Condividi su:

Co-founder e CEO di Gamindo, la piattaforma per donare soldi giocando ai videogiochi, Forbes Under 30, LinkedIn influencer, TedX speaker e amante dei progetti ad alto impatto sociale, abbiamo deciso di intervistare Nicolò Santin, un riferimento nel panorama imprenditoriale italiano che ci ha raccontato la sua incredibile storia dalle mille avventure.

Ciao Nicolò, ci racconti un po’ com’è nata l’idea della tua startup Gamindo e la storia che c’è dietro?

Partendo dal fatto che io sono sempre stato molto appassionato di videogiochi, quando ho scoperto l’esistenza degli advergame in un esame di marketing all’università, sono rimasto molto incuriosito. Ricordo ancora che si faceva l’esempio di Redbull: “se prendi delle lattine, le disponi su un tavolo e fai la foto dall’alto, a seconda di come le hai disposte, creerai un circuito in cui potrai correre con la macchinina”, quando l’ho vista me ne sono innamorato e ho pensato che prima o poi ci avrei fatto qualcosa. In quel periodo, inoltre, è diventata famosa la canzone Gagnam Style e ho saputo che il cantante aveva ricevuto diversi milioni di revenue dopo aver totalizzato il miliardo di visualizzazioni su You Tube. Allora ho pensato bene di creare un video che totalizzasse tantissime visualizzazioni così da donare i soldi in beneficenza. L’idea era fantastica sulla carta, ma nella pratica molto meno, perché io stesso non mi sarei mai messo a guardare un video solo per l’idea di donare una minima percentuale dovuta alla mia visualizzazione, inoltre, per dirla tutta, non sapevo nemmeno il contenuto quale sarebbe stato. Sarebbe stato sicuramente meglio trovare qualcosa di molto più coinvolgente: ho sommato la scoperta degli advergame e il poter donare senza spendere, arrivando all’idea di “Ofree”, quella che poi è diventata Gamindo. La storia che c’è dietro, in milestones, è stata una lunghissima tesi universitaria proprio su questo progetto, la fortuna di conoscere Matteo, il mio socio, senza il quale ora non saremmo qui, perché da solo non avrei realizzato nulla. Solo successivamente è arrivato il primo prototipo della piattaforma sviluppato interamente da noi due, la partecipazione alle competizioni per startup che ci hanno permesso di entrare in questo mondo di cui non sapevamo nulla: non avevamo idea di cosa volesse dire, ad esempio, fare un pitch o un foundraising. Poi ci si è presentata l’opportunità di andare in Silicon Valley e siamo stati tre mesi in Plug and Play, dietro a questo viaggio c’è una storia da film di due ragazzi senza soldi che pur di riuscire a stare tre mesi nella carissima San Francisco, avrebbero dormito pure sotto i ponti. Alla fine, non è successo, perché il responsabile dell’acceleratore, conoscendo bene il problema dei senzatetto nella metropoli californiana, ci ha fatto giurare di trovare un tetto e di riuscire a sopravvivere almeno il tempo del visto. Abbiamo aperto una raccolta fondi, dove regalavamo dei video personalizzati ai donatori, perché non ci bastavano i risparmi, ma alla fine ce l’abbiamo fatta e abbiamo vinto un premio da 25 mila dollari che ci ha permesso di vivere lì per un po’. Ovviamente siamo dovuti entrare nell’ottica di risparmiare su tutto, ad esempio, per partecipare ad un evento pazzesco quale la Game Developer Conference, ci siamo recati dal console italiano a chiedergli se ci avrebbe fatto entrare, altrimenti l’avremmo fatto noi a tutti i costi facendoci arrestare e lasciandolo con due ragazzi sulla coscienza. Alla fine, Lorenzo Ottona, ormai ex console, ci ha trovato dei biglietti scontati che ci hanno permesso di entrare e noi lo ringraziamo ancora oggi. Quel periodo ci ha lasciato il mindset di non “accomodarci” troppo e anche adesso che abbiamo i fondi, ci obblighiamo a viaggiare sempre nella classe economy di Italo e rimanere con i piedi per terra.

Successivamente, quando siamo tornati, abbiamo costituito il team e abbiamo iniziato a vendere il progetto alle varie aziende, attualmente sta andando molto bene perché sono entrate grandi realtà come Google, Coca Cola, Barilla e Lavazza che erano un sogno fino a poco tempo fa.

Abbiamo appena chiuso il round da mezzo milione di euro che ci serve per assumere persone e proprio l’altro ieri abbiamo assunto 4 sviluppatori di videogiochi, ovviamente abbiamo in mente grandi cose per il futuro.

A livello di scelta, oltre ai giochi che devono essere ad impatto sociale, come scegliete le realtà con cui collaborare e a quanti giochi siete arrivati?

In questo momento siamo in una fase di riflessione, nel senso che stiamo notando che a moltissime aziende interessa il videogioco, ma non a tutte interessa la parte di charity. Questo non perché siano aziende cattive, ma perché essendo molto strutturate, sostengono che il reparto marketing sia una cosa e quello di responsabilità sociale, un’altra. Per loro diventa molto complesso mettere su una campagna che integri le due cose e quindi preferiscono donare mezzo milione a Save the Children piuttosto che creare un gioco dove ne doni cinquemila, e li posso tranquillamente capire.

Il ragionamento che siamo arrivati a fare in questo primo anno e mezzo è stato: “per crescere velocemente, siamo disposti a fare dei giochi senza charity?” Dopo le dovute riflessioni, la risposta è stata “sì”, perché, ad esempio, fare il gioco di Chiara Ferragni senza la charity ci ha permesso di parlare con alcune delle più grandi aziende al mondo di fashion e beauty che, senza la case history di Chiara, non saremmo mai riusciti a raggiungere. Ad oggi siamo arrivati a più di 40/50 giochi e abbiamo avuto donazioni importanti di anche 20/30 mila euro.

Qual è stata la parte più difficile di mettere in piedi un progetto così grande e come l’avete affrontata?

La parte più difficile è stata, ed è tutt’ora, quella di creare il team di persone. All’inizio la difficoltà principale è il non avere soldi per retribuire i tuoi collaboratori; quindi, c’è la necessità di trovare qualcuno estremamente motivato da voler dedicare il weekend al progetto o addirittura da dimettersi dal suo lavoro per dedicarsi full time, consapevole del fatto che per un certo periodo di tempo non percepirà uno stipendio. Per farcela in questa fase devi puntare sul lato emotivo della persona perché a livello razionale è una stupidata. Allo stesso tempo, ora che abbiamo i soldi e ce la stiamo facendo, è difficile trovare persone che non solo siano disposte a lavorare, che ce ne sono un sacco, bensì trovare coloro che abbiano i tuoi valori, la tua visione e l’interesse a realizzare quello che vuoi fare te. È davvero complicato, considerando che si parla tanto di startup, tecnologia e videogiochi, ma quello che ci sta sotto, in fin dei conti, sono le persone, è anche più difficile di portare a bordo grandi clienti, che alla fine, se stai ascoltare e capire, decidono di contare su di te.

Parlando di progetti futuri di Gamindo, abbiamo visto il metaverso di Zuckerberg, in cui c’è ampio spazio anche per i videogiochi, avete intenzione di svilupparne anche dei vostri sempre per beneficienza?

Partendo dal fatto che io sono molto della filosofia: “mai dire mai”, è una cosa che stiamo valutando, sia il metaverso che tutto il mondo web 3. Per dare un contesto, nel web 1 potevi limitarti a leggere informazioni, nel web 2 è subentrata la possibilità di commentare, nel web 3 si è aggiunta la possibilità di possedere digitalmente aprendo il mondo dei collettibles, NFT, blockchain eccetera. Quest’ultimo è un mondo che sta davvero esplodendo, che sarebbe sbagliato non studiare e quindi stiamo cercando di avere le competenze interne per gestirlo. Per quanto riguarda il metaverso in particolare, lo sto studiando poiché è una cosa che mi interessa moltissimo e personalmente stimo molto Facebook che pur essendo una realtà enorme e consolidata, ha preso una posizione decidendo persino di cambiare nome: questo per me vuol dire innovare, non quando sei disperato, ma farlo in anticipo. Diciamo che, di tutto questo, mi spaventa un po’ il ready player one, il digitale ci dà tantissime opportunità ma credo che sia estremamente difficile replicare l’emozioni tramite dei pixel, l’emozione che hai nel toccare una persona è unico.

Quali sono le competenze trasversali che hai acquisito e che ti sono state più utili in startup?

L’elemento principale in startup è il team, credo che le soft skills più importanti che ho acquisito siano appunto il riuscire a lavorare e relazionarsi con il team. Un’altra fondamentale è quella della negoziazione, o meglio, della buona comunicazione in generale: riuscire ad ascoltare, perché molto spesso tendiamo a partire “a razzo” dicendo mille cose, ma prima dovremmo stare zitti e ascoltare attentamente per capire chi c’è dall’altra parte e come ragiona. È un aspetto che viene frequentemente sottovalutato, ma è utile sia che tu stia parlando con un amico, sia che stai cercando di vendere o raccogliere soldi da investitori.

Spostandoci sul lato divulgativo, che è una parte importante della tua vita, tu sei uno dei pochi italiani con il profilo verificato su LinkedIn, ci racconti come hai iniziato e come portare davvero valore alle persone online?

Non so bene dirti con precisione quando ho iniziato su LinkedIn, ho un vago ricordo di una volta che mi trovavo in treno diretto a Milano e stavo leggendo la storia del sito che aveva venduto un milione di pixel per un dollaro ciascuno e la stessa mente creativa che lo aveva ideato, aveva in realtà inventato altri esperimenti online di questo tipo. Ad esempio, un gioco che davanti ad un timer sul PC, ti costringeva a non muovere il mouse per due interi minuti. Io ci ho provato e come la maggior parte delle persone ho fallito, a dimostrazione del fatto che al giorno d’oggi non riusciamo a stare fermi davanti al computer senza fare nulla. L’ideatore, a partire da questo concetto, ha creato una startup chiamata “Calm” per la meditazione e sta facendo numeri da paura. All’epoca ho pensato che la storia fosse davvero curiosa e che avrei voluto trovarla in giro, quindi ho deciso di scriverci un post. Poco dopo mi sono recato ad un web summit e ho ascoltato la storia assurda di Shazam, partita da una serie di audio in diretta e anche questo l’ho raccontato in un altro post, proseguendo per un pò. Poi, secondo me, l’evento che mi ha dato più tempo e voglia è stata la pandemia, da febbraio 2020 mi sono trovato in casa a non dover più fare ore di auto o treno per spostarmi e in generale a risparmiare tanto tempo su certe attività; quindi, alla sera mi dilettavo a leggere delle novità e poi a scrivere regolarmente i contenuti. A livello operativo, mi segno su Trello o su Word ogni volta che leggo qualcosa che desta la mia curiosità e poi alla sera mi metto lì e decido di cosa ho voglia e tempo di parlare. Quando scrivo cerco di inserire un mix di cose: storie di persone, ma anche esperienze mie personali, sia che vanno bene sia che vanno meno bene. Voglio essere sincero, è una cosa molto spontanea che faccio perché mi fa stare bene e mi fa scoprire ogni giorno cose nuove, lo faccio per me e per Gamindo, non per i like o i follow.

Arrivando al tema scuola: tu hai appena partecipato ai Digital Innovation Days come speaker riguardo all’argomento educazione e tecnologia, hai parlato di come i videogiochi possono anche educare, secondo te quale può essere un modo per integrare maggiormente i videogiochi a scuola?

Questa è una bella domanda, io sono convinto che un ricambio generazionale dei professori aiuterà molto, ma mettendomi anche nei panni del professore di 65 anni che ha difficoltà a comprendere le potenzialità, com’è normale che sia dato il tipo di generazione, secondo me la cosa migliore è calarla maggiormente nel pratico piuttosto che limitarsi alle sole spiegazioni teoriche. Intendo che, cambia molto se si mostrano le case history raccontando come lo stanno applicando in scuole dall’altra parte del mondo, piuttosto che dire: “si è scoperto che la capacità di memorizzazione in un gioco è 10 volte superiore dell’apprendimento canonico”, che è bello sapere ma non ti lascia nulla. Se io invece ti mostro degli esempi di come i ragazzi imparano una lingua tramite Duolingo che è completamente gamificata, capisci che c’è del margine di crescita. La mia visione non è assolutamente quella avere gli studenti che vanno a scuola e giocano ai videogiochi tutto il giorno, ma una giusta via di mezzo tra il digitale e il cartaceo: a me, ad esempio, sorprende il fatto che a scuola non si usi ancora il computer, ma si scriva sempre e solo sul quaderno.

Sempre riguardo al tema di educazione scolastica, tra tutte le altre cose stai portando avanti anche un progetto di supporto e divulgazione con “Consigli di classe” su YouTube, ci racconti cos’è e qual è il suo scopo?

Consigli di classe è un side project interessante, ma che richiede molto tempo e che a livello di priorità sto mettendo in secondo piano dopo Gamindo e LinkedIn, ovviamente per questioni di tempo. Ho deciso di crearlo perché il me diciottenne avrebbe tanto voluto un posto che non mi dà una risposta, bensì mi fa nascere delle domande, un luogo dove posso leggere non solo di teoria ma anche di pratica, di casi concreti. Ad esempio: “questa persona che adesso studia medicina, come è arrivata a sceglierla e cosa ha fatto prima?” Quindi sono partito da persone a me vicine e ho chiesto loro di raccontare la loro esperienza in video di massimo 5 o 10 minuti, mettendomi nei panni dei ragazzi indecisi che si trovano a dover scegliere un percorso importante. Lo sto facendo a zero scopo di lucro, per le persone, sperando che anche solo un ragazzo o una ragazza là fuori possa ascoltare una storia e trovare la propria strada. La cosa bella di YouTube è che ha una coda lunga e il contenuto rimane anche per anni; quindi, lo faccio con molta calma sperando possa crescere.