero ostacolare o diminuire l’efficienza e la motivazione dei dipendenti, una cultura basata su sincerità, trasparenza e moltissimi feedback costruttivi e naturalmente la presenza di un’alta densità di talento.

L’azienda cresce costantemente e riesce ogni volta a trovare strategie sempre più innovative per sorprendere i propri utenti.

Cos’altro avrà in serbo per noi?


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Veganuary: un’occasione per riflettere sulla sostenibilità del cibo

L’arrivo del nuovo anno riempie l’Homo Sapiens di buoni propositi che, pur toccando diversi ambiti, hanno lo scopo di renderli la versione migliore di loro stessi e proprio in questa ottica, nel 2014 vede la luce per la prima volta Veganuary. L’iniziativa, proposta dall’omonima organizzazione no-profit, lancia una sfida universale per incoraggiare le persone a provare per un mese un’alimentazione di tipo vegetale.

Il motivo per il quale si chiede di approcciarsi ad un’alimentazione vegana è semplice, attuale e chiaro: ciò che ciascuno mangia ha un enorme impatto ambientale e cambiare abitudini alimentari potrebbe divenire un gesto di consapevolezza per il benessere futuro del nostro Pianeta. Allora è opportuno chiedersi…qual è l’impronta ambientale impressa dall’alimentazione? Ed è possibile ridurla?

L’impatto ambientale del cibo

Nel luglio 2017 sulla rivista scientifica Nature è stato pubblicato uno studio nel quale veniva confrontato l’impatto ambientale della dieta di 153 adulti italiani suddivisi rispettivamente secondo il loro regime alimentare in: onnivori, vegetariani e vegani. Prima di analizzare i dati riportati nell’articolo, è bene dare alcune definizioni: vengono considerati onnivori tutti coloro che includono abitualmente nella loro dieta un’ampia varietà di alimenti sia di origine animale sia di origine vegetale, mentre le restanti categorie includono entrambe la componente vegetale e ciò che distingue i vegetariani dai vegani è l’utilizzo dei derivati animali, i quali sono ammessi solo nel primo dei due gruppi dietetici.

Così, ai fini della ricerca sono stati raccolti più di mille registri alimentari giornalieri dei quali si è calcolata: l’impronta di carbonio, l’impronta idrica e l’impronta ecologica. Questi tre indici tengono conto rispettivamente delle emissioni di gas serra, del consumo di risorse idriche e della quantità di suolo necessaria per produrre un’unità di prodotto alimentare. In particolare, le analisi hanno rivelato come la dieta a base animale sia associata ad un maggior impatto per ogni indicatore ambientale valutato; tuttavia, nel complesso, non sono state riscontrate delle differenze significativamente rilevanti per quanto riguarda i gruppi vegetariani e vegani. Inoltre, sebbene né il pesce né la carne fossero gli alimenti consumati in maggiore quantità, il loro è stato il maggior contributo ai valori di impatto ambientale degli onnivori, con tassi del 37% per quanto concerne l’impronta del carbonio, del 38% per quanto riguarda l’impronta idrica e del 44% per quanto riguarda l’impronta ecologica.

Questi dati possono essere spiegati considerando il fatto che la carne, e i suoi derivati, portati in tavola dagli onnivori spesso derivano dagli allevamenti intensivi il cui inquinamento va ad interessare i diversi comparti del Pianeta. Per esempio, l’acqua e l’atmosfera sono inquinate in maniera particolare dalle deiezioni: mentre il comparto atmosferico risente dei gas emessi dalla fermentazione di queste ultime, la risorsa idrica viene contaminata dai liquami che vengono sparsi, spesso illegalmente, sul suolo che, dilavato dalle piogge, contamina dapprima le acque superficiali e talvolta le acque di falda con sostanze come: fosforo, azoto e antibiotici. Tuttavia il dato che più stupisce, e a cui non si fa mai troppo caso, è l’erosione della risorsa suolo, secondo la FAO “il settore dell’allevamento rappresenta, a livello mondiale, il maggiore fattore d’uso antropico delle terre”. Guardando il caso emblematico dell’Amazzonia, il 70% dei territori deforestati è stato trasformato in pascoli bovini, mentre il restante 30% è occupato dalle terre coltivate per produrre il mangime destinato agli animali stessi.

Sebbene quanto descritto finora sia una linea generale desunta dall’intero esperimento, è bene sottolineare come si siano riscontrate delle importanti variabilità interindividuali e questo significa che non tutti gli individui hanno contribuito allo stesso modo agli indici di impronta ambientale. Alcuni soggetti specifici possono avere impatti ambientali notevolmente diversi dagli altri soggetti appartenenti allo stesso gruppo alimentare.

Cosa c’è di eticamente corretto nell’intraprendere un’alimentazione più vegana

Se si chiedesse a un vegano quali sono le motivazioni che lo hanno spinto a questa scelta si potrebbe ottenere un’ampia gamma di risposte, partendo dai motivi di salute arrivando anche a motivi legati all’etica. Veganuary nasce anche con l’intenzione di sensibilizzare i non-vegani, proponendo sempre nuovi spunti di riflessione. Se lo si chiedesse a Vegolosi.it, pionieri in Italia per tutto quello che riguarda la dieta vegana, risponderebbero che bastano 5 semplici e ironiche motivazioni per convincere tutti ad intraprendere questo stile di vita.

Una delle motivazioni più forti è quella, secondo cui non è più necessario mangiare carne per essere in salute: infatti grazie allo sviluppo socio-economico avvenuto a partire dal dopo guerra, le persone sono in grado di mangiare di più e di variare al meglio la loro dieta assumendo così tutti i nutrienti di cui hanno bisogno. Vi è una sola eccezione che, per correttezza, va riportata: è la vitamina B12. Infatti, questa preziosa vitamina andrebbe integrata in quanto, anche se presente nei vegetali, non si trova in forma biodisponibile e dunque non può essere assorbita e utilizzata dall’organismo umano.

Inoltre, una scelta alimentare di tipo vegano permette di tenere allenata la fantasia. È vero…inizialmente si rischia il momentaneo smarrimento nel dover rinunciare a moltissimi piatti della tradizione italiana, eppure esistono delle varianti perfettamente in linea con questa scelta e si possono creare anche tantissimi nuovi piatti semplicemente sperimentando l’accostamento di sapori conosciuti. In questo caso possono venire in soccorso i social con le regine indiscusse della cucina vegetale: la Dottoressa Silvia Goggi e Carlotta Perego nota ai più con lo pseudonimo cucinabotanica.

Un’altra motivazione sta nel fatto che la cucina vegana non contribuisca alla sofferenza animale, tuttavia questa motivazione è quella che meno convince i più scettici, ma spesso si riduce il tutto ad una questione di empatia.

Quanto è fastidioso sedere a tavola e dover deludere le aspettative sociali di chi ti sta intorno? Infatti, a qualsiasi tipo di raduno, c’è sempre qualcuno che porge domande scomode del tipo “Quando ti laurei?” “L’hai trovata l’anima gemella?”. Ecco, essere vegani vi eviterà tutto ciò! Infatti, soprattutto all’inizio, tutti saranno impegnati a chiedervi come mai avete fatto questa scelta e così le fatiche della tavola saranno accompagnate da lunghe conversazioni che toccheranno temi sociali, etici e ambientali…insomma, essere vegani vi permetterà di provare l’ebbrezza della maieutica socratica senza per forza aver studiato filosofia.

L’ultima motivazione è quella ambientale. Come già visto, sono sempre più evidenti i danni arrecati al Pianeta non solo dalle scelte politiche ed economiche di Stati e multinazionali, ma anche dalle nostre condotte quotidiane. Il 14 dicembre scorso è stata lanciata la “La Glasgow Food and Climate Declaration”: un impegno dei governi locali ad affrontare l’emergenza climatica attraverso politiche integrate e un invito all’azione. All’interno della dichiarazione si afferma che “i sistemi alimentari attualmente rappresentano il 21-37% dei gas serra totali e sono al centro di molte delle principali sfide del mondo odierna, tra cui la perdita di biodiversità, la fame e la malnutrizione persistenti e un’escalation della crisi della salute pubblica”. Dunque, anche qualora si fosse in dubbio sulle quattro motivazioni precedenti, non si può non cedere di fronte a questi dati.

“Non sono d’accordo con quello che mangi, ma farei di tutto perché tu lo possa mangiare”

Non importa che sia onnivora, vegetariana o vegana, ciò che più conta è che il regime alimentare rappresenti una scelta sostenibile; il concetto di dieta sostenibile viene teorizzato per la prima volta nel lontano 2010. Secondo la FAO «le diete sostenibili sono diete a basso impatto ambientale che contribuiscono alla sicurezza alimentare e nutrizionale nonché a una vita sana per le generazioni presenti e future. Le diete sostenibili concorrono alla protezione e al rispetto della biodiversità e degli ecosistemi, sono culturalmente accettabili, economicamente eque e accessibili, adeguate, sicure e sane sotto il profilo nutrizionale e, contemporaneamente, ottimizzano le risorse naturali e umane». Scegliendo un’alimentazione sostenibile si contribuisce attivamente al raggiungimento di quasi tutti gli obiettivi fissati dall’Agenda 2030, con particolare attenzione per quelli a tutela del clima, dell’uso sostenibile delle risorse e della protezione della vita sul Pianeta.

Mantenere uno stile di vita sano e sostenibile passa attraverso tante scelte, alcune delle quali possono essere fatte fin dalla prossima spesa come ad esempio: la predilezione di prodotti locali, di stagione e qualora fosse possibile con certificazione biologica. Altre scelte potrebbero risultare più difficili, come ad esempio quella di cambiare completamente tipo di alimentazione, Veganuary nasce con l’intento di supportare i primi 31 giorni di questo importante passaggio fornendo uno “starter kit” nei quali sono presenti spunti di riflessione, consigli e ricette.

Nel suo primo libro Carlotta Perego spiega che diventare vegani, o sostenibili, non rende le persone migliori, né conferisce loro una superiorità ed è per questo che è necessario mantenere rispetto e ragionevolezza anche nei confronti di chi non condivide questo pensiero. Operare con garbo è fondamentale, suggerendo scelte che possono far bene a “chi ci circonda” nel senso più ampio possibile, dagli amici che sorbiscono i nostri consigli a tutti gli esseri viventi che condividono con noi il destino della Terra. Infatti; ogni volta che qualcuno si avvicina al mondo dell’alimentazione sostenibile anche solo per la curiosità suscitata o perché coinvolti dalla gentilezza, è possibile dire che è stata compiuta un’azione concreta per salvare il Pianeta.


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Ambiente, società e tecnologia

Formula E vs Formula 1: il futuro sostenibile dello sport automobilistico

Il 26 febbraio riprenderà il settimo campionato mondiale di Formula E, la competizione sportiva con protagoniste monoposto da corsa.

Qual è la particolarità di queste vetture? Principalmente il fatto che siano provviste di motore elettrico.

Che cos’è la Formula E?

La Formula E è la prima competizione automobilistica che coinvolge monoposto totalmente elettriche.

È stata introdotta nel mondo dello sport nel 2014 dalla FIA, la Federazione Internazionale dell’Automobile, con lo scopo di realizzare obiettivi a lungo termine focalizzati sulla salvaguardia dell’ambiente.

I campionati mondiali di Formula E si svolgono ogni anno in numerose città in tutto il mondo, nello specifico non in circuiti chiusi ma tre le strade dei loro centri abitati.

Ciò è possibile grazie al fatto che, essendo vetture elettriche, non inquinano e possono quindi gareggiare liberamente anche nei centri urbani.

Si tratta di uno sport che sta riscontrando sempre più successo, soprattutto in questi ultimi tempi in cui la questione ambientale è fortunatamente al centro di numerosi dibattiti.

I creatori di Formula E si sono da sempre prefissati un obiettivo principale, identificabile con il loro motto: “to race, but leave no trace”.

I tifosi, infatti, possono divertirsi e vivere le emozioni suscitate da questo sport dinamico e ricco di adrenalina che allo stesso tempo rispetta l’ambiente e contribuisce alla lotta contro il cambiamento climatico.

Oggi siamo in grado di affermare che Formula E ha veramente raggiunto il suo obiettivo: la compagnia ha recentemente annunciato con orgoglio sui propri canali social che in questi primi 6 anni di competizioni, la Formula E è stata il primo sport automobilistico al mondo ad aver causato zero emissioni di carbonio sin dal suo principio.  

I report ufficiali possono soltanto confermare questa splendida affermazione: https://www.fiaformulae.com/en/discover/sustainability/reports-recognitions?_ga=2.85000665.1549595519.1609441130-1445400497.1591190955

Inoltre, è sempre più frequente la volontà di molti piloti e organizzazioni sportive di entrare a far parte di questa competizione.

Proprio in questi giorni infatti, la scuderia McLaren, storica squadra della Formula 1, ha annunciato attraverso i propri canali di comunicazione una novità sul suo futuro che ha suscitato molto stupore tra i tifosi: la compagnia ha infatti firmato un’opzione che prevede il suo potenziale ingresso in Formula E a partire dalla nona stagione, dato che, come comunicato dal CEO Zak Brown, è da tempo che stanno attentamente osservando gli sviluppi e i progressi di questo sport rivoluzionario e sono prossimi a prendere una decisione ufficiale in merito al loro coinvolgimento nella competizione.

La notizia ufficiale pubblicata sul loro sito: https://www.mclaren.com/racing/inside-the-mtc/mclaren-racing-signs-option-formula-e-season-nine-entry/

Questa è la breve storia di uno sport automobilistico innovativo che si impegna a raggiungere nei prossimi anni altri importanti traguardi, in modo tale da contribuire in maniera sempre più evidente alla creazione di futuro migliore per tutti!

La Formula 1 rischia di perdere il suo prestigio?

Di fronte ad alternative più innovative e sostenibili, gli sport automobilistici ai quali siamo abituati, come l’intramontabile Formula 1, rischiano di subire sempre più critiche a causa del mancato impegno in questioni che al giorno d’oggi dovrebbero essere di primaria importanza.

Affermare, per esempio, che tali organizzazioni non cerchino soluzioni alternative per contribuire alla lotta contro il cambiamento climatico è sicuramento estremo.

Un anno fa la stessa Formula 1, sport che ha alle spalle più di 70 anni di storia, ha espresso la volontà di raggiungere degli obiettivi a lungo termine previsti per il 2030.

Gli organizzatori si impegnano infatti a raggiungere, entro il termine stabilito, zero emissioni di carbonio per mezzo dell’utilizzo di carburante sostenibile.

Recentemente la compagnia ha pubblicato in aggiunta un comunicato in cui ha esposto i traguardi raggiunti durante l’ultimo anno, tra cui: la riduzione dell’impronta di carbonio della vettura durante le attività svolte sui circuiti, il miglioramento della logistica dei viaggi compiuti per recarsi verso le mete del campionato e l’utilizzo di energia rinnovabile per tutti i lavori svolti in uffici, strutture e fabbriche.

Gli aggiornamenti completi forniti dalla compagnia accompagnati da nuovi obiettivi: https://corp.formula1.com/formula-1-update-on-sustainability-progress/

Attraverso queste azioni, Formula 1 ha dimostrato serietà e impegno nella formulazione di un piano di sostenibilità efficace che le permetterebbe di continuare a svolgere i propri campionati nel rispetto dell’ambiente.

Nell’ultimo periodo ci siamo resi conto di quanto sia diventato davvero importante cambiare le nostre abitudini e stili di vita per ridurre l’inquinamento e costruire un futuro più sostenibile.

Gli sport automobilistici cercano di dare il proprio contributo in questo processo che dovrebbe coinvolgere tutti, tramite la creazione di piani personalizzati che hanno la finalità di superare molti traguardi legati alla salvaguardia dell’ambiente.

Inoltre, si impegnano a coinvolgere e sensibilizzare i propri tifosi dando il buon esempio e dimostrando che con consapevolezza, senso di responsabilità e molto lavoro è possibile migliorare continuamente.


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Ambiente, società e tecnologia

Biovaproject: dal pane invenduto alla birra, un brindisi contro lo spreco alimentare

Andare a prendere il pane invenduto dal panettiere locale o al supermercato, macinarlo e ricavarne birra che poi verrà venduta negli stessi negozi che hanno fornito il loro pane avanzato. Questo è ciò che da un anno a questa parte fanno i ragazzi di Biova, una startup piemontese che ha dichiarato lotta allo spreco alimentare con il motto: “la birra non avanza mai, il pane purtroppo sì” e i numeri lo possono confermare: 1300 tonnellate di pane avanza in tutta Italia ogni giorno.

Abbiamo deciso di intervistare Franco Dipietro, Founder e CEO di BiovaProject che ci ha raccontato come è iniziato questo progetto di economia circolare, come si immaginano in futuro, ma anche le difficoltà che un’iniziativa impegnativa quale una startup possono portare.

Franco, domanda semplice per iniziare, sempre presente quando si parla di idee innovative, come vi è venuto in mente questo progetto?

“L’idea è arrivata pian piano a partire da un percorso di comunicazione e marketing che abbiamo portato avanti negli ultimi anni verso delle onlus, cominciando a frequentare il loro ambiente, nella fattispecie quelle che si occupano del recupero alimentare. é stato proprio da lì che abbiamo capito l’enormità della questione, nello specifico di quella del pane considerato da sempre l’incubo di queste organizzazioni dato che purtroppo ne avanza tantissimo ed è molto difficile da rimpiazzare in beneficenza, anche regalandolo non si riesce a non buttarne via, data l’inimmaginabile quantità. Fatte queste osservazioni, sapendo che esiste un modo per fare birra dal pane, abbiamo semplicemente unito le due cose creando un modello di business capace di andare a recuperare questi sprechi.”

Quali sono le difficoltà maggiori che state affrontando o che avete affrontato?

“La difficoltà non è assolutamente quella di trovare pane avanzato, come ho detto ce n’è tantissimo e fare la birra da esso di per sé non è un problema, la vera difficoltà è fare in modo che arrivi in tempo utile, andando ad intercettarlo al momento giusto per essere trasformato e quello è ciò che va studiato e messo in regola, proprio questa è la forza di Biova Project: andare a perfezionare il modello logistico di recupero, ancora in sviluppo.”

Avete degli obiettivi a lungo termine? Come vi vedete tra 10 anni?

“Per il momento stiamo operando nel nord-ovest dell’Italia tra Piemonte, Liguria e Lombardia, molto di più di alcuni nostri competitor che lo fanno a livello di quartiere, noi facciamo anche quello, ma cercando di espanderlo ad un livello più ampio. Se vogliamo guardare sul lungo termine, il nostro piano chiaramente è aumentare il valore della società e la sua capacità di recupero, l’obiettivo principale per noi è “salvarne” il più possibile, ci piacerebbe ampliarci, prima sul territorio nazionale e poi, perchè no, in futuro anche internazionale, insomma siamo un po’ all’inizio per dirlo ma l’idea c’è.”

Hai un’avventura da startupper, un momento particolare di questa crescita che porti nel cuore?

“Anche se siamo ancora agli albori, penso che la cosa più bella sia l’interesse che si è creato sia a livello di istituzioni, sia a livello dei singoli; il piacere vero è quando ti scrivono ragazzi come te a cui piacerebbe intervistarci ritenendo che l’idea sia bella, e per fortuna di persone così ce ne sono tante, questa è la soddisfazione principale per adesso; perchè posso assicurare che portare avanti una startup vuol dire avere 10 milioni di problemi attorno.”

Quali sono stati se ne avete ricevuti, i no di questa vostra avventura?

“Non abbiamo ricevuto pareri sconfortanti, sotto questo punto di vista, anzi, sono tutti molto disponibili ad aiutare, l’argomento alla fine è incontestabile. Capita però, a volte, di incontrare qualcuno che la vede solo dal punto di vista puramente economico e non gli interessa davvero l’ideale, magari ti ascolta per il progetto e poi lo fa alle spalle, in un’ottica totalmente diversa dunque. La parte più fastidiosa è forse questa perchè frazionare il progetto significa farlo funzionare meno, non di più e ciò va contro la nostra missione.”

Il lavoro da fare è ancora tanto, ma le soddisfazioni stanno arrivando: Biova è tra le migliori startup italiane di quest’anno, tra le prime 77 della classifica di B-Heroes definite “le magnifiche 77” e ancora con tanti obiettivi davanti. Iniziative come questa fanno capire come ci sia molta voglia di cambiare alcune abitudini dannose per l’economia e l’ambiente, come la questione dello spreco, ce la faremo dunque a ridurlo sempre di più?