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Il processo di automazione industriale, intrinsecamente propenso a un’evoluzione continua, affonda le sue radici nell’introduzione pionieristica dei primi dispositivi autonomi nelle fabbriche tessili britanniche; si tratta di una metamorfosi che ha attraversato secoli di sviluppo, culminando, poi, in una fase attuale, in cui la tecnologia si fonde sinergicamente con la produzione industriale. Il focus è posto, in questo caso, sul dibattito riguardante l’impatto occupazionale delle tecnologie di automazione, che costituisce un tema di notevole complessità.

 

Da una parte, la letteratura scientifica presenta numerosi studi che corroborano l’esistenza di una correlazione positiva tra gli investimenti delle imprese in automazione e l’incremento del tasso di disoccupazione. La condizione italiana, per esempio, è stata oggetto di un’analisi approfondita in uno studio, diffuso nel numero di dicembre 2021 della rivista “Stato e Mercato” e intitolato “Rischi di automazione delle occupazioni: una stima per l’Italia”, in base al quale il numero di lavoratori italiani a rischio si collocherebbe tra i 4 e i 7 milioni.

 

In base a questo scenario, che rimane prettamente teorico, l’intento ergonomico di questo processo, cioè quello di sollevare l’uomo da azioni usuranti e abitudinarie, potrebbe essere cambiato. L’automazione odierna non costituirebbe più un mero ausilio all’attività umana, ma anche, molto spesso, un sistema di strumenti in grado di renderla superflua. Tuttavia, la questione in oggetto riveste uno spettro molto più ampio: il mondo del lavoro italiano si confronta con delle sfide diverse, quali la carenza di competenze e la discrepanza tra quelle richieste e quelle disponibili.

 

 

Si tratterebbe, quindi, di una preoccupazione infondata se riguardante la realtà italiana: un altro studio, condotto dall’INAPP nel 2021 e intitolato “Stop worrying and love the robot: An activity-based approach to assess the impact of robotization on employment dynamics”, ha rivelato che in Italia l’introduzione di robot industriali non ha influenzato negativamente il tasso di occupazione, ma ha contribuito a ridurre, seppur in misura contenuta, quello di disoccupazione. Ad aver subito un aumento è stata, invece, la domanda di professionisti legati al ciclo di vita dei robot, che va dalla loro progettazione all’utilizzo effettivo negli stabilimenti.

 

Contrariamente alle ipotesi, quindi, l’obiettivo originario continua a esistere: nei Paesi sviluppati le attività fisiche ripetitive sono state automatizzate, in maniera tale da ridurre il rischio per la salute degli operatori, mentre le attività a contenuto cognitivo elevato continuano a registrare un aumento favorevole.

 

Ad ogni modo, l’obiettivo principale di questo articolo non è esaminare contesti come quello italiano, dove il settore dell’automazione ha avuto uno sviluppo adeguato nel tempo, in linea con le necessità umane. Oltretutto, in questi contesti è necessario evidenziare un aspetto fondamentale, seppur spesso trascurato, che prescinde dalle visioni in merito, siano esse ottimistiche o pessimistiche: nonostante l’applicazione avanzata dell’apprendimento automatico, i posti di lavoro non sono scomparsi. E, probabilmente, sulla base di molti studi, non lo faranno neanche nel prossimo futuro.

 

“Robots and Organization Studies: Why Robots Might Not Want to Steal Your Job” è il titolo di uno studio condotto nel 2019 da Peter Fleming, che  considera la necessità di affrontare delle questioni più ampie, riguardanti la giustizia sociale nella realtà globale. Nello specifico Fleming, nel corso del suo studio, affronta le condizioni di Devi Lal, un uomo residente a Delhi, in India, la cui mansione era stata individuata, in un report del 2012 (Miller, 2012) come il lavoro peggiore del mondo.

 

L’occupazione di Devi era quella del “manual scavenger”. Si tratta di una figura addetta a calarsi senza corde nelle fogne e pulire a mani nude le fogne intasate, immergendosi nudo e per diverse ore tra i rifiuti e i gas tossici. Per questo lavoro Devi veniva pagato l’equivalente in rupie di 3.50 euro al giorno.

 

In base a quanto riporta Fleming, in città come Londra e Oslo la pulizia manuale delle fogne è relativamente rara. E, se una persona venisse incaricata di immergersi in un ambiente tanto deplorevole, si tratterebbe di un tecnico specializzato, adeguatamente equipaggiato e soggetto a degli specifici protocolli di sicurezza e igiene. Questo fenomeno indica una vera e propria discrepanza: “la differenza tra Delhi e Londra -sottolinea Fleming- è il costo della manodopera di Devi: il suo tasso salariale è decisamente inferiore al costo che si potrebbe investire in una macchina”.

 

Tuttavia, la stessa logica caratterizza anche i Paesi più ricchi; si tratta del motivo per il quale un robot, almeno per il breve periodo, non si preoccuperà di pulire le nostre case. L’impiego di persone è semplicemente più economico, soprattutto a causa della presenza di lavoratori di minoranza etnica, che sono sovra-rappresentati nella forza di lavoro sottopagata. I costi di capitale e manutenzione per investire in attrezzature di intelligenza artificiale sono considerevoli e, a tal proposito, le aziende valutano non solo la possibilità di meccanizzare un lavoro, ma, data la disponibilità di manodopera a basso costo, anche l’eventuale vantaggio economico.

 

Una delle principali cause di lavoro precario e stagnazione salariale è stata individuata nella de-sindacalizzazione (Kalleberg, 2011): i datori di lavoro che operano in luoghi che sono rimasti fortemente sindacalizzati hanno un forte interesse nei confronti dell’automazione, soprattutto laddove il sindacato è (o minaccia di essere) militante. È necessario, quindi, analizzare anche quei contesti in cui la sindacalizzazione non esiste.

 

Un esempio è l’azienda di ride-hailing Uber, che ingloba una serie di aspetti fondamentali. Innanzitutto, l’applicazione di Uber comporta un’automazione parziale della mansione, in quanto riduce il livello di competenze necessarie ai tassisti tradizionali, che ricevono una formazione. Inoltre i conducenti, individuati come lavoratori autonomi, ricevono salari significativamente più bassi. Questo accade sia in Europa che negli Stati Uniti ed è il motivo principale per cui i lavoratori di Uber si sono rapidamente sindacalizzati, chiedendo pieni diritti lavorativi.

 

Prendendo in considerazione delle realtà diverse da quelle europee e statunitensi, come l’Egitto, in cui la contrattazione tra commerciante e cliente è molto forte e, in generale, le condizioni dei lavoratori sono peggiori, il rapporto tra paga e soddisfazione dei lavoratori è inversamente proporzionale. Nonostante la paga sia molto bassa, i conducenti di Uber svolgono con piacere il proprio lavoro. Al tempo stesso, dato il particolare rapporto qualità-prezzo, Uber è preferito dai turisti rispetto ai sistemi tradizionali, in quanto è l’alternativa più economica e l’unica soggetta a una regolamentazione.

 

Non sorprende, quindi, il fatto che Uber abbia annunciato un significativo investimento nella tecnologia delle auto a guida autonoma solo nei Paesi in cui i conducenti hanno portato avanti delle rivolte (Morris, 2017).

 

In conclusione, non si può affermare con certezza che il ruolo dell’intelligenza artificiale non avrà alcuna influenza sulle occupazioni in futuro. Rimane però costante la tendenza di alcune aziende, soprattutto quelle che operano nei Paesi più poveri, a voler rimanere ancorate al proprio status quo unicamente a causa del vantaggio economico fornito dalla persistenza dei lavoratori sottopagati.

FONTI

rivisteweb.it

fortune.com

jstor.org

dailymail.co.uk

journals.sagepub.com

oa.inapp.org