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Il premio Nobel per la chimica di quest’anno è stato assegnato il 4 ottobre a Moungi G. Bawendi, Louis E. Brus e Alexei I. Ekimov “per la scoperta e la sintesi dei punti quantici”, ottenuti per la prima volta negli anni 80. Si tratta di strutture artificiali, cristalline, semi-conduttrici ed estremamente piccole: le loro dimensioni vanno da alcune unità fino a poche decine di nanometri, che corrispondono a un miliardesimo di metro. Dalle loro dimensioni e struttura dipendono le loro peculiari proprietà, che li rendono potenzialmente utili in moltissimi settori tra cui l’ottica, l’elettronica, l’energia e la medicina.

I punti quantici rientrano a pieno titolo tra le nanotecnologie: uno dei principi teorici fondamentali di questo campo scientifico è il cambiamento osservabile nelle proprietà di un composto a seconda della sua dimensione. Se in una grande porzione di materia notiamo certi fenomeni, a scale molto piccole ne emergeranno altri, principalmente dovuti a effetti quantistici. Molte proprietà possono essere modificate solamente variando la dimensione delle particelle: tra queste, quella di maggiore interesse per i punti quantici è la fluorescenza. In questo fenomeno, una sostanza emette luce a una lunghezza d’onda diversa da quella che ha ricevuto in precedenza. I punti quantici possono dunque assorbire radiazione elettromagnetica ultravioletta e riemettere luce visibile di differenti colori a seconda delle loro dimensioni.

Questa loro caratteristica, assieme alla capacità di trasportare elettroni, li rende utili come componenti all’interno dei moderni display, dei LED o come strumento per il bioimaging (un insieme di tecniche utilizzate per ottenere immagini di tessuti e organi di organismi viventi), dato che la loro fluorescenza può essere molto più intensa di quella di altre sostanze. Ad oggi è possibile ottenere punti quantici di dimensioni desiderate in modo accurato e con tecniche chimico-fisiche relativamente poco costose.

Quantum dots e nanomedicina: quali sono le applicazioni possibili?

Queste strutture cristalline sono spesso formate da metalli pesanti, come il cadmio; sono dunque tossici per le cellule e per gli organismi. Esistono però dei punti quantici formati da strutture di grafene, potenzialmente combinate con altri tipi di composti (procedura che viene chiamata “funzionalizzazione”), che attualmente rappresentano la variante più biocompatibile. Si apre quindi la strada a numerose applicazioni nella branca della nanomedicina, cioè “l’applicazione della nanotecnologia in campo medico”.

Questi punti quantici sono in grado di superare la barriera ematoencefalica (la struttura che “regola selettivamente il passaggio sanguigno di sostanze chimiche da e verso il cervello”), caratteristica che li rende potenzialmente utili nel trattamento di alcune malattie neurodegenerative, come il morbo di Alzheimer. È stato osservato che i punti quantici di grafene possono funzionare come inibitori dell’aggregazione all’esterno dei neuroni della proteina amiloide, responsabile del decorso della malattia.

Un’altra applicazione per i punti quantici di grafene è il drug delivery: queste nanostrutture possono diventare dei veri e propri trasportatori di farmaci affinché essi vengano rilasciati esattamente nel punto desiderato del corpo. La loro stabilità una volta entrati a contatto con i fluidi corporei e la capacità che hanno di conservare i farmaci che trasportano li rendono dei buoni candidati per questa applicazione. Grazie a questo si potrebbe diventare così in grado, per esempio, di rilasciare molecole nelle cellule tumorali senza intaccare quelle normali. Un vantaggio dei punti quantici rispetto ad altri tipi di molecole usate come trasportatori dipende dall’intensa fluorescenza prima descritta: è possibile infatti monitorarne il comportamento all’interno dell’organismo grazie a tecniche di bioimaging.

Tutte queste applicazioni sono ancora in fase di studio e sperimentazione: i punti quantici hanno e potranno avere un grande potenziale tecnologico in molte applicazioni biomediche, così come in altri ambiti.