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Ambiente, società e tecnologia

Pedalare sulla Notte Stellata di Van Gogh: arte ed ecosostenibilità

Vicino Eindohoven, in Olanda, precisamente nella cittadina di Nuenen, è stata realizzata una pista ciclabile illuminata da ciottoli fosforescenti incorporati nel manto stradale, i quali di giorno assorbono la luce solare per poi rilasciarla di notte illuminando il percorso. L’effetto voluto è quello di ricreare l’atmosfera della celeberrima opera d’arte “La notte stellata” dell’artista olandese Van Gogh, omaggiando così la sua arte in uno dei luoghi in cui l’artista stesso ha vissuto un periodo della sua vita.

Van Gogh path

Nata dall’idea del designer olandese Daan Roosegaarde, “Van Gogh Path” è il nome di questa innovativa pista ciclabile, progettata in occasione del “Van Gogh 2015 International Theme Year” dedicato ai 125 anni dalla scomparsa dell’artista e successivamente inaugurata il 13 novembre dello stesso anno. Daan Roosegaarde, con la collaborazione di Heijmans Infrastructure, è riuscito a realizzare un asfalto smart con macchine road printer: le luci sono interattive, la vernice utilizzata è dinamica, si ricarica durante il giorno e la sua autonomia può arrivare fino ad 8 ore. La strada, lunga un chilometro, è stata realizzata con migliaia di pietre scintillanti dotate di luci a LED ad energia solare e di tecnologia glow-in-the-dark. Di notte, la pista si illumina offrendo uno spettacolo mozzafiato, gradito da turisti, residenti e soprattutto dai ciclisti. Dotata di ulteriori luci a LED in alcuni punti del percorso che garantiscono luce supplementare nel caso in cui le pietre non si siano caricate a sufficienza durante il giorno, la sua illuminazione non interferisce con l’ambiente circostante, né reca disturbi visivi ai ciclisti stessi, i quali si ritrovano immersi in una pedalata sulle stelle di Van Gogh.  Aggiungendosi alla pista già esistente lunga 335 chilometri, questo nuovo tratto collega due mulini a vento, in un percorso che permette di visitare i luoghi della vita del noto artista olandese.

Smart highway…

Quest’opera è la seconda di cinque segmenti che rientrano nel progetto “Smart Highway” dello Studio Roosegaarde, laboratorio di progettazione sociale che con il suo team di designer ed ingegneri professionisti ha sede in Olanda e a Shangai. L’obiettivo è quello di rendere le strade intelligenti, interattive e rispettose dell’ambiente, sfruttando la luce del sole, l’energia e la segnaletica stradale.

…e tecno-poesia

Il risultato di questo lavoro? Una pista ciclabile innovativa ed ecosostenibile, che combina arte e sostenibilità ambientale, attraverso soluzioni tecnologiche all’avanguardia, promuovendo ancora una volta la mobilità eco-sostenibile con l’utilizzo delle biciclette, tipiche dell’Olanda. Tutto ciò viene definito dall’artista e designer “tecno-poesia”, ovvero la tecnologia combinata con l’esperienza attiva.


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Ambiente, società e tecnologia

Cosa sono le CBDC, il nuovo strumento delle Banche Centrali

Questo anno le più importanti banche centrali hanno accelerato nella direzione dell’emissione di una propria moneta digitale.

Un fenomeno prevedibile, dato che già da alcuni anni e in particolare dopo la crisi finanziaria del 2008 stiamo assistendo all’introduzione di strumenti di pagamento alternativi alle banconote quali i Bitcoin e altre cripto valute (o valute virtuali) che non sono emesse da banche centrali né sono da loro regolamentate, dipendono infatti da un sistema crittografato, le transazioni sono registrate in un libro mastro condiviso in rete (meccanismo alla base della blockchain) e il loro valore varia in base alla domanda e all’offerta. Vengono utilizzate sia come mezzo di pagamento che riserva di valore. Gli scambi di queste valute avvengono però in anonimato e ciò comporta il rischio che possano essere utilizzate per riciclaggio, pagamenti in nero e traffici illeciti.

Come riportato da Alberto Monteverdi in una nota per l’ISPI, l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, da alcuni anni le banche centrali valutano l’emissione di una moneta di banca centrale digitale, avente quindi corso legale al contrario delle valute virtuali, da rendere disponibile a cittadini e imprese e attualmente sono in corso vari progetti di studio e sperimentazione.

Europa – BCE

La Banca Centrale Europea ha avviato una consultazione pubblica che termina il 13 gennaio per raccogliere pareri e suggerimenti da istituzioni, cittadini ed esperti del settore finanziario in vista di una possibile sperimentazione pratica da avviare nel 2021 per verificarne la fattibilità tecnica. Sul sito ufficiale si evince che l’obiettivo della BCE è quello di introdurre una moneta digitale che affianchi il contante e i depositi, che permetta di creare sinergie con il settore dei pagamenti, che sostenga il processo di digitalizzazione nell’economia europea, che sia inclusiva permettendo anche a chi non possiede un conto corrente di potervi accedere ed evitare l’utilizzo di strumenti di pagamento non regolamentati o il ricorso a valute estere.

Stati Uniti – FED

Lael Brainard, economista e membro del consiglio dei governatori della Federal Reserve, ha tenuto un discorso nel quale afferma come i Bitcoin e le altre valute virtuali abbiano sollevato questioni sulla salvaguardia delle norme e della legalità, sulla stabilità finanziaria, la privacy e in oriente la Cina si sta muovendo rapidamente verso l’introduzione di una sua moneta digitale. Considerati tutti questi cambiamenti, la FED sta conducendo ricerche ed esperimenti per una sua CBDC (central bank digital currency) che possa offrire maggior velocità ed efficienza nei pagamenti, una maggiore inclusività finanziaria e minori costi per gli utenti finali, ricordando l’importanza che ha il dollaro a livello globale. È attualmente in corso una collaborazione tra la Federal Reserve di Boston e i ricercatori del Massachussetts Institute of Technology per esplorare l’uso di tecnologie nuove ed esistenti, oltre a collaborazioni con altre banche centrali e il BIS Innovation Hub per condividere ricerca ed esperienze dal momento che i sistemi finanziari globali sono estremamente legati gli uni con gli altri.

Gli Stati Uniti non puntano sulla velocità, e lo sottolinea il presidente della FED Jerome Powell in una videoconferenza tenuta dal FMI: “È più importante per gli Stati Uniti fare bene che fare per primi”.

Svezia – RIKSBANK

Anche la Banca Centrale della Svezia ha avviato un progetto pilota di sperimentazione per la sua e-krona (corona digitale) che si basa sulla tecnologia della blockchain, in collaborazione con la nota compagnia di consulenza Accenture e che terminerà a fine febbraio 2021.

Cina – PBC

Dopo anni di ricerca la Cina questo anno ha avviato una sperimentazione per uno Yuan digitale in alcune città del paese, offrendo un bonus per gli acquisti in alcuni negozi per incentivare l’uso di strumenti di pagamento elettronici tra i cittadini. I cinesi utilizzano ampiamente e da tempo strumenti di pagamento elettronici come le popolari piattaforme Alipay e WeChat Pay ma essendo in mano a privati sfuggono al pieno controllo del governo. La CNN afferma in un articolo che gli obiettivi della Cina sono essenzialmente controllare ulteriormente come i cinesi spendono i loro soldi, sorvegliare l’economia e la società, svincolarsi dalla stretta che gli Stati Uniti hanno sul sistema finanziario globale. E spera che una moneta digitale possa adempiere a tutto ciò.


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Ambiente, società e tecnologia

Concerti 2.0 é possibile gustarsi la musica in epoca di distanziamento?

In tempi di pandemia, ciò di cui si sente maggiormente la mancanza sono i momenti di svago, è possibile ritrovare quegli attimi dedicati al solo piacere di ascoltare la musica?

Dal punto di vista dell’ascoltatore, la via più immediata per rimanere in contatto coi propri artisti preferiti sono i social network come Facebook o Instagram.

Grazie agli strumenti messi a disposizione dalle varie piattaforme, come ad esempio la sezione domande delle instagram stories, possono nascere interazioni dirette tra il fan e l’artista.

Cosa che durante i concerti invece non è possibile, perché l’artista si interfaccia col proprio seguito in maniera collettiva, mentre nei social network l’interazione avviene con tanto di nomi e cognomi, quindi diventa automaticamente più personale.

Concerti in streaming : Fino a che punto la tecnologia può sostituire l’interazione umana?

A-Live é l’applicazione che cerca di riprodurre il più fedelmente possibile l’esperienza del concerto, sia per gli spettatori che per gli artisti.

L’aspetto più interessante di questa applicazione dal punto di vista dell’artista è la possibilità di interagire col pubblico, ricreando a tutti gli effetti una platea virtuale,che partecipa attivamente all’evento.

Si possono organizzare tour virtuali per rimanere a contatto con le vare community, il servizio di geolocalizzazione permette di filtrare l’evento per aree geografiche, e questo permette di simulare l’emozione che provano i fans quando sanno che il gruppo suonerà in quella particolare città.

All’inizio o alla fine dell’evento è inoltre possibile creare stanze virtuali per incontrare i fan, emulando l’esperienza dei meet and greet oppure la casualità di incontrare qualche membro che sta firmando autografi.

Il vero divertimento di questa app però è tutto dedicato allo spettatore:i social buttons  permettono di ricreare quelle interazioni che nate spontaneamente dal pubblico per manifestare tutto l’entusiasmo e l’energia del momento.

In primo luogo é possibile scattare selfie direttamente dall’applicazione, ed essi saranno poi trasmessi sul videowall del palco, proprio a fianco dell’artista.

L’opzione clapping permette di simulare il suono del battito delle mani e della folla che applaude.

Per simulare l’iconico gesto dell’accendino acceso durante il concerto, vi è l’azione dedicata che aumenta e diminuire la luminosità della foto dell’utente e trasmette il tutto sullo videowall del concerto.

Due eventi si sono potuti svolgere grazie a questa applicazione:

Lo scorso 6 settembre, all’Arena di Verona, si è tenuto Heroes, un evento che ha coinvolto ben 34 artisti di musica italiana ed è durato cinque ore.

Il nome dell’evento è ispirato all’iconico brano di David Bowie, ha coinvolto artisti come Achille Lauro, Fedez, Coez, Marracash, Nitro, i Pinguini Tattici Nucleari e tanti altri.

Il ricavato dell’evento è stato devoluto a sostegno di tutti i lavoratori dell’industria musicale come gesto di solidarietà.

Anche i Lacuna Coil hanno voluto aggregarsi a questa iniziativa e riportare qualche evento nella scena Metal italiana.

Black Anima: Live from the Apocalypse questo è l’evento creato in occasione dell’anniversario dell’omonimo album.

La band ha suonato live all’Alcatraz di Milano, ed è stato un vero e proprio concerto, con tanto di luci e scenografia sul palco, e tramite dei tecnici specializzati in suono e streaming, si è cercato di rendere verosimile l’esperienza come se il pubblico fosse davvero presente.

Il pubblico invece riguardo i concerti in streaming ha opinioni discordanti, c’è chi ritiene che l’esperienza un mero placebo e aspetta di godersi la musica dal vivo, e chi invece si accontenta dello streaming in quanto non ci sono alternative migliori.

Concerti Drive In

Keith Urban negli Stati Uniti prova a proporre questa modalità alternativa di vivere l’esperienza della musica dal vivo e si propone in maniera inaspettata.

Il cantante country a sorpresa di tutti, lo scorso maggio, ha deciso di organizzare un concerto drive in a Nashville per ringraziare i medici e tutti coloro che lavorano nel settore della salute.

L’evento ha coinvolto 120 vetture e 200 spettatori, l’intento era provare a riportare in auge una modalità di intendere gli eventi che in epoca di distanziamento sociale potrebbe risollevare gli animi degli spettatori.

Attualmente in Italia non si è ancora assistito ad iniziative di questo genere, ma niente esclude che non si possa verificare in futuro.

Come potrebbero reagire i fan a questa proposta?


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Ambiente, società e tecnologia

Golee, la soluzione per la trasformazione digitale del calcio: intervista a Felice Biancardi

Sul nostro magazine oggi vogliamo riportarvi l’intervista a Federico Biancardi, Presidente e Co-fouder di Golee, startup innovativa vincitrice già di diversi premi, tra i quali il Qatar Sportstech 2019 e la Startup Competition 2020 di Confindustria Giovani Nazionale, e il cui obiettivo consiste nell’accelerare la digital trasformation del mondo del calcio.

Felice, iniziamo con il delineare il contesto all’interno del quale agite: com’è composto, quali sono gli elementi che lo caratterizzano/contraddistinguono e quali sono le sue criticità?

“Noi oggi siamo verticali nel mondo del calcio. Bisogna considerare che il 95% delle società sportive non ha accesso a tecnologia per il loro lavoro quotidiano. Questo vuol dire che la maggior parte delle innovazioni sono per le società grosse della Serie A: hanno dai droni alle webcam che costano centinaia di euro a magari partner o fornitori come Microsoft o Oracle, quindi grandissimi brand. Per il resto del mercato c’è davvero poco e pochissime startup o aziende che occupano dei servizi che aiutano appunto queste società a digitalizzarsi e a strutturare meglio la loro operatività quotidiana. Abbiamo pertanto creato una piattaforma che digitalizza tutte le operazioni amministrative, quindi tutto quello che viene fatto in segreteria dalla mattina alla sera, le attività finanziarie (la gestione delle entrate e delle uscite, il bilancio prima nota, ricevute, fatture), operazioni marketing e la parte sportiva. Sportiva intende tutte quelle attività legate al campo che ad oggi vengono gestite, un po’ come tutto il resto, con carta e penna o al massimo su Excel.”

Quali sono stati gli effetti del Covid-19 su questo settore?

Come si è visto quest’anno la maggior parte del mondo dello sport si è fermata, a parte la Serie A che comunque ha subito grossi danni. Le società sportive, senza più introiti, in tantissime sono fallite e altre semplicemente non possono lavorare. Ci sono ragazzi che non giocano a calcio da febbraio dell’anno scorso. Il settore è stato completamente stravolto e ammazzato dal virus, in attesa di riprendersi, come un po’ tutte le società sportive di qualunque tipologia di sport. A parte alcuni sport individuali, per brevi periodi, è stata veramente una mazzata.

Cosa vi differenzia rispetto ad altri soggetti operanti nel settore?

La maggior parte delle realtà offre servizi diversi, non tanto alle associazioni sportive quanto ai grandi club di Serie A, della Premier o della Liga. Nel nostro mondo, il famoso 95% di tutte le società, ci sono pochissime realtà che offrono servizi digitali e spesso sono molto verticali in specifiche attività. Noi invece integriamo in un’unica piattaforma un gestionale amministrativo, sportivo e finanziario, siti web automatizzati, e-commerce pronti all’uso, applicazioni per allenatori e per atleti. Il vantaggio, ovviamente, è che riusciamo ad avere economie di scala abbastanza elevate, più rapidi nell’acquisizione del cliente ed un pubblico più ampio di clienti. Inoltre, la società sportiva si trova più a suo agio con un unico fornitore, che garantisce un servizio qualitativamente più alto e servizi integrati tra loro. È un approccio alla Microsoft, diciamo.”

Quante società sportive avete raggiunto fino ad ora?

Da settembre 2018, momento in cui abbiamo lanciato la piattaforma a livello commerciale, abbiamo raggiunto 1400 società sportive, che vuol dire il 10% del mercato calcistico italiano, di cui l’85% l’abbiamo ottenuto durante il Covid. L’impennata in questa fase è data fondamentalmente dal fatto che abilitiamo le società sportive a poter lavorare da remoto. Di solito sono abituati a fare tutto quanto con carta e penna o utilizzando Excel, poi da un giorno all’altro si ritrovano a dover stare a casa. Come fanno a lavorare? Noi eliminiamo completamente i passaggi cartacei per le loro attività e gli diamo la possibilità di comunicare con tesserati, genitori e tifosi.”

Qual è la vostra strategia di comunicazione?

“Abbiamo diversi canali. Il primo canale di comunicazione è sicuramente la Federazione. Abbiamo delle partnership esclusive con federazioni della FIGC locali. Li sponsorizziamo, gli diamo gli strumenti per comunicare con le società sportive e tutte le società sportive in una determinata zona geografica che hanno Golee possono interagire e scambiare documenti con la propria federazione. Questo è il modo per noi per avere tanta pubblicità e per far sì che addirittura le federazioni usino il nostro programma. Inoltre, facciamo molta pubblicità online. Il marketing online è un qualcosa che pensavamo che in questo mondo all’inizio non avesse tanto spazio. In verità dall’ultimo anno, grazie al Covid, tutti quanti hanno imparato ad utilizzare un computer. Sembra assurdo ma è così: molti non usavano o non sapevano neanche cosa fosse Zoom invece adesso tutti quanti, presidenti e società, sanno usarlo. Il marketing online va molto bene e a costi bassissimi riusciamo a fare una bella penetrazione di mercato, con un boarding medio di almeno 25 società al mese soltanto dal marketing online che comunque abbiamo sperimentato da poco e abbiamo iniziato e stiamo perfezionando.

Il terzo canale di comunicazione è rappresentato dalle collaborazioni con terze parti, come Tuttocampo, Calciatori Brutti o altri partner o giornali locali con i quali facciamo del marketing più social o geo-localizzato, in maniera diversa in base anche ai prodotti che abbiamo.”

Quali difficoltà e/o resistenze avete riscontrato e state riscontrando durante il vostro percorso?

“In termini di difficoltà, bisogna considerare il fatto che il mondo dello sport è molto arretrato e costituito da volontari. Persone che non sono abituate a lavorare in maniera professionale e quindi i nostri strumenti inizialmente possono non essere capiti. Bisogna spiegarlo con un attimo di pazienza, poi quando lo capiscono sono entusiasti.  È come mio padre che fino a qualche anno fa mi diceva: “Felice, ma tanto è inutile, io l’iphone non lo utilizzerò mai, il telefono lo uso solo per le chiamate” invece oggi mio padre usa l’iphone più di me. Diciamo pertanto che la prima barriera è data dal non sapere che ci sono strumenti digitali, come dovrebbero essere utilizzati o quali sono i benefici.

Il 30 Novembre 2020 avete lanciato una campagna di crowdfunding su Backtowork: come investirete le risorse raccolte?

“La campagna l’abbiamo chiusa prima di Natale, in 20 giorni. In verità questa è soltanto una parte dei soldi che vogliamo raccogliere, però ci ha fatto tantissima pubblicità che ci serviva anche per una questione di marketing. Le risorse raccolte saranno spese soprattutto nel 2021 per due obiettivi. Uno è sicuramente il consolidamento del team, in quanto abbiamo bisogno di una batteria di programmatori più ampia e abbiamo bisogno di maggior budget per venditori. Conseguente anche al prendere nuovi programmatori sarà sicuramente il prodotto. Dobbiamo sviluppare delle parti del prodotto che sono molto avanzate, come i sistemi di pagamento: consentire a tutte le nostre associazioni sportive di far pagare i loro tesserati non più con bonifici o in cash, ma dando a tutti la possibilità di pagare con la carta di credito, tramite addebito diretto, pagamento a rate, farli pagare in maniera semestrale.

L’integrazione di marketplace, quindi il poter agire da distributori per le nostre società e vendere digitalmente centinaia di prodotti che acquistano loro tutti gli anni: palloni, conetti, porte, gli strumenti per i portieri, guantoni, sacche sportive. Agendo da distributore, riusciamo ad avere un rapporto qualità prezzo migliore.

In merito invece al futuro, quali sono le vostre prospettive a livello nazionale ed internazionale? State anche pensando di esplorare altri sport?

“A livello nazionale, entro fine 2021, vogliamo arrivare ad almeno 5 mila società sportive. Questo ci permetterà di essere, a livello di numeri, il più grande in Europa nel nostro settore. Come prospettive europee, quest’anno sarà la conquista dell’Italia e verso fine 2021 inizieremo a redigere delle strategie di internazionalizzazione che andranno intorno al mercato spagnolo, portoghese e francese. Ad oggi abbiamo iniziato dal calcio perché, in termini di numeri, è più grosso di tutti gli altri sport messi insieme. L’effort che abbiamo per entrare nel mondo del calcio è sì paragonabile agli altri sport però, come detto, ci porta molti più numeri e pertanto, anche per una questione di dispersione delle energie, siamo focalizzati su questa verticale.

Questo non vuol dire che non apriremo ad altri sport. La nostra piattaforma in verità già è pensata e ha già funzionalità multisport. Non lo stiamo spingendo perché non ci conviene, in termini di costi-benefici, però lo faremo sicuramente a breve, non so se quest’anno o l’anno prossimo.”


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Ambiente, società e tecnologia

Revenge porn: ecco perché la vendetta non c’entra

La Bibbia, Phica.net, chat Telegram dai titoli inquietanti: sto parlando del mondo proibito dell’ossessiva ed illecita sessualizzazione del corpo femminile. Mi addentro nello straziante labirinto di cartelle, link ed album, tutti accuratamente suddivisi ed organizzati al fine di una semplice e comoda fruizione. A, B, C, D, leggo tutte le cartelle finché non trovo quella con la mia iniziale. Scorro una, due, tre, cento pagine finché non trovo il mio nome. Eccolo: imponente, inquisitorio, scritto in un font tutto in maiuscolo che mi richiama all’attenzione. Doppio click e apro il file. Sul mio schermo compaiono centinaia di foto, video, immagini di volti femminili, foto innocue, momenti intimi, persone violate, anime tradite e disumanizzate. La mia faccia, comunque, non c’era: non io, non oggi. E se non io, chi allora? Ma soprattutto: perché?

Nelle ultime settimane si è scatenato un fenomeno mediatico rivoluzionario che ha travolto gran parte del web ed ha finalmente dato voce e visibilità a tutte quelle dinamiche discriminatorie a cui le donne sono sistematicamente soggette da secoli e che, per troppo tempo, sono rimaste nell’ombra.

Da Chiara Ferragni a Claudio Marchisio, centinaia di influencer, attivisti e persone comuni si sono esposte su giornali e piattaforme social invocando una presa di coscienza collettiva in campo di discriminazione di genere e dignità della donna affinché, prima tra tutte, la feroce e vile pratica del revenge porn possa giungere ad un epilogo.

Le parole dell’imprenditrice digitale Chiara Ferragni, che su Instagram conta attualmente 22 milioni di followers, colgono perfettamente l’urgenza e la necessità di un cambiamento radicale in merito all’impostazione patriarcale alla base della nostra società. “Usando il potente megafono di Instagram”, come lo definisce anche l’HuffingtonPost, l’imprenditrice ha agito da importante cassa di risonanza rendendo fruibili concetti e terminologie finora obsoleti, richiamando gli uomini e le donne alle loro responsabilità ed esprimendo in modo conciso l’estremo bisogno di una differente narrazione dei fatti di cronaca che coinvolgono violenza di genere e revenge porn.

Il “revenge porn” è un’espressione mediatica utilizzata per descrivere la pratica della diffusione di immagini e video intimi senza il consenso delle persone coinvolte. Letteralmente significa “vendetta pornografica” ma di fatto le cause e gli effetti di questo complesso meccanismo si spingono ben oltre la semplice voglia di vendicarsi, per esempio del proprio partner, attraverso la divulgazione di sue foto intime o private.

I motivi socioculturali che portano una persona a violare l’intimità di un’altra senza il suo consenso, esponendola così alla gogna mediatica e condannandola a danni irreversibili, sono molto più profondi di quanto si possa pensare. Il revenge porn, come apprenderemo, non si limita alla vendetta personale ma affonda le basi della sua stessa esistenza su concetti quali la cultura dello stupro ed il victim-blaming, di cui facciamo troppo spesso esperienza attraverso le narrazioni giornalistiche.

Lo scorso aprile questo feroce fenomeno, attraverso la denuncia delle chat Telegram, ha sicuramente mostrato uno dei suoi volti più tragici e oscuri.

Il caso Telegram: la punta dell’iceberg

Durante il periodo di lockdown dovuto alla pandemia causata dal Coronavirus, i casi di revenge porn sono drasticamente aumentati, o meglio, ne è esponenzialmente aumentata la denuncia pubblica. Come riferisce anche l’editoriale Domani, secondo un recente rapporto è emerso che in Italia il revenge porn riguarda 6 milioni di persone. Il motivo di questa sovraesposizione inaspettata è dovuto al fatto che nei primi giorni dello scorso aprile è letteralmente esploso il caso mediatico dei “gruppi Telegram“: chat in cui si praticava la divulgazione di materiale pedopornografico, intimo o privato, ma non solo. Telegram infatti è un’applicazione di messaggistica istantanea che, tra le varie funzioni, possiede anche quella di poter creare dei gruppi che possono contare fino a decine di migliaia di partecipanti. In alcuni di questi gruppi, utenti con falsi nickname non tracciabili barattavano immagini e video intimi girati o reperiti senza il consenso dei coinvolti in cambio di particolari “tributi”. Gli utenti si scambiavano fotografie di bambine, ragazze, donne come fossero figurine dei Calciatori Panini. In altri casi, si divertivano ad estorcere ingenue foto di figli e figlie, mettendo le immagini alla mercé del branco di uomini affamati che popolava la chat. Si possono intuire ovviamente i profondi danni psicologici, fisici, occupazionali e relazionali causati alle vittime di questo accanimento insensato, per non parlare dei casi di suicidio. Le migliaia di utenti, per la quasi totalità uomini, che partecipavano a questi gruppi distruggevano violentemente una ad una le loro vittime, attraverso pratiche mortificanti, umilianti e disumane. Le prede preferite del branco erano (e rimangono) prevalentemente persone di sesso femminile, ostaggio di sconosciuti indipendentemente dalla loro età o dalla tipologia del materiale fotografico in cui si trovavano coinvolte. Le modalità di diffusione di questi contenuti all’interno delle chat, inoltre, si sono rivelate così violente e maniacali che, in pochi giorni, le pagine social sono state letteralmente invase da notizie ed informazioni che hanno contribuito a denunciare a gran voce ciò che effettivamente stava accadendo su altre piattaforme: uno stupro di gruppo virtuale.

Una volta compresa la gravità della situazione, però, gli interrogativi sono ancora molti: perché le vittime sono principalmente donne? Che ruolo hanno umiliazione, colpa e vergogna? Perché sul corpo della donna grava ancora la dicotomia sacralità/usurpazione?  Cosa c’è di sbagliato nel farsi una foto intima? Ma soprattutto, perché c’è ancora così tanta differenza tra la trattazione dell’erotismo maschile e quello femminile?

Lo scandalo dei gruppi Telegram non è altro che la punta dell’iceberg di un sistema malato e di una cultura più complessa di quanto pensiamo. La società contemporanea, frutto di un’impostazione patriarcale, è dilaniata da etichette e pregiudizi che generano squilibri di potere, violenza di genere e discriminazioni.

Il tabù della sessualità femminile: tra desiderio e vergogna

Le motivazioni che portano all’affermarsi della pratica del revenge porn sono sicuramente molte e variegate ma tutte traggono le proprie origini da un bacino culturale in cui tabù e stereotipi sono all’ordine del giorno, in particolare modo nei confronti di una sessualità femminile giudicata “non conforme” ai canoni socialmente imposti.

Occorre comunque sottolineare che da questo truce e mortificante meccanismo non sono esenti gli uomini. Secondo i dati più recenti infatti, quasi per il 90% dei casi le vittime di revenge porn sono donne, mentre il restante 10% si tratta di uomini. Le modalità e le motivazioni tramite cui questo avviene però sono estremamente differenti nei due sessi.

Il revenge porn contro le donne si basa infatti su un’intrinseca mortificazione e repressione del desiderio erotico femminile, il quale è percepito come qualcosa di sbagliato e scandaloso. Le donne sono quindi soggette all’umiliazione e alla vergogna pubblica a causa di un rapporto con l’intimità che non ha niente di colpevolizzante o vergognoso se non il fatto stesso di esistere. I motivi per cui invece gli uomini diventano vittime di revenge porn sono ben diversi: questi infatti sono soggetti a ricatto, disprezzo ed umiliazione a causa della fragilità della propria sessualità rispetto allo stereotipo dell’uomo-macho (frutto del patriarcato) e non per il desiderio erotico in sé, che invece è considerato giusto e naturale per l’uomo.

Questa analisi si traduce nel diverso modo in cui tutt’oggi giudichiamo la foto di una ragazza nuda rispetto a quella di un ragazzo nudo: la prima fa scandalo, la seconda generalmente un po’ meno.

Il revenge porn è quindi in primo luogo un fenomeno legato ad un problema di tipo culturale – più che vendicativo – che nel 90% dei casi avviene ai danni di una donna. Alla base di questa incidenza così elevata c’è senza dubbio un rapporto malsano con la concezione della sessualità femminile.

Fin dall’antichità classica infatti, il desiderio femminile era conosciuto e temuto ben prima che si affermasse l’idea cristiana del peccato. La religione ha poi contribuito a diffondere l’immagine della donna peccaminosa e immorale che attenta alla virtù maschile e deve essere governata per reprimere il proprio desiderio. Agli albori del ‘900, è proprio Freud, il padre della psicoanalisi, a condannare il piacere femminile con teorie secondo cui la sessualità femminile si sviluppa attorno alla frustrazione generata dall’assenza del pene.

Tutt’oggi la ricerca in questo campo è rallentata dagli innumerevoli tabù che ancora avvolgono il piacere “dell’altro sesso”, come afferma la giornalista scientifica Paola Emilia Cicerone sulla rivista scientifica Mind.

La sessualizzazione e la vergogna associate al proprio corpo hanno costretto le donne a dover limitare le proprie pulsioni e i propri desideri. Questi presupposti rendono delle foto intime passibili di ricatto ed umiliazione solo perché la persona che vi è ritratta è una donna. Il corpo femminile viene costantemente sessualizzato: una spalla più scoperta diventa volgare, una posizione inusuale diventa provocante, la pelle nuda diventa inadeguata, lo sguardo ammiccante, il seno inopportuno.

Il corpo della donna è un luogo sacro da proteggere e preservare e allo stesso tempo merce di scambio, oggetto a completa disposizione dell’uomo.

In questo modo, da secoli, le donne sono costrette a portarsi dietro ogni giorno un fardello culturale pesantissimo: lo stigma della loro stessa carne.

La cultura dello stupro

Per comprendere a fondo le radici socioculturali del meccanismo perverso ed umiliante alla base del revenge porn, occorre chiarire il significato di “stupro” e della cultura ad esso associata su cui anche la nostra società ha costruito i propri equilibri di potere.

Quella di “cultura dello stupro” è un’espressione utilizzata nell’ambito degli studi di genere per descrivere una cultura nella quale stupro e violenze sessuali sono ritenute socialmente accettabili. Questo processo di progressiva normalizzazione avviene contemporaneamente su più binari. Una posizione rilevante in questo processo è sicuramente assunta dalla comunicazione mediatica che, fin troppo spesso, banalizza e giustifica tali comportamenti contribuendo a rendere la discriminazione di genere prassi quotidiana.

La normalizzazione della violenza di genere avviene concretamente attraverso 3 pratiche di cui facciamo esperienza quotidiana: lo slut-shaming, il victim-blaming e l’oggettificazione del corpo femminile.

Lo slut-shaming (dll’inglese “slut”, puttana, e “shame”, vergogna) è la tendenza a screditare una donna per determinati comportamenti o desideri sessuali considerati non consoni alla norma prevista. Con l’espressione victim-blaming (colpevolizzazione della vittima) si intende il processo psicologico attraverso cui la vittima di una violenza viene considerata responsabile della stessa. Attraverso questo meccanismo, la causa determinante del reato viene spostata dall’uomo aggressore alla vittima. Secondo un’analisi dell’Istat, una persona su 4 in Italia ritiene che un abbigliamento “succinto” possa essere la causa di una violenza sessuale.

L’oggettificazione del corpo femminile è invece l’elemento che fa da trait d’union tra le pratiche sopra citate in quanto consiste nella predisposizione a considerare la donna come mero oggetto atto alla gratificazione sessuale di un uomo. Il corpo femminile può essere umiliato o sfoggiato come un trofeo, a seconda delle circostanze, ma pur sempre al fine di supportare e incrementare la virilità maschile.

Ed è con questa nonchalance, causata dalla secolare interiorizzazione della cultura dello stupro, che la compagnia petrolifera X-Site Energy è giunta, lo scorso marzo, a diffondere degli adesivi in cui si incita lo stupro di Greta Thunberg, attivista ambientalista. La ragazza, appena diciassettenne, è raffigurata mentre viene chiaramente violentata da un uomo che stringe fra le mani le sue trecce. Questa è una delle tante dimostrazioni del fatto che il corpo delle donne continua ad essere considerato una proprietà di dominio maschile e lo stupro la rappresentazione più primitiva dell’oppressione dell’uomo sulla donna, condannata ad un perenne clima del terrore.

Il revenge porn nasce proprio da questi presupposti: l’oggettificazione e la sessualizzazione del proprio corpo costringono le donne non solo a subire continue limitazioni ma le obbligano anche a convivere con la costante paura di poter essere sottomesse o umiliate, in qualsiasi momento e con ogni possibile mezzo a disposizione, che si tratti di violenza fisica o foto intime divulgate senza consenso.

Narrazione e linguaggio come specchio del grado di civiltà di un popolo

La narrazione dei fatti legati alla violenza di genere assorbe completamente gli effetti della cultura dello stupro, tanto che meccanismi quali la colpevolizzazione della vittima o lo slut-shaming finiscono con l’essere elemento fondante della trattazione delle informazioni trasmesse dai mass media.

Dal revenge porn ai femminicidi, i mezzi di comunicazione sfruttano un doppio binario: se da un lato puntano alla colpevolizzazione della vittima (victim-blaming), dall’altro contribuiscono alla vittimizzazione del carnefice, veicolando così una narrazione giustificazionista e distorta che però viene percepita come normale.

Il comportamento maschile viene sempre descritto come conseguenza di quello femminile, con l’effetto di spostare la responsabilità dal carnefice alla vittima.

In questo modo si scrive che “lui l’ha uccisa perché voleva lasciarlo” oppure “lui ha inoltrato le sue foto intime senza il suo consenso ma è lei che ha deciso di scattarsele”.

Il meccanismo utilizzato è il medesimo: far ricadere sulla vittima un senso di colpa e vergogna causato dalle conseguenze delle proprie libere e legittime scelte.

A rendere il quadro più surreale e distorto è la romanticizzazione che generalmente accompagna la descrizione dell’episodio. I giornali spesso assumono un atteggiamento giustificatorio nei confronti di chi ha commesso il reato, fornendo dettagli inutili e spostando il focus dalla vittima al retroscena di concause che hanno portato il colpevole a commettere il crimine, deresponsabilizzandolo. In questo modo, il lettore è logicamente portato ad empatizzare per il carnefice. Questo, come spiega la scrittrice e intellettuale sarda Michela Murgia nel suo libro “<<l’ho uccisa perché l’amavo>> Falso!”, si tratta di un terribile paradosso: sattamente come quando si descrive un furto si dà per scontato che il ladro stia nell’errore, così nei casi di violenza di genere si dovrebbe condannare il carnefice, non tentare di giustificarlo.

Un caso emblematico di narrazione basata sulla rape culture è l’articolo del giornale Libero scritto da Vittorio Feltri (poi rimosso dal web) dal titolo “I cocainomani vanno evitati. Ingenua la ragazza stuprata da Genovese“ con cui Feltri commenta il caso dell’imprenditore fondatore di Facile.it che ha stuprato e torturato per ore una 18enne. Feltri, come se stesse sistematicamente seguendo un copione, procede nel racconto della vicenda colpevolizzando la vittima dell’accaduto e deresponsabilizzando Genovese dal turpe atto compiuto.

Queste tecniche disorientanti sono utilizzate quotidianamente da molte testate giornalistiche, sebbene ciò avvenga secondo modalità e misure diverse, e le narrazioni fornite minimizzano o banalizzano le violenze fisiche e “virtuali” subite dalle donne contribuendo così ad alimentare la normalizzazione di questi eventi.

Il linguaggio, soprattutto in questi casi, diventa sostanziale. Il vocabolario e la semantica associata alle parole sono sempre stati lo specchio del grado di civiltà di una popolazione. I termini utilizzati in diversi contesti infatti sono la prima spia delle abitudini culturali e degli equilibri di potere che governano un popolo.

Per questi, il linguaggio risulta essere una variabile da tenere in considerazione quando si parla di violenza di genere e di corretta narrazione degli eventi ad essa associati in quanto costituisce proprio il primo strumento tramite cui fornire una chiave di lettura della realtà.

Il giornalismo è un mezzo essenziale che ha il potere di educare e proporre nuove coscienze collettive. A volte, però, sembra non voler sfruttare queste potenzialità.

È necessario quindi che i mezzi di comunicazione prendano consapevolezza delle parole che utilizzano e della visione distorta che molto spesso forniscono al lettore. L’azione stessa di dar voce al carnefice, assumendo il suo punto di vista, è sbagliata proprio perché trasmette l’idea che vittima e colpevole siano su uno stesso piano quando, per evidenza dei fatti, non lo sono.

È solo attraverso una narrazione chiara e corretta, priva di quel filtro cognitivo generato dall’ambiente socio-culturale in cui ogni individuo è cresciuto, che si può contribuire ad un effettivo cambiamento: la lotta comincia dalle parole.

Stato, coscienza comune ed educazione: da dove ripartire

Sesso, corpi e desideri non dovrebbero essere fonte di giudizi, tabù o moralismi: solo così forse potremmo gradualmente spogliarci delle pesanti catene della vergogna e sentirci, poco a poco, un po’ più liberi ed un po’ più accettati.
Negli ultimi anni in vari paesi si è cercato di far fronte alla pratica del revenge porn, sebbene secondo gli esperti il diritto non riesca ancora a far fronte alle nuove tecnologie. In Italia, il reato per la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone coinvolte è previsto dall’articolo 612-ter del codice penale, introdotto con la legge n 69/2019. Esso prevede una pena fino a 6 anni di carcere ed una multa da 5mila a 15mila euro. Le stesse misure inoltre possono essere applicate anche a chi contribuisce a diffondere questo materiale inviandolo ad altre persone.
Anche l’Italia quindi si sta muovendo verso una maggiore tutela delle possibili vittime di questo atroce meccanismo. Ma possono delle leggi essere sufficienti ad eliminare questa piaga sociale e culturale una volta per tutte? Probabilmente no.

Come abbiamo analizzato, quello del revenge porn è un problema di matrice culturale profondamente radicato nella nostra società e nel nostro animo. Un’educazione sessuale e digitale ben programmata potrebbero sicuramente essere un valido strumento per cambiare le cose alla loro origine, fornendo una visione diversa ma più consapevole e non tossica della sessualità e del rispetto dell’intimità altrui. Ora più che mai, risulta necessario non essere indifferenti di fronte alla realtà e alle ingiustizie che ci circondano. Occorre reagire, in modo critico e competente, alla violenza e alla disumanità armati in primo luogo di conoscenza e rispetto.

Per far sì che avvenga un effettivo cambiamento c’è bisogno di tempo: i motivi alla base del revenge porn sono infatti secolarmente radicati nella cultura Occidentale. A questo scopo è fondamentale il contributo di ogni individuo. Ognuno di noi infatti deve impegnarsi a  sensibilizzare le persone che gli stanno intorno, intervenendo nel modo più opportuno qualora si verificasse una qualsiasi forma di violenza fisica o virtuale.

È necessario cambiare la narrazione dei giornali, insegnare il significato di “consenso” ed affiancare la crescita dei giovani ad una corretta e sana educazione sessuale, meno reticente e più inclusiva e consapevole dei rischi della rete online ed offline.

Per quanto riguarda nello specifico i casi di revenge porn, è estremamente importante “rompere la catena”: quando ci si imbatte in un contenuto intimo appartenente ad un’altra persona è dovere di ogni cittadino impedirne l’ulteriore la diffusione, nel rispetto della privacy (diritto umano previsto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e della dignità di chi vi è ritratto. È necessario non inoltrare immagini o video privati ed è buona norma esporsi affinché questo non venga fatto da altri utenti, ricordando opportunamente che divulgare materiale intimo senza consenso è illegale e passibile di denuncia.

Al giorno d’oggi, è sempre più urgente e necessario istruire gli individui ad un piacere genuino e disinteressato, libero da pregiudizi e giochi di potere, e soprattutto consapevole dei mezzi e dei rischi della rete, pronto a ricongiungersi con un’intimità priva di vergogna.


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Ambiente, società e tecnologia

Robotaxi Zoox: oltre ai pacchi ora Amazon vuole portare a destinazione pure noi

“The future is for riders, not drivers” è lo slogan di Zoox, startup che si occupa della progettazione e produzione di veicoli elettrici a guida autonoma acquistata quest’anno da Amazon, che ha appena lanciato su strada una prima versione di robotaxi. L’innovazione promette di rivoluzionare il futuro del trasporto pubblico che sarà guidato dalle intelligenze artificiali in forma rigorosamente sostenibile.

Il veicolo

A prima vista si presenta così: ridotto, compatto, bidirezionale, dal design squadrato per massimizzare lo spazio, simile ad un minibus ma comodo come un taxi. Con due porte d’ingresso e quattro posti a sedere dotati di cinture di sicurezza, airbag e diversi comfort, nell’abitacolo è presente anche un porta bevande, una presa di corrente e un mini schermo per tracciare il percorso che si sta compiendo. L’innovativo veicolo, con un’autonomia di 16 ore, può raggiungere la velocità di 120 km/h e si prenota con un’app dalla quale si può anche “personalizzare” la propria corsa scegliendo l’ora e il luogo di partenza e arrivo oltre che la musica e il riscaldamento a proprio piacimento.

Aicha Evans, CEO di Zoox, in un’esclusiva intervista promette: il nuovo robotaxi sarà pulito e sicuro, ad un prezzo accessibile per tutti, con diverse modalità di abbonamento a seconda delle esigenze del singolo cliente e prima ancora di scendere, il taxi saprà già chi dovrà salire, così da essere sempre efficiente e viaggiare al massimo delle sue potenzialità, in modo da non girare a vuoto.

Ma è sicuro?

Progettato appositamente per il traffico cittadino e la mobilità urbana, il robotaxi è agile nel muoversi tra gli oggetti e i costruttori promettono di garantire la massima sicurezza: il veicolo possiede infatti telecamere, radar e lidar scanner ad ognuno dei 4 angoli così da permettergli una perfetta visuale a 360 gradi rivela Mark Rosekind, Chief Safety Innovation Officer.

Ashu Rege, Senior President Software, in uno dei video di presentazione pubblicato sul canale youtube dell’azienda, spiega come funziona il “cervello” del veicolo: “il software è un intelligenza artificiale programmata per elaborare le informazioni visuo-spaziali proprio come farebbe la mente umana, come gli esseri umani riesce a prevedere le mosse altrui ed è in costante apprendimento, a differenza di questi però, che possono fare affidamento solo sulla vista e nemmeno sempre bene, il robot possiede ai suoi 4 angoli una combinazione di tecnologie che gli permettono di vedere e ricostruire tutto ciò che ha attorno nel raggio di 150 metri“.

E in futuro? il servizio non sarà forse così immediato…

I piani per il futuro non sono ancora perfettamente definiti: per il momento Zoox vuole testare questo nuovo sistema per essere certi che sia sicuro e adeguato in ogni situazione, al massimo dell’efficienza per le strade di San Francisco, Las Vegas e Foster City. Quando lo si vedrà in servizio anche nelle altre città? Evans non si vuole sbilanciare molto, ma ammette: “non prima di un anno”. Ci vuole ancora tempo dunque, ma la rivoluzione dell’AI è qui e Bezos è pronto a finanziarla.
D’altronde il futuro è dei passeggeri, non dei guidatori.

Zoox L5 Fully Autonomous, All-electric Robotaxi Interior
Zoox Fully Autonomous, All-electric Robotaxi
Zoox L5 Fully Autonomous, All-electric Robotaxi at Coit Tower San Francsico
Zoox Fully Autonomous, All-electric Robotaxi
Zoox L5 Fully Autonomous, All-electric Robotaxi

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Ambiente, società e tecnologia

Avere (avuto) una vita sessuale potrebbe costarti il posto

In data 17 Novembre è stato reso noto su tutti i quotidiani nazionali l’epilogo del caso avvenuto nel 2018 della maestra di asilo nel Torinese, vittima di revenge porn, estorsione, diffamazione e licenziamento. L’ennesima vittima colpita: è stato applicato l’art. 612ter, ma è abbastanza?

Il caso

L’ex partner ha ottenuto, dopo aver pagato un risarcimento, la condanna ad un solo anno di lavori socialmente utili, al termine dei quali potrebbe essere prosciolto. È colpevole di aver inoltrato senza il consenso dell’allora 20enne foto e frame ricevuti in situazioni di sexting sul gruppo WhatsApp del calcetto, resi virali nell’immediato.

In un colloquio richiesto dalla ragazza per ottenere la rimozione dei contenuti che dovevano ovviamente restare privati, non solo si è rifiutato, ma ha anche giustificato le sue azioni con la natura non romantica della relazione. La difesa afferma che non ci sia dolo.

Dichiarazioni per il papà di un’alunna e amico del ragazzo: “Se si inviano certi video, si deve mettere in conto che qualcuno li divulghi” dice e continua “Non potevo credere che una maestra facesse certe cose”.

Sua moglie è invece responsabile delle minacce ricevute dalla docente affinché non denunciasse ma, siccome la denuncia è stata fatta, la donna ha messo la dirigente dell’asilo al corrente, non mancando di esporre ancora una volta tutto il materiale.

Dal canto suo, la dirigente è intervenuta optando per la pubblica umiliazione della ragazza davanti a colleghi, genitori e personale, annunciando con crudezza i motivi del licenziamento, almeno “non troverà lavoro manco per pulire i cessi in stazione”.

Le due sono ora processate per diffamazione ed entrambe devono un risarcimento alla maestra.

Pornografia non consensuale

Innanzitutto, ciò che la ragazza ha subito è comunemente denotato come revenge porn ed è così chiamato perché nella quasi totalità dei casi è compiuto da un partner di sesso maschile che, per ripicca, diffonde immagini e video intimi del/la partner. Gli esperti preferiscono parlare però di pornografia non consensuale: il termine revenge porn ha di per sé un’accezione colpevolizzante verso la vittima poiché implica che questa abbia innescato la vendetta con un suo comportamento errato (al link, l’associazione Bossy definisce il victim blaming, utile per comprendere la portata del fenomeno). È però di deliberata violenza e negazione delle volontà di chi subisce.

Di fatto, ci sono varie tipologie di abuso sessuale digitale, che possono intrecciarsi più o meno con le dinamiche “analogiche”:

  • Hacking dei cloud e dei dispositivi, come successo a numerose celebrities, personaggi politici (deputata Sarti) o pubblici (l’ultima di una lunga lista, Guendalina Tavassi);
  • Furto e pirateria di contenuti creati per siti di “patronato” digitale a pagamento (OnlyFans, Patreon);
  • Insulti e aggressioni sui canali social in risposta a post e commenti;
  • Scatti e riprese eseguite con telecamere nascoste in momenti di intimità o che inquadrano all’insaputa parti del corpo con fini pornografici (a volte vengono addirittura filmati gli stupri);
  • Richiesta di fotografie personali sui social e costanti pressioni e minacce, specialmente subite da minorenni;
  • Pubblicazione e vendita dei contenuti citati nei punti precedenti su gruppi e forum dedicati, spesso corredati di profili social e informazioni sensibili delle vittime.

A questo elenco infernale si aggiungono le creazioni di applicazioni che utilizzano l’intelligenza artificiale delle reti neurali come DeepNude (oggi chiusa per questioni etiche) e FakeApp. Non è nemmeno necessario che vengano documentati i comportamenti (sessuali o non) delle vittime: con poche ore di esercizio sul programma si possono ottenere realistiche immagini di nudo a partire da comuni fotografie rubate da Instagram o addirittura l’inserimento del volto desiderato in un sex tape.

I dati e le conseguenze

L’espressione digitalizzata di ogni aspetto della vita – inclusa la sessualità, è naturale ed è comunque inevitabile, specialmente ora che è stata accelerata dalla situazione di pandemia globale. Si stima che fino al 20% dei nativi digitali utilizzi metodi multimediali per approcciarsi all’affettività, ma anche per contatti di tipo erotico. Molti adolescenti ritengono normale filmarsi durante atti sessuali. Tra gli adulti e i Millenials è invece una pratica ancora più diffusa: circa il 37,5%, secondo Statista.

Il problema è che, potenzialmente, dopo una qualunque giornata di scuola o di lavoro chiunque(1 persona su 10, secondo uno studio USA del 2019) – può essere oggetto di simili circostanze perché purtroppo i mezzi e la facile reperibilità del materiale in aggiunta alla (quasi) totale assenza di conseguenze per chi esegue upload di dati non consensuali genera una combinazione spesso letale. La Polizia Postale stima che il ritmo dei casi di revenge porn ammonti a due al giorno, per un totale di 1083 indagini in corso a Novembre 2020. Nel 90% dei casi si tratta di vittime donne, gran parte del 10% rimanente è parte della comunità LGBTQ+.

Non sono però disponibili dati completi e certi. Risulta quasi banale specificarlo, ma è una dinamica persistente: non tutti gli abusi vengono denunciati a causa della mancanza di supporto, della paura delle terribili conseguenze, dello stigma sociale del dover essere giudicata per aver realizzato materiale esplicito o aver perso il controllo dei propri contenuti online.

Le ricerche in ambito psico-sociale dimostrano che chi perpetra tali azioni ha una concezione totalmente oggettivante dei bersagli: non le considera persone bensì strumenti interscambiabili con altri simili, attraenti solo nel momento in cui possono essere controllati e puniti in base alla loro capacità di soddisfare i propri bisogni. Appropriandosi di tutto ciò che appartiene alla vittima, ovvero la sua identità e la sua soggettività, non si fa altro che negarle l’umanità. Una volta che si è compiuto questo passo, tutto è legittimato. Già dagli anni ‘80 l’avvocata e attivista MacKinnon afferma che le donne vivono nell’oggettivazione sessuale come i pesci nell’acqua”.

Amnesty International, in un’indagine del 2017, riferisce che il rapporto delle donne con Internet e con le relazioni in generale venga affrontato con ansia e perdita di autostima nel 67% dei casi e questo quando è causato “solo” da molestie e abusi sul web di gravità “minore”.  Le conseguenze sono devastanti sia sul piano psichico-individuale, sia sul piano socio-lavorativo, esattamente come una violenza sessuale fisica: alienazione e depersonalizzazione, assieme a sindrome da stress post-traumatico, disturbi alimentari e tossicodipendenza, depressione sono estremamente comuni. La pornografia non consensuale causa però anche la perdita del lavoro e l’emarginazione sociale, proprio come dimostrato nel caso della maestra torinese. Inoltre, è tristemente noto che il 52% delle vittime considera il suicidio e la percentuale cresce nei casi che coinvolgono minori.

L’Associazione no profit di sostegno legale alle vittime PermessoNegato stila report (l’ultimo è proprio di Novembre) nei quali illustra come il fenomeno della pornografia diffamatoria su triplichi di quadrimestre in quadrimestre. La mancata collaborazione dei portali e delle piattaforme che ospitano i contenuti privati violati è un altro grave problema molto ben evidenziato. In molti casi, non c’è alcun interesse a risolvere le falle di privacy, quasi si incentivasse il caricamento di certi video e foto. Attualmente sono sotto indagine i colossi Telegram e Pornhub. Altri social stanno gradualmente modificando le condizioni di utilizzo e le policy.

L’approvazione dell’articolo 612ter del Codice Penale e la situazione attuale

In Italia è stato eclatante il caso di Tiziana Cantone nel 2016, suicidatasi perché, avendo richiesto il diritto all’oblio in seguito alle denunce effettuate un anno prima per revenge porn, veniva ancora perseguitata. Il governo ha finalmente deciso di prendere provvedimenti, nonostante fosse in ritardo rispetto ad altri Stati. Dopo il successo della petizione di #IntimitàViolata che in una settimana raccoglie 110.000 firme è un lungo lavoro di molte campagne di sensibilizzazione, il 4 agosto 2019 è stato approvato l’articolo 612ter del Codice Penale, che andrebbe a colmare proprio le lacune legislative del pacchetto Codice Rosso, una raccolta di leggi che tratta la violenza di genere. La nuova normativa tutelerebbe maggiormente le vittime, considerando reato la “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”; darebbe anche maggiore rilievo al legame di relazione (corrente o terminata) e favorirebbe ancor più le vittime in condizioni di disparità fisica  e/o condizione di fragilità, come la gravidanza. A più di un anno dalla sua entrata in vigore, risulta evidente dall’approfondita analisi effettuata da Leonardo Tamborini, procuratore presso il tribunale per i minorenni di Trieste, e Margherita Simicich, dottore in giurisprudenza (disponibile al seguente link), che la nuova norma è anacronistica rispetto ai metodi di diffusione in costante ed esponenziale espansione e che risente di lacune dovute sia al problema di rintracciare il “divulgatore 0”, sia ad altre clausole che entrano in conflitto tra loro.

L’Italia è un Paese nel quale durante la giornata per l’Eliminazione della Violenza Contro le Donne 2020 viene trasmesso su un canale pubblico (che ricordo essere pagato dai contribuenti, quindi dalle donne lavoratrici anche) un tutorial su come apparire sensuali mentre si svolgono mansioni tipicamente relegate appunto alle donne. Dopo due settimane le scuse della conduttrice.

Abbiamo a portata di mano una quantità di mezzi e contenuti che cresce esponenzialmente di giorno in giorno: possiamo continuare a utilizzarli in modo irresponsabile e non etico o agire con coscienza. Attuare politiche sociali e progetti educativi, oltre a rendere il Codice Penale una tutela a trecentosessanta gradi per le vittime, sono urgenze da affrontare immediatamente per prevenire e contrastare l’avanzata di tali violenze. Il web è già parte integrante e inscindibile della “vita vera”.


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Ambiente, società e tecnologia

Il futuro della carne è basato sul vegetale?

È di qualche giorno fa l’annuncio di McDonald’s di voler inserire nel proprio menu, a partire dal 2021, il McPlant. Si tratta di un burger di “finta carne” composto da proteine vegetali prodotte in laboratorio e con l’ausilio di stampanti 3D.

L’hamburger è già stato “testato” lo scorso anno nei McDonald’s canadesi e sarà uno dei tanti prodotti di una linea tutta al vegetale e con un packaging al 100% biodegradabile.

La decisione è stata presa sulla scia di competitors quali Burger King o KFC che già da qualche anno hanno inserito nel menu soluzioni per vegani o per chi, semplicemente, ha deciso di ridurre il consumo di carne.

La notizia potrebbe passare come una semplice aggiunta di menu ma è qualcosa di più di questo. Le catene di fast food precedentemente nominate, infatti, sono nate con l’idea di proporre solo piatti a base di carne e una scelta del genere fino a qualche anno fa sarebbe stata impensabile.

Ma cosa c’è dietro a questa inversione di marcia?

È da escludere che tale scelta si possa collegare al tentativo dei fast food di scrollarsi di dosso il sinonimo di cibo spazzatura (junk food). La risposta è, invece, da ricercare nell’’attenzione che le multinazionali del food, e non solo, hanno nei confronti dell’ambiente e dei consumatori.

Consumo di carne: a che punto siamo?

L’aumento del consumo di carne è direttamente proporzionale all’aumento dei redditi e, stando a quanto pubblicato dalla BBC, negli ultimi 50 anni la quantità di carne prodotta è aumentata di quasi cinque volte: passando da 70 milioni di tonnellate nei primi anni ‘60 a quasi 330 milioni di tonnellate nel 2017.

Ma se la carne nei paesi più ricchi è un piatto abituale, e non più delle grandi occasioni come avveniva in passato, nei paesi più poveri continua a rimanere un privilegio.
Facendo sempre riferimento al report della stessa BBC, il consumo di carne medio a persona di un paese come l’Etiopia o la Nigeria è 10 volte minore rispetto a quello di un cittadino Europeo.

Consumo medio di kg di carne per persone/anno (Sorgente: UN Food and Agricolture Organization)

Carne e ambiente, qual è la relazione?

Il trend descritto pare abbia già avuto il suo picco e in questi anni stiamo notando una leggera decrescita del consumo di carne.

Ma a spingere all’abbandono della carne ci sono anche motivi ambientali.

Infatti, il beneficio che l’ambienta trae con la riduzione del consumo di carne è significativo.

La rivista online Duegradi, in un recente articolo, ha riportato che:

“L’industria della carne è oggi una delle principali responsabili dell’emissione di gas serra nell’atmosfera, producendo il 14% delle emissioni globali, più dell’intero settore dei trasporti”

Risorse usate per la produzione di Carne e Latticini  e Risorse derivate da Carne e Latticini (CHG= Gas Serra)                                                                                                   

Fonte: Duegradi.eu

La transizione verso il meatless è, quindi, dettata da motivi salutistici ma anche ambientali e il mercato ha la necessità di adattarsi a consumatori sempre più attenti, informati e consapevoli delle proprie scelte.

Le istituzioni, dall’altra parte, incentivano o, quanto meno, non ostacolano la tendenza ed è proprio in tale ottica che si inserisce la decisione del Parlamento Europeo di lasciare la possibilità alle aziende di continuare a utilizzare  termini associati in genere solo a prodotti a base di carne, come “hamburger”, “burger”, “bistecca”, “salsiccia”, anche per i prodotti a base vegetale.

La carne vegetale può venire incontro a tutta una serie di problematiche, sopra trattate, ma anche alle esigenze di persone che già seguono diete vegetali o, ancora, per avvicinare gli “scettici” ad un consumo più consapevole della carne senza discostarsi dalla forma e dal sapore di quest’ultima.
Non ci resta che attendere e vedere se una soluzione del genere possa, effettivamente, cambiare le carte in tavola.

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Ambiente, società e tecnologia

Il quadrupede Spot: robot e sicurezza

Web Summit, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

Creato nel 2015 dall’azienda di robotica ed ingegneria statunitense Boston Dynamics, Spot è l’innovativo robot a quattro zampe entrato ufficialmente nel mercato il 23 gennaio del 2020. Dopo la creazione nel 2005 di BigDog, un robot quadrupede progettato esclusivamente per fini militari, la stessa azienda ripropone un cane tecnologico dalle caratteristiche sorprendenti.

Questa struttura canina, che pesa 25 kg, è in grado di svolgere numerose mansioni e di compiere azioni che potrebbero risultare difficili per l’uomo: Spot può infatti saltare, salire e scendere le scale, può addirittura aprire la porta autonomamente. È dotato di grande agilità ed ampia visione dell’ambiente circostante, e grazie al Global positioning system e alla computer vision, è in grado di spostarsi tramite le proprie “zampe” e raggiungere la destinazione prefissata. Possiede inoltre la capacità di calcolo che gli permette ad esempio di elaborare mappe 3D ed individuare eventuali guasti nelle macchine industriali.

La “spia” per la lotta contro il coronavirus

Con l’emergenza verificatasi a causa della pandemia dovuta all’espandersi del Covid-19, l’utilizzo dell’intelligenza artificiale (robot, droni) si è intensificato a livello globale, per poter garantire il rispetto delle norme in vigore. Spot è stato infatti protagonista di un esperimento svoltosi a Singapore, al fine di vigliare sul mantenimento del distanziamento sociale. Nei parchi della città giapponese è stato infatti utilizzato come importante mezzo di controllo della distanza di sicurezza.

Il compito del quadrupede consiste nell’analisi dell’ambiente circostante tramite telecamere e sensori, grazie ai quali è in grado di rilevare il numero di persone presenti, fornendo così in tempo reale i dati sull’affollamento dei parchi ed evitando al tempo stesso eventuali assembramenti di persone. Spot è controllato da remoto, ma non è in grado di effettuare riconoscimenti facciali, garantendo così il rispetto della privacy delle persone coinvolte. Sembrerebbe avvicinarsi in cerca di cibo e coccole, ma in realtà è dotato di un megafono in grado di ricordare ai presenti di rispettare la distanza di sicurezza.

Una possibile risorsa per il futuro

L’utilizzo di Spot potrebbe rappresentare un’importante contributo per la medicina. È stato infatti sperimentato da parte della Boston Dynamics, in collaborazione con l’ospedale di Boston, l’impiego del quadrupede robotico per performare da remoto l’analisi di pazienti probabilmente affetti dal coronavirus. L’idea è quella di dotare Spot di iPad e radio bidirezionale al fine di rilevare direttamente da casa i parametri vitali, quali temperatura corporea, pulsazioni, livello di saturazione di ossigeno e frequenza cardiaca, ed eseguire la disenfezione degli ambienti infetti. Si pensa addirittura di sperimentare in futuro, tramite lo stesso mezzo, la visita del paziente contagiato direttamente presso la sua abitazione. L’obiettivo è quello di aiutare gli operatori sanitari a svolgere il loro lavoro con maggior sicurezza, diminuendo così il rischio di contagio.

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Ambiente, società e tecnologia

CO2 atmosferica: come cambia il cibo

Nel luglio 2019 la rivista scientifica “The Lancet” ha pubblicato un articolo in cui mostrava quale sia l’impatto dell’aumento di CO2 atmosferica sulle proprietà nutrizionali dei cibi. Attraverso questo articolo, è stato lanciato così un allarme circa le conseguenze che si potranno avere sulla sicurezza alimentare.

Solo quattro anni prima, nel Settembre del 2015, i 193 stati membri ONU avevano stilato il programma Agenda 2030: lo scopo era quello di guidare i Paesi sottoscriventi verso uno sviluppo più sostenibile, mediante l’ausilio di una serie di obiettivi da raggiungere entro i quindici anni successivi. Tra i 17 “sustainable development goals” vi è anche quello che vorrebbe vedere azzerata la fame nel mondo…ma come sarà possibile farlo se il cibo cambia molto più velocemente di quanto pensiamo?

Dati relativi al cambiamento dei valori nutrizionali del cibo

Ad oggi le concentrazioni di CO2 atmosferica sono aumentate quasi del doppio rispetto all’era pre-industriale e si stima che l’effettiva concentrazione di CO2 raggiungerà le 570 ppm prima della fine di questo secolo. Un gruppo di ricercatori ha provato a coltivare diverse varietà di riso in siti diversi e alle condizioni di anidride carbonica previste per il futuro: il risultato è stupefacente. Raffrontando i campioni prelevati con quelli coltivati alle condizioni correnti, si riscontra una diminuzione del 10% per la componente proteica e, allo stesso modo, è stata osservata una diminuzione anche per il ferro e lo zinco rispettivamente dell’8 e del 5%. Questi dati possono essere spiegati partendo dal presupposto che, con l’aumento della CO2, aumenta anche l’attività fotosintetica delle piante e di conseguenza aumenta la sintesi di zuccheri e amido. Sono dunque minime le quantità di carbonio che possono essere utilizzate per costruire altre macromolecole come proteine e vitamine.

Le ripercussioni dovute alla diminuzione dei nutrienti nel cibo possono essere diverse, infatti per esempio se si osserva il complesso vitaminico B, il dato che desta maggiore preoccupazione è quello della vitamina B9 che registra una diminuzione di circa il 30%. La vitamina B9, nota anche come folato, ha un ruolo determinante nei primi trimestri della gravidanza, tant’è che evidenze scientifiche dimostrano come la carenza di acido folico rappresenti uno dei principali fattori di rischio per lo sviluppo di malformazioni e, in particolare, dei difetti del tubo neurale, come il mancato sviluppo del cervello o l’estroflessione del midollo spinale. Lo zinco, i cui dati sono riportati precedentemente, ha anch’esso rilievo nello sviluppo fetale e continua ad avene per tutta la vita dell’individuo condizionandone fortemente la salute; secondo i primi dati raccolti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ad oggi, sembrerebbe che circa 1.4% delle morti nel mondo possa essere attribuito alla mancanza di zinco. Nei paesi in via di sviluppo la carenza di zinco può colpire quasi 2 miliardi di soggetti e gli effetti possono essere i più disparati: dal ritardo nella crescita all’alterazione delle funzioni biochimiche vitali.

Sicuramente queste ricerche non sono rassicuranti, ma è opportuno contestualizzare l’analisi fatta. Infatti, la diminuzione dei parametri nutritivi qui osservati è rappresentativa solo del riso, e attualmente non sono disponibili repliche dell’esperimento che coinvolgano altri cereali, sebbene uno scenario simile non possa escludersi aprioristicamente. Inoltre, è bene considerare che il fabbisogno calorico giornaliero di un individuo non viene coperto solo dai cereali, anzi è noto ormai da tempo, come sia preferibile un’assunzione dei nutrienti mediante un regime alimentare il più possibile vario. Alcuni studi dimostrano che si registra un cambiamento nelle abitudini alimentari delle popolazioni correlato aumentare del PIL. Ad esempio se si prendessero in analisi Giappone e Corea del Sud, si noterebbe che il consumo di riso dal 1975 ad oggi, è diminuito del 40%, nel primo paese e di quasi il 50% nel secondo.

L’impoverimento del cibo ha alla base una visione antropocentrica dell’ambiente e spesso a pagarne le conseguenze sono le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, infatti nel tempo l’uomo ha prediletto, e dunque selezionato, le varietà vegetali con una biomassa maggiore a discapito della qualità nutritiva delle stesse. Gli effetti dell’aumento della CO2 individuano un rischio che può essere definito sinergico, soprattutto nei Paesi come quelli africani. Negli ultimi anni, si è registrato infatti, un cambiamento nei modelli agricoli: si è abbandonata la coltura dei vegetali endemici a favore delle grandi colture di mais. La coltivazione del granturco provoca uno sfruttamento insostenibile sia del terreno che dell’acqua e in più favorisce la scomparsa degli impollinatori specifici degli ecosistemi africani. All’aumento del consumo di mais è imputabile anche l’aumento dei tassi di obesità; obesità che colpisce sempre più anche i paesi in via di sviluppo come mostrat dai dati riportati nel 2013 dal Overseas Development Institute.

Se si può, inizio io: progetti dell’Università Studi di Milano-Bicocca

A tal proposito è nato il Progetto SASS (Sistemi Alimentari e Sviluppo Sostenibile) avviato nel 2017 da un Consorzio guidato dall’Università di Milano-Bicocca al quale partecipano l’Università Cattolica, l’Università di Pavia, l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e lo European Centre for Development Policy Management di Maastricht. Questo progetto, che agisce proprio nell’Africa Subshariana, ha come scopo quello di lavorare sui sistemi agricoli ed individuare le specie vegetali marginali, ricche di nutrienti, che vengono consumate nelle diete locali. In particolare, si ha come obiettivo quello della ri-scoperta delle NUS (Neglected and Underutilized Species) mediante l’impiego di sistemi agricoli produttivi sostenibili, capaci di preservare suolo e risorse e al tempo stesso di produrre cibo e ricchezza.

«Grazie all’interazione di ricercatori di diverse discipline – dice Massimo Labra, docente di Biologia Vegetale e coordinatore del progetto l’Università Bicocca -, SASS mapperà e analizzerà i sistemi alimentari locali in tre diverse contesti dei paesi africani: aree naturali; aree agricole e contesti urbani e periurbani. Condivideremo e discuteremo obiettivi ed azioni della ricerca con gli stakeholders locali per capire insieme quali sono le strategie migliori da adottare per rendere gli attuali sistemi agricoli e di produzione alimentare più sostenibili e efficienti in vista delle sfide sociali future ma anche dei cambiamenti climatici in atto».

Infatti la scelta di coltivare mais, per i popoli dell’Africa Subsahariana, è una scelta di carattere economico in quanto apre loro la possibilità di esportare la materia prima, ma a lungo termine non può rappresentare una scelta sostenibile, né per l’ambiente né per tanto meno per la società, tant’è che sempre più le persone risultano obese e allo stesso tempo mal nutrite. La malnutrizione ha dei costi che il precario sistema sanitario africano non può permettersi, la scienza però ora può aiutare questi Paesi. Infatti, oltre ravvivare la tradizione delle colture originarie, è possibile selezionare varietà adatte alle condizioni ambientali africane, permettendo loro di preservare la risorsa acqua, favorendo l’equilibrio biotico e permettendo loro di esportare materie prime uniche e di qualità.

Se si tenesse fede al primo degli obiettivi per lo sviluppo sostenibile e si riuscisse ad azzerare la povertà, non ci si dovrebbe preoccupare oltre modo dei dati riportati finora, e sebbene, anche grazie all’Università Milano-Bicocca possiamo sperare in un sereno epilogo per la situazione africana, i dati dell’analisi sui cereali desta ancora preoccupazione. I principali paesi consumatori di cereali cambieranno probabilmente nei prossimi decenni ma la dipendenza dai cereali a livello globale come alimento base continuerà.

Le Nazioni Unite individuano nella povertà la più grande minaccia per il futuro dell’umanità, il rapporto FAO dichiara che: “Nel 2019, circa 690 milioni di persone non avevano cibo a sufficienza da mangiare, in aumento di 10 milioni rispetto al 2018 e di quasi 60 milioni in cinque anni. […]. La pandemia COVID-19 ha messo altri 130 milioni di persone a rischio di fame entro la fine del 2020.” e questo dato sembra essere destinato a crescere, non solo perché la popolazione mondiale aumenta di anno in anno; ma anche perché, a meno che non ci sia un radicale cambio di rotta, il cibo sarà sempre meno nutriente.

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Ambiente, società e tecnologia

Packaging: alcune delle best practice

Che cos’è il packaging? È uno strumento funzionale, un mezzo per comunicare al cliente la missione di un brand, ma anche un costo ambientale: secondo Eurostat solo il 42% degli imballaggi in plastica è stato riciclato in Europa nel 2017. Come renderlo più sostenibile?

Ridurre il packaging ai minimi termini

Applicare la filosofia zero-waste alla spesa quotidiana: è questa la missione di “Negozio Leggero”. Questo franchising italiano nato nel 2009 riduce gli imballaggi superflui vendendo prodotti sfusi o tramite la soluzione del vuoto a rendere: il cliente può così riconsegnare le confezioni in vetro, che saranno sterilizzate e riutilizzate. Le stesse strategie ispirano il lato e-commerce: per le spedizioni infatti sono utilizzati imballaggi in cartone recuperato. Negozio Leggero cerca di realizzare un “sistema chiuso” per il packaging: sfrutta al massimo le potenzialità dei contenitori esistenti e li rispedisce vuoti ai suoi produttori.

Liberarsi degli imballaggi… oppure no?

Perché allora non eliminare definitivamente il packaging? Brutte notizie: è una soluzione inapplicabile. A dimostrarcelo sono… i broccoli. Perché proprio loro? Possiamo trovare la risposta in una ricerca pubblicata sul “Journal of Food Engineering” nel 2011; è stato mostrato che un parametro fondamentale per la durata della vita commerciale dei broccoli é la presenza di un sottile packaging in plastica, meglio ancora se microforato. I dati raccolti indicano che in questo modo la loro capacità di conservarsi aumenta del 30%. Senza il packaging questi ortaggi, che sono infiorescenze non più in grado di ricevere nutrimento e acqua dalla pianta, perdono molto più velocemente la loro massa, ingialliscono e il loro stelo si indurisce: insomma, diventano invendibili e aumenta il rischio di spreco.

Proposte tecnologiche per un packaging sostenibile

C’è chi, grazie alla ricerca, sviluppa nuove tecnologie: è il caso di Lanzatech, una startup nata nel 2005, che ha recentemente presentato il packaging che produrrà per L’Oreàl. La sua particolarità? Il processo tecnologico che permette di ottenere polietilene, materiale alla base del packaging, parte da un batterio e da gas di scarto e rifiuti industriali. Lanzatech sfrutta questo microrganismo perché è in grado di vivere consumando CO2, H2 e CO (composti di cui sono ricche le materie di partenza) e di sintetizzare etanolo come prodotto secondario. È proprio quest’ultimo composto a essere trasformato in etilene: sarà questo il mattoncino di base per la produzione finale del polietilene.

Un progetto che ha la stessa missione é “BioCosì”, sviluppato dal centro ENEA in collaborazione con la startup pugliese Eggplant. Il materiale di  partenza è costituito dai reflui della filiera lattiero- casearia, in particolare la frazione ricca in lattosio. Questa, come viene spiegato, “viene processata e fermentata in un bioreattore grazie a un microrganismo in grado di sintetizzare una bioplastica biodegradabile”; i prodotti finali saranno confezioni e vaschette per prodotti caseari. Grazie a questa tecnologia ogni step della filiera verrebbe valorizzato, perché gli scarti diventerebbero funzionali per i nuovi prodotti.

Entrambi i progetti hanno un obiettivo chiaro, che può essere riassunto con le parole chiave del progetto BioCoSì: mirano a lanciare un packaging che sia “sostenibile, circolare e intelligente”.

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Ambiente, società e tecnologia

La nuova mobilità urbana tra sostenibilità e sicurezza

 

Gli spostamenti urbani e il loro evolversi, questa settimana, sono più che mai sotto ai riflettori. Ma la corsa alle innovazioni, oltre che green, sa essere sicura?

Come si muovono le nostre metropoli oggi?

Pochi giorni fa la ONG Legambiente, insieme alla società di consulenza Ambiente Italia e a Il Sole 24 Ore, ha pubblicato il report annuale che descrive le performance ambientali delle principali città italiane, “Ecosistema urbano”.

Il rapporto valuta i centri urbani sotto vari aspetti e, per quanto riguarda la mobilità, fotografa un Paese che procede a velocità diverse verso la sostenibilità.

Complessivamente, noi Italiani viaggiamo su una media di 646 auto per 1000 abitanti. In Europa più di noi ne ha solo il Lussemburgo (676).

Sul trasporto pubblico, invece, emerge che siamo mediamente al di sotto degli standard europei, che solo alcune delle nostre città hanno finora raggiunto (sono esempi virtuosi Venezia e Milano, quest’ultima premiata anche dall’Urban Mobility Readiness Index per servizi all’avanguardia: 26esima nel mondo).

Il Covid cambia le regole

Se prima si cercava di estendere e migliorare i mezzi pubblici, quest’anno il Covid ha rimescolato le carte. La pandemia ha infatti imposto come effetto collaterale del distanziamento una riduzione della capienza dei trasporti, in controtendenza rispetto agli obiettivi precedenti.

La sfida, adesso, è quella di impedire che milioni di persone si riversino dalle metro ai mezzi privati inquinanti, garantendo la sicurezza di tutti ma allo stesso tempo proseguendo sul sentiero della sostenibilità.

La soluzione a questo problema, al governo, la chiamano bonus mobilità. In cantiere da mesi, è attivo dal 3/11 e ha subito riscosso un enorme successo, con un numero di richieste talmente elevato da mandare in tilt il sistema di identificazione digitale in poche ore.

Il contributo statale del 60% (fino a un massimo di 500€) può essere utilizzato per l’acquisto di biciclette (tradizionali o a pedalata assistita) e monopattini elettrici, ma anche segway, hoverboard e monowheel o abbonamenti a servizi di sharing purché non di autovetture.

 Il boom della condivisione

E a proposito di sharing (specialmente di monopattini), qui la rivoluzione green è forse ancora più tangibile.

È una realtà piuttosto recente nel Bel Paese, che ha visto arrivare i primi esemplari della statunitense Helbiz un po’ in sordina a ottobre 2018.

Anche in questo campo, l’Italia va a due velocità. Alcuni capoluoghi, come Palermo, stanno approvando solo ora servizi di condivisione, mentre altri sono già pronti a reggere confronti internazionali.

E anche qui, Milano dà il buon esempio: è 13esima al mondo per la sharing mobility, e il suo futuro si prospetta ancora più roseo. Si stima, infatti, che la flotta in circolazione aumenterà di 22 mila unità ogni anno.

Ma nessuna città è immune al cambiamento, e inizia a mostrarsi il rovescio della medaglia.

Nuova mobilità significa nuove leggi

La rivoluzione, infatti, ha due ruote ma migliaia di piloti “rivoluzionari”, privati e non, e se non è ben regolamentata l’effetto “giungla metropolitana” è assicurato.

Ecco perché la limitazione della velocità a 6 km/h nelle aree pedonali è obbligatoria per tutti, ma se per i mezzi di proprietà è più difficile imporla a priori, per quelli condivisi non è così. Infatti, le società si servono della geo-localizzazione per auto limitare la velocità dei monopattini nelle aree che lo prevedono, per impedire a monte che qualcuno corra troppo.

Le compagnie di sharing, inoltre, devono “costringere” gli utenti a parcheggiare negli appositi spazi al termine dell’utilizzo.

A garantire questo è l’app dell’operatore: una foto, ad esempio, verifica che la sosta sia in regola.

Alcuni brand, poi, stanno incentivando i propri clienti a essere sicuri alla guida, come nel caso di Bird con il suo “Helmet Selfie”, che dà un credito di 0,25€ a chi dimostra con un selfie di aver indossato il casco durante la corsa.

E quando non si rispettano le regole, intervengono le amministrazioni con norme più stringenti e sanzioni, soprattutto per i mezzi condivisi:

  • Roma ha introdotto per i monopattini in sharing aree di sosta con la tecnologia geo-fencing (in pratica, non si potrà interrompere la corsa fuori da queste aree, da ora visibili dalle app) e, per evitare una concentrazione troppo elevata, è stato imposto il rispetto di una distanza minima di 70 metri ogni 5 veicoli dello stesso operatore.
  • A Milano, invece, linea dura: alcune irregolarità nelle soste e nella limitazione della velocità hanno portato alla revoca delle licenze per 3 società, Circ, Helbiz e Bird.

Decisioni, queste, che non stupiscono: la rivoluzione della mobilità sostenibile può e deve passare anche dalla sicurezza.