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Siamo circondati dall’innovazione digitale: abbiamo potuto constatarlo ancora una volta al Web Marketing Festival, che si è tenuto dal 16 al 18 giugno presso la fiera di Rimini. Nonostante le spinte innovative non manchino, sorgono alcuni problemi: cosa succede se queste nuove soluzioni tecnologiche non vengono recepite dall’intero mondo dell’impresa? Cosa accade se all’interno di un paese come l’Italia manca la consapevolezza del ruolo che la ricerca di base dovrebbe avere?

Abbiamo posto queste ed altre domande sul tema del trasferimento tecnologico a Fabrizio Tubertini, professionista Head of Industrial Liaison dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT).

 

Per iniziare, che cosa significa trasferimento tecnologico e come viene declinato dall’IIT?

Il trasferimento tecnologico è la traslazione dell’attività di ricerca, con diverse applicazioni, verso il mondo dell’industria. L’Istituto Italiano di Tecnologia ha due missioni istituzionali la ricerca di base e appunto il trasferimento tecnologico. Questo fa sì che noi siamo molto focalizzati sul trasferimento tecnologico: i nostri ricercatori riconoscono come punto fondamentale che la loro ricerca dovrebbe essere applicabile all’industria, pur mantenendo uno sguardo di lungo periodo e generando innovazione non sempre immediata.

 

Durante gli interventi del festival è emerso come la digitalizzazione debba diventare trasversale a tutte le scienze: a volte immaginiamo scienziati alle prese con provette e intenti a mescolare sostanze manualmente, ma sono stati fatti esempi che mostrano come le nuove metodologie stiano diventando fondamentali anche nelle discipline non prettamente informatiche o ingegneristiche. Che ruolo ha quindi la digitalizzazione?

Ci sono due livelli di cui si può discutere: il concetto di digitalizzazione più diffuso e legato al senso comune si traduce in una semplificazione dello scambio di informazioni a livello nazionale e internazionale tra laboratori diversi. Le collaborazioni scientifiche hanno sicuramente beneficiato di questo scambio di informazioni, ma la vera differenza nella digitalizzazione sarà poter disporre di un “motore” di intelligenza artificiale comune a tutte le discipline. Anche un chimico – ad esempio – oggi ha la possibilità, attraverso l’AI, di testare sinteticamente, tramite simulazioni, determinate reazioni di interesse; grazie alla capacità di calcolo che stiamo acquisendo possiamo arrivare a fare prove sperimentali o test clinici, in vitro o addirittura su animali o sull’essere umano, su un numero di campioni già selezionato, in maniera più efficiente e meno costosa. In realtà tutte le discipline oggi stanno traendo vantaggio dalle innovazioni emergenti nell’ambito del machine learning e i prossimi anni continueranno ad essere fortemente caratterizzati da questa attività.

 

Se da una parte le startup sono intrinsecamente propense a ricercare nuove soluzioni tecnologiche, come si può far arrivare l’innovazione alle piccole e medie imprese?

Questo è un argomento che meriterebbe un’enciclopedia di approfondimento! Se da una parte ci sono vari tipi e sfumature di innovazione, tra cui la ricerca e l’innovazione in azienda, la difficoltà normalmente è di natura economica. In Italia le aziende, che tendono a essere piccole e medie imprese, vedono le sfide tecnologiche dell’innovazione come investimenti di incerto ritorno. Questo le frena: quando poi incontrano l’innovazione giusta ci si pone il problema di portarle su mercati che sono sempre più globali, dove non basta essere più forte del competitor che sta dall’altra parte della strada o del paese, dato che ci si scontra subito con i colossi internazionali. Nel nostro lavoro, naturalmente, ci relazioniamo con ogni tipo di azienda e cerchiamo di cogliere tutte le occasioni, fornite da fondi pubblici sia domestici che UE a disposizione delle aziende, per agevolare la traslazione della ricerca verso l’industria.

A livello nazionale si potrebbe provare a rilanciare il tema dei distretti industriali, dato che in Italia ne esistono ancora più di 150 attivi: sono aree territoriali specializzate in determinate produzioni, che potrebbero essere già veicolo di innovazione verticale se si aggregassero nell’accesso all’innovazione, sostenendone i costi frazionati su molti soggetti e con un beneficio a favore di tutti gli attori coinvolti. Questo è un tema che non possiamo risolvere noi come come singoli promotori dell’innovazione, ma che riteniamo potrebbe essere un agente catalizzante per il processo

 

Quanto è diffusa la consapevolezza che la ricerca di base possa portare benefici anche economici alle imprese?

La consapevolezza purtroppo non è così diffusa, ma abbiamo dati importanti di una diretta correlazione tra quanto uno stato investe in innovazione ed il ritorno in termini economici e di impatto sociale. Come accennavamo durante l’intervento sul PNRR (il “Piano Nazionale Ripresa e Resilienza”) e sul Tech Transfer, anche il numero di dottorati che vengono completati in un determinato Paese è sintomo di quanto quella nazione investa in innovazione: il dottorato è un percorso di ricerca, ma – altresì – un modo, nel medio periodo, per portare conoscenza in azienda. Incentivare la ricerca dà un ritorno, solitamente di medio o lungo termine: le politiche di investimento nell’innovazione hanno bisogno di tempi adeguati per portare frutti ed il PNRR è un’occasione importante, per il nostro Paese e per l’Europa, di dare un forte impulso alla ricerca ed alla traslazione verso l’industria rilanciando la nostra competitività internazionale.

 

Quali altri elementi mancano per raggiungere l’obiettivo in Italia?

La formazione delle giovani leve del Paese è una delle chiavi di volta di lungo periodo: siamo già, per alcuni aspetti, in deficit di risorse umane specializzate per colmare la domanda crescente di profili con formazione STEM. Se pensiamo ai bambini e alle bambine delle elementari di oggi per prepararli efficacemente alle professioni del futuro dovremmo mettere inconto di insegnare inglese più metodicamente ed inserire materie come il coding: così facendo probabilmente, tra 15 anni avremmo persone neodiplomate con una formazione di base che include già degli argomenti che saranno basilari per i lavori di domani che oggi possiamo solo immaginare. Altro tema fondamentale è quello dell’educazione continua: oggi non si può più immaginare di svolgere una qualsiasi attività professionale senza che questa muti sensibilmente nel tempo – grazie all’impatto positivo delle nuove tecnologie ad esempio – senza mai aggiornarsi o, addirittura, reinventarsi, al contrario di quanto è stato per le generazioni che ci hanno preceduto. Il mondo non ci permetterà più di rimanere ancorati a dei cliché così rigidi e dovremo tutti evolverci in continuazione, con il beneficio che ci allontaneremo sempre di più dai lavori usuranti, pericolosi e noiosi, perché quei lavori saranno svolti, per noi o sotto il nostro controllo, da robot o macchine.

 

A proposito di questo, un altro tema che genera dibattito e talvolta preoccupazione è l’automazione del lavoro: ma è un timore fondato?

Mi permetto di dire che la generazione z vivrà un periodo, presumibilmente, di abbondanza di offerta lavorativa. La vera sfida sarà quanto saremo veloci tutti a convertirci sulle nuove esigenze ed eventualmente “reskillarci” e riposizionarci. Sarà possibile che vivremo anche un momento di “gap” tra le esigenze della domanda e quella dell’offerta di risorse specializzate, un tema che si sta già affacciando per affrontare le sfide del PNRR.

In conclusione, la pianificazione di lungo periodo sarà un elemento determinante per sfruttare al meglio tutte le risorse che verranno messe a disposizione del nostro Paese.