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Ambiente, società e tecnologia

L’atomizzazione nel calcio: la FIFA

Guidate dalla bramosia dei social media, le società calcistiche odierne si trovano ad agire in un equilibrio precario tra immagine pubblica e ricerca di profitti.

Questo equilibrio, tuttavia, è spesso macchiato da una profonda ipocrisia.

 

Lega Serie A e pride

 

Ormai da tempo il 30 giugno rappresenta la fine del mese del pride; con esso, ogni anno svanisce anche la tintura arcobaleno che va momentaneamente a dipingere molte aziende, istituzioni e società.

Ma c’è un angolo di mondo in cui, durante questo mese, questa bandiera non ha mai sventolato: non si parla banalmente di Paesi a religione musulmana (aventi, quindi, una cultura diversa dalla nostra), ma di luoghi in cui le stesse aziende che in occidente abbracciano la retorica LGBTQ+ diventano improvvisamente silenziose.

 

La Lega Serie A, massima divisione professionistica del calcio italiano, non ha fatto eccezione. Ogni profilo X (ex Twitter) della Lega, col sopraggiungere dell’estate, si colora di arcobaleno, tranne uno: quello dedicato al pubblico arabo, che rimane sempre neutro.

 

La FIFA nel calcio

 

Non si parla solo di Serie A; il discorso, molto più ampio e complesso, è esteso (quasi) da sempre all’intera federazione FIFA.

 

Nonostante il suo ruolo di centralità sociale (sia diretta che indiretta) il calcio viene spesso sottovalutato dal punto di vista storico.

Ormai questo sport non rappresenta solo una mera forma di intrattenimento, ma un terreno in cui cultura di massa, economia e politica convergono, dando vita a un universo di nazioni in competizione tra loro. Non è un  caso che, ad oggi, il vincitore di questo torneo venga considerato non solo un campione sportivo, ma anche un simbolo di unità e eccellenza nazionale.

 

Fu con la nascita della Football Association (FA) nel 1863 che il calcio si affermò come sport nazionale; qui cominciarono a delinearsi, oltre che delle regole simili a quelle che conosciamo oggi, anche i valori capitalistici di questo sport: coloro che dimostravano di essere più intraprendenti sul campo riuscivano a raggiungere, poi, anche una maggiore ascensione sociale.

 

La nascita del calcio è un fenomeno che viene collocato nella Gran Bretagna antecedente all’Età Vittoriana, la quale, tuttavia, ne rappresenta il periodo di massima affermazione. Si tratta di un periodo durante il quale nacquero, nelle campagne britanniche, nuovi sport aventi l’obiettivo di limitare la violenza e diffondere valori come l’autocontrollo e la disciplina. Il calcio rappresentava, nello specifico, una causa di identificazione per gruppi e comunità di individui.

 

In concomitanza all’introduzione del concetto di tempo libero nel mondo lavorativo, il calcio iniziò a permeare sempre di più la vita quotidiana dei cittadini: dapprima solo all’intero dell’impero britannico e in seguito anche al di là dei suoi confini, crebbe la partecipazione della classe lavoratrice e nacquero i primi professionisti del calcio.

 

Mentre la Gran Bretagna rinunciava al ruolo di guida nel calcio internazionale, nel 1904 venne fondata la FIFA, un organismo in grado di regolamentare e coordinare questo sport su scala internazionale.

 

Nata all’insegna all’apoliticità e alla continuità del calcio internazionale, nel 1904 l’allora piccola federazione FIFA aveva come motto “for the good of the game”. Fu grazie ad essa che a molte squadre venne permesso, senza distinzione di status, di partecipare alle competizioni internazionali. E fu sempre grazie alla FIFA che i calciatori, nel tempo, cominciarono a essere retribuiti.

 

Il suo successo economico, tuttavia, arrivò solo nel 1932, quando si dotò di un sistema giuridico e costituì il proprio quartier generale a Zurigo.

 

Calcio e politica

 

Non è facile, per società di questo calibro, mantenere l’obiettivo di apoliticità. Basti pensare che in questo periodo si tennero il Mondiale italiano del 1934, conosciuto con la nomea di “Coppa del Duce”, e il Mondiale del 1938 in Francia: qui gli italiani, nella partita contro i francesi, si presentarono con una divisa nera e, alla fine della partita, si esibirono in un saluto romano, affiancato da un un telegramma di Mussolini che recitava “vincere o morire”.

 

La Repubblica Federale Tedesca e i Mondiali del 1974

 

Facciamo un salto temporale: nel 1974, durante il Mondiale di calcio nella Repubblica Federale Tedesca, la FIFA dimostrò chiaramente di seguire una politica basata principalmente sui possibili riscontri economici, anche a discapito di questioni morali ed etiche.

 

L’episodio emblematico di questo Mondiale fu la partita tra Cile e Unione Sovietica, che si svolse in un contesto carico di tensioni politiche internazionali. La partita era stata organizzata a Mosca, al fine di distogliere l’attenzione dal reale utilizzo che si stava facendo dello stadio nella capitale cilena: veniva usato come campo di concentramento. La FIFA, informata dei fatti, inviò sul campo dei delegati conservatori, i quali ignorarono le violazioni dei diritti umani e decisero di mandare avanti l’incontro.

 

Il colpo di Stato di Pinochet in Cile dell’11 settembre 1973 portò l’Unione Sovietica a ritirarsi; il Cile, nonostante la mancanza di avversari sul campo, venne costretto dalla FIFA a segnare un goal simbolico; i giocatori cileni, per lo più socialisti, vennero minacciati e costretti a giocare.

 

È molto importante tener vivo il ricordo di questi eventi: il Mondiale del 1974 riuscì a far raccogliere molti soldi alla FIFA, molti di più rispetto alle edizioni precedenti, alimentati, oltre che da un crescente interesse globale dato dalla partecipazione di nuove squadre e nazioni, anche dall’avanzamento tecnologico che negli anni ‘70 caratterizzò il mondo televisivo e pubblicitario. Il marketing vide l’entrata di marchi e aziende che iniziarono a vedere nel calcio una vetrina ideale per promuovere i propri prodotti, sponsorizzandosi sulle divise.

 

Il Qatar e i Mondiali del 2022

 

Spostiamo l’attenzione ai giorni nostri. I Mondiali di calcio del 2022 vengono ormai ricordati a causa della straordinaria vittoria dell’Argentina di Messi, vincente ai rigori contro la Francia; ci si dimentica spesso che sono anche stati i Mondiali in Qatar.

 

Il Qatar è noto per le sue pratiche discutibili in materia di diritti umani e, in particolare, per la sua scarsa attenzione ai diritti delle donne. Inoltre, durante un’intervista nel programma “Uncensored” condotto da Piers Morgan, il segretario generale del comitato supremo dei Mondiali di calcio del Qatar, Hassan al Thawadi, ha rivelato che la costruzione degli impianti sportivi (che avrebbe poi permesso lo svolgersi del Mondiale) ha causato la morte a circa 400/500 lavoratori. In realtà, secondo il Guardian la cifra reale è pari a circa 6.500, se non più alta.

 

Nonostante ciò, molti club (anche in Serie A) mantengono relazioni strette con questo Paese, firmando accordi di sponsorizzazione e partecipando a tornei e competizioni lì organizzate. Molte delle partnership con il Qatar sono strettamente legate alle ingenti somme di denaro che circolano nell’ambiente: si pensi, ad esempio, all’acquisizione di club come il Paris Saint-Germain, rilevante a livello nazionale a causa dell’entità del monte ingaggi degli atleti che ne fanno parte. Stipendi altissimi: 100 milioni per Neymar, 72 milioni per Kylian Mbappè, 54 milioni per Lionel Messi.

O, ancora, si pensi all’incasso di ben 260 milioni di dollari per la stagione corrente (2023/2024) di Cristiano Ronaldo nel club saudita Al-Nassr.

 

La fascia One Love

 

Veniamo al fatto più eclatante: in vista dell’edizione in Qatar, otto nazionali si sono trovate di fronte a un rifiuto della FIFA nel voler indossare, come segno di sostegno alla comunità LGBTQ+, la “fascia One Love”, creata nel 2020 per iniziativa dell’Olanda: una fascia bianca con un cuore arcobaleno. Le otto Nazionali coinvolte (oltre alla Norvegia, che non ha partecipato ai Mondiali) avevano già utilizzato la fascia durante le partite della Nations League, previa approvazione da parte della UEFA.

Tuttavia, in vista dei mondiali e citando l’Articolo 13.81 del suo regolamento sull’equipaggiamento, la FIFA dichiarò che:

 

Per le competizioni finali FIFA, il capitano di ciascuna squadra deve indossare la fascia da capitano fornita dalla FIFA

 

e distribuì quindi alle 32 Nazionali una fascia con la scritta “No Discrimination“.

Il protagonista dell’opposizione fu Manuel Neuer, portiere e capitano della Germania, che dichiarò la sua intenzione di scendere in campo con la fascia One Love anche a rischio di sanzioni; alla fine optò per la seconda scelta (cioè la fascia No Discrimination), ma la squadra tedesca lanciò lo stesso un messaggio di protesta: tutti i giocatori decisero di coprirsi la bocca con le mani in occasione della foto di gruppo.

 

I Mondiali di calcio femminili

 

Nessuna fascia arcobaleno e One Love neanche ai Mondiali femminili di calcio del 2023, ospitati in Australia e Nuova Zelanda. La FIFA, anche in questo caso, ha posto un chiaro veto sulle calciatrici: chiunque la indossasse sarebbe stata sanzionata o, addirittura, costretta a lasciare il campo.

 

Perché parliamo di “atomizzazione”

 

Generalmente, quando si fa riferimento a quel processo intenzionale e coercitivo di manipolazione volto a influenzare le credenze, le percezioni e i comportamenti di un individuo – spesso attraverso tecniche di controllo dell’informazione – si sta parlando di “brainwashing” (letteralmente “lavaggio del cervello”). Questo processo può essere utilizzato per indurre un cambiamento nell’atteggiamento delle persone, in modo da conformarli a determinate ideologie, credenze o obiettivi.

In un certo senso, è questo che accade attraverso il bombardamento di informazioni che riceviamo quotidianamente tramite i social media e la pubblicità: uno stimolo costante di immagini, frasi, idee che tendono a plasmare la mentalità, le idee, i desideri.

 

Un fenomeno relativamente recente connesso a questo è quello del “washing” dell’immagine di un marchio o di un ente, che a seconda delle istanze socio-politiche più sentite in certi contesti prende vari prefissi (dal “greenwashing” al “pinkwashing”, al “rainbow-washing” e via dicendo): si aderisce ad una causa gradita al pubblico, ma solo in modo apparente, comunicando messaggi contraddittori con le proprie azioni concrete che però inducono potenziali clienti, difficilmente in grado di verificare se ciò che è comunicato sia veritiero, a preferire il proprio marchio ad altri.

 

Per indicare il fenomeno che ci siamo sforzati di descrivere è però interessante usare anche un’altra categoria, che inserisce questi esempi in un ragionamento più ampio sulla società contemporanea: quella di “atomizzazione”. Questo termine si riferisce al processo attraverso il quale le comunità e le relazioni sociali diventano sempre più frammentate e individualizzate, con un’attenzione crescente ai bisogni dei singoli piuttosto che alle reali strutture collettive. Fenomeno che, in determinati contesti, porta delle conseguenze negative: si pensi all’aumento dell’isolamento sociale, o ancora alla perdita di solidarietà e coesione sociale.

L’atomizzazione delle aziende in relazione ai temi sociali fa riferimento al modo in cui le imprese, per interessi prettamente economici, possono reagire o adattarsi a questioni sociali rilevanti – i movimenti per i diritti umani, l’uguaglianza di genere, l’inclusione LGBTQ+ e la sostenibilità ambientale, per esempio – in modo da ottenere un ritorno d’immagine.

 

Il profitto

 

Gli esempi di doppi standard sopra descritti (scelti tra i tanti) sono un riflesso diretto dell’atomizzazione delle aziende calcistiche: mentre i dirigenti si affrettano a sostenere le giuste cause per apparire progressisti e socialmente responsabili, dietro le quinte c’è una ricerca spregiudicata del profitto. I club sono disposti a sacrificare non solo i principi morali e gli ideali che sostengono pubblicamente, ma anche la fiducia e l’integrità dei propri giocatori pur di ottenere sponsorizzazioni lucrative e faraonici accordi commerciali.

 

Per i tifosi e gli appassionati di calcio, questo scenario solleva molte domande importanti. Come possono le squadre giustificare il loro impegno a favore della giustizia sociale quando le loro azioni dimostrano il contrario?

Come si può continuare a sostenere delle cause nobili mentre si stringono accordi con Paesi che calpestano i diritti umani?

Il calcio, ormai, fa parte a tutti gli effetti della nostra società: sono davvero questi i valori che gli alti dirigenti delle Federazioni vogliono lasciare ai tifosi di tutto il mondo?

 

Fonti:

L’ipocrisia della Lega Serie A: bandiera arcobaleno sì, ma non nei Paesi arabi

Riccardo Brizzi, Nicola Sbetti, “Storia della Coppa del Mondo di Calcio”

Prime ammissioni sui morti sul lavoro in Qatar

6.500 morti tra i lavoratori in Qatar

I mondiali del 2022 e la fascia One Love

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Ambiente, società e tecnologia

Dove nascono i dati per istruire l’AI

Si sente spesso parlare di intelligenza artificiale, ma di cosa si tratta esattamente e di cosa ha bisogno per funzionare e svilupparsi? I dati sintetici che alimentano le AI e rispondono ai nostri quesiti.

 

Introduzione al Machine Learning

Il machine learning, o apprendimento automatico, è un campo dell’intelligenza artificiale che permette ai computer di imparare e migliorare dalle esperienze, senza essere esplicitamente programmati. I sistemi di machine learning utilizzano algoritmi che analizzano grandi quantità di dati per individuare relazioni, costruendo modelli che li rendano capaci di compiere previsioni o decisioni senza ulteriori istruzioni.

Questo approccio ha rivoluzionato molti settori, come il riconoscimento vocale, la visione artificiale, il processo decisionale automatizzato e molto altro ancora. Tuttavia, il successo del machine learning dipende fortemente dalla disponibilità di dati di addestramento di alta qualità e rappresentativi del problema da risolvere.

La nascita dei dati sintetici

Con l’aumento delle applicazioni di machine learning, è emersa la necessità di grandi quantità di dati di alta qualità per l’addestramento. Raccogliere e annotare manualmente questi dati può essere un processo lungo, costoso e soggetto a errori. Inoltre, in alcuni casi, i dati reali potrebbero essere limitati o addirittura impossibili da ottenere a causa di vincoli legali, etici o pratici.

Per superare questa sfida, i ricercatori hanno sviluppato tecniche per generare dati sintetici, ovvero dati artificiali creati al computer. Questi dati sintetici mirano a replicare le proprietà dei dati reali, pur mantenendo la privacy e riducendo i costi e gli sforzi di raccolta dei dati.

Cosa sono i dati sintetici

I dati sintetici sono dati artificiali generati tramite modelli o simulazioni al computer invece di essere raccolti dal mondo reale. Questi dati cercano di replicare le caratteristiche statistiche e le proprietà dei dati reali, come la distribuzione, la varianza, le correlazioni e le dipendenze tra le variabili.

A differenza dei dati reali, i dati sintetici non contengono informazioni personali identificabili o dati sensibili, riducendo così i rischi di violazione della privacy. Inoltre, poiché sono generati al computer, possono essere prodotti in quantità pressoché illimitate e con una vasta gamma di variazioni, superando i vincoli e i costi associati alla raccolta di dati reali.

 

Le tipologie di dati sintetici

Esistono diverse tipologie di dati sintetici, ognuna con le proprie caratteristiche e applicazioni:

  1. Dati sintetici generati da modelli: sono creati utilizzando modelli matematici o statistici che cercano di replicare le proprietà dei dati reali. Ad esempio, i modelli generativi avversari (GAN) possono essere addestrati su dati reali e quindi utilizzati per generare nuovi dati sintetici con caratteristiche simili.
  2. Dati sintetici da simulazioni: questa tipologia di dati sintetici è generata attraverso simulazioni al computer che modellano ambienti o processi realistici. Un esempio di utilizzo di questi dati lo troviamo nei giochi o nelle applicazioni di guida autonoma, dove i dati sintetici possono essere generati da simulazioni in ambienti virtuali con diverse condizioni di illuminazione, meteorologiche e di traffico.
  3. Dati sintetici ibridi: questi combinano dati reali e sintetici per massimizzare i vantaggi di entrambi. Possono essere utilizzati come base per generare variazioni sintetiche, aumentando così la diversità e la quantità dei dati di addestramento.
  4. Dati sintetici specifici al dominio: generati per applicazioni particolari, come ad esempio l’imaging medico (ndr. diagnostica per immagini), la visione artificiale per la produzione o la guida autonoma. Questi dati sintetici sono progettati per catturare le caratteristiche specifiche di un determinato dominio o problema.

Quando si utilizzano i dati sintetici

I dati sintetici vengono utilizzati in vari casi, ad esempio quando i dati reali sono limitati o costosi da raccogliere: in alcuni ambiti, come la medicina o le applicazioni militari, la raccolta di dati reali può essere estremamente costosa o addirittura impossibile. I dati sintetici offrono un’alternativa economica e scalabile.

Risultano utili anche per mantenere la privacy dei dati sensibili: nei casi in cui i dati contengano informazioni personali o sensibili, l’uso di dati sintetici può garantire la privacy e la conformità normativa.

Infine, si possono sfruttare anche per creare set di dati di addestramento più ampi e diversificati. I dati sintetici, infatti, possono essere generati con una vasta gamma di variazioni, aumentando la diversità e la rappresentatività dei set di dati di addestramento.

Si possono quindi utilizzare per simulare casi estremi o rari che sarebbero difficili o pericolosi da riprodurre nel mondo reale.

Infine, quando si esplorano nuovi domini o concetti, i dati sintetici sono preziosi in quanto perfetti per generare esempi iniziali e valutare la fattibilità di un’applicazione di machine learning.

 

Performance dei dati sintetici

Numerosi studi hanno dimostrato che i modelli di machine learning addestrati con dati sintetici possono raggiungere prestazioni comparabili o addirittura superiori a quelli addestrati con soli dati reali.

In generale, l’uso di dati sintetici può migliorare le prestazioni dei modelli di machine learning in diverse situazioni:

  • Quando i dati reali sono limitati o distorti: i dati sintetici possono compensare la mancanza di dati reali o le distorsioni nei set sperimentali di dati esistenti.
  • Per migliorare la generalizzazione: i dati sintetici possono introdurre variazioni che aiutano i modelli a generalizzare meglio a nuove situazioni.
  • Per affrontare i problemi di overfitting ossia un adattamento eccessivo che avviene quando un modello statistico molto complesso si adatta ai dati osservati perché ha un numero eccessivo di parametri rispetto al numero di osservazioni. L’aggiunta di dati sintetici può ridurre il rischio di overfitting o la tendenza dei modelli a memorizzare i dati di addestramento invece di imparare concetti generalizzabili.

 

Vi è da evidenziare, però, che la qualità dei dati sintetici dipende dai modelli e dagli algoritmi utilizzati per generarli, nonché dalla rappresentatività dei dati di addestramento originali. La generazione di dati sintetici di alta qualità e rappresentativi richiede una profonda comprensione dei dati reali e dei modelli statistici sottostanti. Se non sono generati correttamente, i dati sintetici possono introdurre distorsioni o artefatti che potrebbero influenzare negativamente le prestazioni dei modelli di machine learning.

In molti casi, l’approccio migliore è una combinazione di dati reali e sintetici, che sfrutta i punti di forza di entrambi.

Il rispetto della privacy

Ciononostante, i dati sintetici hanno un grande vantaggio pratico rispetto a quelli reali, perché evitano ogni problematica relativa alla privacy. Poiché questi dati non contengono informazioni identificabili o dati sensibili, possono essere condivisi e utilizzati per l’addestramento dell’AI senza violare la privacy degli individui.

Questo aspetto è di fondamentale importanza in settori come la sanità, le finanze e il governo, dove la protezione dei dati personali è una priorità assoluta. I dati sintetici consentono di sfruttare i vantaggi dell’apprendimento automatico senza compromettere la privacy dei cittadini o dei clienti.

Inoltre, l’uso di dati sintetici può ridurre i rischi legali e di conformità associati alla condivisione o all’elaborazione di dati personali, semplificando la collaborazione tra organizzazioni e la condivisione di conoscenze, grazie per l’appunto ai loro vantaggi sotto l’aspetto della tutela della privacy.

 

Non c’è dubbio sul fatto che l’intelligenza artificiale sta entrando a grandi passi nelle nostre società, e molto probabilmente sarà sempre più diffusa e impattante in futuro. Come per ogni tecnologia – e forse particolarmente in questo caso, vista la delicata natura cognitiva dei compiti che per la prima volta assegniamo alle macchine tramite l’uso di AI – è fondamentale sviluppare attenzione rispetto al suo metodo di funzionamento e alle conseguenze del suo utilizzo. Questo articolo spera di contribuire almeno in minima parte a tale obiettivo: formare una coscienza collettiva rispetto alla natura dell’intelligenza artificiale e delle sue applicazioni concrete.

 

Fonti:

 

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Cannabis, la rinascita “green” dell’Italia: un occhio alla Carmagnola

Cannabis”: un termine spesso frainteso, associato al mero spettro della droga e relegato, poi, nell’ombra della legalità.

 

È a tal proposito che la situazione legale e la concezione sociale di questa pianta è molto variegata, sia in Europa che nel mondo: ponendo sotto la lente d’ingrandimento anche solo i Paesi europei, è possibile notare una netta differenza fra quelli che hanno adottato politiche più liberali e quelli che, invece, mantengono leggi più restrittive.

 

I primi Paesi a legalizzare del tutto la cannabis sono stati, nel 2021, il Lussemburgo e Malta : qui, ogni maggiorenne può coltivare, acquistare e consumare cannabis a uso personale, senza limiti di THC (un principio attivo il cui nome scientifico è delta-9-tetraidrocannabinolo). Inoltre, è disponibile la cannabis medica per i pazienti che ne hanno bisogno.

Particolarmente importante, negli ultimi mesi, l’evoluzione della situazione tedesca: il 23 febbraio 2024 la Germania ha approvato una legge riguardante l’uso e la coltivazione privata della cannabis.

 

Ad ogni modo, non è difficile venire a conoscenza degli svariati e possibili utilizzi della cannabis. Ciò che rimane tra storia e mistero è, invece, la prestigiosa tradizione italiana nel campo della produzione della cannabis, sia in termini di qualità che di quantità. Una realtà storica che sembra paradossale, se si pensa all’attuale concezione che gli italiani hanno di questa pianta.

 

Cannabis e fascismo: è davvero un binomio perfetto?

 

Paradossale è davvero il termine giusto per descrivere la nostra relazione con questa pianta: il settore canapicolo italiano raggiunse il suo massimo splendore durante il periodo fascista, tra i primi anni ‘20 e la metà degli anni ’40.

 

Nel 1918 nacque il Sindacato di Filatori e Tessitori di Canapa e il settore cominciò a essere coordinato e vigilato dalla Confederazione Fascista Agricoltori, che controllava tutti i consorzi. Si trattava di un organismo che disciplinava la produzione, proporzionandola alla domanda, valorizzava i prodotti e promuoveva i processi di lavorazione della fibra. Il filato di canapa italiano era rinomato in tutto il mondo a causa della sua morbidezza, lucentezza e bianchezza.

 

Come riportato dal Catalogo del Linificio e Canapificio Nazionale, nel 1923 il settore impiegava circa 20.000 persone, con stabilimenti concentrati maggiormente nel nord; si pensi a quelli di Cassano d’Adda e di Genova, città la cui azienda di filati per l’industria navale divenne la prima nel Mediterraneo per produzione.

 

L’importanza della canapa per l’economia italiana divenne tale che Benito Mussolini, nel 1925, arrivò a pronunciarsi in questo modo:

 

La Canapa è stata posta all’ordine del giorno della nazione, perché per eccellenza autarchica è destinata ad emanciparci quanto più possibile dal gravoso tributo che abbiamo ancora verso l’estero nel settore delle fibre tessili. Non è solo il lato economico agrario, c’è anche il lato sociale la cui incidenza non potrebbe essere posta meglio in luce che dalla seguente cifra: 30.000 operai ai quali dà lavoro l’industria canapiera italiana“.

 

Tuttavia, il declino della reputazione della cannabis ebbe inizio pochi anni dopo, quando iniziò il processo storico alla base delle mistificazioni odierne. L’hashish, un derivato puramente ricreativo della cannabis, venne dichiarato dallo stesso Mussolini “nemico della razza” (e, in vero stile fascista, venne definita una droga da “ne**i”).

 

Il proibizionismo statunitense

 

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale l’utilizzo industriale della pianta sembrò ricominciare a crescere, sia in termini monetari che qualitativi. Ma la storia aveva in serbo ben altro.

 

Occorre infatti ricordare che il tracollo dell’industria della cannabis in Italia avvenne durante gli stessi anni del proibizionismo statunitense circa l’alcool e le droghe, che culminò nella messa al bando di cannabis e hashish. Il fenomeno può quindi essere visto come un riflesso sul nostro paese delle influenze globali e delle pressioni politiche dell’epoca.

 

Le politiche proibizioniste adottate dagli Stati Uniti esercitarono una notevole influenza sull’opinione pubblica internazionale e sull’adozione di politiche simili in altri Paesi, portando dapprima alla demonizzazione della cannabis e poi alla graduale scomparsa dall’industria dall’economia italiana, che ne definì un tracollo inarrestabile. Così in Italia il declino della canapa, una delle piante più utili per l’uomo, divenne una questione ideologica.

 

L’Italia oggi: una questione di THC

 

La situazione legale attuale della cannabis in Italia si dirama in due sottogruppi, in base alla dose di THC (o delta-9-tetraidrocannabinolo) contenuta nella pianta: una sostanza psicotropa prodotta dai fiori di cannabis e avente effetti stimolanti e analgesici.

 

La cannabis ad alto contenuto di THC, comunemente nota come marijuana, è illegale in Italia per uso ricreativo e viene considerata una sostanza stupefacente ai sensi della legge: in Italia sono puniti il possesso, la coltivazione, la vendita e il consumo di marijuana. La base legale per la proibizione della cannabis ad alto contenuto di THC è insita nella Legge 685/1975, cioè la Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, che classifica la cannabis come una sostanza stupefacente.

 

La situazione è diversa per la cannabis a basso contenuto di THC, come la varietà industriale di canapa: nel 2016, infatti, è stata approvata la Legge 242/2016, che ha permesso la produzione di canapa con un contenuto di THC inferiore allo 0,6%, purché venga utilizzata per la produzione di fibre tessili, materiali edili, alimenti e cosmetici.

 

Inoltre, la Legge 94/1998 in materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico e la successiva Ordinanza del 2006 sull’importazione di medicinali a base di THC hanno aperto la strada alla produzione e alla vendita di prodotti a base di cannabis per uso medico, creando le basi per l’utilizzo terapeutico della cannabis in Italia (sebbene la sua attuazione sia stata progressiva e soggetta a regolamentazioni specifiche).

 

Seppur la produzione canapicola sembri suddivisa in due prodotti ben distinti, la situazione è molto complessa, a causa della concezione che i diversi partiti politici hanno della stessa. Si pensi alle ultime dichiarazioni di Matteo Salvini: sebbene l’attuale codice della strada preveda già il ritiro della patente per chi guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, durante l’evento conclusivo della campagna elettorale del centrodestra in Sardegna, tenutosi il 21 febbraio 2024, il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti ha proposto di “ritirare la patente a chi viene trovato alla guida drogato”.

Risulta chiaro che la riforma, ancora in attesa dell’approvazione del Parlamento, mira unicamente a rendere più severa la norma già esistente.

 

AssoCanapa

 

Nel 2018 l’Associazione Coordinamento Nazionale per la Canapicoltura in Italia, meglio conosciuta come AssoCanapa, ha iniziato a contrastare le conseguenze che avevano (e hanno) le norme molto restrittive del nostro Paese a riguardo della cannabis.

 

Fondata circa venti anni fa, AssoCanapa ha più volte difeso soci e clienti accusati di spaccio di droga, a causa della somiglianza che le proprie piante di canapa industriale avevano con le varietà ad alto contenuto di THC. Un malinteso non da poco, considerando l’arresto di quei coltivatori che, come dimostrato in diversi casi, stavano semplicemente coltivando la canapa per usi industriali.

 

La Carmagnola

 

Uno dei pionieri di questo movimento è stato Felice Giraudo, un uomo di 83 anni, perito agrario ed ex sindaco di Carmagnola, una città situata a trenta chilometri da Torino.

 

Negli anni ’90, Giraudo e la sua ex assistente Margherita Baravalle decisero di riportare in produzione le varietà tradizionali e locali di canapa, come l’omonima Carmagnola, al fine di utilizzarle come isolante termico e acustico nelle case.

La Carmagnola è una storica varietà di cannabis italiana, avente una dose di THC inferiore allo 0,2%. Ciononostante, il percorso intrapreso per ricominciare a produrla è stato molto tormentato.

 

L’aspetto più interessante di questa storia rimane il potenziale economico: secondo le stime di Giraudo, isolando due terzi delle case italiane con la Carmagnola lo Stato avrebbe potuto risparmiare circa 45 miliardi di euro all’anno in costi di riscaldamento e raffreddamento. Possibile che non siano stati (e non vengano tuttora) presi in considerazione questi dati così importanti?

 

Una cosa è certa: la cannabis continuerà sempre a far parlare di sé, ad aprire menti e a offrire nuove prospettive. Sia che si tratti di una antica varietà come la Carmagnola che delle più moderne coltivate in laboratorio, la cannabis rimane una pianta dalle moltissime potenzialità.

 

Oggi, mentre assistiamo a una rinascita dell’interesse per le sue molteplici applicazioni, dalla produzione di biomassa alle potenzialità nel campo medico e industriale, questa pianta continua a rappresentare un simbolo di resilienza e adattabilità; la sua presenza persiste come un legame forte con la storia agricola e industriale dell’Italia.

 

Fonti:

Sindacato di Filatori e Tessitori di Canapa

Catalogo del Linificio e Canapificio Nazionale

Confederazione fascista dei lavoratori dell’agricoltura

Il discorso di Mussolini

  1. 22-12-1975 n. 685 Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza.

Legge 242/2016

Intervista al presidente di AssoCanapa Felice Giraudo

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The Africa Green Hydrogen Alliance: investire sull’energia pulita

Come alcuni stati del grande continente africano contribuiranno a salvare il mondo dal surriscaldamento climatico. Un bene per la comunità ma anche un possibile asset sul quale investire.

 

Chi è ‘AGHA’?

‘AGHA’, The Africa Green Hydrogen Alliance, è un consorzio di stati del continente africano. Nata a Glasgow in Scozia durante la COP26, ventiseiesima edizione della ‘Conference of the Parties’ (anche nota come United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC, ovvero la Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici), AGHA si prefigge lo scopo di sfruttare l’importante potenziale tecnico e di mercato della produzione di idrogeno verde e dei suoi derivati in favore di tutto il mondo.

Fanno parte di questa alleanza l’Egitto (col Ministero dell’Elettricità e delle Energie rinnovabili, MOERE), il Kenya (col Ministero dell’Energia), la Mauritania (Ministero del Petrolio, dell’Energia e delle Miniere), il Marocco (con IRESEN), il Namibia (Commissione dell’Idrogeno Verde), il Sudafrica (con ‘Industrial Development Corporation’).

Questi paesi sono tutti mossi dall’obiettivo di divenire una potenza energetica cardine nello sviluppo mondiale. Oltre alla finalità ben chiara vi sono anche un progetto ed una coordinazione tali da poter garantire una concreta stabilità dell’Alleanza. Va detto, però, che tra le consociate il Kenya è lo stato che avrebbe maggiore disponibilità di produrre idrogeno verde in quanto già avvezza a produrre il 90% della sua elettricità da idroelettrico, energia geotermica, solare ed eolica, nonché biomassa.

 

Cos’è l’idrogeno verde?

Ma cos’è l’idrogeno verde? Come lo si produce? Ci addentriamo in una spiegazione un po’ più tecnica, che semplificherò per la massima comprensione.

L’idrogeno, come fonte energetica così come la conosciamo, per sprigionare energia deve essere nella sua forma semplice: H2. Nell’universo l’idrogeno è l’elemento di gran lunga più disponibile, ma sulla terra lo troviamo principalmente legato ad altri elementi. Bisogna dunque separare l’idrogeno dal resto dei composti in cui si trova e per fare ciò è richiesto un grande dispendio di energia. Ci sono circa 40 metodi per creare H2, ma certamente il più efficiente è l’elettrolisi.

Se l’energia utilizzata per ricavare H2 deriva da fonti di energia rinnovabile si parla di “idrogeno verde”, diversamente si parla di “idrogeno grigio” nel caso si utilizzino combustibili fossili e di “idrogeno blu” ove le emissioni di combustibili fossili utilizzati per produrre idrogeno vengano catturate.

Verrebbe naturale domandarsi perché usare una fonte di energia primaria, quali ad esempio i combustibili fossili, per produrre altra energia primaria invece che produrre energia elettrica. La risposta è semplice: perché è più conveniente!

Ebbene, l’energia elettrica è una fonte di energia secondaria poiché per crearla serve l’ausilio di un’altra fonte. L’assenza di batterie di stoccaggio capaci di conservare ingenti quantità di energia elettrica fa sì che l’energia prodotta debba essere consumata in un lasso di tempo breve. L’idrogeno dal suo canto ha invece il valore aggiunto di poter essere facilmente stoccato nel sottosuolo, immesso nelle condutture del gas, trasportato anche liquido. Inoltre, l’idrogeno ha un’alta densità energetica: un chilogrammo sprigiona 120 megajoule di energia. Una potenza ben tre volte in più grande di quella sprigionata dalla benzina.

Nel mondo attualmente la più grande produzione di idrogeno verde avviene in un impianto realizzato in soli due anni, tra il 2018 e il 2020, a Fukushima, a 250 km da Tokyo. Denominato ‘Fukushima Hydrogen Energy Research Field’ (anche conosciuto come ‘FH2R’), lo stabilimento include 40 mila m2 di estensione per l’impianto e 180 mila m2 di pannelli fotovoltaici. Produce 1.200 m3/h di H2. Ovvero l’equivalente del fabbisogno di 150 abitazioni per un mese stando alle stime giapponesi.

 

Perché investire in Africa?

AGHA inizia il suo “pitch” (ndr. presentazione a fini di promozione di un nuovo progetto o di una nuova impresa) affermando che «C’è un crescente consenso internazionale che vede giocare all’idrogeno verde un probabile ruolo vitale nella transizione del mondo verso un futuro energetico sostenibile. Prodotto utilizzando energia generata da fonti rinnovabili […] potrebbe inoltre contribuire ad aumentare la sicurezza energetica attraverso la diversificazione delle fonti, riducendo nel contempo le emissioni di gas serra per aiutare il mondo a raggiungere lo zero netto» [TdA]. Con questo incipit AGHA vuole trasmettere un chiaro messaggio ambientalista, oltre che affermarsi come principale esportatore di una fonte di energia sulla quale garantisce in prima persona.

L’Alleanza stima una crescita della domanda mondiale di idrogeno di circa 7 volte il valore registrato nel 2020 di 89 Mt (ndr. Milioni di tonnellate) vedendo entrare nel mercato come possibili clienti, oltre alle industrie chimiche e di raffinazione che attualmente coprono la quasi totalità della richiesta di idrogeno, l’industria dei trasporti, quella del riscaldamento di edifici, l’industria del ferro e dell’acciaio, quella dell’energia, oltre che altre tipologie di industrie non considerate nello specifico.

Secondo le loro previsioni «la mobilità, che rappresenta circa il 19% delle emissioni globali oggi, dovrebbe essere il segmento di utilizzo finale dell’idrogeno più grande entro il 2050» in quanto «l’idrogeno può essere utilizzato […] specialmente nei settori difficili da decarbonizzare, come i mezzi di trasporto a lungo raggio e l’industria pesante».

Alla luce della nuova rotta politica intrapresa a livello globale riguardo alla riduzione delle emissioni di CO2, The Africa Green Hydrogen Alliance stima un taglio dei costi di produzione di idrogeno verde del 60% entro il 2030. Arrivando addirittura ad eguagliare già nel 2028, grazie all’introduzione di tariffe sull’anidride carbonica, il costo dell’idrogeno grigio. In questo modo l’idrogeno verde diverrebbe più competitivo rispetto ad altre alternative a basse emissioni di carbonio entro il 2030, in circa 20 applicazioni pratiche.

 

 

Il grande continente

C’è un elemento fondamentale che determina un mix di successo per AGHA: il continente africano! Morfologicamente parlando l’Africa presenta vaste aree di terra non abitata. Per non parlare della quantità di Sole da cui è ben irradiata. Perché questi fattori rappresentano un vantaggio? Per capirlo basta pensare alla quantità di suolo occupato per la centrale di Fukushima, citata poco fa. L’Africa ne dispone in quantità ben più elevate che potrebbero essere utilizzate senza sottrarre suolo agli abitanti.

Tirando le somme, AGHA e il continente africano hanno tutte le carte in regola per porsi al mondo come operatore chiave di un mercato che ancora non conosce molti player, ma che ben sappiamo esistere. Ciò l’ha dimostrato non solo ufficializzando la sua esistenza e la sua mission in una conferenza internazionale ma annunciandola parallelamente anche al lancio di ‘RepowerEu’ (ndr. Programma di accelerazione per la diffusione delle energie rinnovabili nell’Unione Europea). Ciò fa ben sperare per quanto riguarda la diversificazione del rifornimento energetico europeo e la disintossicazione dal petrolio e dal gas russo.

 

Fonti:

https://climatechampions.unfccc.int/africa-green-hydrogen-alliance/

https://gh2.org/sites/default/files/2022-11/Africa’s%27s%20Green%20Hydrogen%20Potential.pdf

https://www.italiaoggi.it/news/africa-idrogeno-verde-per-la-ue-2607204#:~:text=L’Africa%20green%20hydrogen%20alliance,di%20nuovi%20posti%20di%20lavoro

https://www.geopop.it/perche-l-idrogeno-e-il-combustibile-ideale-per-la-transizione-energetica/

https://www.geopop.it/a-fukushima-si-trova-il-piu-grande-impianto-per-la-produzione-di-idrogeno-verde-al-mondo/

https://www.afsiasolar.com/suez-could-become-africas-gateway-to-a-green-hydrogen-economy/

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Economia, StartUp e Fintech

iBicocca Titanium: il percorso di pre-accelerazione firmato UniMiB

Alla scoperta del nuovo percorso complementare fornito gratuitamente da iBicocca, progetto di UniMiB, per supportare idee imprenditoriali di studenti, ricercatori e personale universitario. Intervista alla D.ssa Elena Ippolito, responsabile del progetto iBicocca che da anni porta avanti la cultura dell’“innovazione, imprenditività e imprenditorialità”

 

Chi è Elena Ippolito

La D.ssa Elena Ippolito lavora presso l’Università degli Studi di Milano – Bicocca da 28 anni. Precedentemente ha lavorato 12 anni presso l’Università Statale di Milano. «Sono stata inizialmente ‘Vicesegretario amministrativo del Dipartimento’ di Matematica e poi ‘Segretario amministrativo dei Dipartimenti’ di Informatica e Matematica in Bicocca per 12 anni». Racconta Elena, “l’iMum”, come la chiamano i suoi ragazzi che seguono il percorso iBicocca, durante l’esperienza biennale al Tar Lombardia come ‘Capo Ufficio accettazione ricorsi e archivio generale’ ha deciso di iscriversi all’università e nel 2013 ha conseguito la Laurea in ‘Management pubblico’.  Successivamente al suo rientro in Bicocca, coglie al volo un’occasione che le viene proposta, ovvero tradurre in Bicocca quanto dettato dal bando Startup – D.D. n. 436 del 13 marzo 2013 – pubblicato congiuntamente da Miur e il Mise (Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca; Ministero dello Sviluppo Economico, ndr.).

I due Ministeri esortavano nel bando le università, a dotarsi di misure per favorire l’imprenditività quindi la proattività nei ragazzi, in modo che gli stessi potessero lavorare insieme, pur provenendo da corsi di studi diversi, per la realizzazione di progetti imprenditoriali.

Elena stava frequentando in quel periodo il Master in ‘Open Innovation and Knowledge Transfer (MIT)’ presso il Politecnico di Milano, concluso a pieni voti nel 2015, quando, grazie alla collaborazione con Francesco Inguscio crea iBicocca.

 

La nascita di iBicocca

Nella progettazione di iBicocca, Elena è stata supportata da Francesco Inguscio, startupper con curriculum vitae degno di nota. L’ha conosciuto mentre era alla ricerca di spunti per realizzare un percorso di imprenditorialità per UniMiB.

«Il Direttore Generale mi ha detto: «Elena, devi capire qual è la misura giusta per tradurre il contenuto del bando startup nel nostro Ateneo». Quindi, ovviamente, per decidere che cosa realizzare, dovevamo comprendere quale fosse il bisogno. Si può dire che iBicocca è nata con lo stesso iter di una startup. Quindi, io e Francesco Inguscio, prima abbiamo sondato la conoscenza di certe tematiche tra gli studenti ospitando nel nostro Ateneo  nel 2014 un evento che si chiamava ‘Mi Faccio Impresa’; L’iniziativa che era organizzata da  un funzionario della Provincia di Milano, aveva collocazioni diverse nei diversi anni. Nell’edizione 2014 con sede nell’edificio ‘Agorà – U6’, avevamo invitato 15  startup che oltre a presentare il proprio modello di business agli studenti, hanno offerto loro la possibilità di proporsi per posizioni di stage. In quel contesto ha avuto luogo inoltre la prima edizione della “Bicocca Ideas”, competizione di idee made in Bicocca. Al termine dell’evento è stato somministrato un questionario ai partecipanti per comprendere il grado di conoscenze del mondo dell’imprenditoria ed è stata una sorpresa apprendere che erano passati da quell’evento circa 2000 studenti e che c’era una richiesta di approfondire le tematiche trattate. Questo ci ha dato la possibilità di analizzare i dati e di porre le basi del percorso iBicocca.»

Nel 2015 parte la prima edizione del percorso iBicocca con 280 studenti iscritti all’offerta formativa, che rilasciava già allora Open Badge creati ad hoc per essere convertiti in CFU (Crediti Formativi Universitari) per altre attività utili nel mondo del lavoro, ove il Piano di Studio dei partecipanti lo prevedesse. Al termine della prima edizione di iBicocca i feedback sono stati molto positivi e uno dei ragazzi prossimo alla laurea, che ha partecipato alle sessioni formative, una volta laureato ha addirittura fondato una startup.

 

iBicocca Titanium

Racconta Elena: «Il Titanium è un vero e proprio percorso di pre-accelerazione aperto a team che abbiano già un’idea abbastanza definita e che ambiscano a trasformarla in un’idea di business, fondando la propria startup. Noi ci avvaliamo della collaborazione di ‘weBeetle’, che è il nostro advisor per questo percorso. Il percorso è organizzato in sei “sprint”, in cui in sessioni plenarie vengono approfonditi tutti gli argomenti legati all’idea imprenditoriale; è previsto inoltre per ogni singolo team un percorso di approfondimento dedicato. Ogni singola squadra ha la possibilità di vedere crescere la propria idea, analizzando tutti quegli aspetti legati ad esempio al mercato, ai competitors piuttosto che alla ricerca dei finanziamenti, alla definizione di un executive summary, e ad un business model canvas un po’ più organizzato fino al business plan, che è il documento che in sostanza racchiude le condizioni per la fattibilità e la realizzazione di un’impresa. Il Business Plan mostra la capacità anche di avere dei guadagni e ovviamente vengono messi a  punto i margini che la società avrà per permetterle di crescere velocemente e capire se effettivamente ha senso sviluppare l’idea imprenditoriale proposta. Inoltre, il business plan è sì una sorta di bilancio preventivo, ma anche la  proiezione della crescita a 5-10 anni, molto apprezzata e richiesta  dagli investitori.

Al termine del percorso Titanium ci sarà un evento finale alla presenza degli investitori in cui verranno premiate le tre migliori idee. Se uno di questi tre team costituirà la start up entro la fine dell’anno, gli investitori erogheranno un primo finanziamento. Questo evento offrirà una vetrina vera e propria, tutti i partecipanti avranno la possibilità di conoscere una serie di soggetti che poi possono facilitare la crescita dei propri progetti.»

Il primo ciclo di iBicocca Titanium ha visto la candidatura di ben 44 team tra ricercatori, dottorandi, personale amministrativo e studenti. Dal bando si evince la volontà di creare collaborazione intra ed extra Ateneo: il gruppo deve essere composto da almeno un componente afferente all’’Università degli Studi di Milano – Bicocca, mentre gli altri membri possono essere persone esterne alla comunità Bicocca.

Hanno superato la prima selezione 21 squadre, scelte in base al grado di fattibilità del progetto e alle competenze presenti nel team. Non ci sarà particolare competitività tra i team in quanto ognuno di loro si occupa di un pezzo di mercato che non collide con gli altri.

Elena non perde occasione per regalare qualche consiglio basato sulla sua esperienza: «faranno un pitch tutti i team che arriveranno al termine del percorso con un team completo, inteso come competenze complementari e diverse tra loro. Noi abbiamo sempre detto che uno dei punti di forza di una startup è proprio il team. Gli investitori, di fatto, investono più sulle persone, che sull’idea; nel tempo abbiamo visto che solo le aziende con un team molto forte, affiatato, ma eterogeneo, hanno i presupposti per avere successo. I componenti del team stesso devono avere necessariamente competenze diverse: lo sviluppatore, ad esempio, che mette a punto il dispositivo e lo brevetta, non può essere lo stesso che si occupa del Business Plan perché hanno una formazione diversa, i due devono lavorare comunque insieme ma con ruoli e responsabilità compatibili con il proprio percorso di studi. Questa ricchezza di conoscenza è uno dei punti di forza per crescere velocemente.»

Cosa si aspetta il team iBicocca da questo nuovo progetto?

«È un grandissimo successo aver visto 44 team iscritti. Abbiamo guardato le presentazioni delle idee, siamo molto contenti perché alcune sono veramente fatte molto bene. In realtà, molti degli esclusi (per lo più per una questione di possibilità di seguirli correttamente piuttosto che per il grado di definizione dell’idea) verranno comunque recuperati perché noi ci teniamo a supportare il più possibile tutti coloro che ci credono e che vogliono crescere. Personalmente mi aspetto al termine del Titanium almeno quattro startup pronte per i primi mesi del 2025.»

Noi del team di iBicocca siamo un gruppo molto compatto. Ognuno di noi, come in una startup, ha competenze diverse, pur essendo abbastanza intercambiabili, ma abbiamo l’obiettivo comune di lavorare con efficacia, competenza e disponibilità, per fare in modo che i ragazzi abbiano un supporto costante e di qualità. Salutando “la iMum ” le faccio un grande augurio per questa e per le prossime edizioni. Sono certo che ogni gruppo sfrutterà al massimo questa occasione!

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Ambiente, società e tecnologia

Esplorando i bias cognitivi: scorciatoie mentali e decisioni irrazionali

Dallo sviluppo della coscienza, ovvero la consapevolezza che il soggetto ha di sé stesso e del mondo esterno, gli esseri umani sono in grado di riflettere, progettare, organizzare e prendere decisioni razionali per realizzare scenari futuri anche molto distanti dal presente. Questo è stato uno dei principali fattori che ha permesso agli esseri umani di diffondersi in tutto il globo e prevalere sulle altre specie. Tuttavia, il nostro cervello ha energie limitate e adotta scorciatoie per prendere decisioni. In gergo, si parla di euristiche e bias (Kahneman & Tversky, 1974) volti ad assicurare l’economia cognitiva, ovvero l’uso efficace delle risorse cognitive. 

Dunque, il processo decisionale umano, fondamentale per lo sviluppo economico e sociale, è influenzato da complessi meccanismi cognitivi. Dallo sviluppo della coscienza alla prevalenza di bias cognitivi, l’essere umano si trova costantemente ad affrontare sfide nell’interpretazione e nella valutazione degli eventi, con ripercussioni dirette sull’economia e sulla società. Questo studio si propone di esaminare il ruolo cruciale che i bias cognitivi giocano nel processo decisionale e le loro implicazioni per il mondo economico.

 

Il ruolo dei bias cognitivi nell’elaborazione delle decisioni

I bias cognitivi rappresentano distorsioni nelle valutazioni di fatti e eventi, che inducono le persone a creare una visione soggettiva della realtà. In sostanza, ciò significa che il nostro cervello tende a deformare la realtà costruendo mappe mentali, ovvero stereotipi, in cui si collocano questi bias. Queste distorsioni derivano da esperienze e concetti preesistenti, senza necessariamente avere legami logici validi tra di loro. Ogni giorno, molte delle nostre decisioni sono influenzate da questi bias e stereotipi. Le persone affrontano costantemente questioni, criticità, problemi e scelte, utilizzando un approccio “euristico”, un metodo logico che comprende diverse strategie, tecniche e processi creativi per trovare soluzioni. Infatti, un approccio logico-scientifico può essere impegnativo e insostenibile se applicato quotidianamente a tutte le decisioni, pertanto, il nostro cervello spesso opta per un approccio più rapido. I bias sono, in pratica, scorciatoie che il nostro cervello adotta per risparmiare energia. Queste scorciatoie sono per lo più corrette e ci consentono di interpretare la realtà in modo rapido ed efficiente. Tuttavia, in alcuni casi, possono condurci a errori di valutazione. Quando un processo euristico porta a imprecisioni o errori di valutazione, siamo di fronte a un bias cognitivo.

Analisi e classificazione dei bias cognitivi

Ad oggi, sono stati studiati più di 100 bias e classificati in:

  • i “representativeness biases” sono caratterizzati dalla deviazione dalle regole probabilistiche a favore di opzioni che sono percepite come più rappresentative o più facilmente accessibili;
  • i “wish biases ” sono caratterizzati dall’influenza dei desideri personali sulla presa di decisione;
  • i “cost biases” sono caratterizzati dalla distorsione del valore dei costi o delle perdite nella valutazione delle opzioni;
  • i “framing biases ” sono caratterizzati dall’influenza del contesto circostante sulla decisione;
  • gli “anchoring biases” sono caratterizzati dall’influenza di un valore iniziale di riferimento sulla decisione.

 

Si tratta di categorie di distorsioni cognitive che possono influenzare il processo decisionale in modi specifici, portando a scelte non sempre razionali o ottimali. Di seguito, elenchiamo i bias più comuni:

  • il bias di conferma induce ad accettare e ricordare più facilmente le informazioni che confermano convinzioni preesistenti, ignorando quelle contrastanti. Ad esempio, una persona convinta che le diete drastiche siano la chiave per la perdita di peso potrebbe cercare e dare più credito a studi o testimonianze che confermano questa convinzione, ignorando ricerche che suggeriscono approcci più moderati ed equilibrati;
  • il bias di disponibilità porta a dare maggiore importanza a informazioni immediatamente disponibili, spesso trascurando dati più rappresentativi. Ad esempio, dopo aver sentito una storia di un incidente d’aereo, qualcuno potrebbe evitare di volare percependo il volo come più pericoloso, anche se le statistiche dimostrano che è un mezzo di trasporto molto sicuro;
  • il bias dell’ancoraggio influisce sulle decisioni attraverso un valore iniziale di riferimento, noto come “ancora”. In un negoziato, la prima offerta fatta da una delle parti può influenzare significativamente l’esito. Se la prima offerta è molto alta, le controfferte successive saranno influenzate da questo “ancoraggio”;
  • il bias di attribuzione fondamentale spinge a spiegare il comportamento altrui con attributi personali, trascurando i fattori situazionali, e viceversa per il proprio comportamento. Se qualcuno commette un errore, potremmo tendere ad attribuirlo alla sua incompetenza (attribuzione personale), ignorando possibili fattori esterni, come la mancanza di risorse o la complessità della situazione;
  • il bias di gruppo genera preferenze o pregiudizi verso membri del proprio gruppo rispetto a quelli esterni, contribuendo a stereotipi e discriminazioni. In un contesto di lavoro, potrebbe verificarsi il bias di gruppo quando i membri di un team sopravvalutano le capacità dei propri colleghi, ignorando le competenze di individui provenienti da altri reparti;
  • il bias di conformità inclina a conformarsi alle opinioni della maggioranza, anche a discapito delle proprie convinzioni. In un gruppo in cui la maggioranza sostiene un’opinione, un individuo potrebbe conformarsi a quella visione anche se personalmente in disaccordo, per evitare conflitti o essere accettato dal gruppo;
  • il bias di sopravvalutazione dell’abilità porta a sovrastimare le proprie competenze, noto come “effetto illusione di superiorità”. Ad esempio, un conducente potrebbe sovrastimare le proprie capacità di guida, ritenendo di essere al di sopra della media, nonostante la realtà statistica che la maggior parte dei conducenti non può essere sopra la media in termini di abilità di guida;
  • il bias di retroguardia attribuisce più importanza alle informazioni recenti rispetto a quelle passate durante le decisioni. Per esempio, nel valutare le prestazioni di un dipendente, un supervisore potrebbe dare più peso agli ultimi risultati ottenuti durante un periodo di valutazione, ignorando successi o difficoltà passati;
  • il bias di prospettiva guida le valutazioni basate sulla propria prospettiva, spesso ignorando il punto di vista degli altri. In una discussione politica, una persona potrebbe valutare le proprie opinioni come più valide semplicemente perché rispecchiano la propria prospettiva, ignorando le legittime preoccupazioni degli altri;
  • il bias di selezione si manifesta nella raccolta o interpretazione selettiva delle informazioni per supportare opinioni o convinzioni. Una persona che sostiene una particolare teoria scientifica potrebbe selezionare e presentare solo gli studi che supportano tale teoria, ignorando ricerche contrastanti che potrebbero mettere in discussione le sue convinzioni.

 

In conclusione, l’economia, come la società nel suo complesso, è plasmata dalle decisioni prese dagli individui. Tuttavia, il riconoscimento dei bias cognitivi e la consapevolezza della loro influenza possono contribuire a migliorare la qualità delle decisioni, con impatti significativi sull’efficienza economica e sulla gestione delle risorse. In un contesto in cui la velocità e l’accuratezza delle decisioni sono cruciali, comprendere e gestire i bias cognitivi diventa un elemento essenziale per il successo economico e sociale. Ognuno di noi ha pregiudizi generati dalla propria esperienza di vita e dal proprio tessuto valoriale. In ciascuno di noi, perciò, esiste una zona cieca della nostra consapevolezza: gli studiosi la definiscono il “bias blind spot (E. Pronin, The Bias Blind Spot: perception of bias in self versus others). Esserne a conoscenza è importante per gestirla al meglio e prendere decisioni migliori.

 

Fonti:

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Economia, StartUp e Fintech

Henry Mintzberg e l’impatto delle pratiche aziendali sulla stabilità economica

 

Le imprese: insiemi di individui che svolgono la propria attività in un intreccio di visioni, strategie e azioni, al fine di produrre e distribuire beni e servizi.

Il loro impatto, tuttavia, va ben oltre: sono il cuore pulsante dell’economia globale, le forze motrici di un mondo in costante movimento e una parte integrante della nostra società, in quanto influenzano, con le proprie mosse, la sua stabilità sia economica che sociale.

A esaminare da vicino il ruolo delle imprese nell’ecosistema economico fu, nel 2010, un articolo alquanto critico, denominato “how the enterprises trashed the economy” (trad. “Come le imprese hanno distrutto l’economia”), pubblicato sulla rivista The Economist e firmato dal rinomato economista, professore e scrittore canadese Henry Mintzberg. La sua analisi era incentrata, in realtà, sulle imprese americane.

Nel corso del tempo si sono susseguite numerose teorie economiche volte a risanare i problemi derivanti dalla mala gestione dell’economia americana. Secondo Mintzberg l’errore primario sarebbe da cercare all’interno delle imprese stesse, che hanno creato il più grande problema che permea l’economia moderna. Ma andiamo con ordine.

 

Lo scandalo delle compensazioni esecutive

 

Le dinamiche del mondo aziendale vedono le imprese e i leader agire da attori principali e gli economisti assumere il ruolo di osservatori. Mintzberg, nel suo articolo, ritiene impossibile assumere che tutti i leader abbiano, nel corso del tempo, un comportamento corretto e ciò rappresenta, sia nel breve che nel lungo termine, un danno consistente.

In molti casi, gli amministratori delegati e altri dirigenti aziendali delle più grandi imprese statunitensi hanno ricevuto dei compensi e dei bonus astronomici, spesso sproporzionati rispetto alle prestazioni effettive dell’azienda: generose stock-option (cioè possibilità di acquistare azioni dell’azienda a un prezzo inferiore rispetto al valore di mercato), bonus in denaro e incentivi basati sulle performance.

Negli Stati Uniti il concetto di leadership è, ormai, ampiamente consolidato.

Ma se la leadership consiste nel trasmettere segnali positivi che coinvolgono tutte le altre persone nell’azienda, qualsiasi CEO disposto ad accettare un pacchetto di compensi esclusivi non può essere considerato un leader. E, se è vero che “un pesce marcisce dalla testa” (come vuole un vecchio detto), allora anche in economia deve valere l’assunzione in base alla quale le cause di malcontento di un subordinato devono essere cercate, in molti casi, tra coloro che occupano posizioni di maggiore responsabilità.

Al contrario, la realtà vuole che a subirne le conseguenze siano i dipendenti: mentre i dirigenti si avvantaggiano di compensazioni sempre più esose, i lavoratori sono costretti a lottare per mantenere dei salari dignitosi e delle condizioni di lavoro quantomeno adeguate. Le conseguenze, inoltre, non sono limitate all’aumento di divari e disuguaglianze all’interno delle aziende, ma anche a un impatto negativo sull’efficienza e sulle prestazioni complessive delle imprese stesse: quando i dirigenti sono incentivati principalmente dal raggiungimento di obiettivi finanziari a breve termine, possono essere portati a fare scelte che danneggiano la stabilità a lungo termine dell’azienda.

E tutto ciò si traduce, molto spesso, in licenziamenti di massa e fallimenti.

 

Il grande problema dell’economia

Se il CEO è l’incarnazione stessa dell’azienda, allora gli altri sono ridotti a meri numeri da tagliare alla minima flessione dei risultati finanziari. Ma i licenziamenti massicci delle “risorse umane”, volti a salvaguardare i costi, rappresentano davvero una soluzione valida? Il costo di questi licenziamenti, poi, è tangibile: si riflette non solo sull’etica aziendale, ma anche sui lavoratori e sui middle manager oberati, poco apprezzati, scoraggiati e stanchi.

Il problema risiede nei leader che restano in cima, senza scendere tra le fila e senza calarsi nella realtà operativa dell’azienda.

Chi tra gli alti dirigenti delle banche e delle compagnie di assicurazioni fallite sapeva davvero cosa stesse succedendo quando hanno rischiato il futuro delle loro imprese?

 

IKEA: un’azienda solida?

 

Un’azienda robusta non è una collezione di risorse umane, ma è una comunità di esseri umani. L’efficacia di una strategia aziendale non deriva tanto da un processo decisionale che si origina dall’alto, quanto piuttosto da un processo di apprendimento che può emergere da qualsiasi angolo dell’azienda.

Ma quante, tra le grandi aziende americane, possono davvero vantare una simile solidità? La chiave del successo di IKEA, ad esempio, sta nell’offerta di mobili non assemblati ma facilmente trasportabili: si tratta di un’idea nata da un lavoratore che, per far entrare un tavolo nella sua auto, ha dovuto rimuoverne le gambe. Questa persona non è stata né scoraggiata né ridimensionata dalla leadership aziendale.

Quando le persone all’interno di un’azienda sono trattate con rispetto e ricevono il giusto riconoscimento da una leadership impegnata nel coinvolgere tutti, si crea un legame autentico con i prodotti, i clienti e l’intera strategia aziendale.

È questo tipo di coinvolgimento genuino a fare la differenza.

Nel caso degli impiegati delle banche e delle compagnie di assicurazioni fallite, gli si chiedeva se fossero realmente coinvolti e interessati alle attività aziendali, proprio come lo era la loro leadership?

 

Aziende esploratrici e aziende sfruttatrici

Per Mintzberg esistono due vie fondamentali per far salire il valore delle azioni: l’esplorazione e lo sfruttamento.

Le aziende che esplorano raggiungono quest’obiettivo attraverso una ricerca accurata, la creazione di prodotti migliorati e un servizio superiore; si tratta di un percorso impegnativo, che richiede tempo e dedizione.

D’altra parte, le aziende che sfruttano scelgono una strada più agevole: deprezzano il valore del marchio, riducono gli investimenti in ricerca, confondono i clienti con prezzi ingannevoli e cercano di muoversi sempre al limite della legalità, spingendo i politici per ridurre il livello delle normative. Questi comportamenti possono far aumentare il valore delle azioni per un periodo sufficiente a consentire agli esecutivi di incassare i propri bonus e trasferirsi altrove, com’è accaduto in molte delle grandi aziende americane.

 

Qual è la soluzione?

La critica di Mintzberg parte proprio dall’assunzione che se ad aver portato le proprie imprese sull’orlo del baratro sono stati i leader aziendali, la soluzione ai problemi sarebbe dovuta arrivare da loro e non dalle teorie economiche, le quali, come detto, provengono dagli economisti, cioè dei meri osservatori.

Il comportamento delle imprese rischia di trasformare il loro ruolo all’interno della società: da motori di crescita e innovazione a macchine orientate esclusivamente al profitto a breve termine.

È fondamentale porre l’accento su una leadership aziendale autentica e responsabile: i dirigenti non devono essere solamente gestori di sé stessi, ma delle guide in grado di ispirare e coinvolgere l’intera organizzazione verso degli obiettivi comuni.

Solo così le imprese potranno recuperare quel senso di solidità e intraprendenza che le ha caratterizzate in passato, contribuendo così a una crescita economica più equa e sostenibile per tutti.

 

Fonti:

The Economist: Henry Mintzberg on how the enterprises trashed the economy

Abuso di compensazione esecutiva

Il successo di IKEA

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Economia, StartUp e Fintech

Innovazione economica: come cambierà il nostro modo di fare business

L’innovazione economica rappresenta un affascinante campo di studio in costante evoluzione. In un contesto globale sempre più interconnesso e caratterizzato da rapidi progressi tecnologici, le imprese si trovano costantemente di fronte a sfide dinamiche che richiedono un adattamento continuo per mantenere la competitività. È imperativo comprendere come questi cambiamenti influenzeranno il nostro approccio nel mondo degli affari.

Nel tessuto sempre più complesso dell’economia contemporanea, osserviamo con attenzione alcuni trend chiave che plasmeranno il futuro del business: la digitalizzazione, ad esempio, sta rivoluzionando la modalità con cui le imprese operano, introducendo nuove opportunità e, al contempo, nuove sfide. L’adozione di tecnologie emergenti, come l’intelligenza artificiale e l’Internet delle cose, è fondamentale per rimanere al passo con un panorama competitivo in costante mutamento.Inoltre, la sostenibilità ambientale è sempre più al centro delle strategie aziendali, poiché le imprese si rendono conto dell’importanza di un approccio responsabile verso l’ambiente.

Quindi, l’innovazione economica non riguarda solo l’aspetto tecnologico, ma anche la capacità di integrare pratiche sostenibili nel core business. Vediamole nel dettaglio.

 

Digitalizzazione

La trasformazione digitale sta rivoluzionando il modo in cui le imprese operano, nel modo in cui le informazioni vengono raccolte, elaborate e condivise. Le imprese stanno abbracciando sempre più le tecnologie digitali per migliorare l’efficienza operativa, la comunicazione e la creazione di valore per i clienti: dalla gestione dei dati all’automazione dei processi, le aziende devono abbracciare la tecnologia per rimanere efficienti e competitive.

La digitalizzazione permette l’ automazione dei processi aziendali, ciò significa che l’attività ripetitive e time-consuming possono essere gestite in modo più rapido ed efficiente attraverso l’uso di software e sistemi automatizzati. Questo non solo aumenta la produttività, ma libera anche risorse umane per compiti più strategici. Attraverso il processo di digitalizzazione si ha la formazione dei Big Data, ovvero l’accumulo massiccio di dati. Le imprese possono raccogliere e analizzare grandi quantità di dati per ottenere insights significativi sul comportamento del cliente, le tendenze di mercato e le prestazioni aziendali. Questa analisi informata è cruciale per prendere decisioni strategiche. Ma ti chiederai: “dove si trovano questi dati?”.

La risposta è: non c’è niente di fisico, questi dati si trovano tutti sul Cloud (memorie esterne accessibili tramite internet). Questa soluzione è fondamentale perché offre flessibilità e accessibilità ai dati. Le imprese possono archiviare informazioni in modo sicuro e accedervi da qualsiasi luogo, facilitando il lavoro remoto e migliorando la collaborazione tra team.
Un esempio tangibile di digitalizzazione è l’espansione dell’e-commerce e di come ciò influenzi la vendita al dettaglio: le imprese devono offrire un’esperienza di acquisto online intuitiva e sicura per soddisfare le aspettative dei consumatori digitali.

Infine, con una crescente dipendenza dalla tecnologia digitale, la sicurezza informatica diventa cruciale (cybersecurity). Le imprese devono investire in robuste misure di sicurezza per proteggere i dati sensibili e garantire la continuità operativa.

Intelligenza artificiale

L’AI consente alle aziende di analizzare grandi quantità di dati per identificare modelli e trend. Questa analisi predittiva può essere utilizzata per prevedere comportamenti futuri dei clienti, tendenze di mercato e performance operativa, consentendo alle aziende di prendere decisioni informate; grazie all’analisi dei dati dei clienti le aziende possono offrire esperienze personalizzate ai customer: si possono creare offerte e servizi su misura, migliorando la soddisfazione del cliente e la fidelizzazione. Inoltre, gli algoritmi di apprendimento automatico possono automatizzare una varietà di compiti ripetitivi, riducendo il carico di lavoro manuale. Ciò consente alle risorse umane di concentrarsi su attività più complesse e creative, migliorando l’efficienza operativa complessiva.

Sostenibilità aziendale

Le imprese stanno sempre più riconoscendo che la sostenibilità ambientale non dovrebbe essere solo un’aggiunta o un aspetto separato delle loro attività, ma dovrebbe essere incorporata nel cuore stesso della strategia aziendale. Ciò implica una riflessione su come ogni aspetto delle operazioni aziendali, dalla catena di approvvigionamento alla produzione, alla distribuzione e oltre, può essere reso più sostenibile. Inoltre, la sostenibilità può costituire un vantaggio competitivo perché i consumatori moderni sempre più attenti all’impatto ambientale delle aziende e preferiscono quelle che dimostrano un impegno autentico verso la sostenibilità, quindi integrare pratiche sostenibili influenza positivamente la reputazione e la fedeltà del cliente.

Non solo il cliente, bensì qualsiasi stakeholder, compresi gli investitori che considerano la sostenibilità come un criterio importante nella loro decisione di investimento e quindi questi sono interessati ad investire in aziende che adottano approcci sostenibili verso l’ambiente. A livello pratico, quindi l’azienda deve sicuramente impegnarsi sulla riduzione delle emissioni di gas terra, con l’uso di energie rinnovabili. Inoltre, si devono concentrare sull’ottimizzazione dell’uso dell’energia, quindi ridurre il consumo energetico, attraverso per esempio sistemi di illuminazione a basso consumo e isolamenti efficienti. La sostenibilità ambientale implica anche una gestione responsabile delle risorse naturali: le aziende possono adottare politiche che promuovono il riciclo e riducono l’uso di materiali non sostenibili. Inoltre, tutto ciò va spiegato attraverso una comunicazione trasparente: le aziende devono comunicare apertamente le proprie pratiche sostenibili, i progressi compiuti e gli obiettivi futuri. Questa trasparenza contribuisce a costruire la fiducia dei clienti e degli investitori.

Sostenibilità ambientale: il caso studio

Un esempio pratico di sostenibilità ambientale è l’azienda Nespresso che si occupa della produzione e vendita di macchine da caffè espresso e capsule di caffè. Innanzitutto, Nespresso è una B corp, una certificazione che viene data da un ente esterno e attesta l’impegno dell’azienda sulle tematiche ambientali. Infatti, alcuni dei principali elementi di sostenibilità associati a Nespresso includono:

  • Programma AAA Sustainable Quality™: Nespresso lavora in collaborazione con l’organizzazione non-profit Rainforest Alliance per implementare il Programma AAA Sustainable Quality™.Questo programma mira a migliorare la sostenibilità sociale, economica e ambientale nelle comunità agricole di caffè. Fornisce supporto agli agricoltori per adottare pratiche agricole sostenibili e migliorare la qualità del loro caffè.

    In 11 anni il programma si è esteso dai 300 coltivatori coinvolti nella fase di lancio alle 63.000 piantagioni che adottano oggi le pratiche Nespresso AAA Sustainable Quality™.
    Il Programma AAA Sustainable Quality™ si basa su un approccio dinamico, in costante evoluzione, che riunisce le idee più innovative in materia di qualità, produttività e sostenibilità, rivolgendo una particolare attenzione ai parametri sociali, ambientali ed economici.
    I risultati sono lampanti. I dati rilevati da CRECE mostrano ad esempio l’impatto positivo del programma sulle piantagioni aderenti in Colombia. Secondo le valutazioni indipendenti dell’ente, i coltivatori AAA Sustainable Quality™ della regione ottengono performance notevolmente più elevate rispetto a quelle di un gruppo di controllo non iscritto al programma.”, così possiamo leggere dal sito.

  • Perché nel negozio Nespresso quando noi compriamo le capsule ci viene dato anche un sacchetto?
    La risposta è semplice, in funzione del riciclo; infatti questo sacchetto va riempito con le capsule usate che sono in alluminio (quindi in teoria andrebbero buttate nella plastica o nel vetro, a seconda del comune, ma non sono puliti perché contengono anche del caffè), poi noi consumatori possiamo riportare le capsule esauste in negozio dove le buttiamo in particolari cestini; lì c’è già un grande schermo che ci informa su come sta andando la raccolta di capsule esauste (comunicazione trasparente), quindi ci informa sulla CO2 risparmiata, sul numero di capsule riciclato, e così via.

Da questo punto in poi è l’azienda stessa che si preoccupa di dividere il caffè dalla capsula in alluminio, così da poterlo riutilizzare, mentre il caffè viene riciclato per fare compost che viene utilizzato per la coltivazione di riso, il quale viene acquistato da Nespresso e donato al Banco alimentare. Nel 2022 sono 780 i quintali di riso donati a Banco alimentare della Lombardia, Banco alimentare del Lazio e a Banco alimentare del Piemonte.

Quali direzioni intraprendere?

Come sta facendo Nespresso, tutte le aziende stanno implementato diverse iniziative per promuovere la sostenibilità nei loro processi produttivi e nelle catene di approvvigionamento. È importante notare che la sostenibilità è un percorso continuo, e le aziende continuano a cercare nuovi modi per migliorare le loro pratiche aziendali e ridurre l’impatto ambientale complessivo perché la sostenibilità ambientale è diventata un elemento cruciale per il mondo. Queste tendenze influenzano la struttura delle aziende, le dinamiche di mercato e le strategie competitive.

Bisogna prestare molta attenzione anche alla digitalizzazione e all’intelligenza artificiale; quindi, le aziende devono farsi un’idea su come navigare in questo ambiente digitale in costante evoluzione. Affrontare queste sfide richiede una comprensione approfondita delle dinamiche economiche globali e una capacità costante di apprendimento e adattamento. In conclusione, esplorare l’innovazione economica è un viaggio che ci permette di cogliere le opportunità emergenti e di affrontare le sfide in un mondo in costante trasformazione.

 

 

Fonti:

B corp

AAA-sustainable

Riciclo capsule

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Ambiente, società e tecnologia

Economia e innovazione digitale: Come si evolvono insieme?

La rivoluzione digitale ha decisamente scosso le fondamenta dell’economia globale, introducendo dei veri e propri cambiamenti sismici e plasmando un panorama in cui l’innovazione tecnologica viene identificata come il motore trainante della crescita economica. Ma in che modo il legame, di per sé intricato, tra l’economia e l’innovazione digitale ha permesso la trasformazione tecnologica delle industrie tradizionali?

 

Il primo incontro

Innanzitutto, occorre prendere in considerazione le dinamiche di produzione, distribuzione e consumo; la ridefinizione di queste ultime è stato un passo fondamentale nella formazione di nuovi modelli di business e nello sviluppo di settori innovativi.

Basti pensare all’e-commerce, tramite la quale aziende come Amazon hanno ridefinito il commercio al dettaglio; o ancora, alla sharing economy, che ha rivoluzionato i settori del trasporto (Uber) e dell’alloggio (Airbnb).

 

Si sta parlando, ad ogni modo, di una trasformazione che, se rapportata al mero percorso di innovazione aziendale, ha permesso alle imprese di diventare più moderne e competitive: il fenomeno dell’industria 4.0, in particolare, ha introdotto, oltre alla connettività tra macchinari, l’analisi dei dati, migliorando l’efficienza e rivoluzionando in maniera impattante il settore.

 

IoT o Internet of Things (trad. “Internet delle cose”) è la terminologia tramite la quale viene indicato questo fenomeno: una vera e propria rete di oggetti e dispositivi tecnologici che permette ad essi sia di trasmettere che di ricevere, da parte di altri sistemi, i dati. Questo primo incontro tra economia e innovazione digitale è stato, forse, il più incisivo: riuscire ad evolversi, esplorando le possibilità date dall’intelligenza artificiale, ha consentito di analizzare i dati aziendali in maniera più semplice e immediata (seppur con una cospicua percentuale di rischio), permettendo alle imprese una crescita più sicura e controllata.

 

Cluster Analysis: svelare le connessioni invisibili tra i dati

La prima innovazione dell’IoT in ambito statistico è nata in seno a una particolare tecnica, denominata cluster analysis (trad. “analisi di clustering”) e utilizzata per raggruppare all’interno di gruppi omogenei gli elementi simili tra loro presenti in qualsivoglia insieme più ampio. Un cluster rappresenta, infatti, un gruppo.

 

Questo primo metodo di analisi dei dati aiuta, senza ombra di dubbio, a organizzare grandi dataset in gruppi di dati più contenuti, uguali tra loro e, conseguentemente, più semplici da analizzare. È interessante notare come anche i sistemi più conosciuti utilizzino da tempo questa tecnica: questo fenomeno riguarda, ad esempio, il funzionamento del motore di ricerca immagini di Google.

 

Tuttavia, anche le aziende utilizzano da tempo la cluster analysis: al fine di adattare le proprie strategie di marketing alle esigenze specifiche di qualsiasi persona, è essenziale suddividere il mercato in segmenti omogenei di clienti, aventi caratteristiche e comportamenti simili tra loro. Si tratta del motivo per il quale le raccomandazioni di prodotti sponsorizzati online, come le pubblicità mirate sui social, differiscono per ogni singola persona.

 

Sentiment Analysis: navigando tra le emozioni digitali

Per antonomasia, tuttavia, quando si parla di analisi dei dati si fa automaticamente riferimento alla cosiddetta sentiment analysis (trad. “analisi del sentiment”), una branca dell’Intelligenza Artificiale che mira a comprendere i testi valutando le opinioni, le emozioni e il tono delle espressioni umane, determinandone un sentiment positivo, negativo o neutro.

Principalmente utilizzata per il monitoraggio della reputazione online, questa seconda tipologia di analisi dei dati consente alle aziende di esaminare le opinioni dei propri clienti sui social media, sulle recensioni e nei forum, facilitando la comprensione del feedback e, nel caso di sentiment negativi, l’adozione di misure correttive. Ma si tratta di un elemento fondamentale anche nel contesto del servizio clienti: è la sentiment analysis che permette di valutare il tono delle conversazioni, consentendo alle aziende di identificare rapidamente i sentiment negativi e di risolvere prontamente gli eventuali problemi.

 

La sentiment analysis viene utilizzata dalle imprese anche e soprattutto per valutare la soddisfazione dei dipendenti: ad oggi risulta difficile, per la salvaguardia di sé stessi e della propria salute mentale, immaginare un contesto lavorativo in cui non si presti attenzione a un clima aziendale ottimale, che consente, poi, un ottimo tasso di produttività. Non a caso, si tratta di un prezioso strumento nella prevenzione delle crisi: rilevando gli eventuali segnali di insoddisfazione è possibile gestire prontamente situazioni più o meno critiche e contribuire a mantenere una reputazione positiva nel mercato attuale, che è molto competitivo.

 

La trasformazione digitale nell’industria manifatturiera

Ad ogni modo, l’adozione dell’IoT, dell’intelligenza artificiale e dell’automazione intelligente sta definitivamente ridefinendo i processi di produzione.

Mentre i sensori IoT integrati consentono la raccolta in tempo reale di dati cruciali, ottimizzando la manutenzione preventiva dei macchinari, prevenendone gli eventuali guasti, migliorando la gestione delle risorse e ottimizzando la produzione, l’automazione intelligente (inclusa la robotica avanzata) permette di aumentare sia la produttività che la flessibilità nelle linee di produzione.

 

Innovazione tecnologica nelle fabbriche: il caso Stellantis

Stellantis, leader nell’industria automobilistica, ha abbracciato l’innovazione tecnologica all’interno delle sue fabbriche tramite l’implementazione dell’industria 4.0. Tramite l’utilizzo del concetto di fabbriche intelligenti, questa azienda ha integrato l’IoT in quella che è la connessione tra le macchine e i sistemi e ha così ottimizzato i processi produttivi, riducendo i tempi di ciclo e aumentando la precisione. La raccolta di dati in tempo reale consente anche una manutenzione predittiva, riducendo i tempi di fermo delle macchine.

 

Risulta chiaro che l’implementazione di queste tecnologie all’interno delle aziende, oltre a ridurre i costi e gli sprechi, crea anche un ecosistema manifatturiero più agile e reattivo alle sfide del mercato: la sinergia tra l’uomo e la macchina diventa sempre più evidente, in un’ottica che delega all’innovazione tecnologica il futuro dell’industria manifatturiera.

 

 

Fonti

 

Cos’è l’IoT e come funziona?

Amazon e il commercio al dettaglio

Il caso Uber: la sharing economy

Airbnb, la regina della sharing economy

Cluster Analysis

Sentiment Analysis

Industria 4.0: Stellantis spinge sulla Cognitive Diagnostics

 

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Il secondo polmone verde del mondo

Il Green Deal europeo punta ad un continente a impatto zero

Nell’ambito del piano ‘NextGenerationEU’ la Commissione europea punta ad un futuro più verde. Come annunciato dalla Presidente Ursula von der Leyen nella presentazione della tabella di marcia ‘Green Deal europeo’, l’Unione Europea punta a diventare un continente a emissioni zero entro il 2050.

Il ‘Green Deal europeo’

Il Green Deal europeo è una tabella di marcia che rientra nel più ampio piano ‘NextGenerationEU’ con il quale l’Unione Europea punta a migliorare le vite dei propri cittadini investendo e sviluppando nuove tecnologie per rendere il futuro più verde, sano, digitale ed egualitario. L’Unione Europea si impegna, fissando come data limite il 2050, a non produrre più emissioni di CO2 di quanto il suo ecosistema non riesca ad assorbire, compensando pienamente l’impronta ecologica dell’uomo.

Il pacchetto ‘Pronti per il 55%’

Con l’adozione integrale del pacchetto ‘Pronti per il 55%’, presentato a luglio 2021, “l’UE potrà raggiungere i suoi obiettivi climatici entro il 2030 in modo equo, competitivo ed efficiente in termini di costi”. Con questo pacchetto contenente misure in merito alla energia, al clima, ai trasporti e alla fiscalità l’Unione Europea mira a ridurre del 55% le emissioni del gas serra entro il 2030 rispetto alle emissioni del 1990. Strizzando l’occhio alle Nazioni Unite in vista della COP28 sul clima e delle elezioni europee del 2024.

La nuova iniziativa: 3 milioni di alberi

Ma l’UE torna alla ribalta sul tema con un piano ambientale che coinvolgerà anche i cittadini. 3 milioni di alberi da piantare entro il 2030 è il target che si è prefissata. Ogni cittadino potrà contribuire piantando un albero o donando ad associazioni che lo facciano per lui. L’albero aggiuntivo, che dovrà portare benefici alla biodiversità e al clima, non dovrà essere parte delle piantagioni abituali e non dovrà costituire una problematica per le condizioni climatiche, del suolo e delle acque.

Per poter registrare l’albero, l’Agenzia europea dell’ambiente, ha sviluppato un’applicazione “Map My Tree” che permetterà in aggiunta di visionare l’andamento delle segnalazione per raggiungere l’obiettivo. Potranno essere registrati gli alberi che rispettino i requisiti imposti dal piano, piantati dal 20 maggio 2020 in poi. Data dell’adozione della strategia da parte dell’UE.

“Chiunque può piantare un albero. Per raggiungere questo ambizioso traguardo, abbiamo bisogno di cittadini europei motivati a piantare alberi e a farli crescere.”

 

Fonti:

commission.europa.eu

learning-corner.learning.europa.eu

environment.ec.europa.eu

next-generation-eu.europa.eu

ec.europa.eu

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Agricoltura nel nuovo millennio: evoluzione dell’agricoltura in risposta ai cambiamenti economici, tendenze di mercato e innovazioni tecnologiche

L’agricoltura nel nuovo millennio ha subito un profondo processo di trasformazione, determinato da una complessa intersezione di fattori economici, richieste del mercato e innovazioni tecnologiche. Questa convergenza di influenze ha modellato un nuovo panorama agricolo caratterizzato da una crescente consapevolezza verso la sostenibilità e la necessità di migliorare l’efficienza operativa.

Uno degli sviluppi più significativi è rappresentato dall’adozione diffusa di tecnologie avanzate, come l’Internet of Things (IoT), l’intelligenza artificiale e la robotica agricola. Queste innovazioni hanno permesso ai coltivatori di monitorare in tempo reale le condizioni dei campi, ottimizzare l’irrigazione, e gestire le colture in modo più preciso ed efficiente. Inoltre, l’uso di droni e sensori ha contribuito a una raccolta di dati più accurata e dettagliata, consentendo una migliore pianificazione delle attività agricole.

Un altro aspetto fondamentale è la sostenibilità che è diventata una priorità fondamentale nel contesto agricolo contemporaneo. I coltivatori stanno adottando pratiche agricole sostenibili, riducendo l’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici, e adottando metodi di coltivazione che preservano la salute del suolo. Inoltre, cresce l’interesse per la produzione agricola biologica e per la riduzione delle emissioni di gas serra legate all’agricoltura. Le dinamiche del mercato globale stanno influenzando le scelte degli agricoltori: la crescente domanda di prodotti alimentari di alta qualità e la consapevolezza dei consumatori riguardo all’origine e alla produzione sostenibile stanno guidando le decisioni degli agricoltori nella selezione delle colture e nelle pratiche di produzione.

Impulso verso la sostenibilità

La congiunzione tra sostenibilità e agricoltura biologica è diventata una tematica cruciale, alimentata dalla crescente consapevolezza dei consumatori nei confronti dell’impatto ambientale e della salute associati alla produzione alimentare. L’esigenza di prodotti alimentari sostenibili e biologici ha dato impulso a una serie di cambiamenti nel settore agricolo, con gli agricoltori che stanno abbracciando pratiche più ecologiche per soddisfare questa domanda emergente.

L’impulso verso la sostenibilità ha portato a una significativa riduzione dell’uso di pesticidi e fertilizzanti sintetici nell’agricoltura biologica. Gli agricoltori stanno optando per soluzioni alternative, come il compostaggio, l’utilizzo di concimi organici e il controllo biologico delle infestazioni, al fine di mantenere la salute delle colture senza ricorrere a sostanze chimiche nocive. Questa transizione verso pratiche agricole più ecocompatibili contribuisce non solo a preservare l’ecosistema, ma anche a mitigare gli impatti negativi sulla biodiversità.

 

Un elemento chiave in questo contesto è rappresentato dalla certificazione biologica, che è diventata un prezioso vantaggio competitivo per molti agricoltori. Ottenere la certificazione biologica implica conformarsi a rigorosi standard di produzione che garantiscono il rispetto di pratiche sostenibili e il ricorso limitato o nullo a sostanze chimiche. Questo marchio di approvazione non solo conferisce fiducia ai consumatori che cercano prodotti alimentari salubri e rispettosi dell’ambiente, ma può anche aprirsi a nuovi mercati e opportunità commerciali, sottolineando l’engagement dell’agricoltore verso la responsabilità ambientale. Oltre a ciò, l’agricoltura biologica promuove la salute del suolo e la conservazione delle risorse idriche, contribuendo a preservare l’integrità degli ecosistemi agricoli.


Una rivoluzione di precisione

L’adozione dell’agricoltura di precisione ha rappresentato una vera rivoluzione nell’approccio alla gestione agricola, integrando avanzate tecnologie per ottimizzare ogni aspetto delle operazioni colturali. L’utilizzo di sensori altamente sofisticati, droni all’avanguardia e sistemi GPS ha permesso agli agricoltori di raggiungere nuovi livelli di precisione nella gestione delle colture, trasformando radicalmente il modo in cui vengono pianificate e eseguite le attività agricole. La presenza diffusa di sensori nei campi agricoli consente una raccolta di dati dettagliata e in tempo reale sulle condizioni del suolo, della coltura e dell’ambiente circostante.

Questi dati forniscono una base informativa robusta per prendere decisioni mirate, consentendo agli agricoltori di rispondere prontamente alle variazioni nelle condizioni climatiche e di terreno. I droni, in particolare, ampliano la portata di questa raccolta dati, permettendo una copertura aerea estesa e la rilevazione di anomalie non visibili da terra. Grazie a queste informazioni dettagliate, gli agricoltori possono ottimizzare l’uso delle risorse in maniera mirata ed efficiente. L’irrigazione, ad esempio, può essere regolata in base alle effettive necessità delle colture, riducendo sprechi d’acqua e contribuendo alla sostenibilità idrica. Similmente, la dosatura dei fertilizzanti e l’applicazione di pesticidi possono essere calibrate con precisione, limitando gli impatti ambientali e riducendo l’esposizione delle colture a sostanze chimiche in eccesso.

Questo approccio tecnologico non solo migliora l’efficienza operativa degli agricoltori, ma ha anche un impatto positivo sulla redditività complessiva delle operazioni agricole. L’ottimizzazione delle risorse, la riduzione degli sprechi e la maggiore resilienza alle sfide ambientali posizionano l’agricoltura di precisione al centro di una nuova era agricola, in cui la tecnologia svolge un ruolo chiave nel plasmare un settore agricolo più sostenibile, intelligente ed efficiente.


Manipolazione genetica responsabile

 

L’avanzamento delle innovazioni genetiche e della biotecnologia nel contesto agricolo ha rivoluzionato la capacità umana di potenziare le caratteristiche delle colture per rispondere alle sfide ambientali e alle esigenze alimentari crescenti, in particolare la modifica genetica delle colture sta emergendo come un potente strumento per affrontare le minacce alle produzioni agricole, migliorando la resistenza delle piante alle malattie e agli agenti atmosferici.

Attraverso la manipolazione genetica, gli scienziati possono introdurre specifiche sequenze di DNA nelle colture, conferendo loro caratteristiche desiderate. La creazione di varietà di colture resistenti alle malattie è diventata una priorità, poiché contribuisce a ridurre la dipendenza dagli agenti chimici per il controllo delle malattie e limita la perdita di colture dovuta a patogeni. Un risultato chiave di queste innovazioni è l’aumento della produttività agricola. Coltivare varietà di colture geneticamente modificate può portare a rese più elevate, migliorando la sicurezza alimentare e contribuendo a soddisfare la crescente domanda globale di cibo.

Tuttavia, è importante considerare anche le implicazioni etiche e ambientali associate a queste innovazioni. La gestione responsabile della biotecnologia è essenziale per garantire che gli impatti sulla biodiversità, la sicurezza alimentare e la salute umana siano adeguatamente valutati e mitigati. L’equilibrio tra i benefici delle innovazioni genetiche e le preoccupazioni etiche e ambientali è un aspetto cruciale da considerare nel contesto dell’adozione di queste tecnologie.

Flessibilità e adattamento del settore

Nell’adattamento alle mutevoli dinamiche economiche, gli agricoltori si trovano a fronteggiare una complessa interazione di fattori globali, quali i cambiamenti nei modelli di consumo, le pressioni economiche e le sfide legate al commercio internazionale. La flessibilità e la capacità di adattamento diventano essenziali per navigare in questo scenario dinamico. La diversificazione delle colture, la ricerca di nuovi mercati e la partecipazione a filiere sostenibili sono strategie che gli agricoltori stanno abbracciando per affrontare le incertezze economiche.

In conclusione, la crescente domanda da parte dei consumatori per prodotti alimentari sostenibili ha spinto gli agricoltori verso un cambiamento significativo, abbracciando l’agricoltura biologica come un modo per rispondere a queste aspettative. Questo connubio tra sostenibilità e pratiche agricole ecologiche non solo promuove la salute ambientale, ma si traduce anche in un vantaggio distintivo nell’ambito del mercato alimentare, offrendo una via prospera per il settore agricolo e un futuro più sostenibile per la produzione alimentare globale.

L’agricoltura nel nuovo millennio si configura come un terreno fertile per l’innovazione, la sostenibilità e l’adattamento strategico. Gli agricoltori, in sinergia con le più recenti tecnologie e una prospettiva orientata al futuro, stanno plasmando un settore agricolo più resiliente, efficiente e attento all’equilibrio tra la produzione alimentare e la tutela dell’ambiente.

 

Fonti

agriregionieuropa

wiforagri

blog.osservatori.

abacogroup

 

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Alla ricerca di equilibrio: è possibile riconsiderare le 8 ore di lavoro standard in Italia?

Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) è identificato dal diritto italiano come la principale fonte normativa in cui i sindacati dei lavoratori e le associazioni dei datori di lavoro concordano le regole che regolamentano il rapporto di lavoro. Si tratta di contratti volti a trattare sia gli aspetti normativi che quelli economici, senza ignorare le disposizioni adatte a regolare le relazioni sindacali.

Le finalità fondamentali di questo contratto, ad ogni modo, riguardano la definizione delle regole per i rapporti di lavoro in specifici settori (che si tratti, ad esempio, dei trasporti o del pubblico impiego) e la disciplina delle relazioni tra le parti firmatarie dell’accordo.

 

Da Owen a Ford: la rivoluzione delle 8 ore

 

L’instaurarsi della giornata lavorativa di 8 ore fu il risultato, nei primi anni del XX secolo, di numerose lotte sindacali, originariamente proposte su un modello di 48 ore settimanali distribuite su 6 giorni.

Nei primi anni della rivoluzione industriale, gli operai potevano arrivare a lavorare fino a 100 ore a settimana. Robert Owen, un influente sindacalista gallese del XIX secolo, introdusse allora il concetto della riduzione delle ore di lavoro giornaliere, con l’obiettivo di dividere la giornata in tre parti uguali: lavoro, svago e riposo.

Fu solo nel gennaio 1914 che questo standard originario venne modificato. Si trattò del momento in cui Henry Ford adattò questa formula a degli studi sperimentali sulla produttività: riducendo le ore lavorate a 40 a settimana su 5 giorni, Ford notò un aumento significativo della produttività, dimostrando che meno ore potevano portare a risultati migliori. Ford ridusse la giornata lavorativa dei suoi dipendenti da 9 a 8 ore, incrementando il salario giornaliero da 3 a 5 dollari.

Cinque dollari per una giornata lavorativa di otto ore è stata una delle più efficaci strategie di riduzione dei costi che abbiamo mai messo in atto”: così Ford giustificò la propria mossa imprenditoriale, dichiarando che l’investimento in salari più elevati avrebbe creato una base solida per lo sviluppo aziendale.

La decisione di pagare salari più alti si rivelò un successo: numerosi storici e analisti, tra i quali Gregory Mankiw, dimostrarono che questa mossa contribuì a consolidare la disciplina, la lealtà e l’efficienza dei lavoratori.

Tuttavia, è evidente che la decisione di introdurre una settimana lavorativa non è nata in virtù di ragioni come la giustizia o il benessere, ma come risposta alla necessità di massimizzare la produttività; l’iniziale benessere dei lavoratori, in quel contesto storico, è emerso come un mero effetto collaterale.

 

L’Italia oggi

 

Ancora oggi, la connessione tra retribuzione e produttività rimane un elemento cruciale per stimolare la competitività dell’Italia. Nel contesto del dibattito sulla riforma del mercato del lavoro è emersa, nel 2011, la proposta di favorire la contrattazione aziendale come strumento chiave per stringere questa connessione, contribuendo così al rilancio della competitività nazionale.

Dal 2013 il contratto collettivo aziendale (CCIA) rappresenta un accordo stipulato dal datore di lavoro e dai rappresentanti dei lavoratori, avente spesso l’obiettivo di modificare le disposizioni del CCNL in base alle proprie esigenze.

Le disposizioni di tali contratti non possono prevedere, di norma, delle condizioni meno favorevoli rispetto a quelle stabilite dalla Legge. Il rapporto tra contratti aziendali e quelli di livello superiore è stato delineato dagli Accordi interconfederali, stabilendo che il contratto di categoria rimane centrale, mentre quello aziendale deve limitarsi a disciplinare argomenti già individuati dal CCNL e a garantire aumenti retributivi legati a miglioramenti di produttività e organizzazione del lavoro.

La produttività e la retribuzione rimangono degli elementi imprescindibili. Ma la domanda rimane sempre la stessa: e il benessere dei lavoratori?

 

Pandemia e nuove esigenze: la nascita dello smart working

 

Il recente fenomeno dello smart working, che rappresenta la possibilità, in determinati settori, di lavorare da casa, ha registrato un aumento della produttività del 15-20%. Ha sollevato, tuttavia, molti interrogativi riguardanti la sostenibilità e l’impatto sul benessere dei lavoratori.

La questione principale, oggetto di numerosi dibattiti successivi al lockdown nazionale provocato dal fenomeno della pandemia, era una: sarebbe stato giusto sfruttare questo “plusvalore” in maniera capitalistica o sarebbe stato opportuno tradurlo, invece, in benefici per i dipendenti, riscontrabili in un’ulteriore riduzione dell’orario lavorativo?

In poco tempo, questo dibattito ha assunto una rilevanza significativa. Uno studio, pubblicato il 12 giugno 2021 sull’European Journal of Investigation in Health, Psychology and Education, offre una visione approfondita su tre aspetti principali: la dedizione al lavoro, il fenomeno del cosiddetto technostress e la mediazione del rapporto tra smart working e benessere.

 

Smart working e dedizione al lavoro

 

L’indagine rivela che durante la pandemia il coinvolgimento attivo dei responsabili delle risorse umane ha influenzato positivamente l’impegno dei lavoratori.

La partecipazione attiva ai cambiamenti organizzativi ha fatto sì che questi ultimi venissero percepiti come il risultato del proprio impegno e non più degli ordini imposti dall’alto: questo fenomeno è emerso come un vero e proprio antidoto alla demotivazione. La ricerca ha evidenziato, inoltre, che una cultura organizzativa positiva potrebbe proteggere da sintomi come lo stress, l’ansia e la depressione. Il desiderio, nel 2021 e in base a tali presupposti, era quello di trasformare una situazione di emergenza in un’opportunità di crescita.

 

Smart working e technostress

 

Technostress è una terminologia che comprende, in maniera simultanea, una varietà di problematiche significative: il sovraccarico tecnologico, la complessità, l’insicurezza lavorativa e l’incertezza. I livelli più elevati  di technostress sono osservabili tra coloro che sono costretti a fare un uso intensivo di dispositivi digitali e di applicazioni di messaggistica istantanea, oltre che tra gli addetti alla gestione delle attività lavorative durante le pause. L’indagine, in questo contesto, sottolinea il ruolo critico della gestione equilibrata tra vita professionale e vita privata, in un’ottica volta a salvaguardare la salute mentale dei lavoratori.

 

I mediatori del rapporto tra smart working e benessere

 

L’autonomia nella scelta di pratiche di lavoro a distanza, le competenze personali e organizzative e la fiducia da parte dell’azienda sono caratteristiche identificate come i mediatori chiave tra smart working e benessere. Tuttavia, anche in questo caso la problematica principale risiede nella gestione dei confini tra tempo personale e orario di lavoro: la necessità è quella di promuovere una comunicazione efficace, delle crescenti relazioni al di fuori dell’orario di lavoro e un vero e proprio supporto psicologico per i dipendenti.

Ne conviene che l’iperconnettività abbia portato anche lo smart working, nei settori in cui questo fenomeno è presente e possibile, verso numerosi ed evidenti effetti negativi: un esempio sono le comunicazioni prolungate fino a tarda notte nel contesto lavorativo.

Questo fenomeno è stato descritto da alcuni come un nuovo presenzialismo, caratterizzato dall’incessante motto “always on“, che può minare la qualità della vita e il benessere dei lavoratori. La riflessione critica si concentra sull’importanza di bilanciare l’efficienza lavorativa con il rispetto per il tempo personale e la salute mentale. Perché non esplorare, quindi, la possibilità di ridurre l’orario di lavoro in maniera da mantenere attive l’efficacia e la produttività?

Secondo le statistiche Istat, in Italia la settimana lavorativa moderna corrisponde, laddove regolamentata, a 33 ore; questo dato supera di 3 ore la media europea, di 4 ore quella francese e di 7 ore quella tedesca. Nonostante ciò, la produttività italiana si posiziona come la penultima in Europa, con un rendimento superiore solo alla Grecia.

Uno studio, condotto da Domenico De Masi e commissionato da Mercedes Italia, riflette a pieno questa dinamica: i dirigenti tedeschi dell’azienda automobilistica, sebbene abbiano un carico di obiettivi superiore del 30% rispetto ai loro omologhi italiani, riescono a lavorare il 30% in meno, ottenendo, al contempo, il 30% di obiettivi in più.

Dal 2014, la Ducati, grazie a un referendum vinto con il 75% dei voti e in collaborazione con i sindacati, ha implementato un piano che impegna i dipendenti per circa 30 ore settimanali (compresi gli eventuali turni nei weekend) e con una quasi totale saturazione degli impianti. Secondo Mario Morgese, il responsabile delle risorse umane dell’azienda, questa iniziativa ha portato a un aumento del 40% nella produttività e a una riduzione dell’assenteismo.

Nel 2019, Microsoft ha effettuato, in Giappone, una prova della settimana lavorativa di 4 giorni. Durante questo periodo, ha concesso ai suoi 2300 dipendenti ben 5 venerdì liberi ad agosto, senza però ridurre gli stipendi. I risultati sono stati sorprendenti: non solo il 92% degli impiegati si è dichiarato più soddisfatto, ma la produttività è aumentata del 40%. Inoltre, è stato registrato un calo del 25% nelle pause, una diminuzione del 23% nell’uso dell’elettricità e una riduzione del 59% nel consumo di carta/stampe.

 

Nuova Zelanda: un passo verso il futuro dei lavoratori?

 

L’esempio più importante e significativo ha avuto sede in Nuova Zelanda, dove il movimento ‘Four Day Week’ ha condotto uno studio sperimentale sulla tattica utilizzata da Microsoft nel 2019.

I risultati hanno mostrato un aumento della produttività, una diminuzione dello stress, un miglioramento dell’equilibrio tra vita e lavoro, un maggiore coinvolgimento e benessere dei lavoratori, un aumento della fiducia e una diminuzione dell’assenteismo, in un’ottica in cui gli stessi manager continuano a sottolineare la priorità del mantenimento della produttività e del raggiungimento degli obiettivi.

 

Verso una rivoluzione lavorativa: sperimentare la riduzione dell’orario per un futuro migliore

Sperimentare queste soluzioni su larga scala, mediante un approccio temporaneo che coinvolga sia il settore profit che il settore non profit, potrebbe rappresentare una strategia ottimale per il benessere dei dipendenti. Davvero non siamo pronti a intraprendere questo cammino?

Fonti

 

Wikilabour – Il CCNL

Indagine: quale relazione esiste tra smart working e benessere del lavoratore?

Wikilabour – il CCIA

Smart working e produttività

Microsoft – Work Life Choice Challenge Summer 2019

The four-day week guidelines for an outcome-based trial – Raising productivity and engagement

Agende piene di impegni: fenomeno dell’always on

Domenico De Masi e la riduzione dell’orario di lavoro

Nuova Zelanda e la settimana lavorativa di 4 giorni