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La Bibbia, Phica.net, chat Telegram dai titoli inquietanti: sto parlando del mondo proibito dell’ossessiva ed illecita sessualizzazione del corpo femminile. Mi addentro nello straziante labirinto di cartelle, link ed album, tutti accuratamente suddivisi ed organizzati al fine di una semplice e comoda fruizione. A, B, C, D, leggo tutte le cartelle finché non trovo quella con la mia iniziale. Scorro una, due, tre, cento pagine finché non trovo il mio nome. Eccolo: imponente, inquisitorio, scritto in un font tutto in maiuscolo che mi richiama all’attenzione. Doppio click e apro il file. Sul mio schermo compaiono centinaia di foto, video, immagini di volti femminili, foto innocue, momenti intimi, persone violate, anime tradite e disumanizzate. La mia faccia, comunque, non c’era: non io, non oggi. E se non io, chi allora? Ma soprattutto: perché?

Nelle ultime settimane si è scatenato un fenomeno mediatico rivoluzionario che ha travolto gran parte del web ed ha finalmente dato voce e visibilità a tutte quelle dinamiche discriminatorie a cui le donne sono sistematicamente soggette da secoli e che, per troppo tempo, sono rimaste nell’ombra.

Da Chiara Ferragni a Claudio Marchisio, centinaia di influencer, attivisti e persone comuni si sono esposte su giornali e piattaforme social invocando una presa di coscienza collettiva in campo di discriminazione di genere e dignità della donna affinché, prima tra tutte, la feroce e vile pratica del revenge porn possa giungere ad un epilogo.

Le parole dell’imprenditrice digitale Chiara Ferragni, che su Instagram conta attualmente 22 milioni di followers, colgono perfettamente l’urgenza e la necessità di un cambiamento radicale in merito all’impostazione patriarcale alla base della nostra società. “Usando il potente megafono di Instagram”, come lo definisce anche l’HuffingtonPost, l’imprenditrice ha agito da importante cassa di risonanza rendendo fruibili concetti e terminologie finora obsoleti, richiamando gli uomini e le donne alle loro responsabilità ed esprimendo in modo conciso l’estremo bisogno di una differente narrazione dei fatti di cronaca che coinvolgono violenza di genere e revenge porn.

Il “revenge porn” è un’espressione mediatica utilizzata per descrivere la pratica della diffusione di immagini e video intimi senza il consenso delle persone coinvolte. Letteralmente significa “vendetta pornografica” ma di fatto le cause e gli effetti di questo complesso meccanismo si spingono ben oltre la semplice voglia di vendicarsi, per esempio del proprio partner, attraverso la divulgazione di sue foto intime o private.

I motivi socioculturali che portano una persona a violare l’intimità di un’altra senza il suo consenso, esponendola così alla gogna mediatica e condannandola a danni irreversibili, sono molto più profondi di quanto si possa pensare. Il revenge porn, come apprenderemo, non si limita alla vendetta personale ma affonda le basi della sua stessa esistenza su concetti quali la cultura dello stupro ed il victim-blaming, di cui facciamo troppo spesso esperienza attraverso le narrazioni giornalistiche.

Lo scorso aprile questo feroce fenomeno, attraverso la denuncia delle chat Telegram, ha sicuramente mostrato uno dei suoi volti più tragici e oscuri.

Il caso Telegram: la punta dell’iceberg

Durante il periodo di lockdown dovuto alla pandemia causata dal Coronavirus, i casi di revenge porn sono drasticamente aumentati, o meglio, ne è esponenzialmente aumentata la denuncia pubblica. Come riferisce anche l’editoriale Domani, secondo un recente rapporto è emerso che in Italia il revenge porn riguarda 6 milioni di persone. Il motivo di questa sovraesposizione inaspettata è dovuto al fatto che nei primi giorni dello scorso aprile è letteralmente esploso il caso mediatico dei “gruppi Telegram“: chat in cui si praticava la divulgazione di materiale pedopornografico, intimo o privato, ma non solo. Telegram infatti è un’applicazione di messaggistica istantanea che, tra le varie funzioni, possiede anche quella di poter creare dei gruppi che possono contare fino a decine di migliaia di partecipanti. In alcuni di questi gruppi, utenti con falsi nickname non tracciabili barattavano immagini e video intimi girati o reperiti senza il consenso dei coinvolti in cambio di particolari “tributi”. Gli utenti si scambiavano fotografie di bambine, ragazze, donne come fossero figurine dei Calciatori Panini. In altri casi, si divertivano ad estorcere ingenue foto di figli e figlie, mettendo le immagini alla mercé del branco di uomini affamati che popolava la chat. Si possono intuire ovviamente i profondi danni psicologici, fisici, occupazionali e relazionali causati alle vittime di questo accanimento insensato, per non parlare dei casi di suicidio. Le migliaia di utenti, per la quasi totalità uomini, che partecipavano a questi gruppi distruggevano violentemente una ad una le loro vittime, attraverso pratiche mortificanti, umilianti e disumane. Le prede preferite del branco erano (e rimangono) prevalentemente persone di sesso femminile, ostaggio di sconosciuti indipendentemente dalla loro età o dalla tipologia del materiale fotografico in cui si trovavano coinvolte. Le modalità di diffusione di questi contenuti all’interno delle chat, inoltre, si sono rivelate così violente e maniacali che, in pochi giorni, le pagine social sono state letteralmente invase da notizie ed informazioni che hanno contribuito a denunciare a gran voce ciò che effettivamente stava accadendo su altre piattaforme: uno stupro di gruppo virtuale.

Una volta compresa la gravità della situazione, però, gli interrogativi sono ancora molti: perché le vittime sono principalmente donne? Che ruolo hanno umiliazione, colpa e vergogna? Perché sul corpo della donna grava ancora la dicotomia sacralità/usurpazione?  Cosa c’è di sbagliato nel farsi una foto intima? Ma soprattutto, perché c’è ancora così tanta differenza tra la trattazione dell’erotismo maschile e quello femminile?

Lo scandalo dei gruppi Telegram non è altro che la punta dell’iceberg di un sistema malato e di una cultura più complessa di quanto pensiamo. La società contemporanea, frutto di un’impostazione patriarcale, è dilaniata da etichette e pregiudizi che generano squilibri di potere, violenza di genere e discriminazioni.

Il tabù della sessualità femminile: tra desiderio e vergogna

Le motivazioni che portano all’affermarsi della pratica del revenge porn sono sicuramente molte e variegate ma tutte traggono le proprie origini da un bacino culturale in cui tabù e stereotipi sono all’ordine del giorno, in particolare modo nei confronti di una sessualità femminile giudicata “non conforme” ai canoni socialmente imposti.

Occorre comunque sottolineare che da questo truce e mortificante meccanismo non sono esenti gli uomini. Secondo i dati più recenti infatti, quasi per il 90% dei casi le vittime di revenge porn sono donne, mentre il restante 10% si tratta di uomini. Le modalità e le motivazioni tramite cui questo avviene però sono estremamente differenti nei due sessi.

Il revenge porn contro le donne si basa infatti su un’intrinseca mortificazione e repressione del desiderio erotico femminile, il quale è percepito come qualcosa di sbagliato e scandaloso. Le donne sono quindi soggette all’umiliazione e alla vergogna pubblica a causa di un rapporto con l’intimità che non ha niente di colpevolizzante o vergognoso se non il fatto stesso di esistere. I motivi per cui invece gli uomini diventano vittime di revenge porn sono ben diversi: questi infatti sono soggetti a ricatto, disprezzo ed umiliazione a causa della fragilità della propria sessualità rispetto allo stereotipo dell’uomo-macho (frutto del patriarcato) e non per il desiderio erotico in sé, che invece è considerato giusto e naturale per l’uomo.

Questa analisi si traduce nel diverso modo in cui tutt’oggi giudichiamo la foto di una ragazza nuda rispetto a quella di un ragazzo nudo: la prima fa scandalo, la seconda generalmente un po’ meno.

Il revenge porn è quindi in primo luogo un fenomeno legato ad un problema di tipo culturale – più che vendicativo – che nel 90% dei casi avviene ai danni di una donna. Alla base di questa incidenza così elevata c’è senza dubbio un rapporto malsano con la concezione della sessualità femminile.

Fin dall’antichità classica infatti, il desiderio femminile era conosciuto e temuto ben prima che si affermasse l’idea cristiana del peccato. La religione ha poi contribuito a diffondere l’immagine della donna peccaminosa e immorale che attenta alla virtù maschile e deve essere governata per reprimere il proprio desiderio. Agli albori del ‘900, è proprio Freud, il padre della psicoanalisi, a condannare il piacere femminile con teorie secondo cui la sessualità femminile si sviluppa attorno alla frustrazione generata dall’assenza del pene.

Tutt’oggi la ricerca in questo campo è rallentata dagli innumerevoli tabù che ancora avvolgono il piacere “dell’altro sesso”, come afferma la giornalista scientifica Paola Emilia Cicerone sulla rivista scientifica Mind.

La sessualizzazione e la vergogna associate al proprio corpo hanno costretto le donne a dover limitare le proprie pulsioni e i propri desideri. Questi presupposti rendono delle foto intime passibili di ricatto ed umiliazione solo perché la persona che vi è ritratta è una donna. Il corpo femminile viene costantemente sessualizzato: una spalla più scoperta diventa volgare, una posizione inusuale diventa provocante, la pelle nuda diventa inadeguata, lo sguardo ammiccante, il seno inopportuno.

Il corpo della donna è un luogo sacro da proteggere e preservare e allo stesso tempo merce di scambio, oggetto a completa disposizione dell’uomo.

In questo modo, da secoli, le donne sono costrette a portarsi dietro ogni giorno un fardello culturale pesantissimo: lo stigma della loro stessa carne.

La cultura dello stupro

Per comprendere a fondo le radici socioculturali del meccanismo perverso ed umiliante alla base del revenge porn, occorre chiarire il significato di “stupro” e della cultura ad esso associata su cui anche la nostra società ha costruito i propri equilibri di potere.

Quella di “cultura dello stupro” è un’espressione utilizzata nell’ambito degli studi di genere per descrivere una cultura nella quale stupro e violenze sessuali sono ritenute socialmente accettabili. Questo processo di progressiva normalizzazione avviene contemporaneamente su più binari. Una posizione rilevante in questo processo è sicuramente assunta dalla comunicazione mediatica che, fin troppo spesso, banalizza e giustifica tali comportamenti contribuendo a rendere la discriminazione di genere prassi quotidiana.

La normalizzazione della violenza di genere avviene concretamente attraverso 3 pratiche di cui facciamo esperienza quotidiana: lo slut-shaming, il victim-blaming e l’oggettificazione del corpo femminile.

Lo slut-shaming (dll’inglese “slut”, puttana, e “shame”, vergogna) è la tendenza a screditare una donna per determinati comportamenti o desideri sessuali considerati non consoni alla norma prevista. Con l’espressione victim-blaming (colpevolizzazione della vittima) si intende il processo psicologico attraverso cui la vittima di una violenza viene considerata responsabile della stessa. Attraverso questo meccanismo, la causa determinante del reato viene spostata dall’uomo aggressore alla vittima. Secondo un’analisi dell’Istat, una persona su 4 in Italia ritiene che un abbigliamento “succinto” possa essere la causa di una violenza sessuale.

L’oggettificazione del corpo femminile è invece l’elemento che fa da trait d’union tra le pratiche sopra citate in quanto consiste nella predisposizione a considerare la donna come mero oggetto atto alla gratificazione sessuale di un uomo. Il corpo femminile può essere umiliato o sfoggiato come un trofeo, a seconda delle circostanze, ma pur sempre al fine di supportare e incrementare la virilità maschile.

Ed è con questa nonchalance, causata dalla secolare interiorizzazione della cultura dello stupro, che la compagnia petrolifera X-Site Energy è giunta, lo scorso marzo, a diffondere degli adesivi in cui si incita lo stupro di Greta Thunberg, attivista ambientalista. La ragazza, appena diciassettenne, è raffigurata mentre viene chiaramente violentata da un uomo che stringe fra le mani le sue trecce. Questa è una delle tante dimostrazioni del fatto che il corpo delle donne continua ad essere considerato una proprietà di dominio maschile e lo stupro la rappresentazione più primitiva dell’oppressione dell’uomo sulla donna, condannata ad un perenne clima del terrore.

Il revenge porn nasce proprio da questi presupposti: l’oggettificazione e la sessualizzazione del proprio corpo costringono le donne non solo a subire continue limitazioni ma le obbligano anche a convivere con la costante paura di poter essere sottomesse o umiliate, in qualsiasi momento e con ogni possibile mezzo a disposizione, che si tratti di violenza fisica o foto intime divulgate senza consenso.

Narrazione e linguaggio come specchio del grado di civiltà di un popolo

La narrazione dei fatti legati alla violenza di genere assorbe completamente gli effetti della cultura dello stupro, tanto che meccanismi quali la colpevolizzazione della vittima o lo slut-shaming finiscono con l’essere elemento fondante della trattazione delle informazioni trasmesse dai mass media.

Dal revenge porn ai femminicidi, i mezzi di comunicazione sfruttano un doppio binario: se da un lato puntano alla colpevolizzazione della vittima (victim-blaming), dall’altro contribuiscono alla vittimizzazione del carnefice, veicolando così una narrazione giustificazionista e distorta che però viene percepita come normale.

Il comportamento maschile viene sempre descritto come conseguenza di quello femminile, con l’effetto di spostare la responsabilità dal carnefice alla vittima.

In questo modo si scrive che “lui l’ha uccisa perché voleva lasciarlo” oppure “lui ha inoltrato le sue foto intime senza il suo consenso ma è lei che ha deciso di scattarsele”.

Il meccanismo utilizzato è il medesimo: far ricadere sulla vittima un senso di colpa e vergogna causato dalle conseguenze delle proprie libere e legittime scelte.

A rendere il quadro più surreale e distorto è la romanticizzazione che generalmente accompagna la descrizione dell’episodio. I giornali spesso assumono un atteggiamento giustificatorio nei confronti di chi ha commesso il reato, fornendo dettagli inutili e spostando il focus dalla vittima al retroscena di concause che hanno portato il colpevole a commettere il crimine, deresponsabilizzandolo. In questo modo, il lettore è logicamente portato ad empatizzare per il carnefice. Questo, come spiega la scrittrice e intellettuale sarda Michela Murgia nel suo libro “<<l’ho uccisa perché l’amavo>> Falso!”, si tratta di un terribile paradosso: sattamente come quando si descrive un furto si dà per scontato che il ladro stia nell’errore, così nei casi di violenza di genere si dovrebbe condannare il carnefice, non tentare di giustificarlo.

Un caso emblematico di narrazione basata sulla rape culture è l’articolo del giornale Libero scritto da Vittorio Feltri (poi rimosso dal web) dal titolo “I cocainomani vanno evitati. Ingenua la ragazza stuprata da Genovese“ con cui Feltri commenta il caso dell’imprenditore fondatore di Facile.it che ha stuprato e torturato per ore una 18enne. Feltri, come se stesse sistematicamente seguendo un copione, procede nel racconto della vicenda colpevolizzando la vittima dell’accaduto e deresponsabilizzando Genovese dal turpe atto compiuto.

Queste tecniche disorientanti sono utilizzate quotidianamente da molte testate giornalistiche, sebbene ciò avvenga secondo modalità e misure diverse, e le narrazioni fornite minimizzano o banalizzano le violenze fisiche e “virtuali” subite dalle donne contribuendo così ad alimentare la normalizzazione di questi eventi.

Il linguaggio, soprattutto in questi casi, diventa sostanziale. Il vocabolario e la semantica associata alle parole sono sempre stati lo specchio del grado di civiltà di una popolazione. I termini utilizzati in diversi contesti infatti sono la prima spia delle abitudini culturali e degli equilibri di potere che governano un popolo.

Per questi, il linguaggio risulta essere una variabile da tenere in considerazione quando si parla di violenza di genere e di corretta narrazione degli eventi ad essa associati in quanto costituisce proprio il primo strumento tramite cui fornire una chiave di lettura della realtà.

Il giornalismo è un mezzo essenziale che ha il potere di educare e proporre nuove coscienze collettive. A volte, però, sembra non voler sfruttare queste potenzialità.

È necessario quindi che i mezzi di comunicazione prendano consapevolezza delle parole che utilizzano e della visione distorta che molto spesso forniscono al lettore. L’azione stessa di dar voce al carnefice, assumendo il suo punto di vista, è sbagliata proprio perché trasmette l’idea che vittima e colpevole siano su uno stesso piano quando, per evidenza dei fatti, non lo sono.

È solo attraverso una narrazione chiara e corretta, priva di quel filtro cognitivo generato dall’ambiente socio-culturale in cui ogni individuo è cresciuto, che si può contribuire ad un effettivo cambiamento: la lotta comincia dalle parole.

Stato, coscienza comune ed educazione: da dove ripartire

Sesso, corpi e desideri non dovrebbero essere fonte di giudizi, tabù o moralismi: solo così forse potremmo gradualmente spogliarci delle pesanti catene della vergogna e sentirci, poco a poco, un po’ più liberi ed un po’ più accettati.
Negli ultimi anni in vari paesi si è cercato di far fronte alla pratica del revenge porn, sebbene secondo gli esperti il diritto non riesca ancora a far fronte alle nuove tecnologie. In Italia, il reato per la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone coinvolte è previsto dall’articolo 612-ter del codice penale, introdotto con la legge n 69/2019. Esso prevede una pena fino a 6 anni di carcere ed una multa da 5mila a 15mila euro. Le stesse misure inoltre possono essere applicate anche a chi contribuisce a diffondere questo materiale inviandolo ad altre persone.
Anche l’Italia quindi si sta muovendo verso una maggiore tutela delle possibili vittime di questo atroce meccanismo. Ma possono delle leggi essere sufficienti ad eliminare questa piaga sociale e culturale una volta per tutte? Probabilmente no.

Come abbiamo analizzato, quello del revenge porn è un problema di matrice culturale profondamente radicato nella nostra società e nel nostro animo. Un’educazione sessuale e digitale ben programmata potrebbero sicuramente essere un valido strumento per cambiare le cose alla loro origine, fornendo una visione diversa ma più consapevole e non tossica della sessualità e del rispetto dell’intimità altrui. Ora più che mai, risulta necessario non essere indifferenti di fronte alla realtà e alle ingiustizie che ci circondano. Occorre reagire, in modo critico e competente, alla violenza e alla disumanità armati in primo luogo di conoscenza e rispetto.

Per far sì che avvenga un effettivo cambiamento c’è bisogno di tempo: i motivi alla base del revenge porn sono infatti secolarmente radicati nella cultura Occidentale. A questo scopo è fondamentale il contributo di ogni individuo. Ognuno di noi infatti deve impegnarsi a  sensibilizzare le persone che gli stanno intorno, intervenendo nel modo più opportuno qualora si verificasse una qualsiasi forma di violenza fisica o virtuale.

È necessario cambiare la narrazione dei giornali, insegnare il significato di “consenso” ed affiancare la crescita dei giovani ad una corretta e sana educazione sessuale, meno reticente e più inclusiva e consapevole dei rischi della rete online ed offline.

Per quanto riguarda nello specifico i casi di revenge porn, è estremamente importante “rompere la catena”: quando ci si imbatte in un contenuto intimo appartenente ad un’altra persona è dovere di ogni cittadino impedirne l’ulteriore la diffusione, nel rispetto della privacy (diritto umano previsto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e della dignità di chi vi è ritratto. È necessario non inoltrare immagini o video privati ed è buona norma esporsi affinché questo non venga fatto da altri utenti, ricordando opportunamente che divulgare materiale intimo senza consenso è illegale e passibile di denuncia.

Al giorno d’oggi, è sempre più urgente e necessario istruire gli individui ad un piacere genuino e disinteressato, libero da pregiudizi e giochi di potere, e soprattutto consapevole dei mezzi e dei rischi della rete, pronto a ricongiungersi con un’intimità priva di vergogna.