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Da qualche anno a questa parte i temi della sostenibilità hanno conquistato le luci della ribalta tanto da permeare completamente le nostre vite e influenzarci anche nelle scelte quotidiane. Una delle tematiche più discusse è senz’altro l’economia circolare. E se la circolarità non bastasse più? Affinché sia possibile, per la nostra specie, continuare ad abitare la terra è necessario un modello che non solo sia circolare ma che si sviluppi all’interno di due limiti: una base sociale e un tetto ambientale. Fortunatamente, questo modello esiste già ed è chiamato: economia della ciambella (“Doughnut economics”).

 

I modelli precedenti

 

Era il 1966, quando fu mossa la prima grande critica agli allora “moderni” modelli di consumo. A puntare il dito contro di essi fu l’economista Kenneth E. Boulding che, nel suo articolo “The Economics of the Coming Spaceship Earth, mostrò come l’economia lineare fosse ormai obsoleta e che per sostenere la crescita di un mondo sempre più volto al consumo sarebbe stato necessario un sistema economico in grado di rigenerarsi da solo garantendo la sua sostenibilità nel lungo e nel lunghissimo periodo.  Da allora, il paradigma di “economia circolare” ridisegnò, almeno idealmente, sia il modo di produrre sia quello di consumare. Eppure la nuova visione continuava a ignorare gli aspetti etici indissolubilmente legati al contesto economico.

Ad accorgersi di ciò prima di tutti gli altri è stata Kate Raworth, economista inglese che lavora per l’Università di Oxford, la quale, dopo decenni passati a studiare e analizzare – quella che lei stessa nel libro “Economia della ciambella” definisce – “una teoria economica frustrante” basata su “strane supposizioni circa il funzionamento del mondo”, ha proposto un nuovo modello che sarà in grado di “raggiungere lo sviluppo senza apportare danni alla Terra”. L’idea di fondo è che l’economia del XXI secolo non possa più essere volta solamente alla crescita ma debba essere capace di garantire la prosperità e per farlo, secondo questa impostazione economica, non basta più apportare qualche modifica ai modelli attuali ma occorre ridisegnarli, perché, per usare le parole di B. Fuller, inventore, architetto, designer, filosofo e scrittore statunitense, “Non puoi cambiare le cose contrastando la realtà esistente. Per cambiare qualcosa prepara un nuovo modello che renda obsoleti quelli esistenti”.

 

L’economia della ciambella

 

Il paradigma che si afferma con la “Doughnut economics”, pur non abbandonando la visione circolare, si sviluppa all’interno di due confini: quello interno relativo alle dimensioni sociali e quello esterno relativo ai limiti ambientali. Tra questi due si estende un’area all’interno della quale lo sviluppo può essere categorizzato come equo e sicuro per l’umanità.

Secondo l’autrice, un’economia, per rimanere all’interno del primo limite, dovrebbe garantire a tutte le persone la disponibilità delle risorse di base (cibo, acqua, assistenza sanitaria ed energia) in modo tale che i diritti umani vengano pienamente rispettati. Lo spazio compreso al di sotto di questo confine è quello in cui si sviluppano le condizioni per la privazione umana e, non a caso, graficamente è rappresentato dal buco della ciambella. Allo stesso tempo, l’economia per essere realmente sostenibile, non dovrebbe mai valicare il confine esterno del grafico, in quanto questa incursione produrrebbe gravi stress ai processi naturali della Terra causando, ad esempio, cambiamento climatico, acidificazione degli oceani e perdita di biodiversità. In pratica, la dimensione ambientale forma un confine esterno, superato il quale si realizzano le condizioni di degrado del Pianeta.

 

Vivere nella ciambella

 

Per quanto ancora poco noto, il concetto dell’economia della ciambella è solo relativamente giovane. Infatti, era la fine del 2011 quando fu presentò per la prima volta alla sede ONU di New York, ma solo nel 2020 questa nuova visione ha conquistato una certa popolarità. La nuova ondata di fama è arrivata grazie al vicesindaco di Amsterdam, Marieke van Doorninck, che ha annunciato che la ripartenza della città dei fiori nel post coronavirus avrebbe avuto “il marchio di una ciambella, cucinata ad Oxford”.

La visione ottimistica della “Doughnut economics” si staglia come un luminoso faro nella notte di questi periodi incerti, già preceduti da anni pieni di noncuranza sociale e ambientale nei quali, a lungo si è creduto, di poter crescere infinitamente in luogo che offre solo risorse limitate. Per quanto siano negative le previsioni per il futuro, esiste fortunatamente ancora la possibilità di lasciarsi guidare da una nuova luce.

Quella attuale è la prima generazione che sembrerebbe aver veramente appreso quanto grande è il danno recato al Pianeta dalla chimera di una crescita illimitata e, se da un lato questo getta i più nello sconforto, dall’altro potrebbe trattarsi un grande privilegio: questa potrebbe essere la prima generazione in grado di attuare una rivoluzione volta a costruire un futuro sostenibile a tutto tondo, o forse, sarebbe meglio dire a ciambella.