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Podcast: la voce è più forte di uno schermo

Da qualche anno è in corso una rivoluzione dei contenuti online, silenziosa ma costante, che sta cambiando non solo la loro forma ma anche le modalità in cui vengono fruiti. In particolare, il formato podcast, in particolare, si sta dimostrando uno dei media più efficaci ed efficienti: sia che si parli di informazione, di intrattenimento o di pubblicità, il podcast riesce a catturare l’attenzione dell’ascoltatore fidelizzandolo e cambiando le sue abitudini, anche grazie alla sua capacità di “accompagnarlo” nelle attività quotidiane.

Dove vuoi e quando vuoi

Ma partiamo dal principio, che cos’è un podcast? Stando alla definizione fornitaci dal dizionario Treccani, un podcast è un “file audio digitale distribuito attraverso Internet e fruibile su un computer o su un lettore MP3”. Sono, quindi, contenuti audio che si distinguono dagli altri, come quelli radio, per essere asincroni, on demand, offline e nomadici. Queste caratteristiche da sole potrebbero bastare per intuire l’origine del successo dello strumento negli ultimi anni. La potenza del podcast risiede nella sua capacità di accompagnare l’ascoltatore mentre svolge le sue attività quotidiane e senza togliergli tempo: la natura audio, infatti, non necessita di nessun altro supporto fisico (oltre ad un paio di cuffie se non si è a casa), mentre il cellulare può comodamente rimanere in tasca lasciando libere mani e sguardo. Va da sé che il formato podcast si adatti naturalmente a uno stile di vita flessibile e che possa essere fruito pressoché ovunque, senza necessità di nessuno schermo, e quando si vuole, dato che la maggioranza delle piattaforme consente il download dei file audio. Tutto ciò è stato confermato da una ricerca di Crowd DNA e Spotify, secondo cui con i podcast “si ottengono le stesse informazioni che si otterrebbero tramite la lettura” e che evidenzia come un ascoltatore su tre dichiari di ascoltare podcast perché non ha uno schermo a portata di mano.

Creare community con la voce

Come scrive Gaia Passamonti nel suo libro “Podcast Marketing”, esiste un “podcast per ogni cosa e a ciascuno un suo podcast”. La reale forza dei podcast sta, infatti, nella grandissima varietà di temi in cui possono essere declinati e, di conseguenza, nella possibilità di creare community affiatate e con alto engagement, persino per i temi più di nicchia. Per far ciò è, senza dubbio, determinante la bravura dello speaker/conduttore e la qualità del sound design: entrambe le caratteristiche concorrono al successo di un podcast poiché sono in grado di creare empatia con gli spettatori e modellare atmosfere e sensazioni. La fidelizzazione verso il programma si va, così, a sviluppare in senso di appartenenza vero e proprio e a stimolare la discussione tra gli ascoltatori stessi. Non stupisce, quindi, che il modello della serialità, che negli ultimi anni ha scoperto nuova luce con le serie TV di Netflix e delle varie piattaforme di streaming, venga riproposto anche sotto forma di podcast con grande successo, come dimostrano esperimenti come Veleno di Pablo Trincia. Non è un segreto, infatti, che nelle nicchie si trovino spesso gli ascoltatori più fedeli e assidui e che, quest’ultimi, non solo richiedano un contenuto di lunga durata ma, anzi, ormai lo ritengano la normalità quando si parla di podcast. Basti pensare che, secondo una sintesi delle ricerche di Nielsen ed Edison, il tempo medio di ascolto settimanale è di 6 ore e 32 minuti ad ascoltatore, distribuite su 7 podcast seguiti. Da notare come solamente il 19% degli ascoltatori aumenti la velocità di ascolto e l’80% ascolti puntate intere senza interromperle. Questi ultimi due dati sottolineano come anche la capacità di creare atmosfere ed empatia faccia parte della domanda e non solamente il contenuto in sé. Inoltre, gli ascoltatori di podcast sono molto attivi sui social ed in grado di alimentare word-of-mouth, il che, inevitabilmente, li rende per le aziende dei soggetti strategici a cui mirare.

Cos’e’ un branded podcast?

Come abbiamo visto, i podcast sono in grado di creare un’utenza altamente fidelizzata, molto attenta e con un legame speciale, oserei dire quasi fiduciario, con la voce narrante dei propri programmi preferiti. Non stupisce, quindi, che, secondo le ricerche di Spotify, circa “l’81% degli ascoltatori ha intrapreso un’azione dopo aver ascoltato un annuncio audio durante un podcast”. Nonostante questi dati si riferiscano al mercato americano, decisamente più sviluppato e maturo del nostro, il potenziale dei podcast è applicabile anche al nostro territorio e, non a caso, molte aziende stanno cercando di approcciare il mondo dei cosiddetti “branded podcast”. Quest’ultimi sono, come li definisce la già citata Gaia Passamonti, “contenuti audio originali, fruibili in formato MP3 in streaming o in download sui device degli ascoltatori, prodotti da un brand o da un’azienda all’interno della propria strategia di marketing”. Sono, quindi, una forma più evoluta dei semplici ads in formato audio. Hanno lo scopo di fornire agli ascoltatori una prospettiva interessante su un tema a loro caro senza, necessariamente, finalità di vendita ma andando, però, a potenziare lo storytelling aziendale e la reputazione del brand. Esempi di branded podcast italiani sono “Prime Svolte” di Mini, rilasciato in concomitanza del lancio della loro prima automobile completamente elettrica e incentrato sull’importanza delle prime volte, e “Milano, Europa” il podcast di Francesco Costa che racconta la Milano del futuro realizzato per l’azienda immobiliare EuroMilano.

Lo stato del mercato italiano

Abbiamo già notato come il mercato dei podcast in generale non sia ancora molto sviluppato nel nostro Paese, tuttavia i trend sono incoraggianti. Stando a una ricerca di IPSOS, il 30% degli italiani ha ascoltato almeno un podcast nell’ultimo mese (+4% rispetto al 2019), il 52% di questi è under35 ed il 22% è laureato. Interessante notare come il 77% degli intervistati ascolti podcast mentre fa altro, il 12% mentre si rilassa e solamente l’11% non fa nient’altro durante l’ascolto. Da segnalare anche la crescita del 9% nell’utilizzo degli smart speaker per l’ascolto dei podcast, che arriva ad attestarsi al 15%. Percentuale, comunque, ben lontana dal 48% degli smartphone. Per quanto riguarda l’aspetto pubblicitario, invece, ben il 61% ricorda gli spot ascoltati durante un podcast ed il 49% ricorda l’azione svolta a seguito dell’ascolto (per lo più ricerche sui social). Questi dati mostrano come la crescita del nostro mercato, sebbene ancora distante da quello statunitense dove gli ascoltatori sono quasi il 60% della popolazione e la diffusione è ormai capillare persino nella fascia over50 con un incremento di oltre il 29%, sia ormai sostenuta e di come i podcast siano destinati a radicarsi nella cultura popolare anche in Italia. Ciò è stato possibile soprattutto grazie all’alta qualità di molti dei contenuti realizzati in italiano. Sia che si parli di narrazioni giornalistiche circoscritte come “Risciò” di Giada Messetti e Simone Peranni o “Da costa a costa” di Francesco Costa, di appuntamenti quotidiani come il “Daily Cogito” di Rick Dufer o di news come “Start” del Sole 24 ore, il mercato italiano è già in grado di offrire un grande varietà di contenuti per tutti i gusti. Sta a voi scegliere quale fa al caso vostro, indossare le vostre cuffie, ascoltare e… continuare a fare quello che stavate facendo.

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Fortnite: un successo miliardario giocabile gratuitamente

Oggi, quando si parla di videogiochi recenti, non si può che menzionare il fenomeno Fortnite. Il free-to-play Battle Royale è stato pubblicato ormai tre anni fa ed, ormai, è diventato un vero e proprio fenomeno pop, con introiti nell’ordine dei miliardi di dollari e collaborazioni con i più grandi brand internazionali. Tutto ciò partendo da un videogame che chiunque può giocare gratuitamente. Come è stato possibile? Proviamo ad indagarlo in questo articolo, dalle origini ai sistemi di marketing con cui Epic Games ha deciso di capitalizzare l’enorme successo del gioco.

Un po’ di storia

Ma facciamo un passo indietro, come è nato il successo di Fortnite? La cosa interessante è che Fortnite è basato su un fallimento. Il gioco fu, infatti, originariamente presentato nel 2011 come un misto tra le meccaniche di Minecraft, il celebre videogame di costruzioni, e di Left 4 Dead, uno sparatutto horror in terza persona. Graficamente e iconicamente, Fortnite era già Fortnite: quel che mancava era la sostanza. Si trattava di un normale, tra l’altro a pagamento, gioco a squadre di quattro in cui divertirsi costruendo fortezze, cercando armi e sconfiggendo mostri. Nessuna componente competitiva online era prevista. Tuttavia, il prodotto in questo stato fu accolto con freddezza e lo sviluppo dello stesso si prolungò per altri sei anni. In quel lasso di tempo, l’industria videoludica si stava ormai muovendo verso una concezione del gioco come “servizio” fin lì inedita o, quantomeno, di nicchia. Concezione che andava, inevitabilmente, a preferire i free-to-play, così sono detti in gergo i giochi scaricabili gratuitamente, perfezionabili “in corso d’opera” tramite aggiornamenti e patch, piuttosto che prodotti finiti venduti a un prezzo fisso (per lo più nei negozi fisici). Presa la decisione di virare su questo modello di business, fu integrata l’ormai celebre modalità Battle Royale, consistente in partite, in singolo o a squadre, a cui partecipano 100 persone e in cui è possibile muoversi liberamente per una mappa particolarmente ampia, cercando armi, strumenti e risorse, con l’obiettivo di essere l’ultimo giocatore sopravvissuto. A onor della cronaca, Fortnite non ha inventato nulla: il genere era già famoso ai tempi, tant’è che gli stessi sviluppatori hanno più volte ammesso di essere fan di PlayerUnknown’s Battlegrounds, vero fondatore del genere di successo. Ma come accade spesso, non sempre la Storia premia il primo arrivato.

Come può un gioco gratuito produrre così tanti introiti?

Alla fine la promessa fu mantenuta e Fortnite fu pubblicato come Battle Royale free-to-play su praticamente ogni piattaforma e console possibile. Il gioco, per come era stato concepito originariamente, esisteva ancora ma come modalità secondaria a pagamento, denominata “Save the World”: decisamente trascurabile sia per quanto riguarda la popolarità che per gli incassi. Con i suoi 129 milioni di download globali e 6 milioni di utenti attivi mensilmente (per lo più ragazzi sotto i 24 anni), si stima che Fortnite – Battle Royale attualmente frutti, in media, più di tremila dollari al minuto a Epic Games, publisher del videogame, per un totale di oltre 1 miliardo di incassi solamente negli ultimi due anni tramite acquisti in-app. Eppure è possibile giocare a Fortnite senza mai effettuare nessun pagamento e senza subire, di conseguenza, alcun malus. Nel gioco, infatti, è consentito acquistare solamente elementi estetici, come skin (i costumi dei vari personaggi) o oltri elementi decorativi come picconi o deltaplani, spendendo V-Bucks, la monetà virtuale del gioco – ovviamente a sua volta acquistabile caricando soldi reali sul proprio account. Nulla che modifichi in alcun modo il gameplay o che dia vantaggio rispetto agli altri giocatori, ciò nonostante funziona e, a riprova di ciò, sembrerebbe che il 70% dei giocatori abbia effettuato almeno un acquisto in-app, con una media di 102 dollari spesi a testa, decisamente di più di quanto richiederebbe l’acquisto di un videogioco “tradizionale”. Considerando anche che oltre il  64% dei player utilizza Fortnite per più di 6 ore a settimana, si potrebbe teorizzare che il business degli acquisti in-app si basi tutto sullo status auto-percepito dai giocatori stessi, un modo per comunicare agli altri quanto si è affezionati e appassionati al gioco. Nulla di così diverso da quanto avviene nella vita reale col vestiario, a ben vedere.

Eventi ed engagement: l’importanza della temporaneità

Non ho parlato di “status” a caso: quando si parla di Fortnite – ma lo stesso potrebbe valere per molti altri giochi che adottano sistemi di business simili – non si può, infatti, ignorare il funzionamento della sua community che, probabilmente, è una di quelle videoludiche con il maggior engagement degli utenti. Tramite i vari eventi e tornei, che si tengono periodicamente, Fortnite è riuscito a creare un humus di storie che si avvicina a essere una realtà alternativa, nonché un luogo di incontro virtuale per milioni di utenti (in gioco è possibile parlare tramite chat vocale). Gli eventi possono svilupparsi in diverse tipologie e tenersi in concomitanza di festività (halloween, natale, ecc…) oppure in prossimità della conclusione di ogni “Stagione”, periodi solitamente di 10 settimane caratterizzati da particolari feature disponibili temporaneamente, da un po’ di narrazione che giustifichi cambiamenti e scelte degli sviluppatori, e, soprattutto, dal proprio “Pass Battaglia”. Quest’ultimo è la modalità d’acquisto in gioco più economica e consente, al costo di 950 V-Bucks (circa 10 euro), di accedere a un ampio set di oggetti virtuali, da riscattare completando missioni entro la fine della stagione.

Esclusi gli eventi di fine stagione, decisamente più interessanti sono quelli disponibili per festeggiare determinate ricorrenze o celebrare la community. In questi casi, per lo più, si tratta di modalità di gioco alternative o di missioni speciali disponibili temporaneamente che, spesso, consento di sbloccare, gratuitamente, bonus estetici che certificano, agli occhi degli altri giocatori, la presenza di chi li riscatta a quel determinato evento. Decisamente più particolari sono, invece, i concerti. Da qualche mese, infatti, si tengono su Fortnite, in un’apposita modalità dove non è possibile danneggiare gli altri giocatori, dei veri e propri live, in cui sono stati ospitati alcuni dei più importanti artisti della musica internazionale: iconico fu il concerto di Travis Scott di questo aprile, durante il quale presentò un suo nuovo brano in anteprima e fece, suo malgrado, crashare i server di Twitch per i troppi spettatori connessi a seguire l’evento in streaming.  La temporaneità  è, quindi, un elemento chiave del successo di Fortnite e del così alto numero di acquisti in-app. Essa, infatti, non si applica solo agli eventi e alle stagioni ma anche a ogni oggetto messo in vendita nello store del gioco, contribuendo ad accrescere le vendite per due motivi. Innanzitutto, gli acquisti vengono freneticamente spinti dal timore di non poter più trovare disponibile per l’acquisto un dato oggetto o skin per mesi e mesi, incentivando l’acquisto istantaneo e non troppo ragionato. In secondo luogo, come abbiamo detto, Fortnite non è più, ormai, solo un gioco ma una community viva e dinamica e possedere elementi estetici, magari non più acquistabili da mesi o anni, aumenta il proprio prestigio in una logica di anzianità ed esperienza.

Il successo delle collaborazioni: il caso Disney

Considerando tutto il pubblico che abbiamo visto essere attivo su Fortnite, non stupisce che il gioco sia diventato anche veicolo di pubblicità. Non si parla, però, di mero advertising ma di una dinamica più particolare e integrata oltreché, in un certo senso, subdola che potremmo definire come “in-game marketing”. Epic Games ha, infatti, creato un sistema di collaborazioni grazie al quale consente ad altri brand di poter creare  delle proprie skin o oggetti targati da vendere in Fortnite. Come è facile immaginare, queste collaborazioni hanno dei costi enormi per le aziende (non sono pubblici) ma hanno consentito a compagnie come Warner Bros., Nike, NFL e Netflix di avere migliaia di giocatori, fieri dei loro acquisti, tramutati in “uomini-panino” giocanti per la mappa di Fortnite. Una forma di pubblicità ad alta interattività che difficilmente può trovare pari in altri media.

Il caso di collaborazione più eclatante è stato quello con Disney che, in più occasioni, ha portato diversi suoi franchise – Marvel e Star Wars sopra tutti – nel gioco e non solo come elementi acquistabili. La stagione che si è conclusa appena qualche settimana fa è stata, infatti, monopolizzata dagli eroi Marvel : intere zone della mappa sono state dedicate all’universo fumettistico, così come tutte le ricompense sbloccabili nel già citato Pass Battaglia. Come se non bastasse, durante quel periodo di tempo, qualsiasi acquisto effettuato su Fortnite dava accesso a due mesi gratis di Disney+, la piattaforma di streaming del colosso californiano. Il risultato? Non ci è dato sapere quanto le abbia giovato di preciso, tuttavia la risposta entusiastica di Disney pare essere esplicativa da sé: la compagnia ha dichiarato di voler continuare a collaborare con Epic Games e, attualmente, sta pubblicizzando nel gioco la nuova stagione di “The Mandalorian”.

eSport e tornei

Come ogni videogioco competitivo che si rispetti, anche Fortnite ha sviluppato, negli anni, una sua fitta rete di tornei e di giocatori professionisti che si guadagnano da vivere giocando e streammando le loro partite in live su Twitch o altre piattaforme. Basta pensare che il totale delle ore guardate in streaming supera il miliardo per capire come Fortnite possa essere un business non solo per Epic Games, e per i brand che ci collaborano, ma anche per i giocatori più capaci.  A tal proposito, Forbes ha stilato una classifica dei 10 streamer più pagati, tra sponsor e sistemi di earning delle stesse piattaforme, del 2020: l’ultimo posto è occupato da Nickmercs che incassa “solamente” 6 milioni di dollari all’anno, mentre in testa troviamo il celebre Ninja coi suoi  17 milioni annui. Cifre che, logicamente, non tengono conto di eventuali vincite a tornei o ad altri eventi. Alla luce di ciò, è facile capire come Fortnite – e altri eSport – stia diventando non solo un passatempo ma anche l’oggetto delle ambizioni professionali di molti utenti. E questa tendenza viene incentivata da Epic Games che, utilizzando la stessa metodica degli eventi, organizza periodicamente tornei online ad accesso libero in cui è possibile vincere premi nell’ordine dei milioni di dollari.

Tutto ciò durerà?

In definitiva, Fortnite è un fenomeno che basa gran parte del suo successo su strategie di marketing non complesse né intricate. Tuttavia, queste sono riuscite a dare valore persino ad elementi che, di per sé, non aggiungono nulla alla ludicità del gioco. Epic Games ha, così, costruito un impero cross-mediale partendo dalla creazione di una community solida e attenta al proprio status nel gioco e, a oggi, afferma di avere contenuti per almeno una decina di anni. Resta da chiedersi quanto tutto ciò possa durare, è possibile che Fortnite possa sopravvivere a lungo senza mai innovarsi troppo?  Ciò che è sicuro è che in questi 3 anni il gioco non ha dato segni di rallentamento e che la fiducia degli sponsor dei tornei e dei brand collaboratori pare essere ancora altissima.

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#NoStreamDay: anche gli streamer meritano tutela

Come è tristemente noto, perdere il lavoro è, specialmente in questo periodo storico, una delle esperienze più destabilizzanti e deprimenti che si possano sperimentare nella propria vita personale. Fortunatamente, nel nostro Paese, esistono (forse fin troppe) tutele a garanzia che ciò avvenga il meno possibile. Tuttavia, diverse nuove categorie di lavoratori del web, nonostante paghino le tasse in Italia e siano, spesso, sotto contratto, vengono pressoché completamente ignorate da queste tutele. Particolarmente precaria è la situazione degli streamer di Twitch: dipendenti da un regolamento il cui contenuto non è pubblico (sono consultabili solamente alcune “linee guida”), spesso si ritrovano allontanati dalla piattaforma per motivi futili e in maniera decisamente poco trasparente. Alla luce di ciò, diversi tra i creator italiani più seguiti hanno deciso di collaborare per provare a migliorare la loro situazione lavorativa. Nasce così il “NoStreamDay”, il primo vero e proprio sciopero degli streamer che si terrà il 9 dicembre.

La scintilla

Ma qual è stata la proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso? L’iniziativa nasce a seguito del ban di Sdrumox, pseudonimo di Daniele Simonetti, che, dopo essere stato solamente “sospeso a tempo indeterminato” a maggio, si è visto cacciato definitivamente dalla piattaforma qualche settimana fa. Il ban, per chi non conoscesse il linguaggio web, è l’equivalente del licenziamento nel “mondo reale”. Più nello specifico, essere bannati da Twitch comporta non solo la cancellazione del proprio canale ma anche l’impossibilità di crearne uno nuovo (cosa invece possibile su YouTube) e il divieto di essere “pubblicizzati” in qualsiasi modo da altri streamer. La pena si inasprisce se il soggetto del ban è un partner di Twitch: durante quelli temporanei non è possibile utilizzare altre piattaforme concorrenti, pena l’allontanamento definitivo. È, quindi, intuitivo come una sospensione di sei mesi possa essere inabilitante per un professionista, soprattutto se poi si tramuta in allontanamento conclusivo senza alcuna apparente ragione.

L’iniziativa

Storie come quella di Daniele sono, in realtà, all’ordine del giorno sul sito viola e gli organizzatori del NoStreamDay sperano che l’iniziativa possa essere un primo passo verso una maggiore tutela del loro lavoro. L’invito allo sciopero è esteso a chiunque utilizzi la piattaforma come streamer e, soprattutto, a tutti gli spettatori. Il 9 dicembre, infatti, coloro che decideranno di aderire non dovranno accedere al sito viola per tutta la giornata. Unica eccezione saranno le ore 16.00, orario in cui gli streamer partecipanti al NoStreamDay trasmetteranno 5 minuti di live dove verrà letto il manifesto dell’iniziativa. Il giorno precedente, invece,v errà organizzata una trasmissione collettiva con tutti i supporter e verrà fatto partire l’hashtag #nostreamday su Twitter, con lo scopo di dare maggiore visibilità alla protesta.

Il manifesto

Il manifesto in questione non contesta la durezza del sistema dei ban in sè ma l’aleatorietà con cui viene attuato, oltreché la già citata poca chiarezza e trasparenza del regolamento stesso. In effetti, è facile notare diverse disparità di trattamento e insensatezze nella moderazione di Twitch. Basti pensare ad alcune streamer che sono state sospese per aver indossato vestiti “troppo scollati” nonostante nella piattaforma prolifichino contenuti soft-pornografici di ogni tipo; oppure a gag fisiche innocue punite per “autolesionismo” mentre, giusto qualche giorno fa, la trasmissione di uno streamer russo, in cui veniva costantemente inquadrato il cadavere della sua compagna appena deceduta, non è stata nemmeno interrotta. Per non parlare di tutte le problematiche e i fraintendimenti che possono nascere attorno alle trasmissioni di stampo comico-satirico, che spesso si trovano a doversi auto-censurare nel timore di andare a toccare argomenti non graditi. Tabù che, come è immaginabile, non sono comunicati chiaramente nemmeno a chi con Twitch ha un contratto. In definitiva, gli streamer e le streamer chiedono di poter avere, quantomeno, un dialogo con Amazon, che ricordiamo essere proprietaria di Twitch, e di avere qualcosa di più che opache linee guida su cui decidere cosa fare e cosa no nello proprie trasmissioni.

Quale futuro?

In definitiva, gli streamer e le streamer chiedono di poter avere, quantomeno, un dialogo con Amazon, che ricordiamo essere proprietaria di Twith, e di avere qualcosa di più che opache linee guida su cui decidere cosa fare e cosa no nello proprie trasmissioni. Nonostante il NoStreamDay riguardi, quindi, solamente Twitch, l’iniziativa pone diversi interrogativi e problematiche che, probabilmente, diventeranno sempre più centrali nel futuro prossimo del mondo del lavoro. Non solo il sito viola, ma anche tutti gli altri social media come Facebook, YouTube e Twitter possono interrompere il rapporto lavorativo con qualsiasi creatore di contenuti da un giorno all’altro e senza alcun preavviso. In un mondo in cui sempre più persone si troveranno, in un modo o nell’altro, a lavorare attraverso società web semi-monopoliste, è concepibile che questo modus operandi continui senza alcuna tutela? Vale più il regolamento di una piattaforma privata o la legge dello Stato? Domande come questa meriterebbero più attenzione nel dibattito politico. Non resta che augurarsi che il NoStreamDay abbia abbastanza eco mediatico da, magari, iniziare a smuovere l’opinione pubblica.

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TWITCH: da videogiochi a “televisione del futuro” il passo è breve

Quando si pensa alla visione ad accesso libero di video in streaming il pensiero, inevitabilmente, viene subito indirizzato verso YouTube. Tuttavia, in quest’ultimo periodo, un’altra piattaforma, radicalmente diversa, sta riuscendo ad imprimersi nella cultura popolare come nuovo dominus dei video online: stiamo parlando di Twitch. Il social media di proprietà di Amazon è, infatti, leader dei live-streaming con ben il 72% delle ore totali trasmesse globalmente online e con una crescita di utenza – e di broadcaster – che non accenna a fermarsi. Ma qual è stata la “formula magica” dietro al successo del sito viola? Per capirlo occorre prima indagarne le origini.

Dalle origini a oggi: un successo predestinato?

Twitch nasce nel 2011 come succursale dedicata esclusivamente a videogiochi ed eSport della piattaforma di streaming generico Justin.tv. Da semi-monopolista del settore, Twitch divenne nel 2013 il sito dedicato alle trasmissioni eSport più popolare e, dopo essere stata acquistata da Amazon nel 2014, arrivò, già nel 2018, ad avere in media un milione di utenti attivi all’ora: ben più di alcune emittenti statunitensi come la CNN e la ESPN. Nonostante, quindi, Twitch abbia già da diversi anni dimostrato il suo enorme potenziale, il vero grande balzo di popolarità (soprattutto fuori dagli Stati Uniti) è arrivato solamente quest’anno.

È innegabile, infatti, che il lockdown abbia giovato a Twitch data la natura estemporanea dei contenuti offerti dal sito. Non a caso il maggior numero di persone disposte a guardare – e a trasmettere – video in diretta si è riflesso nella crescita esponenziale di ogni statistica con cui è misurabile il successo della piattaforma. Dal 2019 al 2020, gli spettatori medi connessi sono raddoppiati superando la soglia dei due milioni. Ad oggi, si parla di un totale di 1.6 miliardi di ore visionate al mese, con una media di 95 a utente: uno scenario quantomeno insolito rispetto al web “mordi-e-fuggi” a cui siamo stati abituati negli ultimi anni.

Anche in Italia, sembrerebbe che Twitch abbia ormai messo radici. Pur non avendo a disposizione dati precisi e aggiornati sul nostro paese, è possibile capire la crescente popolarità che la piattaforma sta avendo in terra nostrana considerando le analytics pubbliche di alcuni streamer.

Lo scenario italiano

Nel 2019 erano 23, oggi sono più di 64 gli streamer italiani che hanno superato i 100.000 follower, con il record di 1.172.244 attualmente detenuto da Pow3rtv, videogiocatore professionista. Interessante notare come in questa classifica più della metà dei broadcaster rientri nella categoria “Just Chatting”, la vera rivelazione di quest’anno. In quest’ultima, infatti, rientrano tutti quei contenuti che, prendendo in prestito un termine dal linguaggio televisivo, potremmo chiamare “talk show” e che, di conseguenza, si allontanano prepotentemente dalla natura videoludica per cui era nata in origine Twitch. La piattaforma si sta, quindi, avvicinando sempre di più a un pubblico generalista, attraendo così maggiori guadagni, creatori di contenuti ed investitori pubblicitari.

Per inquadrare meglio il fenomeno del Just Chatting in Italia consiglio di dare un’occhiata al canale Youtube dove vengono ricaricate le repliche del Cerbero Podcast, attualmente al primo posto della categoria in Italia e 48° nel mondo. Quest’ultima è una trasmissione condotta da tre youtuber (Simone Santoro, Davide Marra e Mr.Flame) che, tra toni irriverenti e situazioni surreali, tratta gli argomenti più disparati e svolge interviste a personaggi del web. Tuttavia, più che il contenuto in sé, è importante capire che, come successo con il Cerbero, gran parte dei programmi più seguiti (tra quelli non legati al mondo gaming) sono portati avanti da personaggi che sono nati e hanno raggiunto la popolarità su YouTube per poi, in un secondo momento, migrare su Twitch. Ma perché rinunciare ad audience già consolidate e, spesso, anche a sei cifre? Beh, come ci ha confessato Ruggero Rollini, divulgatore e comunicatore scientifico, durante un incontro di iBicocca… perché Bezos paga. E paga bene, molto più di Google.

Perché Twitch?

Rispetto a YouTube, che basa la monetizzazione dei suoi creator solamente sulle pubblicità, il sistema che ha creato Amazon per assicurarsi i migliori contenuti è decisamente più remunerativo. Oltre ai classici adv e alle donazioni una tantum, Twitch consente di basare il proprio business su abbonamenti che consentono agli utenti, a fronte di un pagamento mensile, di ottenere benefit di varia natura sul canale a cui ci si è iscritti. Sistema, questo, semplificato dal fatto che è possibile avere un abbonamento gratuito al mese collegando il proprio account Amazon Prime, senza nulla togliere a cui ci si sottoscrive. Questi bonus possono andare dalla possibilità di rivedere le live in differita a meri elementi estetici per la chat, come icone o emoticon. La chat, in effetti, è uno dei punti focali che rende Twitch unico: consentendo l’interazione immediata tra utenti e creator, rende gli show visti in diretta unici e più “vicini” al pubblico, consentendo un maggiore engagement e una più facile fidelizzazione degli spettatori. Il risultato? Un fatturato di 1 miliardo e mezzo di dollari nel solo 2019, di cui 300 milioni provenienti da sponsorizzazioni.

Come se non bastasse, Amazon non si accontenta e ha piani che vanno ben oltre al peer-to-peer streaming per la sua Twitch. La compagnia di Bezos ha già, difatti, acquistato i diritti di  trasmissione della Champions League per tutto il triennio 2021-2024, con l’esclusiva per alcune partite, ed intende promuovere la produzione di format d’intrattenimento di alto livello come game show, reality ed iniziative musicali. È dunque questo il futuro dello streaming e della televisione? Forse è troppo presto per dirlo ma le fondamenta paiono essere state messe e la volontà di far crescere ancora di più la piattaforma è ben presente in quel di Amazon. Non resta che aspettare, magari gustandosi qualche Just Chatting o gameplay live nel frattempo.