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Marketing & Social Media

Clubhouse potrebbe cambiare la nostra società? Tutto quello che avreste voluto sapere sul social audio del momento

È il social del momento, funziona solo via audio ed è estremamente esclusivo, dato che ci si può accedere solo per invito. Di cosa stiamo parlando? Di Clubhouse, ovviamente.

Fondato a marzo 2020 dalla startup Alpha Exploration, Clubhouse è guidato dall’imprenditore Paul Davison e dall’ex ingegnere di Google Rohan Seth: il lancio effettivo è stato tra aprile e maggio 2020, solo negli Stati Uniti.

Nonostante i soli 1500 utenti iniziali, la valutazione di Clubhouse si è aggirata da subito attorno i 100 milioni di dollari, ottenendo un investimento di 12 milioni di dollari da parte di Andreessen Horowitz, una delle maggiori società di venture capital.

In appena 10 mesi sono stati raggiunti i 5 milioni di iscritti e nelle ultime settimane è stata registrata una crescita esponenziale, che ha portato i followers a 6 milioni. A tutto questo si affianca il recente finanziamento di 100 milioni di dollari erogato sempre da Andreessen Horowitz, il supporto di oltre 180 nuovi investitori e una valutazione quantitativa/monetaria pari al miliardo di dollari.

Perché ClubHouse piace così tanto?

Ma qual è il segreto del suo successo? I motivi sono tanti. Innanzitutto l’elemento su cui si fonda, l’uso della voce, è allineato al trend registrato in questi ultimi anni, soprattutto nel periodo della pandemia, cioè la crescita, riprendendo le parole di Gaia Passamonti, di tutto ciò che ha come elemento centrale l’audio: “il fenomeno dei podcast, l’uso degli smart speakers e dei comandi vocali”.

Altri elementi chiave, afferma sempre Gaia Passamonti, riguardano l’autenticità e la spontaneità che ancora risultano presenti sul social e la possibilità di potersi trovare nella stessa stanza con personaggi di rilievo, come Elon Musk, e poterci parlare come se fossero persone qualunque.

Proprio su quest’ultimo aspetto si basa un altro elemento di successo: la strategia in fase di lancio negli Stati Uniti. L’applicazione, infatti, era riservata a poche celebrità (come Drake, Kevin Hart, Oprah Winfrey) e attraverso la meccanica degli inviti, nel corso del tempo, il social network è stato circondato da un’aura di esclusività, alimentando e accrescendo l’interesse verso un prodotto sperimentato da pochi. Interessante e determinante il fatto che questa meccanica degli inviti non sia mai stata abbandonata, riuscendo, a livello di marketing, ad aumentare l’engagement e i nuovi iscritti.

Come funziona?

La registrazione avviene tramite l’invito di chi è già presente su Clubhouse e solo attraverso il numero di cellulare. Una volta ricevuto, occorre abilitare l’accesso alla propria rubrica, inserire nome, cognome, immagine del profilo e selezionare gli argomenti e le persone di interesse, così da permettere all’algoritmo della piattaforma di generare una homepage personalizzata.

Nella parte superiore della schermata principale ci sono una serie di icone, più la sezione legata al proprio profilo. Due di queste consentono di ricercare/esplorare all’interno della piattaforma e visualizzare le notifiche. Le altre due, invece, permettono di visualizzare la propria rubrica, gli inviti posseduti e gli eventi sul calendario: tutti quelli imminenti, quelli solo per noi (in base alle aree di interesse selezionate) oppure i propri eventi.

Per quanto riguarda il profilo, al suo interno è presente la biografia che lo descrive (rappresenta l’unica sezione testuale), il numero di persone che si segue e che ci seguono, il collegamento al proprio profilo Twitter e Instagram, la data in cui si è entrati su Clubhouse e la persona che ci ha invitati.

Considerando invece la parte centrale della schermata principale, è qui che vengono visualizzate in maniera verticale le “room”, stanze virtuali create da amministratori/moderatori e all’interno delle quali avviene l’interazione vocale in tempo reale; inoltre, grazie al sistema di calendarizzazione e di indicizzazione, l’utente viene facilitato nella ricerca delle room.

Possono essere di tre tipi (open, social, closed), in base al livello di accesso, e sono costituite da 3 figure di utenti: moderatori, speaker e ascoltatori.

I primi, oltre ad essere i creatori delle room, gestiscono la conversazione, possono invitare gli speaker, conferire o togliere la parola ed espellere dalla stanza altri utenti. I secondi, gli speaker, sono gli utenti che dalla “platea” hanno “alzato la mano” (attraverso l’apposito pulsante), sono stati accolti sul “palco” dai moderatori e, come suggerisce il nome, stanno parlando. Infine, gli ascoltatori sono tutti coloro che partecipano in maniera passiva, limitandosi ad ascoltare con il microfono in muto.

All’interno delle room, oltre al tasto per alzare la mano e chiedere di parlare, sono presenti altri due pulsanti, il simbolo “+” e “leave quietly”. Attraverso il primo è possibile invitare i propri followers nella stanza in cui ci si trova oppure condividere il link della stessa. Il secondo, invece, permette di abbandonare la stanza.

Le teorie sociologiche che spiegano l’evoluzione dei social

Per arrivare a capire come Clubhouse stia riuscendo a farsi strada in questa “alluvione comunicazionale”, diventa necessario ripercorrere le tappe che illustrano i cambi di potere nell’informazione e che spiegano le dinamiche sull’insediamento dei social e il conseguente mutamento sociale del mondo contemporaneo.

L’analisi in oggetto ha inizio con la crisi della modernità caratterizzata dal passaggio da un capitalismo marxista ad un capitalismo industriale fordista e prefordista improntato alla produzione di denaro per mezzo delle merci, un cambiamento che ha stravolto tutti gli ambiti legati alla sfera pubblica e privata dell’individuo.

Le cause sono da imputare ai mezzi di comunicazione che, come ha affermato Harold Innis, storico dell’economia canadese e sociologo della comunicazione, vanno a “determinare il nascere, l’affermarsi e il declinare degli imperi, in quanto chiavi del processo economico e politico”; infatti, nel concreto, i mezzi di comunicazione definiscono le coordinate spazio-temporali della società ovvero quelle che fanno capo “alle forme di organizzazione, alla distribuzione del potere tra i gruppi (in particolare a livello socioculturale con la nascita di nuove classi sociali) e ai tipi di conoscenza accumulata dal popolo (grazie, per esempio, alle nuove tecnologie)”.

Puntando la lente di ingrandimento sui mezzi di comunicazione in esame (televisione, radio e rete internet), è possibile vedere il meccanismo che permette loro di avere “tutto questo potere”.

Questo meccanismo è strutturato in quattro stadi, come spiega il sociologo e studioso della comunicazione britannico Denis Mcquail, e porta il nome di “stadi della frammentazione del pubblico“: nel primo si vede come l’introduzione di nuovi mezzi per la diffusione di informazione, caratterizzati da un piccolo “ventaglio di canali comunicativi” (ne è un esempio la televisione), rappresentavano per il pubblico un’alternativa e un’aggiunta ai tradizionali mezzi di comunicazione. Ma essendo novità ancora ad un livello primitivo di “performance”, il pubblico al quale si rivolgevano era un pubblico indistinto (quindi non vi era la necessità di dare vita a più programmi a seconda dei gruppi di audience esistenti).

Il progresso permette l’entrata nel secondo stadio ovvero in quello del pluralismo, caratterizzato da una maggiore diversificazione interna nella cornice unitaria (i vertici della comunicazione, infatti, restano le public interest intermediaries). Si assiste, così, alla nascita di programmazioni day-time, di quelle notturne e di quelle regionali, in quanto più persone possono permettersi di toccare con mano le nuove tecnologie.

Si arriva al modello che rappresenta la nostra epoca ovvero quello denominato centro periferia. Esso è caratterizzato da un’offerta mediatica più ampia che porta con sé valori come “l’autonomia e l’indipendenza, l’etica della condivisione e della trasparenza, lo stile immediato, personale e posizionato, la dislocazione e l’allargamento dello spettro delle fonti e la bi-direzionalità”; conseguenza della presa di coscienza degli individui di avere una maggiore possibilità di diversificazione, nonché della volontà degli stessi, di non essere più un pubblico passivo ma prosumer.

Si attiva, così, una reazione tecnologica a catena definita “domestication” da Roger Silverstone: una maggiore scelta porta gli individui ad integrare le tecnologie nella vita di tutti i giorni ed ad adattarle alle proprie necessità.

Una “dieta mediatica“, quindi, dettata dal senso di appartenenza al proprio ambiente culturale e al proprio gruppo di interazione: ed è qui che entra in gioco l’abilità strategica di ogni impresa di diventare la guida mediatica di quei gruppi che sono vicini al brand in un modo quasi mistico. Riuscire a creare una relazione intima con loro (come fa per esempio la RedBull con gli eventi di sport estremo) darà all’impresa il materiale che le serve per migliorarsi e conquistare anche una fetta di mercato più ampia (applicazione delle logiche tribali). L’ambiente circostante viene inevitabilmente a modificarsi portando tutti gli individui ad un ulteriore adattamento.

Uno schema da non sottovalutare dato che si arriverà ad un punto in cui ciascun individuo si affiderà completamente alla tecnologia: nell’ultimo stadio, infatti, si assisterà ad una totale frammentazione del nucleo centrale (non ci sarà più un punto comune di partenza o di fruizione delle informazioni), con conseguente scelta dei canali mediatici senza l’uso di schemi prefissati e con esperienze molto sporadiche di ascolto condiviso.

Non essere al quarto stadio non devi farci dimenticare che siamo ormai entrati nell’era del capitalismo cognitivo-post fordista, ove la produzione di ricchezza non si fonda più esclusivamente su una produzione materiale ma anche su quella immateriale, ovvero su quella della conoscenza (e, in particolare, della conoscenza codificata).

Differenziazione social: dalle necessità dei primi anni 2000…

Definito il quadro teorico, è possibile entrare nel dettaglio delle tematiche social più di nostro interesse.

Gli anni 2000 sono caratterizzati da investimenti nell’ambito delle tecnologie della comunicazione, col fine di garantire lo sviluppo di piattaforme innovative incentrate non più solo sulla scrittura ma anche sulla diffusione e condivisione di immagini, video e audio, che hanno permesso ai fruitori di averne traccia sui propri sistemi digitalizzati (a differenza di quanto poteva accadere con la radio, la televisione o con il telefono stesso).

Un’importante novità è stata messa a punto nel 2011 in Italia, dove gli investimenti in campo tecnologico erano minimi, soprattutto se paragonati a quelli fatti da colossi come Cina e Stati Uniti.

Si sta parlando del social media creato da Sonia Topazio ovvero FreeRumble; esso permette la condivisione di file audio di qualsiasi formato e argomento, in tempi rapidi. Tutto questo, nel rispetto totale della privacy di ciascun utente: una volta compilato un form, il profilo dell’utente può rimanere nell’anonimato senza necessità di mostrare foto o dati sensibili.

Una svolta significativa nel contesto digitale, ma che purtroppo non è riuscita a riscuotere il successo mediatico sperato. Una spiegazione valida di questo “insuccesso” è possibile ritrovarla proprio grazie all’esame approfondito della storiografia dei social network: l’impatto di ciascuno di essi piuttosto che il loro utilizzo, dipende dal contesto socioculturale degli individui che ne fanno uso. E al tempo, la dimensione digitale era improntata su una condivisione volta a generare un’interazione e un confronto immediato e per questo necessitava dell’uso di messaggi o mail istantanei, piuttosto che di immagini o video personali e formativi per mostrare a tutti le proprie potenzialità o i propri sprazzi di vita quotidiana. Si dava così più valore alla vanità e all’apparenza, relegando i valori più profondi alla sfera privata (in quanto considerati una debolezza o una stranezza). Pochi anni prima, infatti, erano nati Facebook e Youtube, a cui ancora non ci si era abituati.

… alle necessità dei nostri giorni

Il progresso tecnologico accelera a velocità mai viste prima e, come già anticipato con la teoria di Mcquail, arriva a cambiare le nostre abitudini permettendoci di poter assistere ad alcuni momenti di vita quotidiana da remoto. Una possibilità che sembra calzare a pennello con l’arrivo della pandemia da Covid-19.

Eppure quel progresso tecnologico tanto stimato, sembra far crollare i sistemi valoriali cardine delle nuove tecnologie di comunicazione e portare con sé la necessità e il desiderio degli utenti di ritrovare quel senso di umanità e semplicità, ormai perduti.

Sulla base di quanto affermato poc’anzi, si vede come Clubhouse sia nato per essere una nuova e migliorata versione dei social moderni: prima di tutto perché porta al centro l’individuo (spogliato dei filtri e delle barriere sociali), mettendogli a disposizione la forma più spontanea e diffusa di comunicazione, ovvero la conversazione. E considerando l’epoca in esame, queste conversazioni devono tener conto del linguaggio e del contesto socioculturale (che, come affermava Duranti, sono facce della stessa medaglia) di ciascun individuo; da questo la possibilità di creare stanze sui più svariati argomenti e nell’idioma desiderato.

Per far sì che tale esperienza si avvicini ancora di più alla realtà, l’ordine di interazione è lasciato in mano ai soggetti interessati che così seguono le logiche e le strutture comunicative tipiche di una conversazione orale (escludendo, perciò, la possibilità di prenotarsi o di scrivere in una chat apposita).

Continuando nella logica di un rimando alle conversazioni dal vivo, ciascun soggetto è libero di scegliere l’argomento di discussione, tra quelli offerti, o di proporli come in una classica uscita tra amici, rispettando logiche temporali diverse a seconda della “situazione in esame”.

“Ciò che hai da dire” si fonda su saperi che fino ad ora erano stati appannaggio della conoscenza codificata: si parla, infatti, della conoscenza personale che, come affermato da Von Hayek, è un rimando al valore intrinseco di ogni persona, e della conoscenza sociale che è collegata al concetto marxiano di general intellect, cioè di quell’insieme di saperi e competenze frutto della condivisione tra persone.

La possibilità di non dover rincorrere l’argomento di tendenza e di non incappare nelle echo-chambers dei social media, permette all’utente di formarsi e/o poter approfondire qualsiasi tema in tempo reale (senza rimandi ad altri link) e di confrontarsi con esperti piuttosto che attingere da testimonianze dirette.

Viene dato spazio all’humor, alle comunicazioni emotive (nella forma dell’entusiasmo, dell’indignazione o della critica) e a quelle giocose, ma anche alle comunicazioni serie; uno spazio concesso a chiunque, in grado di livellare le disparità legate al potere visivo: non ci sono più maschere.

Ultimata la conversazione, non ne rimane più traccia ma solo un ricordo legato a quegli istanti, legato alla memoria di ciascuno di noi; senza possibilità di condividere quanto detto su tutta la rete, non è possibile sapere se e a chi arriveranno queste parole, si dà un valore diverso alla comunicazione, un valore più personale e libero dall’interferenza mediatica.

Dalla società all’individuo: la psicologia dietro al nuovo social

Se da un lato questo social può essere usato per conversare con le persone in “piazza” come ai vecchi tempi, una novità la aggiunge: si può arrivare a parlare direttamente con il VIP di turno, evento che non capita proprio tutti i giorni.

I social network hanno da sempre permesso di avvicinare l’individuo comune ai “grandi”; e se un tempo era una cosa straordinaria riuscire anche solo a salutare e ricevere un autografo dal proprio idolo limitandosi per il resto del tempo ad ammirarlo attraverso uno schermo televisivo, ad oggi non è strano ricevere una risposta sporadica ad un messaggio o ad un commento inviato a qualcuno “con tanti followers”. Ma Clubhouse è andato oltre, arrivando quasi ad annullare quella distanza e completando, così, quello che si può definire l’avvicinamento dei miti.

Il fatto di essere così meritocratico facilita questo processo dato che non conta quanto si è famosi, se si ha qualcosa di intelligente da dire si possono avere i due minuti di “gloria”, intervenire e tutti stanno ad ascoltare in modo democratico.

Questa cosa piace talmente tanto che una delle frasi maggiormente ripetute da chi lo sta sperimentando è proprio: “armati di tempo perchè ne occorre molto e può creare dipendenza”.

Creare dipendenza: lo sa fare bene

Il fatto curioso è che Clubhouse non ha metriche, a parte il numero di followers e i relativi seguiti (che non si vedono durante la prima interazione nella stanza con una persona ma è necessario cliccare sul profilo), non ci sono like, dislike, reazioni e quant’altro, le cosiddette vanity metrics accusate da sempre di essere la causa dei problemi di dipendenza legati ai social, qui non esistono… e allora, cosa crea dipendenza?

Si ipotizzano due ragioni: il bisogno di avere interazioni con altri esseri umani in questo periodo così delicato, ma soprattutto la FOMO.

FOMO è un acronimo che sta per “fear of missing out” ovvero la paura di perdersi qualcosa, teorizzata nel 2004 da Patrick J. McGinnis, un fenomeno sociale evidente ancora prima di Clubhouse, ma è con quest’ultimo che viene ancora più accentuata; può risultare faticoso uscire da determinate stanze nelle quali vengono trattati argomenti di interesse che quindi non si vogliono perdere, anche se queste dovessero durare per ore.

Inoltre, ad accentuare ulteriormente questo fenomeno è il fatto che ciò che viene detto su Clubhouse, rimane su Clubhouse, non essendo possibile registrare (è contro il regolamento) ed è per questo che la FOMO diventa saliente; le storie di Instagram sono visualizzabili per 24 ore, una foto su Facebook tendenzialmente rimane per sempre, ma ciò che non riesci ad ascoltare da una conversazione su Clubhouse, lo hai perso per sempre.

Passare il tempo in una stanza e cosa si “guadagna”

Sicuramente ci sono degli aspetti a cui fare attenzione come il fatto di trascorrere molto tempo sulla piattaforma, ma non mancano di certo i lati positivi: in primis molte persone sostengono di aver trovato dei gruppi in cui si discute di aspetti legati alla sfera affettivo-personale, dove persone si confrontano e confortano a vicenda su temi anche molto delicati.

Clubhouse può anche diventare un luogo dove passare del tempo in maniera piacevole con le persone, sentirsi meno soli ed evadere dalla quotidianità.

Non dovrebbe sorprendere questo fenomeno di supporto psicologico di gruppo che si sta verificando in molte stanze, il termine stesso “clubhouse” infatti non è stato inventato di recente: le clubhouse sono nate nell’America degli anni ‘50, luoghi creati in alternativa ai disumanizzanti manicomi, dove i malati si davano aiuto reciproco trascorrendo del tempo insieme.

Non solo intrattenimento: qui si studia

Aggiungendo il fatto di poter ascoltare esperti dei più svariati settori che spiegano argomenti interessanti, ecco che si ottiene pure il fine educativo della piattaforma che potrebbe realmente diventare una miniera di conoscenza per i più curiosi desiderosi di imparare qualcosa in una versione in diretta del podcast.

Le opportunità per usarlo bene sono parecchie, si può persino migliorare una lingua parlando con dei native, se lo si desidera. Non resta dunque che capire come evolverà in futuro, si continuerà ad utilizzarlo in maniera educata come molte persone stanno riferendo, o tenderà a “sporcarsi” velocemente come spesso succede?

Prospettive future: come potrebbe evolversi il modello di business ma non solo

Come si evolveranno i rapporti umani e il digitale in futuro? quello che è certo è che la “rivoluzione vocale” è stata lanciata e non si può più tornare indietro, sia che Clubhouse vada avanti sulle proprie gambe sia che venga acquisita da altri, dato che gli early adopters stanno apprezzando questo nuovo modo di comunicare, molto più personalizzato e meritocratico.

Di sicuro  le altre “Big” non si limiteranno a guardare, in primis Zuckerberg, il cui detto nel mondo digital “Mark o copia o compra” si conferma nuovamente: Facebook ha già annunciato l’idea di introdurre delle features audio.

Ora che la startup ha passato il primo round di finanziamenti, va definito come si potrà evolvere sul piano commerciale dato che per il momento non sta fatturando non essendoci un vero e proprio business model. Gli esperti come Marco Montemagno ipotizzano degli scenari futuri per monetizzare, tra cui introdurre stanze a pagamento come se ci fosse un ticket di partecipazione ad una conferenza oppure aggiungere pubblicità.

Non è tutto così semplice: rimangono delle questioni aperte

La prima è legata alle privacy policy: lo Stanford Internet Observatory ha scoperto che Clubhouse collabora con la startup cinese Agora cioè colei che fornisce la struttura back-end all’app stessa, nonché l’ente al quale giunge la trasmissione in chiaro di metadati rilevanti e che ha potenzialmente la possibilità di intercettare, prelevare e conservare anche frammenti di registrazioni. Tali registrazioni possono quindi arrivare al governo della Repubblica Popolare (che in questi giorni ha bloccato il social nel paese). Questo è possibile, come spiegato nel rapporto della Observatory, perché il codice ID univoco di ogni utente, oltre che quello delle varie room, viene regolamentato da una crittografia obsoleta che consentirebbe la facile intercettazione di tutto ciò che accade nelle stanze. L’unico modo per impedire ad Agora di avere accesso all’audio grezzo, consiste nell’utilizzo, da parte di Clubhouse, di un metodo di crittografia personalizzato (end to end): sebbene ciò sia possibile, richiederebbe al social network di distribuire le chiavi pubbliche a tutti gli utenti, cosa non immediata da implementare.

Ma non finisce qui: l’app richiede l’accesso alla rubrica per poter mandare gli inviti (mandarli non è obbligatorio, ma se li hai, è inevitabile che qualche amico te li chieda) e quindi può “vedere” tutti i contatti salvati, procedura che va contro il GDPR europeo; infatti, in merito a questi problemi si è mosso, in questi giorni, anche il Garante italiano della privacy al fine di far luce sulla questione. La startup americana, però, mette le mani avanti: “stiamo rinforzando le misure di sicurezza per impedire all’azienda cinese di prelevare dati, creando diversi blocchi nell’applicazione stessa”.

La seconda invece è che per il momento non c’è nessun reale controllo, se non quello arbitrario dei moderatori delle stanze, meccanismo che potrebbe diventare pericoloso: stanze create da estremisti di ogni genere in grado di generare degli hate speeches di stampo razzista o omofobo. Allo stesso tempo è più semplice che in altri social fingere di essere qualcuno che non si è semplicemente registrandosi con nome e foto altrui si può parlare e quindi esprimere idee che vengono collegate a quella persona non presente invece che a colui che ha “rubato l’identità”, quasi nessuno sarebbe in grado di riconoscere la voce, rendendo tutto molto credibile e rischioso per la “vittima”. Se a questo ci aggiungiamo il fatto che nonostante il regolamento vieti di registrare, ci siano persone che lo facciano comunque, fa ben capire quanto lavoro ci sia ancora da fare in materia di sicurezza.

Infine, la terza questione è legata al fatto che per il momento il social esiste solo per il sistema operativo iOS, anche se questo problema è destinato a risolversi a breve: i founder hanno già annunciato di essere al lavoro sulla versione per Android che verrà rilasciata quanto prima permettendo così ai “momentaneamente esclusi” di registrarsi (infatti la maggior parte dei dispositivi mobili, ha sistema Android).

Riflessioni

È ancora presto per giungere a conclusioni affrettate, Clubhouse è rivoluzionario, promettente e in certe questioni anche un po’ controverso, ma allo stesso tempo molto giovane: le possibilità di evolversi sono praticamente infinite.

L’unico modo per sapere di più è aspettare e vedere che succede, nel frattempo non resta che godersi lo spettacolo rimanendo con il dubbio: riuscirà a diventare il nuovo Facebook coinvolgendo “vocalmente” tutto il mondo?

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Marketing & Social Media

TikTok e la nuova pop-culture

Se c’è una cosa che abbiamo sicuramente appreso da questo funesto 2020 è proprio che i social sono ormai arrivati a dettare, nel bene o nel male, le regole e i tempi della nostra vita. Il lockdown obbligato della scorsa primavera ha infatti esplicitato una verità finora rimasta in sordina: siamo tutti diventati, direttamente o indirettamente, schiavi della rete.

Nel periodo di quarantena, a cui tutta l’Italia ha dovuto sottostare per contrastare l’avanzamento della pandemia, i social sono stati sicuramente un mezzo efficace per vincere la solitudine. Instagram, Facebook e Whatsapp ci hanno infatti permesso di mantenere i rapporti sociali e rimanere aggiornati su cosa stesse accadendo fuori dal microcosmo di casa nostra. Ma nell’elenco delle app che non possono mancare sul cellulare fa capolino un’altra icona che ha ormai conquistato il posto fisso nella nostra schermata home ed è destinata a rimanerci ancora per molto: sto parlando di TikTok.

Secondo i dati statistici, è TikTok l’applicazione più scaricata del 2020. Ma perché un’altra app? Facebook e Instagram non ci bastavano?

TikTok, questo sconosciuto

Lanciato in Cina nel 2016 inizialmente sotto il nome di musical.ly, TikTok è la nuova piattaforma social che nello scorso anno ha letteralmente subito l’invasione da parte di milioni di giovani. Ne abbiamo sentito parlare ininterrottamente per molti mesi, ma di cosa si tratta veramente?

Il social è nato come piattaforma destinata ad un pubblico di adolescenti ma l’età media degli utenti, ad oggi, si aggira tra i 18 e i 24 anni. Il social network cinese ha registrato un vero e proprio boom di nuovi iscritti nel 2020, complici la noia e la necessità di novità scaturite dal lockdown, ed è arrivato a toccare i 63,3 milioni di download solo nel mese di agosto. Il suo cavallo di battaglia è sicuramente la completa rivoluzione del concetto di “contenuto”: sulla piattaforma infatti si trovano solo dei mini-video dalla durata massima di 15-30 secondi, non ci sono foto e non c’è uno spazio dedicato al pubblico confronto (manca, per così dire, un analogo dei post su Twitter o Facebook). L’unica possibilità concessa agli utenti per scambiarsi opinioni è utilizzare lo spazio dedicato ai commenti presente sotto ogni video. Questa opzione però risulta estremamente limitante se si considera che esiste un massimo di battute relativo ad ogni commento. Molto spesso infatti si scatenano vere e proprie discussioni causate principalmente da incomprensioni o fraintendimenti dovute proprio a commenti precedenti. Talvolta, la giungla che si scatena sotto ad ogni video degenera in veri e propri dissing, “litigi a distanza” pieni di astio e uscite teatraleggianti, che possono trascinarsi per giorni.

Sebbene queste novità possano sembrare a primo impatto disorientanti (anche per un qualsiasi utente della genZ), ci si accorge ben presto che non siamo lasciati soli nell’esplorazione di questo nuovo mondo: l’algoritmo di TikTok infatti ci accompagna assiduamente in ogni nostra ricerca.

La presenza costante di un tracciamento che incrocia i nostri interessi con i contenuti virali è incredibile ed inquietante allo stesso tempo. Nonostante siamo tutti consapevoli di essere ogni giorno direttamente o indirettamente controllati (basti pensare ai cookie di Google), la personalizzazione attuata da TikTok è incredibilmente tangibile. L’algoritmo infatti governa i contenuti che ci vengono mostrati sulla base di interessi specifici, like, trend ed interazioni. In questo modo, la “home” (per i più esperti, il feed) di due utenti, anche coetanei e con interessi simili, può risultare completamente differente a seconda dei parametri valutati dall’applicazione.

Dimmi com’è il tuo feed e ti dirò chi sei

La struttura dell’applicazione in realtà è semplice ed immediata. Sulla piattaforma infatti esistono solamente due sezioni principali: i “seguiti” ed i “per te”. Se da un lato nei seguiti troviamo solo video di utenti selezionati da noi, nei “per te” troviamo i video fatti su misura per noi. Vi compaiono infatti i trend del momento, i contenuti virali o appositamente consigliati dall’algoritmo di tiktok.

Può accedere quindi che per un periodo la tua schermata sia occupata costantemente da video di Timothee Chalamet, gattini e ricette vegane, per poi passare irragionevolmente a popolarsi di comedy, vlog e “what I eat in a day”: dipende tutto da te e dall’algoritmo.

É necessario puntualizzare che comunque TikTok si è dimostrato essere un grande bacino di creatività, nel senso più democratico del termine. Ogni utente della piattaforma è infatti un potenziale “content creator”e ha le piene possibilità di generare un trend o di far diventare virale un proprio video (registrato amatorialmente col proprio cellulare) , raggiungendo centinaia di migliaia di visualizzazioni in poche ore…se l’algoritmo sarà clemente. L’unica autorità a cui l’utente deve sottostare infatti rimane l’algoritmo: niente su TikTok è affidato al caso.

L’interrogativo a questo punto rimane solo uno: siamo noi a decidere cosa guardare o è l’algoritmo che decide cosa farci piacere?

Non solo balletti

Siamo ormai nel 2021 e TikTok è sicuramente diventata una di quelle applicazioni mainstream fondamentali che tutti conosciamo, nel bene o nel male. Il nuovo social è rivoluzionario proprio nella sua istantaneità: tra migliaia di mini video di 15 secondi si nasconde un mondo pieno di risorse e creatività, che è riuscito ad inglobare anche la cultura.

Si potrebbe dire che l’audience si divide tra chi lo giudica “aberrante ed infantile” e chi invece ritiene che sia una “grande risorsa”. Di rado infatti si incorre nella cosiddetta “macchia grigia” degli indecisi: Tiktok o lo odi o lo ami, raramente esistono vie di mezzo. Se lo scarichi, finisci inevitabilmente con l’esserne un avido consumatore. Troppo spesso infatti si finisce con lo spendere inconsapevolmente intere ore scrollando da un video ad un altro e ascoltando sempre le solite canzoni in tendenza: senza accorgertene, quei ripetitivi jingle diventano così anche il sottofondo delle nostre esperienze giornaliere.

I più scettici si rifiutano di scaricarlo perché ritengono che sia un’applicazione estremamente superficiale. La piattaforma infatti è diventata famosa proprio per la possibilità di abbinare musica (o altri contenuti audio) a brevi video di ogni tipo. Se però i trend iniziali consistevano principalmente nel realizzare semplici coreografie su una base musicale, adesso possiamo affermare che questi confini sono stati ampiamente superati. Il Tiktok di oggi non è più il mondo dei “balletti” dell’esordio. Sulla piattaforma possiamo trovare una grande varietà di contenuti a scopo ludico o didascalico, dall’attivismo a tematiche lgbtqia+, alla politica fino alla cultura. Nel giugno scorso per esempio, la piattaforma è stata letteralmente invasa da video/testimonianze del movimento BLM (Black Lives Matter), esponendo pubblicamente i fenomeni di violenza messi in atto dalla polizia contro gli afroamericani e mostrando così la rivoluzione che finalmente stata avvenendo negli USA contro secoli di razzismo sistemico. Milioni di utenti hanno visto, ricondiviso e commentato i video delle proteste, contribuendo a diffondere i valori del movimento.

UffizziGalleries on Tiktok

In un mondo in costante accelerazione, dove la soglia dell’attenzione si riduce sempre di più e la comunicazione diventa immediata, è necessario adeguarsi alle regole del gioco.

La capacità del content creator sta proprio nel riuscire ad “evocare” i concetti più che nell’enunciarli, e sicuramente chi gestisce l’account Tiktok degli Uffizi (@Uffizigalleries), uno dei musei più famosi al mondo per le sue straordinarie collezioni di sculture antiche e di pitture (dal Medioevo all’età moderna), è riuscito nell’intento.

A causa dell’emergenza sanitaria causata dalla pandemia del coronavirus, i musei sono stati costretti a rimanere chiusi per mesi, rendendo così impossibile a milioni di persone di poter accedere ai luoghi dell’arte. Di fronte alla stasi totale però, gli Uffizi sono un grande esempio di propositività ed ingegno. Se è impossibile avere un contatto diretto col visitatore, occorre portare l’arte sui social, a casa del pubblico: e quale miglior vetrina sul mondo se non proprio TikTok?

La campagna social messa in atto dalla pagina ufficiale degli Uffizi è chiara: in questo periodo storico, è più che mai necessario diffondere e far conoscere le opere d’arte ad un pubblico più vasto possibile, cercando in particolare di catturare l’attenzione del target giovanile, così da trasformare followers in futuri visitatori.

“Questi video ideati e creati con il linguaggio al momento più convenzionale ai giovani, permettono all’arte di avvicinarsi alle nuove generazioni” afferma Ilde Forgione, social media manager degli Uffizi, in un’intervista su RepubblicaFirenze. Forgione racconta che il progetto è nato in accordo con il direttore Eike Schmidt che, sempre su Repubblica, spiega come secondo lui anche un museo possa fare umorismo: “serve ad avvicinare le opere a un pubblico diverso da quello cui si rivolge la critica ufficiale, ma anche a guardare le opere in modo diverso e scanzonato. In un momento difficile come questo, è importante, ogni tanto, concedersi un sorriso e un po’ di autoironia. E se è possibile farlo grazie alla grande arte, ancora meglio”.

Tra i video creati dall’account Uffizigalleries diventati virali su TikTok non si può non consigliare la visione di alcune clip, come il video sul ritratto di Petrarca , poeta proto-umanista consumato dall’amore per Laura, che ha raggiunto gli oltre 64mila likes grazie all’acuta scelta di un audio trend del periodo.  Tra gli altri video di successo, ricordiamo il TikTok fatto in occasione del GayPride, il video con protagonista La Primavera di Botticelli e quello che racconta il mito del satiro Marsia, scorticato vivo da Apollo.

Gli Uffizi si sono quindi dimostrati un grande esempio di innovazione ed apertura in un mondo troppo spesso recidivo al cambiamento.

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Ambiente, società e tecnologia

Come le produzioni Netflix possono realizzare trend inaspettati

Lo scorso 25 dicembre sulla piattaforma Netflix è uscita una nuova serie tv: si chiama “Bridgerton” e in pochissimi giorni è riuscita a conquistare oltre 63 milioni di spettatori in tutto il mondo.

Proprio in queste ore, Netflix ha annunciato attraverso i propri canali social che la serie è stata confermata per la seconda stagione.

L’aspetto più curioso di questo fenomeno però non riguarda solamente la straordinaria popolarità che ha raggiunto la serie, quanto più le conseguenze che si sono verificate in seguito alla sua diffusione.

Il successo di Bridgerton

Ambientata nella Londra del 1823, “Bridgerton” si differenzia molto da altre storie simili sull’alta società inglese.

L’aspetto principale che a primo impatto la contraddistingue è il fatto che i personaggi siano di etnie differenti, e che persone di colore ricoprano i ruoli più vari, compresi quelli di duchi, nobili e della stessa regina, aspetto alquanto insolito per il diciannovesimo secolo.

In questa serie vi è inoltre un’evidente cura dei dettagli, degli allestimenti scenografici, dei costumi e il tutto è accompagnato da un tocco moderno identificabile nella scelta delle musiche o di altri elementi introdotti nel corso della narrazione.

Per chi non ne fosse a conoscenza, questa nuova serie tv di successo ha preso ispirazione da una saga scritta dall’autrice statunitense Julia Quinn, che è rimasta altrettanto sorpresa dal buon risultato che ha raggiunto “Bridgerton”.

La curiosità nata tra gli spettatori e fan della storia è stata così grande che i libri della scrittrice, pubblicati per la prima volta ormai più di venti anni fa, sono letteralmente scomparsi da scaffali fisici e digitali, prima negli Stati Uniti e in questi giorni anche in Italia, cogliendo totalmente impreparate le case editrici che si sono trovate a dover ristampare rapidamente tutti i volumi in modo tale da poter soddisfare la domanda di mercato.

Dato che in queste settimane trovare i libri è diventata un’ardua impresa, i pochi volumi rimasti sono stati venduti online a prezzi esorbitanti, che negli Stati Uniti hanno addirittura superato i 700 dollari.

La stessa Julia Quinn, attraverso i propri canali social, ha chiaramente raccomandato di evitare di spendere cifre assurde per i suoi libri, e di attendere l’uscita delle copie ristampate in modo tale da poterle acquistare a prezzi ragionevoli!

In questi giorni, in Italia, sono già disponibili le nuove edizioni.

L’aspetto più curioso di questa situazione consiste nel fatto che i volumi hanno suscitato questo inaspettato boom esclusivamente in seguito alla creazione dell’omonima serie e naturalmente grazie alla sua diffusione attraverso Netflix.

La regina degli scacchi

Un fenomeno analogo è stato l’aumento delle vendite delle scacchiere in conseguenza al successo della miniserie Netflix più vista di sempre: “La regina degli scacchi”.

Gli spettatori, dopo solo quattro settimane dal suo lancio il 23 ottobre, sono diventati circa 62 milioni.

L’avvenimento interessante che ha aperto moltissimi dibattiti online è stato il rapido incremento delle vendite di oggetti ed accessori inerenti al mondo degli scacchi.

Secondo la società di ricerca NDP Group, in seguito alla diffusione de “La regina degli scacchi”, la vendita delle scacchiere è aumentata dell’87% negli Stati Uniti e la vendita dei libri dedicati alle strategie del gioco (che nel corso degli episodi vengono inquadrati spesso) addirittura del 603%!

(https://www.npd.com/wps/portal/npd/us/news/press-releases/2020/sales-spikes-for-chess-books-and-sets-follow-debut-of-queens-gambit/)

Sono inoltre aumentati anche gli accessi a portali di gioco online e l’utilizzo di applicazioni attraverso cui potersi esercitare e organizzare competizioni con altri giocatori.

Insomma, un successo del tutto inaspettato! Soprattutto considerando il fatto che in questi ultimi anni la vendita di scacchiere, accessori e libri dedicati al gioco era addirittura vittima di un costante declino.

La situazione si è bruscamente ribaltata nel momento in cui “La regina degli scacchi” è diventata una serie-tv popolare, esattamente come è accaduto per i volumi della saga di “Bridgerton”.

Entrambi i fenomeni si sono quindi verificati in seguito alla popolarità raggiunta da parte di due serie tv diffuse da Netflix.

Che questi trend siano il risultato di efficaci strategie messe in atto da Netflix è ovvio, il che dovrebbe farci riflettere sulle abilità di questa azienda in grado anche di condizionare gli interessi delle persone.

La cultura di successo di Netflix

Netflix è molto abile nelle attività di marketing che svolge, tanto da suscitare sempre moltissima curiosità nei confronti delle proprie produzioni.

Non ci si potrebbe aspettare di meno da una delle aziende più efficienti e innovative degli ultimi anni!

Nel libro “L’unica regola è che non ci sono regole” uscito lo scorso ottobre e dedicato a Netflix, sono state evidenziate le caratteristiche principali che distinguono l’azienda e che l’hanno portata a raggiungere numerosi traguardi nel corso degli anni.

Alcuni esempi sono: la mancanza quasi totale di regole che potrebbero ostacolare o diminuire l’efficienza e la motivazione dei dipendenti, una cultura basata su sincerità, trasparenza e moltissimi feedback costruttivi e naturalmente la presenza di un’alta densità di talento.

L’azienda cresce costantemente e riesce ogni volta a trovare strategie sempre più innovative per sorprendere i propri utenti.

Cos’altro avrà in serbo per noi?