Condividi su:

Agevolare il percorso dei pazienti sotto terapia e allo stesso tempo raccogliere dati utili alla ricerca clinica in maniera efficiente utilizzando un’applicazione semplice e intuitiva che sfrutta l’intelligenza artificiale puntando al coinvolgimento del paziente: questa è la missione di PatchAi una startup italiana fondata da Alessandro Monterosso, imprenditore, ex infermiere, Forbes under 30 e tech enthusiastic che ci ha raccontato meglio la sua storia, com’è giunto all’idea fino ad arrivare a quello che è oggi la sua startup di tech health.

 
Alessandro, partendo da te, ci racconteresti un po’ del tuo percorso professionale? Tra le cose che hai fatto ho visto spuntare anche un Forbes under 30 e una tappa nella Silicon Valley…

Nasco come infermiere pediatrico e negli anni ho portato avanti la mia formazione sia in ambito infermieristico e di ricerca che in ambito economico-manageriale. Dopo la triennale in Infermieristica a Padova mi sono specializzato in Ricerca Applicata all’Università di Trieste e ho iniziato a lavorare in corsia come infermiere di ricerca dove conducevo i famosi clinical trials per i test di nuovi farmaci da mettere in commercio con focus in oncologia e pediatria. Durante quegli anni ho lavorato anche come autore e redattore di manuali di infermieristica, ma sono sempre stato interessato all’uso della tecnologia in ambito sanitario, per questo decisi di mollare tutto e conseguire un master in Economia Sanitaria Internazionale presso l’Università Bocconi. Proprio in questa occasione ho conosciuto quelli che sarebbero poi diventati i co-fondatori di PatchAi. Subito dopo il master ho iniziato a lavorare per una casa farmaceutica nel campo del marketing centrato sul tipo di paziente donna in gravidanza. Da lì nasce la startup passando per vari percorsi di accelerazione sia in Italia che in Europa, ma soprattutto in Silicon Valley. Nel frattempo, sono stato nominato, giusto l’anno scorso per i miei trent’anni, tra i Forbes under 30 health care.

 
Arrivando proprio alla tua startup: cosa fa PatchAI, perché è davvero innovativa? Ci racconti un po’ la storia dietro la startup?

Quando lavoravo come infermiere di ricerca mi resi conto che la maggior parte della comunicazione tra il personale sanitario e i pazienti, specialmente tra una visita e l’altra una volta tornati a casa dall’ospedale, avveniva via fax oppure via mail o WhatsApp. Contemporaneamente mi accorsi che alcune case farmaceutiche adottavano delle soluzioni digitaliper la raccolta di dati molto importanti sulla salute paziente e di estremo valore riguardo l’efficacia dei farmaci; tuttavia queste soluzioni digitali erano un po’ “giurassiche”, i famosi PDTA di una volta, che servivano a ben poco dato che i pazienti tendevano a utilizzarli di rado e non riuscivano a riportare i dati tempestivamente e soprattutto desideravano comunque utilizzare WhatsApp per raccontare all’infermiere e avere un riscontro, in altre parole necessitavano di una naturale e comprensibile relazione terapeutica tra professionista sanitario e paziente. Partendo da questi presupposti, da nerd quale sono, cominciai a interessarmi alle tecnologie conversazionali come i chatbot, e mi chiedevo se fosse possibile trovare una soluzione che da un lato raccogliesse i dati nel modo migliore: in tempo reale e di qualità, ma che dall’altro lato potesse simulare la relazione terapeutica ed empatica tra infermiere e paziente: da lì il concetto della nostra startup. L’innovazione deriva proprio dal fatto di aver unito questo concetto di relazione terapeutica, proattività e coinvolgimento del paziente, con la raccolta dati, il tutto reso possibile da questo chatbot all’interno della nostra tecnologia, definita Co-PRO® technology. Con questo meccanismo andiamo a lavorare sui dati comportamentali dei pazienti, le loro preferenze e necessità per personalizzare in tempo reale l’applicazione ad ogni singolo utente in modo tale che rispecchi, guidi e migliori il percorso di ciascuno all’interno dei clinical trials. Il valore aggiunto è dato dall’insieme di, come abbiamo detto, personalizzazione, conversazione empatica e comprensione dell’engagement del paziente con il cosiddetto engagement score, questo dettaglio è fondamentale perché influisce tantissimo sull’aderenza alla terapia. Il punteggio si ottiene dalla compilazione di questionari e diari e arriva ai ricercatori per far sì che sappiano anticipatamente quello che può succedere al paziente in termini di aderenza durante lo studio clinico.

 
Il target sono i pazienti in terapia, i quali possono essere anche anziani, come avete fatto a risolvere il problema degli utenti senior con le nuove tecnologie?

Il nostro target indiretto, quello delle cause farmaceutiche, sono proprio persone over 50 e sin dall’inizio abbiamo incluso il punto di vista dei pazienti esperti, dei medici ma anche di coloro meno esperti; quindi il disegno della nostra soluzione, da come è stato ideato, è quanto più possibile semplice con l’assistente virtuale che riesce davvero a guidare l’utente e seguire alcune richieste al momento giusto e nel modo giusto. Seguendo le linee guida della buona user experience, l’applicazione risulta una sorta di WhatsApp e quindi estremamente semplice e intuitiva con delle risposte veloci che aiutano l’utente.  Abbiamo osservato che il prodotto, riguardo l’usabilità non presenta differenze significative tra l’utente 18enne e quello 60enne, il che è molto positivo dal nostro punto di vista perché le due fasce lo credono usabile allo stesso modo.

 
Riusciresti a spiegare a chi non è del settore quali sono le più grandi difficoltà che incontra la ricerca? In che modo l’app riesce a risolvere parte dei problemi?

Uno dei punti dolenti della ricerca è il tasso di abbandono, soprattutto quando si stanno studiando dei farmaci che servono a trattare patologie lunghe e complesse, con i pazienti stessi che hanno già provato diverse terapie che purtroppo non hanno funzionato e sono afflitti da patologie importanti che li pongono in una condizione molto particolare sia dal punto di vista fisico che psicologico, ecco allora che otteniamo l’elevato drop out rate: oltre il 30% dei pazienti esce dallo studio dopo 6 mesi. Questo è comprensibile se si pensa che un paziente, oltre al già gravoso problema di salute, deve compilare un questionario di una decina di domande ogni giorno, assumere tre o quattro medicinali alla volta ognuno in modo diverso: si crea un immenso patient burden come viene chiamato in gergo e la persona comincia a perdere di vista il trattamento e non seguire più quelle regole strette che, le prove in modo particolare, impongono. Come si può immaginare, i risultati sono: aumento di costi e una gestione non ottimale del proprio stato di salute oltre che un report poco affidabile sulla terapia in sé. Un altro aspetto da considerare è, come accadeva soprattutto in passato, il fatto che i pazienti sottoposti a queste sperimentazioni si sentono trattati come cavie da laboratorio (basti pensare ai termini come “arruolamento” o “soggetti” spesso usati anche in questo settore). Noi abbiamo provato a fornire una soluzione a questi grandi problemi mettendo il paziente al centro e puntando sul suo coinvolgimento e sul fatto che debba ricevere un valore di ritorno e non solo l’obbligo di dover dare, il tutto adottando una soluzione digitale e risolvendo quindi anche il problema dei questionari su carta difficili da gestire. Se digitalizzarsi prima era un nice to have ora è un must e non solo per quanto riguarda i questionari, ma anche per la cura in sé e la pandemia ha accelerato ancora più questo cambiamento: basti pensare ad un report di Accenture secondo il quale 4 terapie su 5 sono state bloccate perché non era possibile portarle avanti poiché non utilizzando soluzioni digitali c’era ancora bisogno della carta e della presenza fisica. In tutto questo l’intelligenza artificiale fa presto a inserirsi, noi la utilizziamo per andare a lavorare, come dicevo prima, sui modelli che cercano di comprendere il comportamento degli utenti in merito all’aderenza al percorso diagnostico-terapeutico rispondendo in maniera automatica e semi automatica alle funzionalità dell’app.

 
Come hai fatto a trovare un buon team che ti supportasse e sapesse svolgere le mansioni più tecniche come AI, app development e UX design?

Quando si tratta di team e startup, uno degli aspetti fondamentali a cui abbiamo sempre pensato all’inizio è che non volevamo costruire una software house che progettasse dei prodotti da immettere e modificare continuamente secondo le richieste del mercato e del cliente che ce la commissionava. Abbiamo quindi pensato ad un prodotto unico che doveva essere portato avanti da delle “superstar” adesso chiamate patchers che sposassero la causa, la visione dell’azienda; soprattutto ad oggi, in un mercato in cui figure come UX designers, product manager o ingegneri informatici sono abbastanza richieste e trovando facilmente lavoro, si rischia di avere un alto turnover nel team; da subito abbiamo cercato solo persone che sposassero la nostra visione: migliorare la ricerca clinica con il focus sull’engagement del paziente e quindi lavorare ogni giorno sviluppando soluzioni smart con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita di queste persone e guardando all’esigenza degli stakeholder coinvolti.

 
Qual è per te la parte più bella, quella di cui vai più fiero del progetto e ciò che invece magari vorresti ancora migliorare o implementare?

La parte più bella ad oggi è quella di essere riuscito a rendere realtà ciò che era soltanto un’idea e aver costruito un team che è diventato una famiglia dove non ci reputiamo un’azienda tradizionale ma una startup super dinamica e giovane, dove ognuno ha interesse, oltre che professionale, anche personale nel costruire relazioni con gli altri membri che hanno tutti l’obiettivo comune di raggiungere la vision; questi due sono gli aspetti che mi gratificano di più. Nonostante io abbia mollato la mia carriera in prima linea, riuscire a supportare i pazienti in maniera diversa, ma sempre con qualcosa di concreto che dia un impatto molto più grande di quello che potevo avere io sul singolo paziente, è molto più motivante ed è grazie al team che siamo arrivati qui.

Come vediamo il futuro? Di sicuro roseo, vogliamo crescere arrivando a 100 dipendenti e riuscire a supportare oltre 50 clienti e oltre 100 clinical trials nei prossimi cinque anni, il che significa sostenere diverse migliaia di pazienti riuscendo realmente a migliorare, tutti assieme, il futuro della sanità rendendola quando più possibile smart, empatica e accessibile. Vogliamo diventare market leader a livello europeo dove vediamo che c’è una forte mancanza rispetto all’America a livello di soluzioni. Essendo pionieri del Co-PRO®, che è il nuovo modo conversazionale di raccogliere i dati rispetto a quello che veniva chiamato lo standard di mercato e-pro, mi piacerebbe vedere questa tecnologia adottata ad un livello sempre maggiore: utilizzata da migliaia di pazienti e case farmaceutiche.

 
Un’avventura da startupper che ti porti dietro o in generale un suggerimento che adesso daresti a chi vuole iniziare a fare impresa e innovare?

Continuare a perseverare sull’idea che va raccontata a più persone possibili, anche se è ancora molto presente la convinzione che qualcuno possa rubarci l’idea se la raccontiamo, posso affermare che non è così perché quello che conta maggiormente è l’execution: tutti abbiamo mille idee ogni giorno, ma tra l’idea e il concreto c’è un mondo, nessuno ti ruba l’idea dall’oggi al domani perché, come puoi immaginare, ci vogliono tanti soldi, persone e energie per riuscire a portarla almeno in fase di prototipazione. Il consiglio è dunque quello di perseverare, raccontare il più possibile e partecipare tanto alle competizioni tra startup, avere quanto più possibile un ritorno dagli stakeholders e riuscire a costruire un network. Un dettaglio di cui vado fiero è che abbiamo vinto oltre il 95% delle competizioni sia a livello nazionale che internazionale, ma la gratificazione di vincere i ticket, i crediti o i voucher non è la cosa in assoluto più importante, sono proprio le connessioni che si creano, è il rumore che fai entrando in contatto con persone brillanti che ti possono aiutare e con cui si può avere uno scambio alla pari che fanno la differenza. Quando partecipi alle competizioni trovi sempre giurie diverse che ti fanno mettere costantemente in discussione il modello di business, la struttura aziendale, il prodotto e questo ti arricchisce enormemente, perché lavorando continuamente alla tua idea sviluppi il “bias dei paraocchi” e quindi avere punti di vista sempre nuovi e diversi aiutano a definire l’idea stessa. Come puoi immaginare dalla concezione iniziale di PatchAi ad adesso è tutta un’altra cosa com’è normale che sia, le giurie sono lì apposta per instillarti