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Il dibattito pubblico sulla sostenibilità dovrebbe essere esteso a quanti più sistemi produttivi possibili per avere un impatto decisivo. Anche l’industria della moda ne fa parte: secondo il report per il 2022 redatto da McKinsey “The State of Fashion”, oltre 40 milioni di tonnellate di rifiuti di tipo tessile vengono prodotti da questo settore ogni anno a livello globale. Siamo ancora lontani dall’adozione di un modello di economia circolare, dato che solo una piccola percentuale viene riutilizzata o riciclata: infatti, nel mondo, solo l’1% di tutti i rifiuti tessili continua il suo ciclo vitale trasformandosi in un nuovo capo d’abbigliamento, mentre il 75% è destinato alla discarica o all’incenerimento. Il modello della fast fashion è una delle cause che più ha contribuito all’aggravarsi di questa situazione. Nata come mezzo per rendere accessibili a più clienti possibili gli ultimi trend di moda, si tratta di un sistema produttivo in cui risulta pressoché impossibile realizzare condizioni di sostenibilità sociale ed ambientale, a fronte del desiderio di proporre un prezzo finale molto basso e di rinnovare le collezioni ad un ritmo molto più rapido di quello delle tradizionali “stagioni”. È possibile per il settore della moda oggi invertire la sua rotta e quali difficoltà si trova ad affrontare chi propone un rinnovamento nell’ottica della sostenibilità?

Da dove partire per rinnovare l’industria della moda?

In occasione della COP26 di Glasgow è stata rinnovata la “Fashion Industry Charter for Climate Action”: promossa dalle Nazioni Unite e proposta per la prima volta durante la COP24, individua i percorsi e gli obiettivi di sostenibilità che dovranno portare l’industria della moda a raggiungere Net Zero entro il 2050. Il documento ribadisce l’insufficienza delle soluzioni attuate fino ad oggi e l’importanza dell’adesione degli stakeholders: ad oggi aziende e organizzazioni del settore possono volontariamente aderirvi per ricevere le informazioni, il supporto e la rete di contatti necessaria per avviare il processo di trasformazione. Tra i punti principali vengono inserite la necessità di rendere indipendente il settore dal carbone e, successivamente, dalle fonti fossili, il bisogno di individuare strumenti finanziari adeguati e strategie per rendere la transizione economicamente scalabile e sostenibile e la ricerca di materie prime a basso impatto.

Fibre naturali, fibre sintetiche: ma è questo il dilemma?

Secondo la charter sopracitata, un obiettivo fondamentale per l’industria della moda deve essere la scelta di materie prime che siano sostenibili durante tutto il loro ciclo di vita. Spesso nel dibattito vengono contrapposte le fibre naturali alle fibre sintetiche: anche se potremmo associare istintivamente le prime ad un’idea di purezza, sicurezza e sostenibilità maggiori a scapito delle seconde, analizzando i costi e i benefici di entrambe ci accorgiamo che il problema è più complesso. Consideriamo il cotone e il poliestere come esempi, dato che rispettivamente rappresentano circa il 23% e il 52% della produzione globale di fibre tessili: la produzione di cotone infatti, pur non essendo intrinsecamente legata alle fonti fossili come quella del poliestere, comporta un dispendio maggiore di acqua e di suolo. Il punto fondamentale non risiede quindi nella dicotomia sintetico-naturale, che indica solamente la provenienza delle fibre stesse, ma nella valutazione del loro impatto ambientale dall’estrazione fino all’eventuale riciclo.

Uno dei modi possibili per abbattere l’impatto del processo estrattivo e per ridurre la dipendenza dalle fonti fossili delle fibre sintetiche è ricavare, anche se per ora solo parzialmente, da biomasse. Si otterrebbe così il biopoliestere, identico a quello tradizionale per struttura, la cui produzione pone però un’altra sfida: riuscire ad ottenerlo grazie a biomasse di scarto, così da non togliere risorse preziose all’industria alimentare. Dagli scarti della lavorazione del cotone o da capi diventati rifiuti (anche composti da fibre diverse) può essere invece ricavato biogas grazie a un processo biotecnologico chiamato “digestione anaerobica”. La sfida in questi casi risiede soprattutto nel rendere scalabili queste tecnologie.

Moda rigenerata vs moda second hand

Possiamo confrontare due tendenze principali nel mondo della moda sostenibile che si propongono come alternative alla fast fashion. Da una parte sono sempre di più le aziende e le organizzazioni che propongono servizi di compravendita di abiti usati e/o vintage: possono concretizzarsi in app così come in catene di negozi fisici o in eventi dedicati organizzati da imprese che abbiano una vocazione sociale. Il valore di mercato del settore della moda second hand negli U.S.A. nel 2019 si attestava attorno ai 28 miliardi di dollari: secondo le proiezioni di ThredUp, riportate anche da Forbes, potrebbe raggiungere i 77 miliardi di dollari entro il 2025. Inoltre il second hand ha sperimentato nel 2019 una rapidità di crescita decisamente maggiore rispetto a quella della moda non second-hand. Dall’altra parte assistiamo alla fondazione di start-up e imprese che propongono i propri brand con collezioni di capi prodotti utilizzando fibre rigenerate o che inseriscono tra i loro valori la garanzia di un lavoro equo e socialmente sostenibile.

Quali sono i costi e i benefici delle due alternative, cioè il riuso intrinsecamente legato alla compravendita dell’usato e il riciclo necessario per confezionare capi rigenerati? Se la moda second hand è più accessibile per un cliente dal punto di vista economico, raramente può soddisfare il desiderio di un design innovativo e originale da parte di chi compra. Non tutte le tipologie di riciclo però garantiscono quello che viene definito “upcycling”, cioè un processo attraverso cui è possibile ottenere, da un capo dismesso, un altro capo che abbia una qualità paragonabile, e quest’ultima tipologia di riciclo è poco diffusa (si tratta dell’1% del totale citato all’inizio dell’articolo). Molto più diffuso è il cosiddetto “downcycling”, che comporta la trasformazione di un capo in materiali utili ad altri settori industriali, ma con un’inevitabile perdita di valore rispetto al prodotto originario.

Anche se è difficile immaginare quale alternativa sarà preferita sul lungo termine dal mercato, ciò che è certo è che l’urgenza di un cambiamento nel settore della moda esiste e che le tecnologie oggi a nostra disposizione dovranno essere ancora più diffuse per essere efficaci.