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Ambiente, società e tecnologia

La shrinkflation e quel caro mezzo chilo di pasta

La guerra in Ucraina, l’aumento esorbitante dei costi di gas e luce e gli effetti della pandemia sono eventi che hanno indubbiamente impattato in modo determinante sulla vita di ognuno di noi.

Al giorno d’oggi, siamo costantemente bombardati da centinaia di informazioni diverse che ci investono in ogni ambito della nostra quotidianità. Dai social, alla tv, alle sale d’attesa, fino al bagno di casa, ogni nostra azione è sempre accompagnata da una voce narrante che, in sottofondo, ci ricorda che non siamo altro che un minuscolo granello in un Universo in continua trasformazione. Questa overdose informativa ha però un duplice effetto: se da un lato la conoscenza degli eventi ci rende più consapevoli di ciò che accade intorno a noi, dall’altro l’eccesso di news ha l’effetto collaterale di stordirci, nel mare di cambiamenti che sta investendo la popolazione mondiale.

In tutto questo caos infatti, rimaniamo spesso attoniti ed impotenti di fronte al drammatico evolversi degli eventi, assorbendo passivamente il cambiamento.

Se però l’aumento delle tasse, per esempio, rappresenta una manifestazione chiara (ed indigesta) che le cose stiano mutando, la shrinkflation è un processo sottile, al limite dell’impercettibile, che testimonia il continuo rimodellamento delle dinamiche economico-sociali che regolano la nostra vita su questo pianeta (e di cui spesso non ci rendiamo conto).

Per comprender di cosa si tratti questo complesso fenomeno, le cui implicazioni vanno ben oltre il semplice aumento del costo degli ingredienti di una degna carbonara, è opportuno innanzi tutto chiarire qualche concetto.

Cos’è la shrink-flation?

L’espressione è un neologismo che nasce dall’unione di due termini: “shrinkage”, ovvero contrazione, ed “inflation”, cioè inflazione (un rincaro di larga portata). La shrinkflation si configura come una tecnica di marketing molto fine che ha l’obiettivo di aumentare il margine di profitto sul prodotto attraverso un processo di riduzione delle dimensioni del bene di consumo.

Essa si basa essenzialmente sulla “sgrammatura” seriale dei prodotti, cioè la riduzione del contenuto delle confezioni. Questo espediente permette che il prodotto acquisisca una dimensione minore rispetto a quella canonicamente conosciuta dal compratore, mantenendo però lo stesso prezzo.

Questo processo di riadattamento di prezzi e volumi ha impattato in maniera determinante sui beni di largo consumo, sfruttando la familiarità del compratore al prodotto per indurlo a pagare un prezzo più alto senza che, nella maggior parte dei casi, se ne possa accorgere.

Un esempio eclatante di shrinkflation è quello del nuovo pacco di pasta da 400g che ha sostituito il classico e consolidato mezzo chilo ma che viene comunque venduto allo stesso prezzo. Il cliente (che potrei essere io, una studentessa fuori sede che al supermercato ha ben altro a cui pensare che non controllare la grammatura della pastasciutta), in linea generale, possiede una certa familiarità con il prodotto e, proprio in virtù di questa consolidata fedeltà, è tratto in inganno: convinto di acquistare un pacco da 500g, in realtà, si ritroverà nella mensola una confezione di soli 400g, finendo per pagare un prezzo maggiore senza rendersene effettivamente conto.

La strategia di ridurre la dimensione del prodotto pur mantenendo lo stesso prezzo a cui il consumatore è “affezionato”, permette infatti di abbattere notevolmente il rischio di perdita della clientela (rispetto a quanto potrebbe accadere alzando direttamente il prezzo sulla confezione), garantendo di massimizzare il guadagno a scapito del compratore.

Questo meccanismo, che pecca sicuramente di trasparenza, ha suscitato non poche polemiche e rivendicazioni. Attualmente infatti molte Associazioni dei consumatori ed alcune Procure della Repubblica hanno presentato denuncia all’Antitrust per verificare la legalità della pratica e tentare di regolamentarla.

Storia di un consumatore ingenuo

Pensare che gli eventi che accadono lontano da noi non possano ripercuotersi sulla nostra esistenza è frutto di una visione non solo miope ma anche estremamente fallace.

Al contrario degli effetti palesi ed evidenti dei profondi cambiamenti che hanno investito recentemente l’Occidente (e non solo), la shrinkflation è un processo che agisce tra le righe, esercitando una pressione economica (e psicologica) su ognuno di noi senza che, nella maggior parte dei casi, possiamo accorgercene in maniera totalmente consapevole.

Ogni cambiamento comincia con la presa di consapevolezza: solo comprendo che la realtà attorno a noi sta cambiando, infatti, possiamo opportunamente riadattare il nostro comportamento al continuo evolversi delle dinamiche che regolano la nostra quotidianità.

Tale presa di coscienza viene meno nel caso della shrinkflation: essa infatti si basa su un processo di reticenza più sottile e tagliente di quanto non possa sembrare, rendendoci vittime di un meccanismo subdolo e basato sulla nostra stessa ingenuità.

É possibile inoltre notare come questo fenomeno attinga parte dalle sua consistenza dal principio della rana bollita di Chomsky, secondo cui l’essere umano perde la capacità di reagire a situazioni spiacevoli, adattandosi gradualmente e passivamente ai sottili cambiamenti della realtà che lo circonda.

Esattamente come la rana, che viene bollita in una pentola d’acqua senza che possa rendersene conto aumentando gradualmente la temperatura, anche noi diventiamo inerti e passivi di fronte alle evoluzioni della nostra società, accettando le trasformazioni senza cognizione di causa.

In questo modo, la shrinkflation avviene costantemente e ripetutamente sotto il nostro naso, ma non siamo capaci di accorgercene.

Nella botte piccola c’è il vino buono (o forse no?)

Tra i potenziali vantaggi di questa metodica c’è anche l’ipotesi, secondo alcuni, che permetta di tamponare il dislivello presente tra l’eccesso della domanda rispetto alla contrazione dell’offerta.

L’Ucraina, per esempio, è una delle maggiori esportatrici di grano, mais e molti tipi di cereali. A seguito dell’atroce guerra a cui è stata condannata dall’invasione russa, però, la produzione di grano ha subito una contrazione sensibile rispetto alla domanda. Ciò ha comportato, tra i vari effetti, anche un aumento drastico dei prezzi del grano e dei panificati da esso derivati (come pane e pasta). Secondo alcune analisi, sembrerebbe che l’aumento del prezzo dei prodotti e la corrispondente riduzione del contenuto attraverso la sgrammatura possano cooperare per ristabilire un equilibrio tra domanda ed offerta, contribuendo anche a ridurre lo spreco alimentare.

Nonostante il principio possa essere giusto ed auspicabile però, in questo caso, è la modalità adottata ad essere in difetto.

La vendita e la compera dei prodotti, specialmente quando si tratta di beni primari, dovrebbe essere quanto più onesta e trasparente possibile, al contrario di quanto accade attraverso la pratica della shrinkflation, che si basa su un abile gioco al confine tra truffa e marketing ai danni del rispetto per il cliente.

Potrà essere anche è vero che nella botte piccola c’è il vino buono, ma a che prezzo?

Come sfuggire alla shrinkflation? (Spoiler: non è possibile)

Purtroppo, sembra che attualmente questo fenomeno stia dilagando a macchia d’olio, investendo diversi campi del settore produttivo.

Tra gli esempi più tangibili dell’applicazione di questa tecnica, oltre alla sgrammatura (cioè alla diminuzione) dei grammi delle confezioni di pasta, c’è la riduzione del numero di crackers nei pacchetti, che passano da 5 a 4 per sacchetto, accompagnata dalla diminuzione del peso delle mozzarelle (che passa da 125 a 100g per pezzo), fino alla riduzione del volume di molti prodotti liquidi, come dentifrici (da 100 a 75ml), gel o creme, spesso accompagnata da un remodelling del packaging, che consente di mantenere la stessa grandezza della confezione pur diminuendo lo spazio interno effettivamente dedicato al prodotto, impedendo al compratore di percepire la variazione.

Massimiliano Dona, avvocato ed attivista che si occupa principalmente di tematiche legate al consumo, ha recentemente presentato un’Audizione in senato in merito al DDL sulla concorrenza in cui ha parlato di shrinkflation. Dona, oltre a spiegare in maniera estremamente chiara molte dinamiche inerenti al mondo del consumo e alle tecniche di marketing ad esso associate, fornisce anche consigli pratici ed utili per renderci consumatori più informati e consapevoli.

Secondo Dona, una delle tecniche che possiamo attuare per tentare di sfuggire a questa spirale è quella di controllare il prezzo in euro al kg o al litro. Questa pratica però risulta il più delle volte molto laboriosa e spesso si è costretti a rinunciarvi.

L’educazione del consumatore quindi non è generalmente sufficiente a garantire un consumo equilibrato e consapevole. É perciò opportuno che i produttori si prendano le responsabilità comunicative delle loro vendite.

Alla luce di ciò, sarebbe quindi auspicabile prevedere degli obblighi informativi che garantiscano di rendere palese ed evidente la sgrammatura del prodotto rispetto alla dimensione standard, in modo tale che il compratore possa apprenderne la variazione e valutare così i suoi bisogni effettivi.

Sicuramente, in un mondo ormai saturo di stimoli e pressioni, onestà e trasparenza sono elementi imprescindibili, soprattutto quando si parla di beni di prima necessità.

Pur garantendo ovviamente la piena libertà del produttore nel variare e decidere le dimensioni dei beni venduti, è fondamentale preservare il rispetto verso il consumatore e la sua autonomia di giudizio in merito ad acquisti che devono necessariamente essere compiuti nel massimo della trasparenza.

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Entertainment, videogame e contenuti

Pink Power o Pink Washing? Capiamolo insieme – Intervista alla ricercatrice, docente e scrittrice Anna Zinola

Anna Zinola è attualmente docente e ricercatrice dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano presso cui ha anche conseguito un in Metodologia. Si occupa di ricerche di mercato dal 1993 ed ha sviluppato nuovi strumenti di ricerca per identificare e interpretare comportamenti, bisogni ed aspirazioni umane. È editorialista del Corriere della Sera e scrittrice di numerosi libri riguardanti ricerca qualitativa e marketing trend. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo il libro “Diverso da chi – l’inclusione come strumento di marketing”, in cui affronta il controverso rapporto tra (pretesa di) inclusività e brand: in un mondo sempre più impegnato ad investire risorse nella promozione di politiche legate alla diversità, il più delle volte in ottica strumentalizzante e parassitaria, è possibile riuscire a distinguere il fake dal real?

In un intervento da lei tenuto al Web Marketing Festival di Rimini, edizione 2021, Zinola spiega come l’inclusione sia una tematica complessa e trasversale alle varie fasi lavorative di un’azienda: dalla selezione del personale allo sviluppo del prodotto, passando per la pubblicità e le strategie di comunicazione, fino al rapporto con il cliente.

Spesso però, la pretesa dell’inclusione si rivela essere un pugno di mosche: dietro a grandi slogan, infografiche arcobaleno e pubblicità travolgenti si celano aziende prive di un reale progetto di integrazione delle categorie discriminate (o semplicemente ignorate dal mondo della produzione). L’inclusività finisce con l’essere ridotta ad una mera strategia di marketing che sfrutta tematiche di interesse pubblico per attirare i consumatori, spacciando per impegno sociale la necessità di ricevere consenso (e denaro).

La pratica del social washing (ovvero il camuffamento delle aziende dietro a determinati valori etici senza un’adesione concreta alle battaglie sponsorizzate) è un’arma a doppio taglio: se da un lato rende accessibili al vasto pubblico importanti tematiche, dall’altro contribuisce a banalizzare le stesse battaglie e a svuotarle del loro significato.

Durante lo speech, Zinola affronta nello specifico la dinamica del pink washing, quel “femminismo di facciata” tanto deleterio quanto disorientante, fatto di frasi motivazionali, sfumature di rosa e poca sostanza. Sono stati analizzati vari casi mediatici che hanno destato particolarmente scalpore in relazione alle linee ideologiche dei diversi brand: dalla scelta di Ellie Goldstein, ragazza con la sindrome di Down testimonial del mascara Obscur di Gucci, alla collezione “Adaptive” di Tommy Hilfiger pensata appositamente per le persone disabili fino al fondotinta ideato da Rihanna in collaborazione con Fenty Beauty, presente in ben 50 sfumature di diverso colore (o 50 sfumature di inclusione?). In questo modo, è stato possibile aprire un dialogo critico e costruttivo su come poter tracciare un confine tra l’effettivo impegno di un brand per una determinata causa e l’adesione disinteressata ed ipocrita al trend del momento al fine di aggiudicarsi il proprio spicchio di notorietà.

Andando oltre le pubblicità, che possono adescare facilmente il consumatore con spot simpatici, travolgenti e al passo con le esigenze sociali del periodo, esistono altri modi per capire se un’azienda sia attivamente coinvolta nel supporto di determinate cause sociali. Come sottolinea Zinola, per tentare di comprendere l’engagement di un brand relativamente all’empowerment femminile è utile ricercare la percentuale di organico femminile all’interno di un’azienda e i numeri delle donne che occupano ruoli apicali, verificare la presenza di eventuali certificazioni di gender equality e notare se il brand condivide pubblicamente obiettivi volti al raggiungimento della parità sostanziale.

Nonostante i buoni propositi delle singole aziende, la strada verso la parità di genere (come ben sappiamo) è ancora lunga. Le donne CEO in Italia sono appena il 6% ed il Gender Pay Gap, cioè la differenza di retribuzione tra uomini e donne a parità di formazione e ruolo occupazionale, è del 5,5% tra i laureati e raggiunge l’8% tra i non laureati.

Abbiamo avuto l’occasione di poter intervistare Anna Zinola al Web Marketing Festival di Rimini, per approfondire con lei il complesso rapporto tra brand ed politiche sociali ed avere un confronto diretto circa il concetto di “marketing inclusivo”.

 
I brand e gli influencer (che li rappresentano) prendono sempre più parte al dibattito pubblico anche grazie alle piattaforme social che semplificano il contatto con l’ascoltatore. Alla luce dei casi mediatici degli ultimi mesi, secondo lei pubblicità e brand possono e/o devono schierarsi in merito a tematiche sociali?

Esiste un movimento che va avanti da anni che si chiama Brand Activism, che tratta proprio di questo: si chiede ai brand di prendere esplicitamente posizione in merito a specifiche battaglie sociali. Quando Donald Trump vinse le elezioni, Nike fece la campagna “Equality has no boundaries” che venne trasmessa proprio quando Trump entrò alla Casa Bianca. Il fatto che poi Kamala Harris diversi anni dopo si congratuli con il neo presidente Biden mentre indossa una tuta col logo dello swoosh ben evidente trasmette un messaggio chiaro: Nike si è schierata. Mi aspetto che un Brand come Nike lo faccia, così come mi aspetterei che Armani, notoriamente omosessuale, si esponesse sul DDL Zan in un periodo di tale sovraesposizione della tematica. Ci troviamo di fronte un brand di moda con un designer omosessuale che non ha mai sbandierato la sua omosessualità ma non l’ha neanche mai nascosta. Viene da chiedersi: da che parte sta?

 
Brand activism e social washing: è possibile, per un consumatore inesperto, distinguere il fake dal real e capire se è presente un effettivo progetto ideologico a monte di un prodotto?

Secondo me, è un po’ come con le persone: un conto sono gli statements (cioè le dichiarazioni), un altro sono i comportamenti. Nel giugno 2020, Instagram si era letteralmente riempito di post a favore del movimento Black Lives Matter (BLM). Moltissimi brand ed aziende si erano esposte riguardo la discriminazione della popolazione nera ma poi, nei fatti, non si attivavano concretamente per combattere queste ingiustizie.  Per esempio, molti brand con infografiche commoventi a supporto del movimento BLM in realtà non avevano dipendenti neri. È inutile il BLM se poi non c’è la rappresentanza effettiva nell’azienda. Il discrimine si fa secondo i comportamenti e cercando di capire se ciò che viene condiviso o promosso si tratta di un’idea, un progetto che va avanti nel tempo, oppure solo di un espediente pretestuoso.

 
Adesso le pongo una domanda un po’ provocatoria. Tirando le somme, alla fine il woke washing (declinato nelle varie accezioni quali il pink washing, green washing, rainbow washing, social washing) è davvero così negativo? Cioè, parlare ed esporsi su tematiche di interesse pubblico, anche se in ottica utilitaristica, può comunque impattare positivamente sulla società, aiutando a rompere la rete di tabù da cui certi argomenti sono circondati oppure si corre solo il rischio di appiattire la tematica e svuotarla dai contenuti?

In realtà, sono d’accordo con la tua osservazione: meglio che se ne parli così che non se ne parli affatto. Non so però quanta consapevolezza poi ci sia da parte del consumatore. È la stessa questione esplosa qualche mese per la visita sponsorizzata da Ferragni agli Uffizi: è sicuramente meglio essere incentivati ad andare agli Uffizi da Chiara Ferragni che non andarci proprio. Il rischio principale che si corre con questo meccanismo alquanto superficiale è però la possibile banalizzazione e svuotamento dei contenuti. Un altro pericoloso difetto di questo meccanismo si verifica anche quando la realtà ideale comunicata attraverso la pubblicità venga percepita come effettivamente esistente, quando non è così. Spesso si veicola l’immagine di un mondo perfetto o migliore che però non riflette le vere dinamiche sociali. Ciò è disorientante e controproducente perché le persone pensano che sia tutto rosa e fiori quando i fatti sono ben altri.

 
Al netto di tutto ciò che abbiamo detto, il marketing può essere veramente inclusivo? Secondo lei, quanto è larga la forbice dell’inclusività?

Se un’azienda è veramente inclusiva non lo si capisce dalla pubblicità ma dal prodotto. È inutile investire in uno spot pseudo-progressista che sceglie come testimonial la modella non conforme se poi chiedere una taglia 44 in un punto vendita dello stesso brand è ancora estrema fonte di disagio – cosa che succede in molte boutique o negozi di marca. È importante cosa si fa, non cosa viene affermato. Se lo fa Paul Gaultier o Vivienne Westwood allora hanno un senso, perché sono marchi davvero alternativi ed inclusivi – non una volta l’anno ma costantemente. Se invece la stessa cosa la fa Prada ma nel momento in cui chiedi una 44 in negozio ti senti inevitabilmente giudicato, allora abbiamo fallito.

Saremo davvero inclusivi quando non avremmo più bisogno di parlarne. L’inclusività sarà un concetto interiorizzato quando testimonial non conformi o spot pubblicitari con canoni diversi dallo standard verranno percepiti come normali: nessuno se ne accorgerà perché non faranno più scalpore.

Nel mio ultimo libro racconto di un episodio molto interessante che mi è accaduto con mia figlia quando aveva 4 anni. Un giorno, diversi anni fa, torna dalla scuola materna e mi dice “La mia amica Stefania è marrone”, ed era vero perché la mamma è cubana. Al che io rispondo “Ma no, tutti i bambini sono uguali”. Lei allora mi guarda in modo interrogativo, come se avessi detto qualcosa di sbagliato o del tutto fuori contesto, ed in realtà era proprio così. L’approccio di mia figlia era veramente inclusivo. Lei mi ha detto semplicemente che era marrone, ha fatto una constatazione genuina, oggettiva e del tutto disinteressata. Se mi avesse detto “Stefania ha i capelli biondi” io le avrei risposto “Certo, è vero” e non che “Tutti i bambini sono uguali”. Il mio era un approccio basato sull’integrazione, in quanto percepivo e comprendevo una differenza e perciò sentivo la necessità di integrarla, mentre quello di mia figlia era uno sguardo puramente inclusivo. Bisogna dire però che ovviamente è anche un fatto culturale perché mia figlia è cresciuta in un contesto multietnico, più aperto di quello delle mia generazione, quindi per lei l’inclusione è un dato di fatto. Ci vuole sicuramente tempo per modificare una forma mentis. Per questo motivo servono le leggi. Senza la legge sulle quote rosa per esempio non ce la faremmo a cambiare e migliorare la condizione femminile. Quando avremo introiettato a livello culturale e sociale la parità di genere, allora non avremo più bisogno di obblighi legislativi a regolarla. Adesso le leggi ci servono, sono uno step. Quando questi meccanismi contro la discriminazione di genere saranno normalizzati, allora le leggi non saranno più necessarie. Ci sono donne competenti quanto uomini o anche di più che però vengono scartate a favore di colleghi maschi solo per il loro sesso. Attenzione però: la legge sulle quote rosa non dice che le aziende devono assumere donne per il semplice fatto di essere utero-munite, ma perché bisogna garantire loro le stesse opportunità lavorative degli uomini con stesse competenze.

 
Le campagne pubblicitarie di Nuvenia ed Idealista: progetto ideologico e grande impegno sociale da un lato, probabile utilitarismo etico dall’altro. Lei cosa ne pensa?

Si tratta indubbiamente di due casi molto diversi. Nuvenia, brand di assorbenti della multinazionale svedese Essity, con la campagna per la visibilità del ciclo mestruale dello scorso anno “BloodNormal” e quella “Viva la Vulva” di quest’anno a favore di una maggior consapevolezza dell’intimità femminile, ha sicuramente scoperchiato il vaso di pandora, rendendo pubblici e fortemente espliciti eventi genuini e naturali come avere le mestruazioni o occuparsi della propria igiene intima, troppo spesso taciuti e stigmatizzati. Ciò ha scatenato reazioni sia in uomini che donne. È chiaro quindi come Nuvenia sia realmente attiva ed impegnata in cause sociali e culturali, di lotta alla discriminazione di genere ed a favore di una società più inclusiva. Al contrario, la pubblicità di Idealista, nota compagnia di compravendita e locazione di immobili, ricorda un vecchio spot gay-friendly di Findus uscito proprio a giugno 2014, nel mese del Pride Month (e non è un caso). I metodi e le circostanze decise dalla Findus però facevano ben intendere l’approccio utilitaristico dell’azienda, che voleva sfruttare la tematica Lgbtq+ per rendere la pubblicità più interessante ed innovativa. Come Findus, anche Idealista sembra approcciarsi alla causa in ottica strumentale. A che pro Idealista ha fatto questo? Per far parlare i sé, come stiamo facendo noi adesso. Idealista ha probabilmente cavalcato l’onda del Pride Month, entrando nell’occhio del ciclone ed attirando attenzione sulla piattaforma. Nuvenia ed Idealista sono due casi molto diversi.

 
Nel suo libro parla della figura del Diversity Manager. Di cosa si tratta esattamente?

Molte aziende hanno questa figura all’interno del loro organico, soprattutto negli USA dove sono più avanti rispetto al tema della diversity, perlomeno a livello cronologico, perché hanno una società secolarmente multietnica. Nel campo della moda, ma anche in industrie quali Apple o Pinterest, si è inserita questa nuova figura lavorativa che ricopre principalmente due ruoli: da un lato si occupa di favorire le pratiche di inclusione attraverso la creazione di team di supporto variegati, mentre dall’altro ha l’obiettivo di evitare che si verifichino episodi di discriminazione, in cui l’inclusione non viene promossa.

Il rapporto tra brand e attivismo è quindi ben più complesso di quello che si può immaginare. In un mondo in cui produttore e consumatore sono sempre più a stretto contatto, distinguere tra realtà e finzione quando si parla di inclusività non è affatto semplice. Per evitare di cadere nella trappola del social washing, come consumatori dobbiamo impegnarci a verificare che le politiche di un’azienda siano veramente in linea con ciò che comunicano attraverso spot pubblicitari e slogan. I brand invece dovrebbero definitivamente capire che i diritti delle persone (come quelli degli animali o relativi all’ambiente) non sono un gioco di marketing: utilizzarli a fini utilitaristici non lascerà niente di concreto alla società (e nemmeno nelle loro tasche).

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Ambiente, società e tecnologia

I nuovi luoghi della politica: dall’agorà al feed Instagram, tra influencer e prese di posizione

Sarebbe anacronistico continuare a negarlo: le notizie oggi viaggiano velocemente, ancora di più quando sono false, mentre i nostri feed di instagram sono invasi dai più svariati contenuti.

Rimbalziamo tra video shock, post-denuncia e sponsorizzazioni di prodotti, completamente assuefatti da iconografiche colorate e reels divertenti.

Questo mondo fatto ad hoc per noi utenti, personalizzato a puntino da contenuti consigliati e inserzioni pubblicitarie mirate, è però dominato da una (ormai non tanto nuova) figura mediatica ed imprenditoriale di cui assorbiamo, direttamente o indirettamente, contenuti, opinioni e consigli: l’influencer.

Alcuni di loro scelgono di parlare della loro vita personale, altri di cosa accade nel mondo o di argomenti a cui sono particolarmente interessati (oppure che fanno semplicemente trend).

È un continuo minestrone di persone famose, politici e tuttologi improvvisati: ognuno sente il bisogno di dire la sua, con le migliori intenzioni, ma questo spesso genera il caos.

Fuori dalla nostra bolla dei social però, quanta importanza hanno veramente gli influencer nel manovrare l’opinione pubblica? E quali sono i nuovi spazi del dibattito politico?

Influencer, brand e woke washing

Innanzitutto, il termine “influencer” è utilizzato in ambito pubblicitario per indicare “tutte quelle persone che, essendo determinanti nell’influenza dell’opinione pubblica, costituiscono un target importante cui indirizzare messaggi pubblicitari, al fine di accelerarne l’accettazione presso un pubblico più vasto”, come riportato dal Glossario Marketing.

Nell’era social, accade spesso che utenti del web riescano gradualmente ad affermarsi, accumulando migliaia di followers e costruendo così la propria credibilità. Questi iniziali “fruitori” diventano allora a tutti gli effetti dei micro (o macro) influencer, cioè personalità capaci di condizionare il proprio pubblico rispetto a specifiche tematiche di interesse, ma non solo.

Talvolta si preferisce definirli “content creator“ perché il loro lavoro online non si limita ad influenzare passivamente il pubblico ma si propone di produrre dei contenuti che possano raggiungere quanti più utenti possibile in modo convincente, interessante, utile e credibile.

È così che questa categoria dalle mille sfaccettature diventa il bersaglio principale dei brand, che vogliono sfruttarne l’ampia platea di fedeli seguaci per pubblicizzare ed affermare i loro prodotti.

Ciò che però accade spesso è che gli influencer (così come i marchi che rappresentano) decidono di cavalcare l’onda dell’hype di alcune tematiche diventate improvvisamente virali. Quando accade, i feed dei social si riempiono in pochi giorni degli stessi post con le stesse grafiche mentre nelle stories troviamo le stesse facce note che si esprimono in maniera ridondante, utilizzando solitamente slogan clickbait privi di sostanza.

Questo meccanismo, ormai appurato, può avere in generale due effetti: se da un lato incentiva il vasto pubblico a prendere consapevolezza di una determinata questione, dall’altro può arrivare a compromettere la stessa tematica, svuotando di ogni credibilità e consistenza i valori in nome dei quali si sta lottando e riducendoli meramente a likes, numero di condivisioni e visualizzazioni.

Questo diffuso comportamento, secondo cui gli influencer iniziano a perorare una causa particolarmente calda ma che in precedenza non avevano mai trattato sulla piattaforma, ha un nome: il woke washing, cioè il camuffamento dietro a determinati valori etici senza una reale adesione alle battaglie sponsorizzate. Il woke washing è insomma un altro modo di definire quell’ipocrisia che le personalità conosciute utilizzano per parlare al grande pubblico, spacciando per interesse la necessità di ricevere consensi su larga scala. A seconda dell’argomento, si parlerà di “greenwashing” se la maschera è l’ambientalismo, o di “pinkwashing” se ci si presenta come paladinə di lotte femministe in cui però non si crede fino in fondo.

L’autorevolezza e la grande cassa di risonanza di cui godono gli influencer è quindi un’arma a doppio taglio che va saputa usare bene, in particolar modo quando ci si sta schierando per una giusta causa.

The Ferragnez: nasce, cresce, si schiera

Nell’ultimo anno, la coppia più pop del web (ovvero Chiara Ferragni e Fedez, noti come i “Ferragnez”) ha sicuramente intrapreso una crescita sorprendente per quanto riguarda il supporto a battaglie sociali ed etiche sia sui social che nella “vita reale”. In un momento in cui siamo ancora soggiogati da una pandemia verace, la rete è la migliore alternativa all’opposizione fatta “col corpo”, cioè in maniera concreta fuori dalle mura di casa.

Nelle scorse settimane, Fedez si è personalmente fatto carico di spiegare al grande pubblico cosa stesse accadendo in parlamento con il DDL Zan, cioè il disegno di legge proposto dal PD contro discriminazioni e violenze per orientamento sessuale, genere, identità di genere e abilismo. A più riprese su Instagram, Fedez si è preoccupato di chiarire significato, importanza ed osteggiamenti al DDL Zan da parte di determinate personalità politiche, tra cui il presidente della Commissione di Giustizia Ostellari (Lega).

Dopo aver lanciato petizioni e parlato in diretta con lo stesso Zan (PD), Fedez ha concluso la sua battaglia portando direttamente sul palco del 1° Maggio Roma l’urgenza della calendarizzazione del disegno di legge, leggendo un lungo e diretto discorso in cui si citavano anche alcuni (dei moltissimi) commenti omofobi da parte dei rappresentanti dei partiti di destra.

La vicenda, che in sé rappresenta un grande atto di coraggio e di presa di coscienza, ha però poi perso il suo focus originario, andando a mescolarsi con il caso della censura da parte della Rai e la vuota idolatria verso un rapper privilegiato che ha saputo però ben sfruttare le potenzialità della propria posizione.

Fedez ha sicuramente agito da buon cittadino, riconoscendo dal suo status di privilegio la necessità di lottare e schierarsi a favore di battaglie importanti anche se non ci riguardano direttamente. L’intento era chiaro ed è stato espresso in maniera diretta e concisa, facendo entrare nelle case di milioni di italiani di tutte le età un messaggio semplice: il disegno di legge Zan contro omobitransfobia, misoginia ed abilismo va subito calendarizzato, perché queste categorie subiscono violenze quotidiane e perciò vanno tutelate, lottando affinché certe discriminazioni non avvengano più.

D’altro canto, il discorso è risultato comunque superficiale e riduttivo, anche perché Fedez parla solo di uomini gay trascurando del tutto le altre categorie tutelate dal DDL (donne, disabili e le altre persone dello spettro lgbtq+).

Involontariamente, il centro del dibattito si è spostato dalle tematiche del disegno di legge per focalizzarsi sull’odio folle e cieco di alcuni parlamentari di destra, sfociando rapidamente in polemica e shitstorm.

Ma dopotutto, cosa potevamo pretendere da Fedez? Un rapper (ed un padre) con milioni di followers che si interessa di tematiche sociali è sicuramente cosa positiva, perché ha risvegliato (almeno in superficie) una coscienza collettiva che pretende la tutela dei diritti di tutti gli individui. Adesso però sta agli addetti ai lavori (i politici), e non certo a Fedez, il compito di attuare ciò che è stato richiesto a gran voce.

Anche Chiara Ferragni ha utilizzato la piattaforma per sensibilizzare i suoi seguaci a tematiche delicate ed ancora molto stigmatizzate, come l’allattamento al seno in pubblico o la rivendicazione di essere un’imprenditrice digitale e madre (per la seconda volta). Ferragni, avvolta costantemente da una fitta coltre di giudizi per quanto riguarda l’utilizzo del proprio corpo ed il suo ruolo di genitrice, si era già schierata apertamente a favore di precedenti battaglie per i diritti delle donne e l’emancipazione femminile. Dal revenge porn, alla denuncia della società patriarcale e maschilista in cui viviamo, fino alle manifestazioni del BLM, Chiara Ferragni si è spesso presentata in prima liea, dimostrandosi coerente con il proprio pensiero e soprattutto contribuendo a rendere certe battaglie urgenti e necessarie.

Come lei, anche Aurora Ramazzotti ha deciso di rompere a la bolla di vetro condividendo un fatto che le è accaduto recentemente (ma che subisce costantemente nel quotidiano): l’ennesimo atto di catcalling, cioè molestia verbale. Il suo video di denuncia è rimbalzato ovunque sui social, scatenando un’onda anomala di rivendicazioni ed opinioni a riguardo che hanno fatto diventare la tematica virale in pochissime ore. È bastato sentirlo raccontare da Ramazzotti per permettere che moltissime altre donne e ragazze si sentissero finalmente comprese in questa umiliazione e violenza continua, troppo spesso sminuita o anche reputata sopportabile. In molte, grazie a ciò, hanno deciso di rivendicare il proprio diritto sul loro corpo e hanno acquistato la forza ed il coraggio di condannare violenze del genere: sforzi che speriamo non si riveleranno inutili visto l’infelice intervento di Pio e Amedeo.

Le nuove piazze social, tra politica e social network

Negli anni ci siamo preoccupati di tracciare una linea sempre più netta tra svago e politica. Anche sui social, siamo convinti che l’utente medio non abbia alcuna intenzione di confondere i due mondi. O forse no?

In un’era digitale in cui ogni tipo di dibattito si sviluppa e struttura principalmente sul web, anche gli influencer hanno (ovviamente) il diritto di esprimere il loro pensiero, esattamente come noi. L’unica differenza è che lo fanno davanti ad un pubblico sicuramente più ampio rispetto ai nostri soliti quattro amici. Ciò che è certo, è il fatto che sia che si esprimano o si esimano dallo schierarsi, gli influencer verranno sempre criticati. Polemizzare attorno ai loro comportamenti però si rivela tanto inutile quanto ipocrita perché (cosa banale ma che a volte ci dimentichiamo) sono persone come tutti (già, non sono ologrammi) e hanno il diritto, se vogliono, di divulgare la loro opinione.

Al contrario di alcuni content creator che scelgono di schierarsi esplicitamente per cause specifiche, c’è anche chi rivendica il totale disinteresse alle dinamiche sociali della realtà che ci circonda, rifiutando ogni contatto con il “mondo della politica”. È il caso di Luis Sal, youtuber con oltre 2 milioni di followers, che più volte ha dichiarato di non voler prendere posizione sul web in merito a battaglie etiche o sociali. La domanda però sorge spontanea: è veramente possibile non essere “politici” e quindi scegliere di “non-scegliere”?

Sicuramente ognuno deve essere libero di esprimersi, sia nel pubblico e nel privato, secondo le modalità che ritiene più opportune (sempre nel rispetto dell’altro ovviamente). Resta di fatto però che anche ammettendo di non dichiarare esplicitamente la propria posizione riguardo uno specifico argomento, tutti noi agiamo, pensiamo e parliamo creando una nostra gerarchia di valori, definendo involontariamente cosa sia giusto e cosa sbagliato. Di conseguenza, i nostri gesti e le nostre azioni non possono fare a meno che riflettere la nostra visione del mondo. Sebbene sia possibile scegliere di non esporsi in maniera esplicita, non possiamo evitare di veicolare (anche indirettamente) un qualche tipo di messaggio che sarà sempre specchio del nostro pensiero, seppure in minima parte.

Ciò che a volte non è chiaro è il concetto secondo cui fare politica non significa solo schierarsi per un partito. Nel senso più generale del termine, ogni nostra opinione o azione è necessariamente politica in quanto si inserisce in un orizzonte collettivo senza il quale l’individuo non avrebbe ragione di esistere. Per quanto possiamo rifiutarci di prendere parte ad essa, in realtà facciamo continuamente delle scelte ponderate e ben schierate in relazione alla nostra personale visione del mondo.

In ultima analisi, si può dire che ciò che sta accadendo negli ultimi anni non è che un fatto fisiologico: gli influencer stanno ricoprendo le grandi lacune del dibattito politico, generate dalla mancata presenza sul campo (che sia il web o la piazza) dei politici stessi.

Non dobbiamo stupirci se anche gli influencer hanno un’opinione. Quello che dovrebbe stupirci è come a livello popolare una battaglia tanto importante ed urgente come quella del DDL Zan o del catcalling sia completamente sfuggita dal controllo di chi lavora nel mondo della politica (e dovrebbe interessarsene per primo), finendo nelle mani di personalità pubbliche il cui massimo potere rimane quello di fare pressione e risvegliare superficialmente una coscienza collettiva…per qualche giorno, almeno finché non finisce l’hype.

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Marketing & Social Media

Twitter e il caso Trump: l’oggettività delle condizioni di utilizzo dei social media e il relativismo con cui possono essere lette

I fatti di Capitol Hill, con l’assalto di un gruppo di facinorosi al Parlamento americano e il conseguente ban di Trump dai principali social network, hanno aperto una discussione molto accesa sul ruolo che le piattaforme digital assolvono nel dibattito politico. Il ban è partito da Twitter e si è esteso anche a Facebook. Mark Zuckerberg ha addirittura definito “troppo pericoloso l’uso dei social da parte di Trump in questo periodo” . Un’azione legittima da parte delle due piattaforme a seguito della ripetuta violazione delle condizioni di utilizzo: nelle norme di Twitter, ad esempio, si può leggere che “sono proibiti contenuti finalizzati a incitare la paura, odio e violenza.”. Tuttavia sorge spontaneo porsi delle domande. Rimuovere Trump dai social media è stata una misura decisiva, anche se tardiva, per evitare la propagazione di messaggi di odio e violenza? Nel caso di un contenuto censurato, quanto si possono considerare oggettivi i criteri con cui quest’ultimo è stato eliminato? E infine, se non ci fossero state le incitazioni di Trump, sarebbe stato evitato tutto quello che è successo?

Il fenomeno delle “Eco chambers”

Le “eco chambers“, letteralmente “camere dell’eco”, sono un concetto importante nel mondo delle scienze sociali: si creano quando un gruppo di persone che condividono la stessa visione del mondo si trova isolato dalla discussione generale. Ogni opinione espressa rimbalza come un’eco senza incontrare smentite o critiche: chi la ascolta fa parte della stessa fazione e la appoggia senza remore. Estromettere le voci estremiste e inaccettabili dai social network più diffusi sembra una mossa necessaria e probabilmente lo è, ma potrebbe avere degli effetti collaterali.

Su Twitter infatti circolano idee e opinioni di ampio raggio: su Parler invece, la piattaforma di microblogging su cui a seguito del ban di Trump si sono spostati molti suoi accaniti sostenitori e già frequentata da estremisti, probabilmente no. Amazon e Google hanno riconosciuto il rischio legato a questa piattaforma e l’hanno rimossa dai loro server, di fatto impedendone l’accesso. Un’azione legittima, ma su cui possiamo ulteriormente riflettere: con la chiusura di Parler, si evitano odio e incitamento alla violenza o si provoca la nascita di altri spazi web di condivisione di messaggi inaccettabili?

Non sarebbe quindi meglio, da questo punto di vista, che queste voci rimanessero su Twitter, venendo sanzionate quando necessario, ma non incoraggiando questa deriva?

Il caso dell’Ayatollah Khamenei

«Non è improbabile che vogliano contaminare altre nazioni. Data la nostra esperienza con le scorte di sangue contaminate dall’HIV in Francia, neanche i vaccini francesi sono affidabili», ha scritto l’Ayatollah Khamenei sul suo profilo twitter attaccando non solo i vaccini contro il Coronavirus, ma avanzando un sospetto pregiudizievole nei confronti di un’intera nazione. Lo stesso attacco scritto pochi giorni dopo il ban dell’ex presidente Trump, è stato rivolto anche ai vaccini sviluppati in Gran Bretagna. Twitter ha reagito tempestivamente sospendendo l’account del leader iraniano fino al momento in cui i tweet, considerabili fonte di disinformazione, non sono stati rimossi. Se Twitter sceglie di sospendere un utente perchè non ha rispettato le condizioni di utilizzo si rischia di innescare una reazione a catena in cui molti esponenti politici potrebbero essere rimossi per la trasmissione di messaggi “non giusti e costruttivi”: non è facile individuare infatti la linea che separa un contenuto “sbagliato” da uno che “rappresenta un pensiero soggettivo seppur non condivisibile”.

La sospensione dell’account dell’ambasciata cinese

In questi ultimi giorni ha fatto ulteriormente discutere un tweet dell’ambasciata Cinese negli U.S.A., che è stata la causa scatenante del blocco del relativo account: Twitter lo ha considerato “disumanizzante nei confronti delle donne di etnia uigura“, una minoranza musulmana della zona dello Xinjiang, territorio nord-occidentale della Cina. Secondo quanto scritto dall’ambasciata, “grazie alle politiche di Pechino le donne uigure non sono più considerate come macchine per bambini”. Difficile contestualizzare questo blocco al di fuori delle politiche oppressive che le potenze occidentali attribuiscono al governo centrale di Pechino nei confronti dello Xinjiang, tradizionalmente separatista, e in particolare di Etnia uigura, anche tramite la denuncia dell’istituzione di “campi di rieducazione al lavoro”.

Una questione complessa che dimostra che il blocco di un account possa riflettere un contesto più ampio: non dobbiamo dimenticarcene nemmeno quando consideriamo l’espulsione di Trump dalle piattaforme social.

Ma in conclusione, quanto peso hanno questi tweet? 

La violazione oggettiva delle condizioni di utilizzo va sicuramente considerata, ma al di là di questa possiamo riflettere su molti risvolti di questi eventi.

Se pensiamo che le parole di Trump a cui é seguito l’assalto al Congresso ( e anche l’intervento dell’Ayatollah) sono state rivolte a un pubblico in grado di filtrare le informazioni con una propria capacità di giudizio, sorgono alcune questioni. Ci si chiede se, nel caso in cui gli incitamenti all’odio di Trump fossero stati evitati, ci sarebbe ugualmente stato l’assalto al Congresso. È legittimo rimuovere dei contenuti considerati “disinformazione” e per nulla costruttivi, pensando che le persone, senza una propria capacità di giudizio, vengano influenzate a compiere azioni sbagliate? È proprio il fatto che le parole di Trump siano state cancellate dopo essere state condivise con un’utenza globale che ha permesso ai cittadini di giudicare l’ex presidente Trump per la sua figura e di trarre adeguate considerazioni sul personaggio.

Gli ultimi eventi che si stanno verificando ci mostrano le dimensioni della potenza di cui dispongono i social media a livello mondiale: questo comporta una loro continua evoluzione verso un miglioramento costruttivo delle piattaforme. Bisogna prestare attenzione a quando la volontà di un miglioramento porta all’eliminazione di utenti poco esemplari dal momento che potrebbe portare a una controversia tra ciò che è giusto e sbagliato.

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Marketing & Social Media

Twitter: policy e ban di Trump

Lo scorso 9 gennaio l’ormai ex-presidente degli Stati Uniti Donald Trump è stato definitivamente bannato da Twitter, il suo principale strumento di comunicazione con il pubblico.

Il duro provvedimento è stato preso dall’azienda in seguito alla pubblicazione di un tweet scritto dall’ex-Presidente, il quale avrebbe incitato i manifestanti delle scorse settimane di Capitol Hill a compiere azioni violente.

I creatori di Twitter hanno commentato l’accaduto affermando che, a seguito di un profondo controllo, hanno stabilito la sospensione ufficiale dell’account per evitare la diffusione di ulteriori messaggi simili, i quali non rispettano termini e condizioni stabilite dalla piattaforma.

https://twitter.com/TwitterSafety/status/1347684877634838528?s=20

Questa decisione ha suscitato pareri molto contrastanti sulla questione, in quanto molti credono sia stata la decisione migliore, altri invece che la libertà di espressione sia stata limitata.

Nello specifico, quali sono le regole che qualsiasi utente iscritto al social deve impegnarsi a rispettare? E quali tra queste sono state trasgredite dall’ex-Presidente?

Regole e norme di Twitter

Come ogni piattaforma, anche Twitter possiede norme molto precise e articolate per tutelare i propri utenti.

Queste regole hanno lo scopo di far svolgere le attività garantite dal social senza turbare coloro che non desiderano visionare contenuti violenti o in grado di minacciare la propria sicurezza.

Le norme definite da Twitter sono raggruppabili in tre macrocategorie: sicurezza, privacy e autenticità.

Per garantire sicurezza e protezione di ogni iscritto, la compagnia si impegna ad eliminare contenuti violenti e sensibili, tra cui: messaggi che contengono atti di terrorismo, violenza minorile, abusi e molestie, autolesionismo e suicidio, beni e servizi illegali o dichiarazioni che incitano all’odio e alla violenza.

Il social, inoltre, si assume il compito di proteggere i dati e le informazioni private delle persone, perciò è assolutamente vietato condividere materiali altrui senza il loro esplicito consenso.

Infine, una delle regole fondamentali è rappresentata dall’autenticità delle informazioni pubblicate, che non devono avere lo scopo o la capacità di manipolare il pensiero altrui, non possono violare diritti quali norme su copyright e marchi e soprattutto non possono essere ingannevoli o false.

Twitter non solo si assume le responsabilità delle sue azioni, ma si impegna anche a chiarire dettagli e motivazioni che li costringono a prendere i provvedimenti nei singoli casi.

Le norme ideate sono infatti il risultato di approfondite ricerche sulle attitudini e le tendenze degli utenti online; ciò consente alla piattaforma di comprendere quali paletti porre in contesti differenti per potersi adattare sempre di più alle esigenze delle persone.

Per farlo, vengono raccolti regolarmente dei feedback dai membri interni all’azienda da ogni paese, in modo tale da adattare le regole ai differenti contesti culturali e sociali di tutto il mondo.

Un importante aspetto di cui Twitter tiene conto è infatti anche il contesto in cui viene svolta la trasgressione, se avviene nei confronti di altre persone, se la persona in questione ha dei precedenti, se l’obiettivo prevede il coinvolgimento di un pubblico molto ampio e naturalmente in generale la gravità della violazione.

Le azioni di ammonizione che possono essere intraprese dipendono dal caso specifico: Twitter potrebbe limitare la visibilità di un determinato tweet, oppure rimuoverlo definitivamente a seconda della sua pericolosità.

In altri casi è prevista invece la sospensione temporanea del profilo o l’impossibilità di interagire o pubblicare messaggi sulla piattaforma.

Il provvedimento più severo è quello che ha subito Donald Trump: la sospensione permanente del profilo, azione che non permette all’interessato di creare un eventuale nuovo account. 

Eccezioni previste per messaggi di interesse pubblico

Twitter prevede all’interno del proprio regolamento delle eccezioni per gli utenti che diffondono messaggi di interesse pubblico.

Soprattutto nel caso degli account di leader mondiali o rappresentanti governativi sono previste numerose esenzioni nel caso in cui vengano infrante alcune linee guida, tra cui la pubblicazione di messaggi che normalmente verrebbero immediatamente eliminati.

Ciò però non autorizza chiunque abbia una certa posizione a violare le norme della piattaforma senza alcuna conseguenza: la sospensione definitiva dell’account avviene nel momento in cui viene riscontrato nella pubblicazione un elevato rischio potenziale, quando vi è un evidente richiamo alla violenza o una call to action a danno di istituzioni o altre persone.

Trump, nel corso della sua permanenza sul social durata 12 anni, avrebbe scritto più di 57 mila tweet dichiarando più di 18 mila false accuse secondo il Washington Post e, secondo il New York Times, insultando circa 598 persone, luoghi o cose.

In quasi tutti i casi Twitter ha lasciato visibili i messaggi, fino al momento in cui è stato sospeso il suo profilo, in quanto le informazioni scritte dall’ex-Presidente avrebbero potuto essere considerate di pubblico interesse.

Quali regole ha infranto Trump?

In considerazione delle norme che regolano la piattaforma e in funzione dei privilegi e delle protezioni concesse alla figura di Donald Trump, la prima segnalazione da parte di Twitter nei suoi confronti è avvenuta il 26 maggio 2020. In questa data, le sue dichiarazioni riguardanti il voto postale previsto per le presidenziali di novembre sono state definite dalla piattaforma come potenzialmente fuorvianti e, in calce ai contenuti in questione, è stato inserito, attraverso la frase “Get the facts about mail-in-ballots” e preceduta da un punto esclamativo, un collegamento ad un articolo della CNN riguardante le sue forzature e imprecisioni.

Potenzialmente fuorviante è risultato essere un altro tweet con il quale venivano accusati i democratici di voler rubare le elezioni.

Dopo pochi minuti dalla sua pubblicazione, il contenuto è stato “oscurato”, mantenendo la possibilità di leggerlo attraverso il tasto “visualizza”, ed è stata limitata la funzione “retweet”. Il processo di censura ha riguardato, in generale, tutti i suoi tweet che denunciavano le elezioni come truccate.

Un’altra regola violata da Trump in più occasioni riguarda la glorificazione della violenza. La sua prima segnalazione si inserisce nel contesto delle proteste che hanno seguito la morte di George Floyd e anche in questo caso i contenuti in questione sono stati censurati (vedi ANSA e The Verge).

In funzione di questa regola è avvenuta prima la sospensione temporanea di 12 ore, a causa di alcune sue dichiarazioni che legittimavano l’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021, e successivamente quella permanente, nella notte fra venerdì 8 e sabato 9 gennaio.

Sviluppi e riflessioni

Dopo la sospensione definitiva da Twitter e da Facebook, anche altre piattaforme, come YouTube, TikTok e Twitch, hanno seguito lo stesso percorso.

Jack Dorsey, CEO e cofondatore di Twitter, nel commentare queste decisioni, ha affermato: “non penso sia stato un atto coordinato. Più probabilmente, le varie aziende hanno tratto le loro conclusioni o sono state incoraggiate dall’azione di altre”. La sospensione permanente viene però definita dallo stesso Dorsey come fallimentare, dal punto di vista del dialogo e del dibattito politico. Afferma anche, e soprattutto, la necessità di riprogettare le regole, sia dell’azienda sia di internet, perché l’epilogo della vicenda Trump – Twitter “stabilisce un precedente che ritengo pericoloso: il potere che un individuo o un’azienda hanno su una parte della conversazione pubblica globale”. Conversazione pubblica online che risulta essere già di per sé oggetto di discussione in merito al fatto che essa passi attraverso poche piattaforme private che agiscono sulla base di regole stabilite in autonomia.

Sempre secondo Dorsey, tale questione è assorbita dal pluralismo delle piattaforme online: “Twitter è soltanto una piccola parte della conversazione più ampia che avviene su internet. Se qualcuno non è d’accordo con le nostre regole, può semplicemente andare su un altro servizio online”.

https://twitter.com/jack/status/1349510769268850690?s=20

E adesso?

Molti si sono chiesti come farà Trump a comunicare senza il social preferito, ma il vero problema è: come farà Twitter senza di lui?

Bisogna ricordare che l’azienda californiana nel 2016, a 10 anni dalla sua fondazione, era valutata meno di 10 miliardi di dollari, risultava essere in difficoltà e stava vivendo una fase di incertezza esistenziale.

Un anno dopo, Donald Trump, presente sulla piattaforma dal 4 maggio 2009, diventa presidente degli Stati Uniti, e questa carica politica, insieme ad altri fattori come il flusso costante di contenuti pubblicati, caratterizzati da una retorica provocatoria ed incendiaria, e la base di sostenitori (e followers) di riferimento, riesce straordinariamente a risollevare l’azienda che, ad oggi, risulta quotata intorno ai 44 miliardi di dollari.

La sospensione applicata potrebbe portare ad una diminuzione dell’attenzione globale nei confronti della piattaforma stessa e un abbandono importante dei seguaci di Trump, che potrebbero confluire verso altri competitor.

Interessanti in questo senso risulteranno essere le novità e le strategie che Twitter intenderà applicare.

Non ci resta che attendere i loro prossimi tweet.