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Supponiamo per un momento che sia una normalissima domenica sera e che tu sia disteso sul divano a scrollare Instagram oppure sul balcone a goderti l’ultimo timido raggio di sole che, soffuso, accarezza gli spigoli dei palazzi.

Anche se magari è stata una bella giornata e c’è ancora un tiepido crepuscolo, senti una strana (ma nota) sensazione di affanno nel petto, che fa immediatamente svanire quella ben costruita tranquillità in cui finalmente ti illudevi di essere avvolto. Lo stesso fatto che sia domenica sera, in realtà, induce di default la tua mente a proiettarsi al lunedì mattina del giorno successivo: d’improvviso, la tua normalissima serata si carica di un clima di sospensione dal retrogusto amarognolo, in cui le angoscianti prospettive future, che caratterizzano l’inizio della nuova settimana, occupano violentemente lo spazio del presente, già oberato dal peso dell’attesa.

 

In un attimo, stai già pensando alla colazione del giorno dopo, al viaggio in treno o al traffico di ritorno dall’ufficio, e la tua tranquilla domenica sera è da buttare.

Mentre cerchi una via di fuga tra il labirintico susseguirsi di pensieri, finalmente realizzi: domani non devi andare a lavoro, perché la tua “settimana lavorativa”, in realtà, dura solo 4 giorni.

 

Partiamo da qualche dato

In Italia (preparatevi) lavoriamo molto, almeno come quantità: si stima infatti, come pubblicato dall’OCSE che una persona italiana lavori in media 33 ore alla settimana, cioè ben tre ore in più rispetto alla media europea di trenta ore. In Germania, per esempio, le ore di lavoro sono mediamente ventotto ore e nei Paesi Bassi ventinove.

Il fatto di lavorare molto però di per sé non implica affatto una buona qualità o produttività, anzi.

Le statistiche dicono che, in particolare dopo la pandemia, i casi di stress ed ansia siano notevolmente aumentati. Insieme ad essi, hanno subito una drastica impennata anche i casi di burnout, una sindrome recentemente riconosciuta dall’OSM che consiste in una condizione di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e derealizzazione personale dovuta all’azione sinergica di vari fattori, tra cui il contesto lavorativo.

A sostenere questa tesi è una ricerca condotta da BVA Doxa per Mindwork, i cui risultati sono stati riportati sul sito di Ansa.it. Dallo studio emerge che circa il 50% degli italiani soffre di malessere psicologico sul lavoro. In Giappone, per esempio, esiste il “karoshi” per indicare proprio la “morte per il troppo lavoro”.

Alla luce di queste evidenze, risulta sempre più urgente non solo comprendere la condizione lavorativa in cui si ritrova costretta una grande parte della popolazione, ma anche attivarci per cambiare le cose.

Se è innegabile che il lavoro costituisca una fetta importante (per non dire la maggior parte) della nostra vita, risulta quantomeno necessario che ognuno di noi abbia la possibilità di instaurare un rapporto sano e proficuo con la propria occupazione, senza dover essere costretto a compromettere la propria salute mentale per portare a casa la cena.

Attualmente, la settimana lavorativa di quattro giorni, senza alcun taglio allo stipendio, è stata avviata in molti paesi, rilevando complessivamente un impatto positivo per entrambe le parti implicate.

 

L’esperimento e i compromessi

I vantaggi della giornata lavorativa di 4 giorni sono molti, sia per il personale che per le audaci aziende coinvolte. In molti paesi dell’Unione Europea, tra cui Inghilterra, Belgio e Scozia (e prossimamente anche la Spagna), sono stati condotti degli esperimenti pilota della durata di almeno sei mesi in cui i dipendenti hanno avuto la possibilità di scegliere se intraprendere un percorso lavorativo di quattro giorni.

A tal proposito, Repubblica ha riportato che, all’inizio di giugno, nel Regno Unito è stato avviato il più grande esperimento al mondo per testare la settimana lavorativa ridotta, senza alcun taglio alla busta paga.
Il progetto coinvolge più di 3000 dipendenti e 70 aziende ed è condotto in collaborazione con le prestigiose Università di Oxford e del Boston College. Lo scopo dell’iniziativa è infatti proprio quello di verificare l’impatto e gli effetti che la riduzione del monte ore, a parità di retribuzione, può avere sulla produttività aziendale e sul benessere del personale.

Il concetto di base è che, lavorando per meno giorni, i dipendenti siano meno stressati e riescano a sfruttare meglio i tempo a disposizione, ottimizzando le prestazioni e risultando quindi più efficienti e produttivi.

Studi condotti in Giappone hanno già dimostrato i grandi vantaggi di questo nuovo modo di vedere ed organizzare il lavoro: al termine del progetto, i lavoratori erano più felici ed il 40% più produttivi, riscontrando un miglioramento dell’equilibrio tra lavoro e vita privata, oltre che una riduzione massiccia dei casi di stress e burnout.

É evidente quindi come la produttività non dipenda da quanto lavoriamo, ma dalla qualità e dal mindset con cui il lavoro viene affrontato.

 

La riduzione della canonica settimana lavorativa sembra quindi impattare molto positivamente sulla salute mentale dei dipendenti, migliorandone la felicità e comportandone anche un aumento della produttività durante le ore di lavoro. Lavoratori più motivati ed efficienti non possono quindi che avere un impatto positivo sull’azienda. Tra gli effetti positivi, si annovera anche un potenziale impulso al tasso di occupazione, oltre al fatto che questa possa contribuire all’eliminazione del gender-gap, cioè il divario (in primo luogo salariale) che tutt’ora esiste tra uomini e donne. Secondo il World Economic Forum infatti, l’aumento del tempo libero sia per gli uomini che per le donne garantirebbe ad entrambi i genitori di potersi occupare dei figli senza essere costretti (in particolar modo le donne) a rinunciare al lavoro o a dover ricorrere al part-time.

 

Vivere per lavorare o lavorare per vivere?

L’equilibrio tra lavoro e vita personale è di fatto il risultato di un abile gioco tra priorità e dignità della vita.

Si spendono ormai fiumi di parole per spiegare quanto la nostra esistenza sia diventata tremendamente frenetica, connessa e digitalizzata: non abbiamo un attimo per fermarci, respirare e riflettere, mentre sognamo di diventare ubiqui.

Siamo cresciuti in un contesto socioculturale che, nella maggior parte dei casi, ci ha sempre insegnato a rendere il lavoro una priorità, secondo il motto: “Prima il dovere, poi il piacere”.

Il concetto che, negli anni, abbiamo costruito del lavoro ha però progressivamente acquisito dei contorni sempre più cupi e distorti: focalizzandoci sulla necessità di trovare un’occupazione che ci garantisse di (soprav)vivere, abbiamo tralasciato la possibilità di svolgere una professione che rispecchiasse realmente noi stessi e le nostre inclinazioni. I turni opprimenti, gli orari fissi e gli straordinari sottopagati sono condizioni che certamente non migliorano questo rapporto già molto complesso ed incrinato.

Nonostante sia auspicabile riuscire a trovare un lavoro che ci renda felici, talvolta accade che le aspettative vengano deluse, costringendoci in delle realtà non sempre soddisfacenti, come testimoniano i risultati di un’analisi condotta dell’Istat. L’elemento maggiormente impattante in questa logica è il concetto di “lavoro totalizzante”, secondo cui la nostra persona dovrebbe esaurirsi completamente all’interno della mansione svolta. Spesso però, passioni, interessi ed altri slanci vitali rimangano tagliati fuori dal nostro panorama lavorativo e vengono relegati in quel famoso bacino del “tempo ibero”, che diventa sempre più esiguo e ridotto.

 

Se è chiaro che non siamo persone monolitiche, in quanto abbiamo un’anima ricca di sfaccettature in continua evoluzione, al lavoro, che costituisce gran parte della nostra esistenza, spetta il compito di accompagnarci in questo processo di crescita ed adattamento.

Se è vero che le potenzialità lavorative si stanno progressivamente ampliando e diversificando, coprendo uno spettro sempre più ampio di inclinazioni umane, è anche necessario che le modalità di erogazione del lavoro si conformino ad una società più fluida e flessibile, in continua evoluzione.

 

La macchina economica deve perciò venire in contro a queste nuove esigenze, adattandosi ad una matrice umana che altrimenti, come magma, fonderà le gabbie che attualmente gli sono imposte.