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Ambiente, società e tecnologia

Come e quanto si sono arricchiti i miliardari durante la pandemia

Il COVID-19 ha messo in ginocchio migliaia di famiglie in tutto il mondo ed ha portato a livelli macro la ricchezza dei miliardari. Mentre milioni di famiglie italiane e non pensava a come fare per arrivare a fine giornata, i più ricchi hanno guadagnato cifre da capogiro.

Forbes, il magazine più famoso al mondo, in un suo recente articolo ha riportato la lista delle persone più ricche al mondo all’inizio del 2021.

Jeff Bezos #1 e Elon Musk #2

Al primo posto, come accade da 4 anni, tra i più ricchi al mondo troviamo Jeff Bezos, imprenditore statunitense e fondatore di Amazon, il cui patrimonio ammonta a 177 miliardi di dollari. Di essi sono 74 i miliardi ricavati nel 2020 grazie alle vendite online registrate durante la pandemia.

Da una notizia degli ultimi giorni egli ha commissionato la costruzione di un super yatch da 500 milioni di euro, che sarà inoltre dotato di un secondo yatch di supporto per l’elicottero, il quale rientrerà tra le imbarcazioni più grandi e costose al mondo.

Il fondatore e CEO di SpaceX e Tesla, Elon Musk, si colloca al secondo posto tra gli uomini più ricchi del mondo con un patrimonio di 151 miliardi di dollari. Egli detiene il primato di essere la persona che più si è arricchita nell’ultimo anno tenendo conto che i suoi guadagni nel 2020 ammontavano a “solo” 24,6 miliardi di dollari.

Ma non solo …

Tra i primi 5 miliardari al mondo troviamo anche Bernard Arnault, imprenditore francese presidente e CEO di LVMH, gruppo leader internazionale nel settore del lusso che possiede marchi di bellezza tra cui Louis Vuitton, Hennessy, Bulgari e Christian Dior. Il suo patrimonio da 76 miliardi ha toccato la cifra di 150 miliardi di dollari e le azioni della sua società sono salite del 30% nell’ultimo anno.

Sotto di lui troviamo Bill Gates, il fondatore di Microsoft e co-presidente insieme alla sua ex moglie della Bill&Melinda Gates Foundation, con un aumento di 26 miliardi di dollari.

Al quinto posto non poteva mancare Mark Zuckerberg, CEO e co-fondatore di Facebook, che è passato da 54,7 a 97 miliardi di dollari.

Il lockdown è stato un periodo di crescita non solo per questi colossi, ma anche per il fondatore e CEO di Zoom, Eric Yuan, il quale è passato da 5,5 a 14,9 miliardi di dollari, grazie a questa piattaforma di videoconferenze della quale si sono servite milioni di persone in tutto il mondo sia per ragioni lavorative sia per rimanere in contatto con le persone a loro lontane a causa della pandemia.

Una new entry in questa classifica mondiale è Tim Sweeny, informatico statunitense, che è passato ad avere un patrimonio da 2 a 4,7 miliardi di dollari. Egli è famoso per aver creato il videogioco Fortnite, all’interno del quale nell’Aprile del 2020, è stato organizzato il primo concerto online della storia al quale hanno partecipato più di 12 milioni di ascoltatori.

I miliardari italiani

Forbes Italia ha pubblicato recentemente la classifica dei più ricchi che vede in testa Giovanni Ferreo, imprenditore e unico amministratore delegato dell’industria dolciaria Ferrero dopo la morte del fratello nel 2011, il quale vanta la 40esima posizione su scala mondiale. Il suo patrimonio è cresciuto da 22,4 miliardi nel 2019 a 35,1 miliardi nel 2021.

Al secondo posto troviamo Leonardo Del Vecchio, imprenditore italiano, fondatore e presidente di Luxottica, con un patrimonio di 25,8 miliardi di dollari, in crescita rispetto ai 16,1 di marzo.

La donna più ricca d’Italia si trova al terzo posto: Massimiliana Aleotti la quale ha ereditato, insieme ai suoi tre figli, la società farmaceutica Menarini a seguito della scomparsa del marito Alberto Aleotti. Il suo patrimonio è passato da 6,6 a 9,1 miliardi, il suo gruppo è presente in 135 paesi del mondo e vanta più di 17.0000 dipendenti.

L’imprenditore agricolo più ricco del mondo

Dopo gli Stati Uniti al secondo posto troviamo la Cina con 456 miliardari posizionati nelle classifiche di Forbes. L’uomo che da una pandemia di influenza suina africana è riuscito ad arricchirsi passando ad avere un patrimonio di 4,3 miliardi nel 2019 a 33,5 miliardi nel 2021 è un imprenditore agricolo cinese noto come Qin Yinglin.

Egli è co-fondatore e Presidente di Muyuan Foods uno dei più grandi allevamenti di suini in Cina che, grazie ad una carenza di carne a livello globale, lo ha portato ad innalzare i prezzi di vendita delle sue merci realizzando così il 260% dei profitti in più rispetto all’anno precedente.

Da 22 suini con cui ha iniziato è arrivato a macellare in media 5 milioni di suini all’anno e in particolar modo la sua ricchezza è esplosa con la pandemia da COVID-19 essendo il prezzo delle azioni della società cresciute del 200%.

I magnati cinesi

Ma Qin Yingli non è il solo in Cina a detenere un posto nella classifica dei più ricchi del mondo.  Con una vera e propria esplosione nel 2021 troviamo Zhong Shanshan che è passato da 2 miliardi di dollari nel 2020 a previsti 68,9 nel 2021. Soprannominato “il re dell’acqua minerale” il suo fatturato deriva da Nongfu Spring, azienda cinese di acqua in bottiglia e bevande che controlla un quarto del mercato cinese.

Egli così superato, Jack Ma, il co-fondatore di Alibaba, una delle più grandi piattaforme al mondo per l’acquisto di beni all’ingrosso, grazie alla quotazione della sua impresa dell’8 Settembre alla Borsa di Hong Kong. A seguito del crollo delle sue azioni, per sospette pratiche monopolistiche, l’imprenditore cinese è sceso al 26esimo posto nella classifica mondiale con un fatturato di 38,8 miliardi di dollari nel 2020.

Da un recentissimo articolo pubblicato su Forbes è trapelato che Ma Huateng, amministratore delegato di Tencet Holdings, società che serve servizi per cellulari e internet in Cina come ad esempio WeChat, è tornato ad essere l’uomo più ricco della Cina. Il suo patrimonio nell’ultimo anno è aumentato di 27 miliardi di dollari, ma in particolare, i primi di Aprile del 2021, le sue azioni hanno avuto un rialzo del 7% portando un aumento del suo patrimonio di 4 miliardi di dollari in modo da permettergli di superare il sopracitato Zhong.

“Il virus della disuguaglianza”

Secondo un recente report pubblicato dalla Oxfam dal titolo “il virus della disuguaglianza” i miliardari del mondo detengono il 60% della ricchezza globale e un aumento dello 0,5% delle tasse in capo ad essi consentirebbe in dieci anni di pagare 117 milioni di nuovi posti di lavoro.

Oltre ciò rileviamo che i miliardari hanno impiegato solamente nove mesi per tornare al livello di ricchezza che detenevano prima della pandemia, mentre per le persone più povere del mondo ciò potrebbe richiedere anche più di dieci anni, così come previsto dal nuovo piano strategico di lotta alla disuguaglianza proposto dalla nuova direttrice esecutiva di Oxfam International Gabriella Bucher.

La ricchezza dei miliardari “tra il 18 marzo e il 31 dicembre 2020 ha registrato un’impennata di ben 3.900 miliardi di dollari arrivando a toccare quota 11.950 miliardi” e ancora si cita nel report:il patrimonio dei 10 miliardari più ricchi al mondo è complessivamente aumentato di 540 miliardi di dollari: risorse sufficienti a garantire un accesso universale al vaccino anti-Covid e assicurare che nessuno cada in povertà a causa del virus.”

Cavalcando la tempesta

L’ultimo report di banca svizzera UBS e PwC analizza come i miliardari siano diventati ancora più ricchi, intitolandolo infatti “Riding the storm” e mettendo in luce come le fortune si stiano piano piano polarizzando per il fatto che molti “business innovators” e “disruptors” utilizzano la tecnologia per poter essere tra i leader dell’attuale rivoluzione economica: “la ricchezza totale dei miliardari tecnologici è aumentata del 42,5% a 1,8 trilioni di dollari, supportato dall’aumento delle azioni tecnologiche”. Molti di loro hanno approfittato della pandemia per redigere nuovi business model improntati maggiormente su una crescita nel mondo del digitale rivoluzionando le loro industrie in modo tale da poter sviluppare nuovi prodotti e servizi da poter offrire ai propri clienti.

In questo momento storico ad aver avuto un aumento di fatturato maggiore sono state sia le case farmaceutiche grazie alla produzione dei vaccini anti-COVID, sia i dirigenti sanitari che detengono azioni in esse: Pfizer stima guadagni per 15 miliardi di dollari e una vendita di quasi mezzo miliardo di dollari delle azioni appartenenti alle industrie farmaceutiche.

Ma il motivo principale per il quale i ricchi lo siano diventati ancor di più possiamo rilevarlo da un commento del responsabile di Wealth Management per conto di UBS, il quale si occupa di gestire i patrimoni famigliari delle persone più ricche al mondo, Josef Stadler:Hanno fatto buoni affari durante la crisi causata dal Covid-19 perchè non solo hanno cavalcato la tempesta al ribasso, ma hanno anche guadagnato con il rimbalzo dei mercati azionari”. A sua detta i miliardari hanno approfittato della situazione in quel momento sfavorevole per il mercato per effettuare investimenti rischiosi che però a lungo termine avrebbero sicuramente portato a vantaggi nettamente superiori tramite la loro rivendita al rialzo.

Questo rischio era concepibile solamente per loro, date le grandi fortune che possiedono, ma esso ha portato però ad una ulteriore maggior disuguaglianza economica con l’intera popolazione.

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Ambiente, società e tecnologia

Stanco di litigare? Noleggia un attaccabrighe!

Quante volte hai avuto voglia di litigare con qualcuno ma poi hai preferito evitare? Quante volte ti sei sottratto ad una o più discussioni, magari perché non vuoi rovinare i rapporti o semplicemente perché non sei una persona scontrosa? Beh, non preoccuparti più, perché esiste una soluzione per te completamente made in China: l’attaccabrighe a noleggio!

Sulla piattaforma del famosissimo marketplace cinese Taobao è possibile noleggiare qualcuno che litighi al posto tuo, togliendoti di torno tutte le difficoltà del caso. Insomma, un attaccabrighe “personalizzabile”.

Il meccanismo è molto semplice: una volta stabiliti i dettagli del litigio, la persona con la quale discutere e gli argomenti da trattare, l’attaccabrighe professionista propone una sorta di preventivo all’acquirente. Il costo è variabile, come i servizi: si parte da pochi centesimi fino ad arrivare ad una decina di euro. È possibile inviare un semplice messaggio, assistere ad una telefonata o persino assillare la persona interessata con una serie di chiamate per una giornata intera. Il litigio si svolgerà dunque via chat, via email o per telefono, ma mai di presenza per garantire la privacy del noleggiatore. Oltre alle opzioni standard, ci sono anche alcuni litigi personalizzabili. Si può scegliere persino il dialetto da utilizzare, come quello Shanghainese, Cantonese o Hokkien.

Il servizio non è chiaro sia a tutti gli effetti legale: potremmo definirlo un po’ borderline. Per questa ragione Taobao, essendo un eCommerce molto rigido in materia di pagamenti, ha deciso di far effettuare tutte le transazioni attinenti agli ordini relativi all’Attaccabrighe su piattaforme esterne: un modo forse anche per tutelarsi in caso in cui la compravendita fosse giudicata irregolare. In ogni caso, proprio perché borderline, si è già definito cosa capiterebbe in caso si ricevesse una sanzione: questa sarebbe totalmente a carico dell’acquirente.

Fonte: https://www.saporedicina.com/wp-content/uploads/sites/174/2017/12/acquistare-su-taobao.jpg

In Cina sono abituati a inventare servizi e trucchetti che possano facilitare la vita di tutti i giorni: sicuramente, l’attaccabrighe a noleggio è uno di questi.
Certo, non è l’unico: su Taobao è possibile infatti acquistare altre piccole e grandi curiosità, dalle più banali alle più insolite, tra cui ad esempio una fidanzata virtuale.

L’unico problema forse è capire la lingua, ma nel caso basta farsi aiutare da qualche amico che sappia parlare il cinese!

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Ambiente, società e tecnologia

Non voglio mica la Luna, chiedo soltanto un frammento (di regolite)

La prima operazione spaziale della storia è datata 4 Ottobre 1957, a entrare in orbita per la prima volta, fu Sputnik un satellite dell’Unione Sovietica. Questo viene ricordato come un evento epocale, non solo perché la fantascienza che fino ad allora aveva nutrito l’immaginario comune è diventata improvvisamente e straordinariamente realtà; ma soprattutto perché ci si rese conto che lo spazio extra-atmosferico era, a tutti gli effetti, una delle porzioni della nostra galassia non sottoposta a normazione. Ad oggi, il genere umano non solo è in grado di giungere facilmente nello spazio ma sta avanzando anche la pretesa di stabilirvisi e di utilizzare, in maniera sostenibile, le risorse extraterrestri.

“We’re going to the moon to stay, by 2024 and this is now”

Sin dal 2009 gli Stati Uniti hanno espresso la volontà di tornare sulla luna, una volontà che si è fatta sempre più concreta nel tempo tant’è che nel 2017, l’allora vicepresidente Mike Pence ha annunciato che il nuovo sbarco sulla luna sarebbe dovuto avvenire non oltre il 2024, attraverso il programma Artemis.

Durante l’allunaggio del secolo scorso l’uomo è rimasto sul suolo lunare circa due ore e mezza. L’ambizione più grande che ha il programma Artemis è quella di permettergli di rimanerci per sempre, ma per farlo sarà necessario costruire una base lunare permanente. Rimanere stabilmente sulla luna significa far fronte a una serie di esigenze tra le quali quelle di protezione e di sostentamento degli astronauti. Proprio per questo motivo, dal 2015 è presente negli Stati Uniti una legge che permette “il recupero commerciale delle risorse spaziali da parte dei cittadini statunitensi” e al suo interno è anche enunciato che “un cittadino statunitense impegnato nel recupero commerciale di una risorsa asteroidale o di una risorsa spaziale ha diritto a qualsiasi risorsa asteroide o risorsa spaziale ottenuta, tra cui il possesso, il trasporto, l’uso, e la vendita secondo la legge applicabile, compresi gli obblighi internazionali americani.”

Le risorse della Luna

Il 6 aprile 2020 il presidente Trump ha firmato l’ordine esecutivo “Executive Order On Encouraging International Support for the Recovery and Use of Space Resources” in cui si afferma che lo spazio esterno e le sue risorse sono un dominio dell’attività umana, e inoltre viene sottolineato come gli Stati Uniti non considerino le risorse extra atmosferiche come un bene comune internazionale.

A questo punto della vicenda “lunare”, nulla sembrerebbe potersi opporre alla nuova corsa degli Stati Uniti verso la Luna. Ad oggi, l’unico trattato internazionale a cui hanno aderito e in cui si parla di regolamentazione dell’uso delle risorse minerarie è il Trattato sullo spazio extra-atmosferico del 1967. Nel diritto aerospaziale esiste un ulteriore trattato, in cui si parla di risorse extra atmosferiche e, in particolare, il trattato che richiede che tutte le estrazioni e allocazioni di risorse siano svolte sotto regime internazionale: è il Trattato sulla Luna. Ma, per l’appunto, quest’ultimo non è mai stato ratificato dagli Stati Uniti.

Regolite: la polvere del nostro satellite

Un ulteriore passo avanti verso lo sfruttamento delle risorse è stato fatto lo scorso ottobre con la firma degli accordi Artemis, a seguito dei quali è stato diffuso, dalla NASA, un appello alle agenzie pubbliche e private affinché possano collaborare al recupero delle risorse nello spazio. In particolare, la NASA si è dichiarata interessata alla regolite: “I requisiti che abbiamo delineato sono che l’azienda raccolga una piccola quantità di “sporco” lunare da qualsiasi posizione sulla superficie lunare, poi fornisca alla NASA immagini della raccolta e del materiale raccolto, insieme ai dati che identificano il luogo della raccolta.” – ha proseguito Jim Bridenstine, l’allora amministratore capo della Nasa- ” Poi verrà condotto “sul posto” un trasferimento della proprietà della regolite o delle rocce lunari alla NASA. Dopo il trasferimento della proprietà, il materiale raccolto diventa di esclusiva proprietà della NASA per il nostro utilizzo.”

Sembrerebbe che i compensi proposti si aggirino circa tra i 15 mila e i 25 mila dollari per quantità di regolite che siano comprese tra 50 e 500 grammi, ma non è tanto la remunerazione economica a far scalpore quanto il precedente che ne deriva: per la prima volta si statuisce la possibilità di vendere qualcosa che non appartiene al nostro Pianeta.

I grandi progetti sulla regolite lunare

La regolite non è altro che lo strato superficiale che ricopre la luna ma è presente anche su altri corpi celesti; in particolar modo è formato da un insieme di frammenti e detriti generatisi nel corso del tempo, grazie allo schianto al suolo dei meteoriti. E allora perché per la NASA è così preziosa? Stando agli studi condotti dai centri di ricerca di tutto il mondo la regolite sarà in grado di fornire sia l’ossigeno utile alla permanenza degli astronauti nella base spaziale, sia i mattoni utili alla costruzione della stessa. In particolare, la stampante 3D che potrebbe provvedere alla costruzione dei mattoni è un progetto dell’agenzia spaziale europea, al quale hanno ampiamente contribuito gli ingegneri italiani.

Attualmente molte delle potenze mondiali sono concentrate sulla ricerca tecnologica per lo sfruttamento delle risorse extra atmosferiche e, fortunatamente, qualora avverrà lo sfruttamento delle risorse lunari questo dovrà essere sostenibile per volere del Trattato sullo spazio extra-atmosferico. Allo stato attuale, la regolite sembrerebbe l’unica soluzione a permetterci di sognare una vita al di fuori del pianeta Terra, e tutti gli sforzi sono concentrati su questo obiettivo ma ciò che ancora manca all’appello è uno studio approfondito delle conseguenze generate dalla colonizzazione della luna.

Il 2024 è alle porte eppure nessuno ha affrontato due tematiche fondamentali: l’impatto ambientale che l’azione antropica potrebbe avere sul nostro prezioso satellite e la declinazione del concetto di sostenibilità circa le risorse lunari. Sembra quasi che nessuno voglia chiedersi quale sarà questa volta il prezzo da pagare per vedere nuovamente la fantascienza trasformarsi in realtà. Ma può davvero dirsi sostenibile lo sfruttamento di una risorsa che per formarsi impiega un estesissimo arco temporale? E, ancor prima, essendo una risorsa esterna al Pianeta Terra, è giusto appropriarsene?

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Economia, StartUp e Fintech

La tecnologia in finanza, un’evoluzione in corso

Ci sono due aspetti complessi e delicati del mondo finanziario che possono essere supportati dall’innovazione tecnologica: la regolamentazione e la supervisione di questo settore.

Il settore finanziario è il più regolamentato e controllato dalle autorità preposte, e se pensiamo all’ultima crisi finanziaria globale ne possiamo anche comprendere il perché. I principali obiettivi della regolamentazione del settore finanziario sono assicurare stabilità, trasparenza ed efficienza mentre la supervisione è molto importante per verificare che le varie norme vengano rispettate.

La complessità della normativa che regola l’attività delle varie istituzioni finanziarie e il suo continuo aggiornamento comporta costi rilevanti per tali imprese e questo è uno dei motivi per cui è in corso lo sviluppo di tecnologie innovative che possano essere di supporto nell’implementazione, adeguamento e rispetto delle norme; questa declinazione del FinTech (Financial Technology) ossia tecnologia a supporto della finanza, viene spesso definita RegTech (Regulation Technology).

L’altro ambito che ha incontrato il supporto della tecnologia è la supervisione del settore finanziario, dando via al SupTech (Supervisory Technology). Come per la RegTech, la risorsa più importante è rappresentata dai dati grazie ai quali le autorità di vigilanza possono efficientare le loro varie attività di supervisione riducendo tempo e costi.

L’universo di start-up

L’azienda di consulenza e revisione Deloitte ha condotto recentemente uno studio individuando 413 principali aziende dello scenario del RegTech suddividendole in base all’area specifica per la quale offrono i loro servizi innovativi: reporting normativo, gestione del rischio (risk management) che oggi è ritenuto essenziale per scongiurare crisi o affrontarne una imminente, gestione e controllo delle identità ossia facilitare una adeguata valutazione e verifica dell’identità dei clienti oltre a controlli anti-riciclaggio e anti-frode, conformità alle norme (compliance) e controllo delle transazioni.

Tra le aziende leader in questo nuovo ambito figura Corlytics per l’area risk management, che offre servizi a una varietà di clienti quali banche globali e regionali, compagnie di assicurazione, enti regolatori. Corlytics raccoglie, classifica, interroga e analizza automaticamente le norme delle autorità di regolamentazione di tutto il mondo per offrire ai suoi clienti una gestione basata sui Big data.

Il Financial Conduct Authority, l’ente di regolamentazione finanziario inglese, in un articolo sul sito ufficiale parla di circa 1000 start-up attualmente attive nel RegTech e prevede un valore di mercato in crescita, che potrebbe raggiungere €55 miliardi entro il 2025, considerando che l’emergenza sanitaria ha accelerato il processo di digitalizzazione e automazione.

Autorità nel mondo

Tra le prime autorità che hanno utilizzato queste tecnologie ci sono il FCA inglese, l’ASIC in Australia e la MAS a Singapore. In Europa L’EBA, European Banking Authority, ha avviato lo scorso anno una consultazione rivolta ad istituzioni finanziarie e a fornitori di tecnologie dell’informazione e della comunicazione, rimandando alla prima metà di questo anno la pubblicazione dei risultati che possono guidare all’utilizzo di soluzioni RegTech.

In Europa la crisi finanziaria e successivamente quella del debito hanno portato alla luce la necessità di una unione anche sul fronte bancario, ritenuta essenziale per completare l’unione economica e monetaria, ed è stata messa in pratica mediante la costituzione dell’Unione Bancaria Europea che si fonda su due pilastri: il Meccanismo di Vigilanza Unico e il Meccanismo di Risoluzione Unico. Un terzo punto è attualmente in discussione e riguarda la creazione di uno schema unico di garanzia dei depositi. Le moderne tecnologie, l’Intelligenza artificiale e il Machine learning sono strumenti imprescindibili che permetterebbero alle autorità di vigilanza di poter gestire ed elaborare la grande quantità di dati e informazioni con cui lavorano ogni giorno.

La tecnologia non solo può migliorare le performance a tutti i livelli, ma potrebbe cambiare completamente alcuni paradigmi e approcci sin qui utilizzati. Ne è un esempio una dimostrazione avvenuta durante un evento in streaming tenuto dall’ente australiano ASIC: un’impresa ha dimostrato il potenziale di un’intelligenza artificiale che potrebbe valutare il grado di solvibilità di un individuo da alcuni tratti comportamentali e caratteriali e ciò permetterebbe di poter concedere credito anche a clienti di cui si hanno pochi dati oppure clienti di paesi emergenti che hanno difficoltà a dimostrare la propria capacità di rimborsare debiti e, di conseguenza, a ottenere un prestito per le loro iniziative imprenditoriali. I dati psicometrici sono stati comparati con dati storici ed è stata rilevata una affidabilità dei dati psicometrici del 91%.

Cooperazione globale

A livello globale emerge un supporto allo sviluppo di nuove tecnologie che vede il coinvolgimento di molte istituzioni ed enti con diverse iniziative, attività di networking/brainstorming e inviti all’azione.

Lo scorso anno la BIS, Banca dei regolamenti internazionali, e la presidenza saudita del G20 con il supporto di altre importanti autorità hanno organizzato una competizione che invitava a trovare soluzioni per le più grandi sfide della regolamentazione e supervisione finanziaria; i 3 vincitori sono stati invitati a mostrare i loro risultati al Singapore Fintech Festival dello scorso novembre.

Più recentemente durante il G20 tenutosi il 7 aprile è stata sottolineata nuovamente l’importanza di dati precisi e tempestivi a disposizione dei policy makers affinché possano prendere decisioni efficienti, soprattutto durante periodi di crisi come quello attuale. Nel comunicato stampa emerge la necessità di cogliere le opportunità offerte dalla tecnologia per stimolare la ripresa e dare avvio a una nuova iniziativa sulla lacuna dei dati (Data gaps iniziative – DGI). Il DGI del G20 è nato nel 2009 in seguito alla crisi finanziaria ed è un insieme di 20 raccomandazioni per il miglioramento dei dati statistici economici e finanziari che possono essere impiegati dai responsabili politici e le autorità di vigilanza.

Le sfide

I benefici dell’utilizzo delle nuove tecnologie sono dunque tanti in termini di efficienza, risparmio di tempo e denaro, maggiore sicurezza, minori rischi, contrasto alla criminalità, inclusione finanziaria ma rimangono alcune sfide: privacy, attacchi informatici, fiducia verso le imprese RegTech che devono trattare dati delicati, sviluppo competenze specifiche, complessità e varietà di scenari potenzialmente di difficile interpretazione per le macchine sono alcuni dei problemi che saranno al centro delle future discussioni dei player del settore.

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Ambiente, società e tecnologia

Bias negli algoritmi: come le macchine apprendono i pregiudizi dagli esseri umani

L’impatto della tecnologia sulle nostre vite sta crescendo rapidamente. Algoritmi di Intelligenza Artificiale vengono quotidianamente applicati in diversi ambiti: in campo medico, nei veicoli a guida autonoma, per determinare se siamo meritevoli di un mutuo o stabilire se ci meritiamo una determinata posizione lavorativa, come accaduto nel caso di IMPACT, uno strumento di valutazione degli insegnanti impiegato a Washington durante l’anno scolastico 2009-10. Secondo uno studio condotto da Oberlo, il numero di aziende che adottano tecniche di Intelligenza Artificiale è cresciuto del 270% negli ultimi 4 anni. Le statistiche di Gartner mostrano come, nel 2019, un’azienda su tre sfrutti l’Intelligenza Artificiale o abbia intenzione di farlo. Risulta quindi evidente quanto questi algoritmi impattino sulle nostre vite, lasciandoci il più delle volte ignari ed impotenti nei loro confronti.

Un errore in un algoritmo potrebbe non sembrarci molto piacevole, ma nemmeno poi così grave: se Netflix ci consiglia un film che non ci piace o se Siri imposta la sveglia ad un orario sbagliato ci troviamo di fronte inezie per cui potremmo chiudere un occhio, viste le innumerevoli facilitazioni che ci offrono. Ma cosa accadrebbe se l’errore riguardasse un algoritmo di guida autonoma? Oppure se venissimo scartati ad un colloquio lavorativo per il sesso, la religione o la razza? 

Anche gli algoritmi sbagliano

L’errore che probabilmente ha fatto più scalpore negli ultimi anni è legato all’algoritmo di software di recruitment utilizzato da Amazon a partire dal 2014. Questo software, come spiegato nell’articolo dell’Ansa, era ritenuto in grado di analizzare i curriculum dei candidati ed automatizzare la procedura di selezione. Tuttavia è emerso come esso penalizzasse le donne, specialmente per le posizioni legate a ruoli più tecnologici. L’errore era dovuto ai dati con cui il modello è stato addestrato: dati reali, contenenti i curricula ricevuti dalla società nei 10 anni precedenti; CV prettamente maschili, data la maggioranza di uomini nel settore tecnologico. Come spiega l’articolo de Il Sole 24 Ore, il modello ha riconosciuto in modo automatico un pattern che delineasse i migliori candidati, inglobando tra le caratteristiche ideali il genere maschile, e incorrendo così in un bias. Un bias è un errore sistematico di giudizio o di interpretazione, che può portare a un errore di valutazione o a formulare un giudizio poco oggettivo. È una forma di distorsione cognitiva causata dal pregiudizio e può influenzare ideologie, opinioni e comportamenti. In informatica, il bias algoritmico è un errore dovuto da assunzioni errate nel processo di apprendimento automatico. Questo errore, ha costretto Amazon a dismettere il software.

Da una ricerca condotta invece nel 2018 da Joy Buolamwini e Timnit Gebru, due ricercatori del MIT e della Stanford University, è emerso che tre programmi di riconoscimento facciale rilasciati sul mercato da importanti aziende tecnologiche incorporavano pregiudizi razziali e di genere. Negli esperimenti condotti dai due ricercatori, è stato rilevato che nel determinare il sesso degli uomini di pelle chiara i tassi d’errore dei programmi di riconoscimento facciale non hanno mai superato lo 0,8% mentre, per le donne con pelle scura, le percentuali salivano al 20% in un programma e ad oltre il 34% negli altri due. Queste stesse tecniche incentrate sull’elaborazione di dati biometrici, utilizzate per cercare di determinare il sesso di qualcuno, possono essere impiegate anche per identificare un individuo e applicate in diversi ambiti, ad esempio per individuare persone sospettate di crimine.

Infatti, un altro caso di bias algoritmico è quello riscontrato in un software denominato COMPAS, affidato diversi anni fa ad alcuni giudici americani per supportarli nel quantificare la pena da imputare ai condannati. Come si legge in un articolo pubblicato su Internazionale, l’algoritmo di Compas incorporava pregiudizi nei confronti degli afroamericani: il dataset utilizzato nella fase di addestramento del software non includeva dati bilanciati nei confronti delle diverse etnie, e di conseguenza gli afroamericani avevano quasi il doppio delle possibilità, rispetto ai bianchi, di essere etichettati come ad alto rischio, anche se poi in futuro non commettevano altri reati.

Problemi e possibili soluzioni

Gli errori precedentemente riportati avvengono poiché addestrando i modelli di Intelligenza Artificiale attraverso le enormi quantità di dati a nostra disposizione, l’AI incorpora valori e bias intrinsechi della società.

Nonostante l’immaginario comune ci porti a considerare un algoritmo come un processo decisionale perfetto, superiore al ragionamento umano (considerato invece influenzabile e non obiettivo), perché in grado di processare una molteplicità di dati in modo imparziale, nella realtà non è così. Come spiegato nella guida di Google, gli algoritmi di intelligenza artificiale non sono liberi da bias, in quanto, come accennato prima, il bias è contenuto nei dati con cui i modelli vengono addestrati. In altre parole, i modelli ereditano il bias basato su razza, genere, religione o altre caratteristiche dai dati che vengono forniti loro e, in alcuni casi, possono addirittura enfatizzarlo. In particolare, il bias può essere introdotto in qualsiasi fase della pipeline di apprendimento: a partire dall’adozione di un dataset inadeguato, da un processo di apprendimento errato o addirittura da un’incorretta interpretazione dei risultati. 

L’Algorithmic fairness è un campo di ricerca in crescita che mira a mitigare gli effetti di pregiudizi e discriminazioni ingiustificate sugli individui nell’apprendimento automatico, principalmente incentrato sul formalismo matematico e sulla ricerca di soluzioni per questi formalismi. È un ambito di ricerca interdisciplinare che ha l’obiettivo di creare modelli di apprendimento in grado di effettuare previsioni corrette dal punto di vista di equità e giustizia.

Come riportato nel paper di Ninareh Mehrabi, una prima difficoltà che caratterizza questo ambito di ricerca è la mancanza di una definizione esaustiva e universale di correttezza (fairness): vengono infatti proposte molteplici definizioni a seconda dei diversi contesti politici, religiosi e sociali.

Il bias può manifestarsi infatti nei confronti di diverse minoranze, con specifiche caratteristiche di genere, religione, razza o ideologia; come precedentemente accennato, può essere introdotto da diversi fattori e manifestarsi in diverse fasi della pipeline di apprendimento. A seconda della tipologia di bias e del modo in cui esso si manifesta, lo stato dell’arte propone diverse metriche per la misurazione del bias e tecniche per attenuarlo; ne sono un esempio il toolkit per misurare e mitigare il bias proposto da IBM e gli indicatori di equità proposti da Google.

Lo studio di queste problematiche è all’ordine del giorno e, come evidenziato nel paper di Pessach, i diversi sotto-ambiti di ricerca sono in continua crescita e costituiscono sfide attualmente aperte. L’importanza di ottenere algoritmi equi e corretti è cruciale, e per farlo è necessario rimuovere il bias dalle diverse fasi della pipeline, a partire dalla fase di raccolta dei dati. Ad oggi, sembra più facile rimuovere il bias e rendere eticamente equi gli algoritmi piuttosto che gli esseri umani.

Europa: la proposta di Regolamento Europeo sull’Intelligenza Artificiale

Il 21 aprile 2021 la Commissione europea ha pubblicato la proposta di regolamento sull’approccio europeo all’intelligenza artificiale, un documento in cui vengono valutati i rischi connessi a questo strumento con l’obiettivo di “salvaguardare i valori e i diritti fondamentali dell’UE e la sicurezza degli utenti”.

Secondo la Commissione europea, di fronte al rapido sviluppo tecnologico dell’Intelligenza Artificiale e a un contesto politico globale in cui sempre più paesi stanno investendo massicciamente in questa tecnologia, l’Unione Europea deve agire all’unisono per sfruttare le numerose opportunità offerte dall’AI e al contempo affrontarne le sfide, per promuovere il suo sviluppo senza tralasciare i potenziali rischi che pone per la sicurezza delle persone.

Nella proposta di regolamento europeo sono presenti sia regole di trasparenza applicabili a tutti i sistemi di intelligenza artificiale, sia disposizioni più specifiche per i sistemi ad alto rischio, come ad esempio quelli impiegati per valutare gli studenti e determinare l’accesso a istituzioni di formazione, i sistemi utilizzati per la selezione del personale, per promuovere o licenziare il personale, per assegnare compiti e mansioni, e per valutarne le performances, e i sistemi per valutare l’affidabilità e veridicità delle informazioni fornite da persone fisiche per prevenire o indagare su reati, i quali saranno obbligati a rispettare alcuni requisiti relativi alla loro affidabilità. La proposta di regolamento europeo descrive inoltre alcune pratiche vietate di intelligenza artificiale, quali ad esempio l’impiego di sistemi che utilizzino tecniche subliminali su persone inconsapevoli al fine di influenzarne il comportamento e causare danni fisici o psicologici, la messa in servizio di sistemi di Intelligenza Artificiale da parte di pubbliche autorità o per loro conto che valutino o classifichino l’affidabilità delle persone fisiche sulla base del loro comportamento sociale o di caratteristiche di personalità, attribuendo loro un punteggio sociale che generi in risposta un comportamento sfavorevole sproporzionato rispetto alla gravità del loro comportamento sociale. Viene inoltre vietato l’uso di sistemi di identificazione biometrica remota in tempo reale negli spazi accessibili al pubblico ai fini dell’applicazione della legge, a meno che non ci si trovi nell’eventualità di dover cercare in maniera mirata potenziali vittime di crimini, come i bambini scomparsi, o si debba intervenire per la prevenzione di minacce imminenti come il rischio di un attacco terroristico; l’impiego di tali algoritmi è autorizzato anche per l’identificazione e la localizzazione di un autore di reato o di un sospettato punibile con una pena di almeno tre anni. Per l’uso di tali sistemi di identificazione biometrica, si legge ancora nella proposta, sono comunque previsti una serie di specifici requisiti.

Risulta evidente come le potenzialità dei sistemi di Intelligenza Artificiale siano molteplici, ma allo stesso tempo potenzialmente rischiose ed è incredibile come le macchine riescano ad apprendere e riprodurre il pregiudizio umano, trasformandosi in sistemi non equi ed ingiusti e ritrovandosi ad emulare quella che è la società odierna. Gli studi e le misure adottate per la mitigazione del bias algoritmico si stanno rivelando un ottimo strumento, chissà se che con altrettanti sforzi si riuscirà un giorno a correggere anche il bias umano, risolvendo così il problema alla radice.

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Ambiente, società e tecnologia

Summit on Climate: come e perché la crisi climatica va affrontata ora e insieme

Source: White House photo by Adam Schultz/ Public Domain - https://www.state.gov/leaders-summit-on-climate/

Il 22 e 23 aprile 2021 si è svolto il Leaders Summit on Climate, evento virtuale ospitato dalla presidenza degli Stati Uniti che ha visto partecipi, oltre a 40 leader politici mondiali, importanti esponenti del settore privato, dirigenti d’azienda e attiviste per la giustizia climatica. Due i motivi principali che hanno spinto Biden a promuovere questo vertice: ribadire il ritorno degli Stati Uniti all’interno degli accordi di Parigi sul clima  annunciando, durante l’apertura dell’evento, l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del paese di almeno il 50% entro il 2030 e, soprattutto, riunire personalità rilevanti della scena politica, economica e sociale per creare tavoli di confronto e condivisione incentrati su un tema di importanza globale e di estrema urgenza: mantenere l’aumento della temperatura a livello globale al di sotto di +1.5°C rispetto all’era preindustriale e raggiungere Net 0.

Quali idee, proposte ed esperienze sono emerse da questo vertice? Quali sono i concetti fondamentali che dovranno essere alla base della collaborazione tra le autorità nazionali e internazionali e le comunità di cittadini?

Cosa significa Net 0 e perché è così importante

Con l’espressione Net 0 si definisce l’obiettivo della neutralità climatica: non significa che entro il 2050 non dovremo più emettere gas serra, ma dovremo fa sì che il risultato netto tra i flussi in entrata e in uscita dall’atmosfera sia zero. Perché dovremmo raggiungerlo? Durante il primo giorno del Summit è stato presentato il documentario Breaking Boundaries, in cui lo scienziato Johan Rockström illustra il concetto dei confini planetari”. Si tratta di una framework scientifico integrato da un articolo pubblicato su Science nel 2015 che definisce, seppur con un certo grado di incertezza e un margine di precauzione, delle barriere soglia per nove fenomeni critici il cui intensificarsi oltre i limiti porterebbe il nostro pianeta ad allontanarsi dalle sue condizioni di stabilità. Gli scienziati identificano come uno dei più rilevanti il cambiamento climatico, ed è per misurare gli effetti di quest’ultimo che si considera la concentrazione di CO2 atmosferica: tra tutti “driver del cambiamento climatico”, secondo il rapporto del 2013 dell’IPCC è la variabile che dal 1750 ha contribuito maggiormente alla variazione dei flussi di energia nel sistema Terra. Attualmente la concentrazione di CO2 atmosferica si attesta intorno ai 415 ppm, in un range considerato una “zona di rischio”: oltrepassarne il limite superiore (circa 450 ppm) significherebbe esporci a un alto rischio di destabilizzare il nostro pianeta irreversibilmente. Sulla base di questi dati, Biden ha ricordato nel suo discorso di benvenuto ai leader che “il tempo per agire è limitato” e che “non abbiamo scelta”, se non quella di agire all’unisono verso Net 0.

Tre punti chiave: Mitigation, Adaptation, Resilience

Sono tre i pilastri fondamentali, stabiliti con gli accordi di Parigi, che dovranno orientare le azioni di tutti i paesi nella risposta al cambiamento climatico e che sono stati al centro dei brevi interventi di tutti i leader nazionali presenti. Per il primo, “mitigation”, molti tra i leader partecipanti hanno presentato alcuni dettagli dei propri INCD, ovvero piani nazionali che stabiliscano obiettivi di medio e lungo termine, rispettivamente per il 2025/2030 e per il 2050, e strategie da implementare per ridurre le emissioni nazionali di gas serra, che dovranno essere poi aggiornati. Ne sono stati consegnati 163 prima del 25 febbraio per il 2020/2021, molti ancora in corso di revisione: economie già sviluppate come l’UE, il Giappone  e il Canada hanno dichiarato di voler ridurre le proprie emissione rispettivamente almeno del 55% entro il 2030, del 45% entro il 2040 e tra il 40% e il 45% entro il 2040. Il Leaders Summit aveva l’obiettivo di sollecitare i paesi, soprattutto in vista di COP26, la 26esima Conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, che si terrà a Glasgow tra l’1 e il 12 novembre 2021 e durante cui verrà negoziato un piano d’azione coordinato per affrontare la crisi climatica.

Il secondo e il terzo pilastro, “adaptation” e “resilience”, si riferiscono rispettivamente alle azioni che dovranno essere messe in campo per fronteggiare gli effetti attuali del cambiamento climatico e per trasformare le comunità e i paesi in soggetti resilienti ai futuri cambiamenti. Questi ultimi saranno cruciali per le “comunità in prima linea” dell’Africa, dei grandi delta dell’Asia e delle piccole isole e del Centro e Sud America, perché subiranno i danni peggiori di un cambiamento a cui hanno contribuito in minima parte, se non nulla, nel corso del XX secolo, come ha affermato nel suo intervento l’attivista per la giustizia climatica messicana Xiye Bastida. Biden ha ribadito l’importanza dell’impegno condiviso preso dai paesi sviluppati di raggiungere 100 miliardi di dollari all’anno per finanziare misure necessarie a seguire i tre pilastri nei paesi in via di sviluppo e ha dichiarato che gli Stati Uniti contribuiranno duplicando entro il 2024 il loro piano di finanziamenti per il clima nei paesi in via di sviluppo rispetto a quello dell’amministrazione Obama-Biden e che triplicheranno il loro Public financing for Climate Application per i paesi in via di sviluppo entro lo stesso anno.

Responsabilità condivisa, ma differenziata? Il caso della Cina

Tra tutti gli interventi condotti dai leader politici, quello di Xi Jinping, presidente della Repubbica popolare cinese, appare discordante: ha infatti dichiarato che la Cina si impegnerà a raggiungere il picco delle sue emissioni di gas serra prima del 2030 e che successivamente si impegnerà a diminuirle fino a raggiungere Net 0 prima del 2060. Lo stesso leader ha fatto riferimento a un principio del diritto ambientale internazionale abbreviato con “CBDR, ovvero “responsabilità condivisa ma differenziata”, affermando che i paesi sviluppati devono “perseguire obiettivi ambiziosi e aiutare i paesi in via di sviluppo nell’affrontare la crisi climatica”. Per capire cosa si intende oggi con CBDR bisogna analizzare sia il contributo storico dei diversi stati alle emissioni totali di gas serra, sia l’evoluzione legislativa di questo principio.

Secondo i dati raccolti nel database EDGAR, nel 2019 la Cina è stata responsabile 30.3% delle emissioni, gli U.S.A. del 13,4% e l’UE, assieme a UK, dell’8.7%. Se consideriamo invece le percentuali delle emissioni accumulate dagli stessi paesi dal 1751 al 2019, disponibili sul sito Our World in Data, osserviamo che la Cina ha contribuito per il 13.3%, gli U.S.A. per il 24.8% e l’UE per il 22% circa. A questo divario tra la situazione attuale e la prospettiva storica è dovuta la diatriba, portata avanti per diversi anni, su chi dovrebbe essere considerato maggiormente responsabile per il cambiamento climatico e agire di conseguenza: il principio CBDR è stato presentato a livello internazionale durante la Conferenza di Rio nel 1992, per poi essere meglio definito nel Berlin Mandate del 1995 e riproposto nel Protocollo di Kyoto del 1997. Il problema della sua prima definizione era dovuto al fatto che si attribuisse la responsabilità dell’azione in campo climatico ai paesi sviluppati, in quanto detentori della percentuale maggiore di emissioni a livello storico e del potenziale economico e tecnologico per rispondere ai cambiamenti climatici; in questo modo si trascurava il contribuito dei paesi in via di sviluppo, che sarebbero poi diventati tra i più grandi emettitori, come la Cina e, in percentuale molto minore, l’India. Questo principio si è evoluto: tutti i paesi all’interno degli accordi di Parigi sono chiamati ad essere attivi nel raggiungere Net 0 (soprattutto considerando che sarebbe molto difficile riuscirci senza la collaborazione della Cina). Come è emerso dal Summit, il ruolo di paesi sviluppati come gli Stati Uniti e i paesi dell’UE sarà quello di rendere disponibili il maggior numero di finanziamenti e strumenti affinché i paesi in via di sviluppo possano accelerare nella loro transizione verso un’economia indipendente dai gas fossili.

 “Imperativo morale, imperativo economico”: conciliare crescita economica e giustizia climatica

Se dovessimo estrapolare uno dei concetti più ricorrenti durante i giorni del Summit, questo sarebbe il multilateralismo. È fondamentale guardare alla crescita economica, alla crisi climatica e alla lotta per la giustizia sociale come a battaglie profondamente interconnesse: per riuscirci servono non solo grandi investimenti, ma anche “una sinergia tra il settore pubblico i privati”. Sono stati dedicati due panel alla discussione degli strumenti economici e legislativi da adottare per affrontare la crisi e delle innovazioni tecnologiche che dovranno essere implementate su larga scala nei prossimi anni.

Sia Angela Merkel, sia Ursula Von der Leyen sia Charles Michel hanno affermato l’importanza di adottare un sistema di tassazione sulle emissioni di gas serra e di rendere questo sistema il più omogeneo possibile a livello mondiale. La direttrice operativa dell’IMF Kristalina Georgieva ha espresso la necessità di portare il prezzo per l’emissione di una tonnellata di CO2 equivalente da una media mondiale di 2$ ad almeno 75$ entro il 2030 per garantire una transizione equa anche per i paesi la cui economia è fortemente dipendente dalle risorse fossili; al contempo bisognerà riformare i sussidi per i combustibili fossili sia per i consumatori, sia per i produttori. Se da una parte bisognerà alzare questi prezzi, dall’altra bisognerà rendere accessibili quelli delle nuove tecnologie per produrre energia da fonti rinnovabili affinché diventino disponibili su larga scala: è quello che cerca di realizzare il gruppo di investitori di Breakthrough Energy Coalition, il cui portavoce al Summit è stato Bill Gates: il mercato dell’energia pulita potrebbe raggiungere entro il 2030 un valore di 23 trilioni di dollari secondo Jennifer Granholm, attuale segretaria dell’energia statunitense. Sarà però necessario indirizzare capitali verso progetti in linea con l’obiettivo Net 0: Jane Fraser, presidentessa di Citi, e Marcie Frost, CEO di Calpers, hanno proposto di rendere obbligatorio, per chi richieda qualsiasi tipo di finanziamento, un report standard sui rischi del progetto stesso legati al clima, unico modo per poter contare su dati affidabili.

I finanziamenti dovranno essere resi accessibili ai paesi in via di sviluppo: in questo senso agisce l’African Development Bank, associazione finanziaria nata con la missione di promuovere investimenti che possano aiutare lo sviluppo di progetti e realtà imprenditoriali in Africa, come quelli dei 40 milioni di agricoltori africani che cerca di raggiungere. Il suo presidente Akinwumi Adesina ha evidenziato come l’Africa perda dai 7 ai 15 miliardi di dollari ogni anno a causa del cambiamento climatico.

Nonostante le differenze sociali e culturali, tutti i leader che hanno partecipato al summit sono d’accordo su un punto cruciale: le azioni concrete con cui risponderemo a queste domande nei prossimi dieci anni determineranno il futuro della nostra specie sul pianeta.

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Ambiente, società e tecnologia

Perché tutti dovremmo scegliere l’usato

Comprare un oggetto di seconda mano non ha solo un vantaggio economico personale ma fa risparmiare al pianeta risorse preziose. Si evita che un nuovo oggetto venga prodotto e che quello usato, ancora in buone condizioni, finisca in discarica. In questo modo si usano meno materiali per la produzione e non vengono rilasciate ulteriori emissioni di gas serra nell’ambiente.

Acquistare second hand è uno degli aspetti dell’economia circolare, contrapposta all’economia lineare. Secondo questo modello la vita di ogni prodotto è scandita in tappe lineari, dalla produzione allo smaltimento. Ogni tappa di questo processo richiede risorse ed energia e genera emissioni inquinanti e rifiuti. Immaginiamo di moltiplicare il costo di questo processo per ogni oggetto che viene prodotto ogni giorno.

Una società consumistica

La società dei consumi in cui viviamo induce in noi bisogni e desideri di cose non necessarie che acquistiamo solo per il gusto di comprare qualcosa o con l’intenzione di rinnovare noi stessi o la nostra casa. Spesso, la sensazione che un oggetto non sia più buono e che vada sostituito non è dettata dall’usura reale ma dal desiderio di possedere un nuovo modello presente sul mercato. Si parla in questo caso di obsolescenza percepita. Esiste anche un’obsolescenza programmata in cui il prodotto viene progettato da principio per avere una vita limitata, per aumentare la velocità con cui il bene verrà sostituito o riparato. Entrambe fanno sì che si producano un grande numero di rifiuti. Solo in Italia la produzione annuale di rifiuti è di circa 30,1 milioni di tonnellate. Questo significa che in un anno produciamo 499 kg di rifiuti a testa. Di questi solo il 32% viene riciclato, il restante viene incenerito o mandato direttamente in discarica (fonte Rapporto Rifiuti Urbani – Edizione 2020).

Fast fashion: il fenomeno

Particolare attenzione va posta nei confronti dell’industria della moda. Secondo una ricerca pubblicata su Nature Reviews Earth & Environment l’industria della moda ogni anno è responsabile di circa 8-10% delle emissioni globali di anidride carbonica (circa 5 milioni di tonnellate) ed è una dei principali responsabili del consumo di acqua. La produzione di vestiti negli ultimi anni ha subito una notevole accelerazione. Secondo una stima, dal 1975 al 2018 la produzione è passata da 6 a 13 kg a persona e la richiesta di abiti cresce ogni anno del 2%.

La fast fashion si basa sul desiderio dei consumatori, che vogliono indossare sempre nuovi vestiti di tendenza e per questo cambia rapidamente e produce un’enorme quantità di abiti. Da qui la parola “fast”, che significa veloce e indica la moda che cambia velocemente. Secondo il report di ThredUp per il 2019, una persona su due dichiara di non voler essere vista da altri indossare lo stesso vestito più di una volta e il 70% degli intervistati ha acquistato almeno un capo indossato un’unica volta. Solo nel 2019 negli Stati Uniti sono stati prodotti circa 95 mila tonnellate di rifiuti di abiti indossati solo una volta. Infatti, l’85% degli abiti prodotti finisce nelle discariche, senza venire in alcun modo riciclato.

Agenda 2030: Obiettivo 12 “Consumo e produzione responsabili”

Come riportato sul sito del Centro Regionale di Informazione delle Nazioni Unite, l’Agenda 2030 è un programma di azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto dai governi dei Paesi membri dell’ONU nel settembre 2015. Si articola in 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile in cui sono definiti traguardi comuni per tutti i Paesi e tutti gli individui. L’Obiettivo 12 dell’Agenda “Garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo” fornisce indicatori per il raggiungimento di modelli di produzione e consumo consapevoli. I traguardi da raggiungere sono strettamente interconnessi, dalla gestione in modo efficiente e sostenibile delle risorse naturali durante i processi produttivi, minimizzando l’utilizzo di materiali tossici e inquinanti per l’ambiente, alla riduzione sostanziale dei rifiuti, attraverso la prevenzione, la riduzione, il riciclaggio e il riuso.

Una scelta più consapevole

Come consumatori possiamo fare la nostra parte scegliendo i nostri acquisti in modo responsabile. Un consumo consapevole trova declinazioni differenti: possiamo decidere di acquistare oggetti prodotti in modo sostenibile ma anche decidere di ridurre ciò che compriamo, usando ciò che abbiamo già o che è stato prodotto in precedenza.

Per una scelta consapevole, prima di fare un acquisto ci si può affidare alla regola delle tre R, cioè Ridurre, Riusare, Riciclare. Queste tre azioni sono poste a piramide e la regola dà una gerarchia di azioni su cui possiamo riflettere e che possiamo compiere.

  • Ridurre significa consumare meno, acquistando meno oggetti ma di buona qualità e durevoli nel tempo.
  • Riusare intende non gettare oggetti che non hanno ancora terminato il ciclo di utilità, che possono essere riparati o utilizzati con un altro scopo. Se proprio non si riesce a trovare un modo di riutilizzare un oggetto, se in buone condizioni, prima di buttarlo possiamo decidere di donarlo a enti benefici, regalarlo ad amici o venderlo a chi ne ha invece bisogno.
  • Riciclare è l’ultimo step. Solo dopo aver considerato le opzioni precedenti possiamo eliminare l’oggetto, rispettando le regole della raccolta differenziata.

Per una macchina o oggetti costosi è facile fare affidamento su questo principio ma possiamo utilizzare questa regola per ogni tipo di acquisto, dall’elettronica all’abbigliamento. Vendere gli abiti usati è il modo più sostenibile di liberarsene. Dando a un vestito una seconda vita riduce le sue emissioni di anidride carbonica del 79%.

Il futuro del consumo è l’usato. Sempre più persone scelgono di fare acquisti second hand, grazie alle iniziative di sensibilità mosse sui social e alle sempre più diffuse piattaforme di reselling, in particolare nella Generazione Z. I giovani, infatti, sono molto attenti alla tematica ambientale e all’impatto degli oggetti che consumiamo.

Una bella iniziativa messa in moto da Oxfam è il Second Hand September, una challenge per il mese di settembre in cui si invitano le persone a provare ad acquistare solo oggetti di seconda mano per 30 giorni. La challenge non è fine a sé stessa: infatti, l’invito per tutti i partecipanti è quello di continuare a fare acquisti di seconda mano anche nei mesi successivi e farla diventare un’abitudine della propria vita.

In questo ultimo anno il coronavirus ci ha costretto a rimanere fermi e a riflettere: accadono cose che vanno oltre il nostro controllo. Possiamo però ancora agire contro il cambiamento climatico e l’esaurimento delle risorse naturali. La challenge Second Hand September si ripeterà anche quest’anno. Sfruttiamo questa occasione per aiutare il pianeta e le future generazioni. A settembre compriamo usato e diamo una seconda vita ai nostri oggetti sepolti in cantina.

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Ambiente, società e tecnologia

Perché abbiamo un problema di genere?

Dallo studio dei recenti dati divulgati in occasione dell’8 marzo, giornata internazionale della donna, è emerso quanto ancora le donne siano vittime di una disparità di genere che si manifesta trasversalmente in diversi ambiti.

Dalla sfera personale a quella pubblica, il mondo sembra fatto su misura per l’uomo mentre la donna resta subalterna agli eventi della Storia con la “S” maiuscola.

Abbiamo analizzato questo complesso e radicato meccanismo da vari punti di vista, cercando di chiarire importanti concetti quali gender-pay-gap, società patriarcale, femminismo, maternità, quote rosa e molti altri ancora.

Attraverso questa inchiesta, suddivisa  in 5 articoli, ricercheremo e spiegheremo le

cause e gli effetti tangibili di una discriminazione sistemica che ha per vittime le donne di tutto il mondo.

È necessario in primo luogo comprendere quali siano le ragioni socio-culturali della disparità che affligge il genere femminile da secoli. Dalla violenza fisica e psicologica alle battute sessiste, ripercorriamo l’ordine degli eventi che ci hanno condotto ad una realtà che vede “l’uomo misura di tutte le cose”.

Ma in questa visione fallocentrica, la donna dove sta(va)?

Ma posso dire patriarcato?

A volte può accadere che, mentre discutiamo animatamente con gli amici di fronte ad una birra un venerdì sera o magari con perfetti sconosciuti su Clubhouse, salti fuori la parola “patriarcato” senza che spesso se ne conosca il reale significato. Il termine infatti è così poco chiaro alla maggior parte delle persone che si può definire un intero “spettro antropologico” di reazioni a seconda di quanto l’interlocutore sia più o meno informato (e più o meno misogino). A sentir parlare di patriarcato, c’è sempre qualcuno a cui trasale la birra. C’è poi chi reagisce indignandosi, chi lo tratta con superficialità o decide di ignorarlo, oppure chi ne polemizza l’utilizzo “a sproposito”, un po’ come se fosse prezzemolo.

Ma cosa si intende veramente per “cultura patriarcale”? E perché ne va accettata l’esistenza?

Diciamolo una volta per tutte: no, “patriarcato” non è una parolaccia, eppure parlarne o semplicemente citarlo genera ancora troppo sconquasso. Ciò dipende principalmente dal fatto che attorno al termine ci sia ancora molta disinformazione, causa primaria di fraintendimenti e negazionismi.

Solo comprendendone il significato sarà possibile capire quanto questo influisca su ogni aspetto della nostra vita, risultando penalizzante sia verso le donne che verso gli uomini.

Si definisce infatti patriarcato un “sistema sociale maschilista in cui gli uomini detengono principalmente il potere e predominano in ruoli di leadership politica, autorità morale e privilegio sociale”. Al giorno d’oggi però, questo termine (che ha origini ancestrali) si carica di concetti ed implicazioni socio-culturali ben più sottili, tanto da essere onnipresente (e per questo apparentemente invisibile) nella nostra quotidianità.

Nei secoli, il patriarcato si è manifestato nell’organizzazione sociale, politica, religiosa ed economica delle popolazioni, generando importanti effetti culturali di cui tutt’oggi siamo tutti vittime e, allo stesso tempo, abili prosecutori.

L’esistenza di un’ideologia patriarcale secolare ha implicato il radicamento di un’impostazione maschilista e misogina della realtà che si mescola costantemente con la nostra prassi quotidiana.

Non sappiamo come effettivamente il patriarcato sia nato, o meglio, sappiamo che è nato nel momento in cui l’essere umano ha iniziato ad organizzarsi in comunità ma possiamo solo speculare su quali siano potute essere le vere cause che hanno condotto l’uomo ad imporsi sistematicamente sulla donna, autoproclamandosi come “sesso dominante”.

Una delle ipotesi più valide è quella che si basa sulla teoria mimetica di René Girard, secondo cui in sostanza l’imitazione (la “mimesi” appunto) costituisce il fondamento dell’intelligenza umana e dell’apprendimento culturale che caratterizza ogni individuo (e come negarlo?).

Secondo Girard però, questo atteggiamento mimetico nei confronti della realtà non è solo una bonaria e candida assimilazione di ciò che ci sta intorno ma contiene in sé una potenza distruttrice. Negli individui appartenenti ad una stessa società si alimenta infatti una generalizzata fame di possedere gli stessi oggetti. Da ciò deriva quella “rivalità mimetica” che, molto spesso, sfocia in violente e caotiche crisi. L’unico modo per risolvere il problema e “mettere una pezza” sullo squarcio che si viene inevitabilmente a creare, è immolare un capro espiatorio a cui addossare la colpa così da poter garantire il ritorno della pace e la costruzione di una nuova cultura fondata su altrettanto nuove certezze.

Ed è proprio questa la storia del patriarcato, nato in risposta alla profonda crisi delle società agricole primordiali. Secondo la teoria mimetica, l’uomo ha quindi deciso di immolare l’essere femminile a vittima sacrificale, condannandola a diventare la peccatrice colpevole di tutto il “male” esistente (ci suona familiare, no?) e costruendo sulla “necessaria” discriminazione della donna un nuovo modello di società che tutt’oggi resiste: quella maschilista e patriarcale.

Ciò che molti non sanno (o si rifiutano di ammettere) è che quest’impostazione sessista, basata su uno squilibrio di potere, ha un effetto deleterio sia sugli uomini che sulle donne. Entrambi infatti sono schiavi di stereotipi di genere fasulli ed inarrivabili che li ingabbiano in modelli preconfezionati e claustrofobici in cui, il più delle volte, non si rispecchiano.

Negare l’esistenza di una cultura patriarcale che permea ogni ambito della nostra sfera personale e collettiva si rivela perciò tanto falso quanto controproducente: sessismo e maschilismo si manifestano continuamente nella nostra quotidianità in modo più o meno esplicito e negare questa evidenza non fa che alimentarne il meccanismo discriminatorio.

L’esistenza del gender gap, il drammatico numero di femminicidi (91 solo nel 2020, come riportato da Il Sole 24 Ore), la violenza di genere ormai prassi quotidiana (secondo l’istat, colpisce 1 donna su 3) e la disparità di salario sono solo la punta dell’iceberg degli effetti dell’ambiente patriarcale in cui viviamo. Oltre a queste evidenze drammatiche, tanto consolidate da costituire lo “status quo”, esistono poi decine di atteggiamenti discriminanti più sottili che vengono spesso percepiti come “tollerabili” o addirittura “innocui” dalla società e, per questo motivo, più difficili da combattere. Fanno parte di questa seconda categoria il catcalling e le battute sessiste e a sfondo sessuale che, mascherate dalla goliardia, rendono infelicemente esplicita la visione retrograda che ancora si ha della donna: ora come “angelo del focolare”, ora come oggetto sessuale e mercificato.

Insomma, sempre di Medioevo si parla. Ma non eravamo nel 2021?

L’atteggiamento discriminatorio che prevede che la donna occupi una posizione subalterna all’uomo si riflette in tutta la sua silenziosa violenza nell’uccisione dei femminili plurali. Il genere grammaticale del maschile plurale infatti ingloba e soggioga il femminile, riflettendo ciò che accade nella realtà. Ciò è testimoniato anche dal documento redatto dalla Commissione Nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna, in cui si dice chiaramente quanto la lingua quotidiana sia il mezzo di trasmissione più pervasivo di una visione del mondo in cui la donna è trattata con inferiorità o marginalità.

É paradossale, ma basta un uomo in una platea di mille donne per permettere che si parli correttamente di “tutti” e non di “tutte”.

Ciò che spesso non capiamo è che ognuno di noi è il frutto sano (o marcio?) della società in cui vive. L’ambiente che ci circonda ci istruisce, fin da bambini e bambine, ad un sistema maschilista, iniquo e discriminante nei confronti delle donne in ogni aspetto della vita.

Perciò sì, anche le donne sono maschiliste. E come potrebbero non esserlo, se il maschilismo costituisce la norma?

In un mondo costruito su uno squilibrio di potere fatto passare per naturale ed immutabile e su una società che ci ingabbia in etichette tanto claustrofobiche da renderci immobili nella paralisi della nostra inettitudine, continuiamo a deresponsabilizzarci dalle nostre colpe e dalle capacità che abbiamo di cambiare le cose.

Ci ripetiamo: “Il problema è il sistema, non dipende da noi”, rassicurati dalla nostra innocenza mentre iteriamo gli stessi errori e le stesse discriminazioni, assuefatti dalla stasi di una pace fragile ma destinata a frantumarsi.

Un problema di linguaggio: forma e sostanza

Sottovalutiamo spesso il peso delle parole. Ci capita di continuo di utilizzare dei termini “per abitudine”, non riflettendo sul loro reale significato o sulla loro origine ed abbandonandoci così a comodi cliché che però si portano dietro una lunga storia di discriminazione o violenza.

Va avanti ormai da secoli la diatriba su cosa sia il linguaggio, sospeso tra la pura forma e la pura essenza. Basti pensare che già nel IV secolo a.C., Aristotele reputava che il linguaggio esprimesse l’essere, definendolo un “contenuto della coscienza”.

L’errore che spesso commettiamo è quello di fissare il linguaggio nello spazio e nel tempo, con un atteggiamento restio al cambiamento. Perché sì, sarebbe molto più comodo ancorarci all’hic et nunc per avere delle certezze, perlomeno quando parliamo, ma ciò ci rende miopi nei confronti di una società che sta mutando, ed anche molto velocemente.

Il vocabolario e la semantica associata alle parole sono sempre stati lo specchio dei valori e del grado di civiltà di una popolazione. I termini utilizzati in diversi contesti infatti sono la prima spia delle abitudini culturali e degli equilibri di potere che governano un popolo.

Alla luce di questo, potremmo rintracciare decine e decine di incongruenze nella nostra lingua che dovrebbero farci chiedere: voglio veramente dire quello che penso utilizzando queste parole?

Partendo dalla vastità degli appellativi offensivi con cui ci si riferisce alle donne (quasi sempre basati sulla denigrazione sessuale), la discriminazione che mettiamo quotidianamente in atto con il linguaggio si fa sempre più sottile. Questa infatti si manifesta continuamente, ormai completamente inglobata nelle nostre categorie di pensiero. Stiamo compiendo una violenza verbale ogni volta che diciamo che una donna è “isterica” o concordiamo con il lemma “donna” della Treccani, in cui il termine è definito come sinonimo di “cagna” (e poi ancora bagascia, squillo, puttana, vacca, zoccola..). In opposizione alla famosa Enciclopedia si muove la decisione dell’Oxford Dictionary, che sceglie invece di rivedere i sinonimi dispregiativi associati alla parola “donna” in quanto ritenuti inaccettabili. Siamo poi discriminanti e sessisti ogni volta che utilizziamo gli appellativi dispregiativi “maschiaccio” e “femminuccia” ma anche quando usiamo il maschile singolare o plurale invece che il femminile.

Durante l’edizione del 2021 del festival di Sanremo, è stata protagonista non solo la canzone italiana ma, come ormai è tradizione, anche la discriminazione di genere. Al di là dei presentatori e di alcuni siparietti che sul piano del sessismo hanno lasciato alquanto a desiderare, uno degli eventi più dibattuti è stato sicuramente il discorso della direttrice d’orchestra Beatrice Venezi che, alla domanda di Amadeus, risponde di voler essere chiamata “direttore”. Conduttore e ospite sono entrambi responsabili di aver rimarcato un’amara verità: il titolo è autorevole solo se al maschile, come se l’utilizzo del femminile ne comportasse uno svilimento professionale.

Tralasciando cosa ne pensi il vasto pubblico, occorre ribadire che in italiano è grammaticalmente corretto riferirsi al femminile quando si sta parlando di una donna. “Direttrice” perciò è un termine che non solo esiste ma è anche ben assodato nella lingua parlata. Perché allora porre lo scomodo interrogativo “direttrice o direttore?”, come se stessimo parlando di gusti di gelato?

Ora, poiché ognuno è libero di farsi chiamare come vuole, è giusto riferirsi alla Venezi come “direttore” dato che questa è la sua volontà. Ciò non giustifica però la grande ottusità che si cela dietro all’affermazione. Accade spesso infatti che, volontariamente (come in questo caso) o involontariamente, ci si riferisca a ruoli femminili utilizzando termini al maschile.

Le motivazioni che si celano dietro questa scelta sono molte ma in primis riguardano un retaggio culturale, dovuto al fatto che molti lavori sono stati per secoli accessibili solo a uomini. A ciò si aggiunge l’esistenza di una sorta di “imperativo maschile” sulle parole che fa percepire il femminile come subalterno, opzionale o inferiore.

La giustificazione spesso utilizzata quando si sceglie di non usare i termini femminili corretti è che questi risultano cacofonici, cioè “suonano male”. Il punto è che questo accade perché non li utilizziamo mai, e non li utilizziamo mai perché molti ruoli sono rimasti inaccessibili alle donne per secoli: ora che hanno conquistato i diritti per svolgere questi lavori (sebbene ancora con molti ostacoli), è nostro dovere chiamare le cose col loro nome.

Per cui, il “direttore” Venezi ha tutto il diritto di farsi chiamare come vuole ma ciò dimostra solo quanto lei stessa sia vittima di quel meccanismo patriarcale che soggioga la donna all’uomo, condannandola ad esserne un’ombra, una sbavatura, una parola che suona male.

Il sessismo intriso nella nostra cultura si riflette, senza che ce ne accorgiamo, nel modo in cui pensiamo e nel nostro linguaggio. Pretendere di non adattarci alle nuove dinamiche significa voler chiudere gli occhi ad un cambiamento propositivo e diretto verso una maggiore equità, sia formale che sostanziale.

Vera Gheno, sociolinguista e scrittrice, ritiene che sia fondamentale che la lingua evolva insieme ad un popolo in quanto ne è lo specchio dei meccanismi e delle dinamiche sociali.

Come la stessa Gheno spiegherà in un’intervista condotta da Tlon.it, è necessario valutare il peso sociale delle parole che utilizziamo ed il loro significato in relazione al contesto.

Abbiamo sempre avuto l’esigenza di nominare le cose e cambiamenti nel linguaggio non sono altro che la manifestazione di una cultura che si sta evolvendo.

Dobbiamo smettere di pensare che le parole siano solo parole: le parole sono ciò che ci rende umani.

Per Michela Murgia, scrittrice ed intellettuale sarda, la lingua è un atto creativo genuino che non può essere ingabbiato in stereotipi o modelli fissi e segue un continuo flusso di riadattamento. Il suo ultimo libro STAI ZITTA e altre nove frasi che non vogliamo sentire più” nasce proprio dall’esigenza di analizzare il linguaggio che utilizziamo, troppo spesso trattato con superficialità, e svelarne i meccanismi di potere (maschile) che vi si manifestano. La motivazione che l’ha spinta a scriverlo è arrivata quando il noto psichiatra Raffaele Morelli, dopo aver rilasciato dichiarazioni deplorevoli sulle donne (e sulla presunta esistenza di una “radice del femminile”), interrompe brutalmente Murgia dicendole “zitta, zitta, zitta e ascolta”. Cosa ha fatto Michela Murgia dopo essere stata pubblicamente umiliata? Scrive un libro per combattere quell’ignoranza e quella presunta superiorità di cui Morelli si è fatto paladino, e lo fa per tutti noi.

Lo studio condotto dalla Murgia pone ancora una volta l’accento sulle cause socioculturali di quelle discriminazioni di genere che si riflettono nelle parole che scegliamo di utilizzare.

In una delle interviste che ha condotto per la presentazione del libro ha come ospite Alessandro Giammei, professore di italianistica al Bryn Mawr College negli USA, con cui concorda nel dire che il linguaggio è sostanza, in quanto è il mezzo attraverso cui modelliamo la realtà. Per questo motivo, fissare la definizione di una parola nello spazio e nel tempo significa paralizzarla nella gabbia delle sue lettere.

Il patrimonio storico delle parole dovrebbe quindi essere costantemente rivisto in una chiave inclusiva e più rispettosa, secondo le esigenze della società.

Espressioni come “donna con le palle” sono dei comodi cliché che spesso utilizziamo senza cognizione di causa mentre invece dovrebbero farci inorridire. Sebbene siamo consapevoli di quanto questo sia un modo di dire svilente verso le donne, continuiamo ad usarlo perché riassume perfettamente la credenza comune secondo cui forza e coraggio sono qualità tipicamente maschili.

Il nostro compito allora è quello di trovare altre espressioni che mettano in risalto la forza o il carattere di una donna senza ricorrere ai genitali maschili. Fare questo adesso ci richiede uno sforzo, ma in futuro non lo richiederà più: solo allora avremo rinnovato il linguaggio.

Cambiare le parole infatti non significa altro che connotare la realtà in modo che ci somigli di più.

Sempre su questa linea si muove la proposta della Gheno per la costruzione di un linguaggio più equo ed inclusivo, anche in vista delle nuove soggettività non-binarie (la cui identità non si riconosce né nel genere femminile né in quello maschile): questo sarà possibile solo adottando nuove soluzioni, come l’asterisco al posto di i/e al termine delle parole (esempio: tutt* al posto di tutti/e) o una vocale neutra chiamata schwa(ə).

Come lei stessa spiega nel suo saggio “Femminili singolari”, la schwa corrisponde ad una vocale media-centrale ed è sostanzialmente il suono che emettiamo quando la nostra bocca è in rilassamento (per sentire il suono, cliccate qui). Si rappresenta con il simbolo ”ə” ed è il primo passo verso un italiano più inclusivo. Secondo la Gheno infatti, nel sistema-lingua possono “convivere sia le regole che un certo grado di libertà” affinché l’insieme sia funzionale e rispecchi l’anima di chi parla.

Al giorno d’oggi, esistono persone che si sentono ingabbiate nel binarismo di genere maschile/femminile ed è quindi necessario venire incontro anche a questa nuova esigenza sociale. La scelta della schwa si muove anche verso il raggiungimento della parità di genere nel parlato in quanto potrebbe sostituire quel “maschile sovraesteso” che nasconde il femminile quando ci si riferisce alle moltitudini.

Dato che continuamente assorbiamo e riadattiamo termini dall’inglese, cosa ci impedisce di aprirci a nuove alternative, svecchiando la nostra lingua?

Il linguaggio è (anche) sostanza e solo attraverso una narrazione più inclusiva, corretta, rispettosa e (quanto più possibile) libera da quel filtro cognitivo compromesso dall’ambiente socio-culturale in cui ogni individuo è cresciuto si può contribuire ad un effettivo cambiamento: la lotta comincia dalle parole e solo la curiosità potrà salvarci dalla paralisi del linguaggio.

Del perché il femminismo è roba da uomini

Data la grande confusione che si genera attorno al termine, ripetiamo che si definisce femminismo quel movimento socioculturale che sostiene la parità politica, sociale ed economica tra i sessi, rivendicando uguali diritti e dignità tra uomini e donne alla luce di quella discriminazione di genere ancora protagonista della nostra quotidianità.

Solitamente però, tendiamo a credere che il femminismo sia “roba da donne” o, peggio ancora, “l’antitesi del maschilismo” quando in realtà non è assolutamente così.

Se il maschilismo, come dice Garzanti, è quell’atteggiamento psicologico e sociale fondato sulla presunta superiorità dell’uomo sulla donna, il femminismo è invece un movimento trasversale nato proprio per opporsi a comportamenti e pensieri discriminanti ed ha come obiettivo principale quello di conquistare la giusta parità, indipendentemente dal sesso di appartenenza.

Ed è esattamente questo il motivo per cui dovremmo essere tutti femministi.

Lorenzo Gasparrini, filosofo e scrittore, si definisce orgogliosamente uomo femminista. Con i suoi libri “Non sono sessista, ma…” e “Perché il femminismo serve anche agli uomini” ci spiega perché la cultura patriarcale e l’ideologia maschilista siano deleterie tanto per le donne quanto per gli uomini. Gasparrini infatti mette nero su bianco una scomoda verità che molti si rifiutano di accettare: i “veri maschi” non esistono.

Quella che ci viene quotidianamente fornita è un’idea distorta di essere uomini, come se esistesse una sola versione di mascolinità che è possibile impacchettare e comprare al bar, insieme alle Haribo. É questa la “mascolinità tossica” che, secondo il New York Times, consiste in un insieme di comportamenti e credenze che comprendono il sopprimere le emozioni, mascherare il disagio o la tristezza ed utilizzare la violenza come indicatore di potere.

La società patriarcale promuove quindi un solo modello: quello dell’uomo-macho, virile, forte e superiore. Questo meccanismo li spinge (involontariamente) a conformarsi a quelle che sono fatte passare come le “tipiche qualità dell’uomo” quando in realtà sono le sbarre della gabbia che lui stesso si sta costruendo intorno.

Sebbene la sua sia una condizione decisamente più favorevole di quella femminile, anche lui è schiavo della stessa cultura misogina e maschilista che, se da un lato discrimina e oggettifica la donna, dall’altro impone una sola versione di uomo, quella “vera”, fatta di testosterone, maschilismo e sete di dominio.

Ed è così che il passo è breve per appellare un uomo gentile a “gay” (come se si trattasse di un’offesa), insultarlo perché “secco” o denigrarlo perché giustamente si occupa delle faccende di casa, per non parlare del “machismo da spogliatoio” che si verifica nel mondo dello sport.

Insomma, anche l’uomo è costretto nella prigione del suo sesso.

Negli ultimi anni, un caso esemplare che ha fatto esplodere la “bolla di vetro” satura di mascolinità tossica e distinzioni di genere è stato  Achille Lauro. Il cantante e showman nella scorsa edizione di Sanremo ha sconvolto il pubblico della TV popolare attraverso comportamenti e dichiarazioni decisamente fuori dagli schemi. Per Lauro, è la confusione dei generi il suo personale modo di dissentire ad una realtà maschilista e rifiutare quelle convenzioni da cui poi si generano discriminazione e violenza. Questo approccio alla vita si riflette nel linguaggio, nelle azioni e nell’apparenza, intesa come modo di vestirsi e di mostrarsi.

Sempre sul palco dell’Ariston quest’anno è stata Madame, artista giovanissima e di immensa consapevolezza, a rompere un bel po’ di schemi. Nelle sue canzoni, tra le altre cose, emerge la necessità genuina di una fluidità in grado di riportarci ad essere carne ed anima, ad essere persone prima di “maschi” e “femmine”, diventati ormai concetti sterili e fini a se stessi.

Il primo passo per demolire e superare questo sistema divisivo e discriminante è perciò ammettere di essere il prodotto ben riuscito di una cultura patriarcale di cui abbiamo interiorizzato gli schemi. Solo dopo aver raggiunto questa consapevolezza sarà possibile liberarci da quei claustrofobici stereotipi che costituiscono la “norma”.

Certo, lottare contro i modelli sociali, le abitudini culturali e gli elementi linguistici discriminanti con cui siamo cresciuti fin dall’infanzia è un processo faticoso (almeno inizialmente) ma solo così potremo costruire una società più giusta ed inclusiva.

Nasciamo tuttə maschilistə ma dovremmo diventare tuttə femministə.

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Marketing & Social Media

Pinterest: inclusività e ispirazione al centro della nuova strategia “human centric”

Il 7 Aprile 2021 Pinterest, il social network fondato da Evan Sharp, Ben Silbermann e Paul Sciarra nel 2010, ha tenuto un evento in cui ha reso note al pubblico una serie di novità introdotte sulla piattaforma, riguardanti soprattutto alcuni nuovi strumenti di moderazione dei contenuti: tra tutti, spiccano il Creator Code e il Creator Fund.

Una spinta al rispetto e all’inclusività: il Creator Code

“Pinterest è diventato quasi l’ultimo angolo positivo di Internet, abbiamo investito un enorme sforzo per mantenere la negatività offline” ha affermato Evan Sharp, co-founder, Chief Design e Creative Officer di Pinterest. “Quando si è circondati dalla negatività e da un senso di inadeguatezza, è difficile riuscire a essere creativi. Su Pinterest, però, è tutta un’altra storia. Facciamo della gentilezza il nostro caposaldo e mettiamo il benessere dei creators al primo posto. Scopri come cambiano le cose quando crei contenuti in una community più aperta e accogliente.”

Si apre così la nuova pagina che illustra il Creator Code, uno dei nuovi strumenti di moderazione ideati da Pinterest con lo scopo di far crescere una community basata sul rispetto dell’altro, sull’inclusività, sulla positività e sull’ispirazione. Il Creator Code è la politica sui contenuti progettata da Pinterest per far sì che la piattaforma rimanga un luogo sicuro e stimolante: il codice impone l’accettazione delle linee guida prima che i creators possano iniziare a pubblicare Pin, ed è composto da soli 5 articoli, concisi ma d’effetto.

Il primo articolo invita ad esprimere chi sei, ma senza provocare danni: Pinterest incoraggia gli utenti a condividere contenuti di qualità, che rispecchino se stessi, il loro personale punto di vista e la loro esperienza. Ma lo fa ricordando di prestare attenzione affinché la propria libertà d’espressione non finisca per danneggiare o offendere un’altra persona o un gruppo di persone. Un esempio: evitare di utilizzare frasi come “Errori di stile da evitare” se si vogliono condividere idee di moda, per non deridere o umiliare le persone che si vestono in un certo modo. Oppure, nel proporre ricette che reinterpretano piatti tradizionali, non utilizzare stereotipi scherzosi o offensivi legati a una cultura o a una comunità.

Il secondo punto è parla di qualcosa, ma verifica la realtà dei fatti, ovvero, condividi ciò che avviene nel mondo, per aiutare le persone a imparare e a crescere, ma prenditi il giusto tempo per verificare i fatti su cui si basano i contenuti che pubblichi. “In un mondo in continua evoluzione” si legge sotto quest’articolo “è facile diffondere informazioni non vere”. Perciò, ad esempio, bisogna fare attenzione a condividere modi creativi per decorare i dispositivi di protezione individuale di cui abbiamo imparato a non poter fare a meno, senza però diffondere informazioni o pratiche prive di fondamento scientifico che possano ledere la salute di qualcuno.

Nel terzo articolo Pinterest invita ad ispirare l’azione, ma senza provocare danni, detto in altro modo a condividere informazioni che instillino nelle persone nuove idee ma senza incoraggiare azioni che potrebbero provocare danni, come quelle che necessitano dell’utilizzo di materiali pericolosi o che richiedono di affrontare sfide che mettono a rischio la sicurezza delle persone.

Il penultimo punto si concentra invece sul condividere idee originali, anche sotto forma di contenuto visivo, ma senza oltrepassare il limite, affinché Pinterest rimanga un luogo sicuro per tutti. Sì ai contenuti artistici che promuovono un rapporto sano con il proprio corpo, no ai contenuti espliciti o che raffigurano le persone come oggetti sessuali.

Infine troviamo un invito a incoraggiare le persone, piuttosto che dividerle. “Pinterest è un luogo dove si respira positività e tu puoi contribuire a mantenerlo tale” si legge in chiusura nell’ultimo punto del creator code, che invoglia a diffondere idee che uniscano le persone, e non danneggino o fomentino odio verso determinati gruppi o comunità.

In un anno tumultuoso come il 2020, segnato dalla pandemia globale e da movimenti politici e di rivolta in tutto il mondo, Pinterest ha scelto di puntare su un’idea che rafforzasse la community e contribuisse a creare uno spazio positivo e stimolante, che appare in contrapposizione al mood di altri social che divengono spesso teatro e culla di disinformazione, discussioni e attacchi personali tra gli utenti.

“Siamo stati tra le prime piattaforme a vietare tutti gli annunci di disinformazione politica o sanitaria, l’incitamento all’odio, al bullismo o all’autolesionismo, per questo il nuovo creator code è così importante” sottolinea, ancora una volta, Evan Sharp.

Ma l’impegno di Pinterest per l’inclusività non si esaurisce qui: la nascita del Creator Fund

Un’altra novità a richiamare l’attenzione è l’introduzione del Creator Fund, un fondo da 500 mila dollari messo in campo per supportare i creators appartenenti a categorie sottorappresentate. Il programma, che attualmente è disponibile solo negli Stati Uniti, ha permesso di collaborare con creators appartenenti a diversi background e ha dato loro la possibilità di seguire corsi di formazione, di consulenza strategica creativa e di ricevere budget per la creazione di contenuti. L’iniziativa è nata dalla necessità di supportare quei creators e quelle comunità che sulla piattaforma appaiono sottorappresentate, e l’obiettivo di Pinterest è quello di continuare a lavorare con persone provenienti da ambienti di minoranza, assicurandosi che il 50% di coloro che prendono parte al programma provenga da categorie sottorappresentate.

In un mondo in cui “le aziende tecnologiche si comportano spesso in modi che appaiono inumani”, spiega Evan Sharp, Pinterest è impegnato a costruire una società tecnologica Human centric, ovvero con al centro l’essere umano, per costruire un business al servizio dei nostri utenti e dei nostri azionisti”.

Rimane solo da attendere, per vedere se i nuovi strumenti introdotti da Pinterest sortiranno gli effetti desiderati e se le nuove idee permeeranno altri canali social, raggiungendo così un bacino di utenti sempre più vasto e rendendo quello human centric l’approccio chiave e fondante del mondo di internet.

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Marketing & Social Media

Instagram si apre ai più piccoli

Facebook pensa ad una nuova versione di Instagram per i bambini under 13. Questa recente rivelazione è stata data da un sito web d’informazione, noto come Buzzfeed News, il quale ha riportato in un suo recente articolo la notizia. Sembrerebbe una scoperta non del tutto prevista da parte dei creatori, in quanto trapelata da una nota interna pubblicata su un forum per dipendenti della società. Al suo interno Vishal Shah, vicepresidente del prodotto Instagram, ha riportato: “Sono entusiasta di annunciare che per il futuro prossimo abbiamo individuato nei giovanissimi una priorità per Instagram”.

Possiamo ritenerlo quindi come un progetto al quale stanno lavorando in questi ultimi mesi data l’importanza e considerato anche le recenti vicende che hanno visto coinvolta una bambina di Palermo di 10 anni, morta a causa di una challenge sul social TikTok. A fronte di questo fatto i creatori di Instagram stanno pensando ad un modo per poter tutelare maggiormente i giovanissimi con età inferiore ai 13 anni, dandogli la possibilità di restare in contatto con i propri familiari o amici, monitorati in tutta tranquillità dai propri genitori.

Nuove regole giuridiche per l’uso dei social ai minori

Per effetto del GDPR, Regolamento Generale per la protezione dei dati personali, entrato in vigore nel 2016, l’età minima per poter prestare il proprio consenso al trattamento dei dati personali, ai sensi dell’articolo 8, è lecito se il minore abbia almeno 16 anni. Agli stati è data però la possibilità di poter derogare a tale età, ma non al di sotto dei 13 anni; infatti, in Italia, l’età minima per poter iscriversi a qualsiasi social network è almeno pari a quest’ultima con l’obbligo di supervisione di un anno da parte dei genitori. A tal proposito il Digital Report in Italia del 2018 ha riportato che la percentuale di uso dei social network tra i 13 e i 17 anni era dello 0,5%; notiamo come nel Digital Report del 2020 questa percentuale è cresciuta fino ad arrivare all’1,6%. Da ciò deduciamo che, con il passare del tempo, l’attitudine tra i più giovani ad approcciarsi al mondo social è sempre più in voga e prematura; per questo, creare un’applicazione per tutelarli è il primo passo verso un mondo sempre più incentrato sull’uso del digitale.

Recentemente il Garante per la protezione dei dati personali ha imposto l’obbligo, in un suo provvedimento, di “blocco immediato” nei casi in cui non sia possibile accertare con certezza l’età del nuovo iscritto e di rimozione immediata di tutti quei profili appartenenti a bambini con età inferiore a 13 anni. Inizialmente esso era stato emesso solo nei confronti di TikTok, ma successivamente è stato esteso anche a Facebook e Instagram.

Cosa ne pensa Adam Mosseri

A capo di questo nuovo progetto che vedrà coinvolto IG per under 13, ci sono Adam Mosseri, capo di Instagram, e Pavni Diwanji assunta a Dicembre 2020 da Facebook la quale, negli anni precedenti, aveva collaborato presso l’azienda Google per sviluppare una applicazione nota come “Youtube Kids” che consente di poter visionare video adatti per un pubblico di minori.

Lo stesso Adam Mosseri ha poi twittato: “I bambini chiedono sempre più spesso ai loro genitori se possono iscriversi ad applicazioni che li possano aiutare a stare in contatto con i loro amici. Stiamo esplorando una versione di Instagram in cui i genitori hanno il controllo, come abbiamo fatto con Messenger Kids. Condivideremo di più lungo la strada”. Tale conferma verso questo progetto a cui stanno lavorando ha suscitato svariate reazioni non positive da parte degli utenti del social network Twitter; alcuni lo hanno considerato ironicamente come una “opportunità interessante” per sfruttare e danneggiare emotivamente un intero nuovo settore della società, altri considerano Facebook e tutte le sue proprietà come delle prigioni, e infine alcuni criticano il fatto che non deve esserci il bisogno di programmare questa nuova versione di Instagram solo perché i bambini lo stanno “chiedendo”.

I precedenti interventi per avvicinare i più piccoli al mondo social

In effetti sia l’applicazione Messenger Kids, sia YouTube hanno dovuto affrontare diversi ostacoli nel corso della loro esistenza. La prima applicazione, rilasciata nel 2017, che consente ai più piccoli di potersi scambiare messaggi sotto la supervisione e il controllo dei loro genitori, nel 2019 a causa di un bug ha permesso ai bambini di entrare in chat o per meglio dire in “gruppi” creati con adulti non autorizzati. Il gruppo Facebook si è fin da subito attivato per contattare via mail, qui riportata, i genitori e rassicurarli sul fatto che avrebbero provveduto a risolvere prontamente il problema.

Alla seconda piattaforma non è andata meglio, in quanto Google, proprietaria di YouTube, è stato accusato dalla Federal Trade Commission al pagamento di una multa di 170 milioni di dollari per aver tracciato dati personali di bambini di età inferiore ai 13 anni, senza il previo consenso dei genitori, per poi inviare loro pubblicità mirata.

Cyberbullismo e sicurezza

Oltre ad essere una questione informatica e giuridica di grande novità è quindi diventato un vero e proprio problema etico all’interno del quale personaggi noti come ad esempio Jeremy Hunt, politico e membro del Parlamento britannico, ha espresso la sua opinione in un tweet criticando apertamente le applicazioni di messaggistica per bambini così dicendo: “Facebook mi aveva detto che sarebbero tornati con delle idee per prevenire l’uso dei minorenni del loro prodotto, ma invece stanno attivamente prendendo di mira i bambini più piccoli. State lontano dai miei bambini.”

Un sondaggio del 2019 condotto da Ditch the Label, ente dedicato alla promozione dell’uguaglianza che fornisce supporto ai giovani colpiti da bullismo e cyberbullismo nel Regno Unito, ha riportato che un quinto dei giovani ne è stato vittima nell’ultimo anno e uno dei modi tramite il quale esso si scatena è l’uso dei social, in particolare caricando o postando video nei quali i ragazzi si divertono a prenderne in giro altri. Ciò accade anche a causa del fatto che ormai l’85,8% dei giovanissimi tra 11 e 17 anni utilizza quotidianamente il cellulare come riportato dai dati Istat, ma un dato importante è dato dall’84,9% che rappresenta la percentuale di adolescenti (14-17 anni) che quotidianamente accede ad Internet. Tra i più giovani si registra una quota pari al 7% di casi di cyberbullismo di cui è necessario tenere conto.

Sappiamo bene che così come accade nella vita reale, anche per i social è possibile mentire sull’età siccome, in Italia, le false dichiarazioni sono considerate reato solamente se rese davanti ad un pubblico ufficiale. Il primo grande ostacolo da superare è infatti quello di riuscire a sviluppare un riconoscimento facciale artificiale in grado di poter verificare l’esattezza dell’età anagrafica e grazie al quale sarà impossibile inserire una data di nascita falsa.

Oltre a ciò, si vorrà rafforzare la sicurezza in modo da rendere più difficile la ricerca di bambini da parte degli adulti e di impedire ad essi di poter inviare messaggi a persone con età minore di 18 anni.

 

Una lettera per Mark Zuckerberg

Questo progetto sembra non avere un grande successo tra i diversi gruppi di consumatori a tutela dell’infanzia i quali, guidati dall’organizzazione no-profit Campaign for a Commercial-Free Childhood, si sono uniti e hanno scritto una lettera a Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, esprimendo la loro contrarietà nei confronti di Instagram under 13, chiedendo loro di abbandonare l’idea in quanto, a loro detta: “non è il rimedio giusto e metterebbe a rischio i giovani utenti in quanto, negli anni della scuola elementare, essi sperimentano una incredibile crescita nelle loro competenze sociali, nel pensiero e nel senso di sé. Abbiamo paura che questa proposta possa sfruttare questi rapidi cambiamenti evolutivi. Instagram, in particolare, sfrutta la paura dei giovani di perdersi e il desiderio di approvazione dei pari per incoraggiare bambini e adolescenti a controllare costantemente i propri dispositivi e condividere foto con i propri follower.”

Concludono così la loro lettera:Un Instagram per bambini sottoporrà i più piccoli a una serie di gravi rischi e offrirà pochi vantaggi alle famiglie”.

La data di lancio ufficiale non è stata ancora comunicata e non sarà, a quanto risulta dalle indiscrezioni, a breve, ma è da considerare come al primo posto tra gli obiettivi principali che i creatori si sono prefissati di portare a termine. A fronte di questo la privacy e la sicurezza per i minori sono, in questo campo, gli argomenti più sensibili che vogliono e devono essere protetti per poter costruire questa nuova versione, in modo da poter essere utilizzata in piena sicurezza e per garantirne un uso sicuro da parte di una categoria che, al giorno d’oggi, ha maggiormente bisogno di essere tutelata.

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Ambiente, società e tecnologia

La scimmia di Elon Musk gioca a pong con il pensiero grazie a Neuralink

Una scimmietta davanti a un monitor gioca al famoso videogame Pong, è quello che si vede da un video pubblicato dall’azienda di Elon Musk: Neuralink. Non ci sarebbe nulla di strano nel vedere un primate addestrato per giocare a un videogioco, se solo non fosse che lo stava controllando soltanto con il pensiero.

Cos’è e come funziona:

Il protagonista del video diventato virale è Pager, un macaco di 9 anni, scelto dalla compagnia statunitense di neurotecnologie per lo sviluppo di interfacce uomo-macchina per questo esperimento che Musk stesso sul social vocale Clubhouse aveva dichiarato già a febbraio di quest’anno. Nella prima metà del video si vede come il primate, attaccato ad una cannuccia che eroga del frullato di banana, con la mano destra su un joystick, gioca al videogioco Pong, rinominato per l’occasione MindPong. In un secondo momento, terminata la fase di apprendimento, il joystick viene scollegato ma Pager continua tranquillamente a giocare come se nulla fosse successo. Ciò che la fa proseguire senza dover controllare il gioco con la mano, è un dispositivo che le permette di farlo con la mente:  il chip wireless N1 Link, abbreviato “The Link” impiantato nel suo cranio.

Questo chip è un dispositivo di registrazione neurale e di trasmissione dati dotato di 1.024 elettrodi e alla scimmia ne sono stati impiantati due: uno a livello della corteccia motoria di destra e l’altro a sinistra. Nella prima fase di apprendimento, non solo il macaco stava imparando a giocare, ma anche i ricercatori hanno potuto costruire un modello di attività neurale dell’animale a computer. Partendo dal Link che riesce a captare i potenziali d’azione dei neuroni, ovvero la “scossa elettrica” che rilasciano quando vengono attivati da scambi di informazioni, questi vengono aggregati e conteggiati ogni 25 millisecondi per ognuno dei 1.024 elettrodi. Contemporaneamente, sempre ogni 25 millisecondi il chip trasmette i conteggi aggregati via Bluetooth ad un computer in grado di eseguire un software di decodifica apposito: un algoritmo di machine learning che sia in grado di tradurre i segnali elettrici del cervello in segnali digitali e arrivare anche a prevedere le potenziali mosse future dell’animale.

L’esperimento con Pager ha fatto fare dei grossi passi avanti all’azienda, se teniamo conto del fatto che il massimo a cui si era arrivati l’anno scorso con la maialina Gertrude era rilevare i segnali cerebrali quando questa, usando il suo olfatto, rilevava qualcosa di gustoso; ma questo test secondo Musk è solo l’inizio, perché il progetto in sé è molto più ambizioso.

Il vero progetto del CEO visionario

L’esperimento non è stato fine a sè stesso, ma fa parte del processo di studio e sviluppo di questa  tecnologia per aiutare le persone con disturbi neurologici e che hanno subito amputazioni agli arti, attraverso un impianto neurale wireless poco invasivo che permetterebbe loro di riavere alcune abilità, anche motorie.

L’idea sarebbe quella di collegare The Link , precedentemente impiantato nel cranio del paziente e delle dimensioni di una monetina, ai dispositivi d’uso quotidiano come gli smartphone per permettergli di utilizzarlo, oppure ad un arto bionico riuscendo a muoverlo così come muoviamo i nostri arti funzionanti.

Aiutare i pazienti paralizzati, che hanno subito amputazioni ma anche con malattie neurodegenerative come il Parkinson, è il risultato ideale che se Musk riuscisse a raggiungere potrebbe portare ad una vera rivoluzione; come lui stesso ha affermato: “può effettivamente risolvere problemi come ictus, paralisi, cecità, perdita dell’udito, disturbo dello spettro autistico, Parkinson e patologie come ansia e depressione, ma molte persone non se ne rendono conto. Tutti i sensi – vista, udito, olfatto -, ma anche sensazioni di vario tipo come il dolore sono segnali inviati dai neuroni al cervello. Correggendo questi segnali si può correggere tutto

Le sue mire però non finiscono qui: il suo piano sarebbe non solo di portare questa tecnologia a malati di questo tipo, ma arrivare anche alle persone sane, facendola diventare un prodotto di massa in modo tale che impiantata sulla maggior parte delle persone, ci renda in grado di difenderci dall’avanzata dell’intelligenza artificiale che a suo avviso potrebbe, in un futuro non troppo lontano, superare completamente l’essere umano nella folle corsa verso il progresso.

Nonostante sembri fantascienza, non è una novità totale

L’idea di Elon Musk di registrare segnali cerebrali e trasmetterli ad un computer può sembrare innovativa, ma altri neuroscienziati, hanno provato a portare avanti questi studi ben prima dell’imprenditore sudafricano. Già nel 1963, José Manuel Rodriguez Delgado creò un dispositivo predecessore delle attuali interfacce uomo-macchina impiantando un elettrodo radiocomandato nel nucleo caudato del cervello di un toro e fermando la corsa dell’animale premendo un pulsante di un trasmettitore remoto. Uno dei primi esperimenti con un chip è stato portato avanti dal neuroscienziato Eberhard Fetz che nel 1969 effettuò uno studio in cui delle scimmie furono addestrate ad attivare un segnale elettrico nel loro cervello per controllare l’attività di un singolo neurone, appositamente registrata da un microelettrodo metallico.

Un’altra vicenda degna di nota in questo ambito è quella del giovane Neil Harbisson che nel 2004 è diventato la prima persona al mondo ad indossare un’“antenna” che gli permette di “sentire i colori” a seconda della frequenza espressa, nonostante la sua acromatopsia (impossibilità totale di vedere i colori a livello cerebrale), diventando il primo uomo-cyborg riconosciuto. Nel 2010 ha inoltre fondato la Cyborg Foundation, un’organizzazione internazionale per aiutare gli umani a “diventare” cyborg; lui probabilmente si direbbe d’accordo con i progetti di Neuralink.

Prospettive future e problemi: gli ostacoli e le opportunità per Neuralink

Nonostante l’idea di base di impiantare un chip nel cervello, sia già realtà in ambito biomedico, la volontà di Musk di spingersi oltre potrebbe presentare dei problemi.

In primis il fatto che il chip tenderebbe a deteriorarsi nel cranio provocando delle potenziali infezioni e successivamente il danneggiamento dei neuroni a cui The Link stesso è collegato, nonostante l’obiettivo sia farlo durare “per decenni”. In secondo luogo il prezzo potrebbe non essere accessibile a chiunque, anzi,  a detta sua verrebbe a costare “fino a qualche migliaio di dollari”, rendendolo un lusso di pochissimi e aumentando il divario tra ricchi e poveri andando a creare una classe elitaria con dei “superpoteri” che altri potrebbero solo sognare. Infine anche chi se lo può permettere, potrebbe avere dei seri dubbi nel farsi impiantare un apparecchio nel cranio laddove questa necessità non fosse impellente, con la consapevolezza che, come tutte le tecnologie, anche The Link potrebbe essere hackerato e a quel punto gli effetti catastrofici si potrebbero solo immaginare.

Tuttavia, adesso che The Link ha ricevuto tutte le autorizzazioni dalla FDA (Food and Drug Administration) la sperimentazione sugli esseri umani potrebbe essere più vicina che mai: con uno dei suoi tweet il CEO ha annunciato i primi test entro la fine di questo 2021, non ci resta che attendere, sperando di non diventare degli ostaggi dell’AI ancora prima di iniziare.

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Entertainment, videogame e contenuti

Roblox: tra user-generated e branded gaming

Tra i videogiochi più amati e giocati dai bambini di tutto il mondo Roblox è, sicuramente, uno di quelli meno conosciuti tra il pubblico adulto. Nonostante sia disponibile da più di una decade, infatti, Roblox ha iniziato ad accrescere (smisuratamente) la sua popolarità solamente negli ultimi anni. Basti pensare che il numero di utenti attivi mensilmente è passato, dal 2019 a oggi, da 35 a 150 milioni e che, durante la pandemia, ha generato oltre 920 milioni di dollari di ricavi. Tutto questo, come intuibile, con oltre il 50% dei giocatori sotto i 13 anni. Ma che cos’è Roblox? Come funziona?

Parola d’ordine: creatività

Più che un gioco, Roblox andrebbe definito come una piattaforma per la creazione e la condivisione di videogiochi. Agli utenti, infatti, è consentito di sviluppare, utilizzando l’apposito programma Roblox Studio, qualsiasi videogame riescano ad immaginare per poi condividerlo online con la community. Va quindi da sé che, con alle spalle i suoi 15 anni di attività, Roblox è diventato un contenitore enorme, con oltre 20 milioni di videogiochi user-generated disponibili. E, considerando che solamente i due più popolari – “Adopt me!” e “Tower of Hell” – sono stati giocati per più di 30 miliardi di volte, l’immensità del fenomeno Roblox potrebbe iniziare ad esservi più chiara. L’aspetto sorprendente è che la maggior parte di questi contenuti, non tutti, è accessibile gratuitamente. Come è possibile, dunque, che la compagnia dietro a Roblox sia quotata in borsa con una valutazione di ben 38 miliardi di dollari? Quotazione, tra l’altro, ben superiore ad altri player storici e di successo come Ubisoft.

Arricchirsi con i Robux

Come abbiamo notato più volte su iWrite, non è detto che un gioco gratuito non possa fruttare milioni e milioni di dollari ai suoi sviluppatori. Esattamente come avviene nel celebre Fortnite, anche Roblox adotta una forma di monetizzazione simile. La piattaforma consente, infatti, di acquistare i Robux, la valuta virtuale spendibile in tutti i videogame, per “acquistare miglioramenti per il tuo avatar o abilità speciali nei giochi”. Il prezzo? I Robux sono attualmente acquistabili in pacchetti che possono andare dai 400 ai 10.000 Robux per un equivalente valore dai 4,99 ai 99.99 euro. È, inoltre, possibile sottoscrivere un abbonamento mensile dai 4,99 ai 20,99 euro che consente di avere una somma fissa di Robux al mese più un incremento su ogni acquisto successivo. Nulla di particolarmente originale, in verità, tuttavia la parte della monetizzazione di Roblox più interessante non riguarda quella della compagnia ma quella dei giocatori-creatori di contenuti. Roblox ha, infatti, dispensato profitti per più di 200 milioni di dollari ai suoi utenti sviluppatori nel 2020. Le fonti di questi introiti, che in molti casi hanno fruttato guadagni enormi ai singoli creator, derivano sia dalla possibilità di rendere il proprio gioco a pagamento (in Robux) che dai finanziamenti che la società passa agli sviluppatori dei giochi che attraggono più acquisti in-game. E, come si può ben immaginare, tutto ciò alimenta un circolo tramite il quale Roblox riesce ad attrarre creativi e a spingere gli utenti già presenti a fare di meglio… Per puntare a guadagnare di più.

La componente sociale e il futuro branded di Roblox

Nonostante la monetizzazione abbia sicuramente contribuito moltissimo alla crescita di Roblox, il suo cuore pulsante rimane, senza dubbio, la sua componente sociale. Negli anni Roblox è diventato, infatti, un punto di ritrovo virtuale per milioni di giovanissimi che utilizzano gli altrettanto numerosi mondi e giochi per fare amicizia e passare il tempo in compagnia sulla piattaforma. Non a caso, la mission della società è proprio quella di “collegare il mondo intero attraverso il gioco”.

Ora, immaginate, abbiamo una piattaforma su cui milioni di bambini e ragazzini della, ancora lontana dai radar, generazione alpha (o, comunque, i più giovani della z) si ritrovano per ore a giocare e chattare in mondi virtuali che possono essere creati da chiunque… quale sarà il prossimo passo? Beh, il branded gaming. Esattamente come succede in Fortnite con skin e oggetti personalizzati con i brand dei vari sponsor, è molto probabile che presto vedremo degli interi mondi brandizzati all’interno di Roblox. Non si tratterà più di “incollare” il proprio brand sui giocatori ma di portarli a divertirsi e a passare il tempo “dentro” di esso, magari ad appassionarcisi attraverso il gioco. Sinceramente, stento a immaginare una forma più immersiva di marketing e sarebbe assurdo non approfittare di un pubblico così ampio e poco esplorato. Roblox ha quindi tutte le carte in regola per mettere l’immersività dei videogame al servizio delle aziende in una maniera inedita, resta da vedere se e come quest’ultime ne approfitteranno.