Condividi su:

Durante il Web Marketing Festival di quest’anno a Rimini, Daniele Chieffi ha tenuto, assieme a Nicolò Cappelletti, un panel dal titolo “In Brand veritas. Strategie e linguaggi di branding a misura di GenZ”. Il panel in questione presentava i risultati di uno studio su ciò che si aspettano e desiderano gli appartenenti alla GenZ – ovvero coloro nati tra il 1995 e il 2010 – dai brand. Abbiamo avuto modo di intervistare Chieffi, giornalista, saggista, docente universitario e fondatore dell’agenzia di comunicazione strategica Bi Wise, e di discutere con lui alcuni dei punti salienti dello speech.

 

Che genere di consumatori sono i GenZ, cosa si aspettano, cosa prediligono e cosa pretendono dai brand?

Questa è la domanda focale da porsi. Dalla ricerca che abbiamo presentato al Web Marketing Festival, emergono alcuni movimenti molto forti che sono un po’ la risposta a questa domanda che si pongono tutti i brand. Gli appartenenti alla GenZ amano i brand che parlano in maniera semplice e ironica. Con semplicità non si intende tanto il linguaggio in quanto tale, ma la struttura concettuale: non solo del singolo messaggio ma proprio del modo in cui si comunica. Semplicità vuol dire essenzialità, andare dritti al punto, essere chiari e sintetici. Ironia, invece, non è sarcasmo, ma la capacità di essere autoironici, non prendersi troppo sul serio.

Dopo di che, c’è un secondo elemento che è quello del purpose: come il brand si deve percepire ed essere percepito all’interno della società. Il brand deve, quindi, avere un impatto sociale, facendo qualcosa di concreto per la comunità che vuole presidiare. Deve, inoltre, essere sostenibile sia dal punto di vista ambientale che sociale.

La terza dimensione a cui fanno attenzione i GenZ è quella legata al modo in cui il brand viene percepito. Deve essere percepito come un brand in grado di essere accanto ai propri stakeholder quotidianamente. Tutto ciò da una visione decisamente strutturata di un brand che è fortemente soggettiva: brand che sono molto percepiti come soggetti e molto poco come aziende. Da questi tre aspetti nascono tutta una serie di aspettative.

 

Quindi, come si traduce a livello operativo l’approccio delle aziende nei confronti dei GenZ? Quali brand funzionano e perché?

L’approccio è quello di un brand che entra in comunicazione con la propria community, audience e stakeholder. Entra in conversazione partendo dall’ascolto. Quindi non partendo da ciò che è importante per l’azienda, ma da ciò che è importante per la comunità a cui si rivolge. Deve completamente cambiare approccio perché si deve sintonizzare sulle sensibilità di cui abbiamo parlato prima. Stando alla ricerca, tra i brand che spiccano tra i preferiti dai GenZ troviamo Apple, IKEA, Gucci, Durex e Coca Cola. Tutti questi brand hanno in comune l’essere stati in grado di interpretare meglio e rispondere in maniera netta e forte a queste nuove sensibilità.

 

Parlando di questo approcci conversazionale, nel panel si è parlato di passaggio dal concetto di “community” a quello di “famiglia”, cosa significa? Che implicazioni ha sulla comunicazione di marca?

Quello che abbiamo percepito è che dalla community, che era un gruppo di persone indistinto che si radunava attorno a un’esigenza o un’interessa, si è passati a qualcosa di più emozionale, di più vicino. Il concetto di famiglia non è, ovviamente, legato alla classica concezione della famiglia nucleare ma, piuttosto, vuole rappresentare una dimensione di sostegno reciproco. C’è proprio una sensazione di voler essere parte di una comunità che va oltre all’avere un interesse in comune ma che implica anche il supportarsi a vicenda. Ciò implica, secondo me, che i brand devono essere attivi, fare qualcosa di concreto per sostenere sia i propri clienti che la società tutta.

 

Una criticità che è emersa durante il panel è legata alla idiosincrasia tra la preferenza per i brand attivi nel campo della sostenibilità ambientale e sociale e l’assenza di enti che si occupino esclusivamente di queste tematiche (come, ad esempio, Emergency). Crede che possa essere una problematica? Come se la spiega?

Secondo me, i concetti di sostenibilità e di impatto sociale sono ciò che viene richiesto un po’ a chiunque. Tuttavia, chi ne fa un business o una missione viene percepito differentemente. Questo significa che, in realtà, ciò che importa è come i brand riescono a costruire la propria identità all’interno della comunità. Evidentemente, gli enti no-profit e le ONG non sono riusciti e non stanno riuscendo ad interpretare al meglio questo tipo di posizionamento. Ciò, inevitabilmente, li porta un po’ fuori dal percepito della GenZ.

 

Guardando ancora oltre: le imprese hanno già iniziato a studiare i comportamenti della generazione successiva, alpha? Sono già riscontrabili differenze nei comportamenti tra GenZ e GenAlpha? Quanta fatica stanno facendo le imprese per cercare di capire queste due generazioni?

È ancora molto presto per dirlo. Sicuramente la GenAlpha è molto diversa perché molto più calata in una dimensione di infosfera di quanto lo sia la GenZ. Mentre, quest’ultima, ha vissuto il digitale nel suo sviluppo, la GenAlpha è nata in un mondo in cui il digitale è stato fin da subito un tutt’uno col mondo in cui vivono. E, quindi, la prima differenza che possiamo riscontrare è con percepisco la differenza tra digitale e analogico come la percepiamo noi generazioni precedenti. Le aziende stanno facendo, già, molta fatica nel capire come comunicare con la GenZ a causa del radicale cambiamento percettivo. Non si tratta più di comunicazione ma di relazione. Tutte le aziende stanno investendo in questo anche se, ancora, non si giunti a una soluzione definitiva. Per quanto riguarda la GenAlpha, invece, l’impegno da parte delle aziende è ancora a bassa intensità nonostante, sicuramente, le più all’avanguardia stanno iniziando a porsi il tema del metaverso che, probabilmente, sarà il modo per intercettare quella generazione che nel metaverso ci crescerà.