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Ambiente, società e tecnologia

Il medico del futuro è un algoritmo?

Il futuro della sanità potenziata con l’AI

Immaginiamo un futuro in cui una tecnologia sia in grado di valutare il nostro stato di salute, rilevare la possibile presenza di patologie e proporre trattamenti personalizzati basati sulle nostre caratteristiche psicofisiche. Non serve essere i protagonisti di un episodio di Black Mirror – la serie britannica che esplora, in chiave distopica e speculativa, le implicazioni sociali, etiche e psicologiche dell’innovazione tecnologica – per visualizzare uno scenario del genere. Quel futuro, infatti, è già presente.

Tra gli esperti del settore sanitario infatti, si discute già da tempo del potenziale contributo dell’intelligenza artificiale alla medicina del futuro, grazie alla sua capacità di analizzare e interpretare grandi quantità di dati in modo rapido e più o meno accurato.

Ma come si fa a introdurre nel percorso clinico-terapeutico una nuova tecnologia e renderla una vera “innovazione”? Chi sono i protagonisti e quali sono le implicazioni etiche e sociali dell’introduzione di algoritmi volti a guidare le decisioni cliniche?

 

Sfide all’integrazione dell’AI nella pratica clinica

Sono numerosi i fattori che contribuiscono oggi ad aggravare lo stato di salute dell’umanità. Tra questi figurano problemi strutturali legati al cambiamento climatico, alla crescente preoccupazione per la salute mentale, alle disuguaglianze socioeconomiche e all’accesso ineguale ai servizi sanitari. A tali problematiche strutturali si aggiungono poi problemi contestuali che interessano, in misura variabile, gran parte dei sistemi sanitari nazionali mondiali. Tra questi si annoverano le maggiori aspettative riposte nella medicina, l’aumento della popolazione globale e il progressivo invecchiamento della stessa, nonché i costi crescenti legati allo sviluppo e all’adozione di nuove tecnologie.

Sebbene molti di questi problemi, per la loro complessità e dimensione, non possano essere risolti da un algoritmo, gli esperti concordano sul fatto che l’intelligenza artificiale possa offrire soluzioni efficaci per affrontarne alcuni aspetti. Fabrizio D’Alba, direttore generale del Policlinico Umberto I di Roma e presidente di Federsanità, sottolinea ad esempio che “L’intelligenza artificiale è uno strumento che può rendere più accurata l’attività dei professionisti, semplificarla e ridurre i tempi necessari per alcune decisioni critiche”. 

È evidente, quindi, che l’intelligenza artificiale può svolgere molteplici compiti assegnati dai medici, supportandoli nel miglioramento e nella semplificazione di gran parte del loro lavoro.

 

Le possibile applicazioni nella sanità

Le applicazioni dell’AI in sanità infatti sono molteplici, e a questo proposito ricordiamo la presenza di algoritmi capaci di analizzare immagini radiologiche per rilevare patologie con una buona performance diagnostica, di sistemi come DrugGpt che aiutano a identificare nuove potenziali molecole da utilizzare a scopo terapeutico, e di chatbot avanzati capaci di assistere i medici nella gestione di diagnosi preliminari e follow-up.

Tutto appare semplice e promettente, almeno in teoria, ma approfondendo il funzionamento di questi sistemi emerge che il vero perno dell’innovazione risiede nella raccolta e nella gestione accurata dei dati. I sistemi di machine learning e deep learning si basano infatti su enormi dataset per identificare pattern, fare previsioni e ottimizzare processi complessi. È qui che sorgono alcune delle sfide più rilevanti. Da un lato, modelli addestrati su dati provenienti da popolazioni specifiche possono introdurre bias discriminatori verso gruppi etnici o sociali minoritari. Dall’altro, il trattamento di dati sensibili, come quelli sanitari, richiede il rispetto di rigorosi protocolli di sicurezza, come evidenziato dall’OMS nel report Regulatory Considerations on Artificial Intelligence for Health.

Per un’integrazione sana e costruttiva dell’intelligenza artificiale nella pratica medica, dunque è innanzitutto fondamentale riconoscere che essa non può né deve sostituire il ruolo del medico. Solo un medico, infatti, può comprendere appieno le complessità della vita umana e del rapporto tra mente, corpo e ambiente, instaurare una connessione emotiva con il paziente, generare fiducia nel paziente, gestirne l’ansia e motivarlo ad affrontare trattamenti complessi o cambiamenti nello stile di vita. È il medico che tiene conto della volontà del paziente, dei suoi valori morali, e che trova soluzioni creative e sensibili, adattandosi al contesto specifico. L’intelligenza artificiale deve dunque essere vista come uno strumento complementare, non come un sostituto. Al contrario, il professionista sanitario deve acquisire le competenze necessarie per comprenderne il funzionamento e sfruttarne il potenziale, con l’obiettivo finale di migliorare la cura del paziente.

In ogni caso, siamo ancora lontani dal poter basare diagnosi o terapie esclusivamente sugli algoritmi. Il cosiddetto “occhio clinico” resta imprescindibile per individuare le peculiarità del paziente e registrarle in modo accurato nel suo Fascicolo Sanitario Elettronico. Durante il Forum Sanità 2024, Maria Immacolata Cammarota, responsabile del progetto FSE presso il Dipartimento per la Trasformazione Digitale, ha sottolineato che solo a partire da dati di alta qualità è possibile generare una conoscenza altrettanto valida e utile attraverso l’AI. Questo evidenzia come la tecnologia possa diventare un alleato prezioso per il personale medico, a patto che esso si impegni a raccogliere, organizzare e interpretare i dati con precisione e competenza. “Oggi – sostiene la Dottoressa Cammarota- parliamo non solo di big data, ma di good data, ovvero dati accurati e affidabili su cui costruire una conoscenza buona e consapevole”. È evidente quindi che il successo dell’AI dipenderà dalla qualità dei dati su cui sarà addestrata, e quest’ultima è strettamente legata alle abilità del professionista, medico o chirurgo. 

 

Startup e istituzioni: attuali protagonisti dell’innovazione

Attualmente tuttavia, i principali protagonisti dell’innovazione tecnologica in ambito sanitario non sono i sistemi sanitari o il personale medico, ma le startup, aziende caratterizzate da modelli di business innovativi e orientati alla rapida scalabilità. Il loro obiettivo è spesso quello di espandersi velocemente all’interno di settori consolidati o nuovi mercati. Tra gli esempi più interessanti troviamo Imagene, una startup israeliana che sfrutta l’intelligenza artificiale per identificare biomarcatori tumorali e prevedere le risposte ai trattamenti; WideLabs, realtà brasiliana che utilizza modelli linguistici avanzati per creare contenuti biografici personalizzati per pazienti con Alzheimer e anticipare la diagnosi della malattia; e Cerebriu, azienda danese che impiega l’AI per ridurre i tempi di analisi delle scansioni cerebrali ottenute tramite risonanza magnetica.

Al fianco di queste realtà emergenti, si posizionano grandi attori istituzionali e tecnologici. Tra questi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che guida il dibattito sulla regolamentazione dell’uso dell’AI in medicina, e colossi affermati come Oracle, che fornisce infrastrutture cloud avanzate per l’addestramento dei modelli di intelligenza artificiale.

La trasformazione è già in atto e progredisce a un ritmo sempre più rapido. Tuttavia, restano aperti i dibattiti su come questa rivoluzione possa essere guidata in modo da massimizzare il benessere collettivo e ridurre le disuguaglianze, sottolineando l’urgenza di definire un equilibrio tra innovazione tecnologica, etica e accessibilità.

Da un lato, le startup, con la loro capacità di attrarre investimenti e generare innovazione, rappresentano un motore economico di straordinaria importanza. Queste realtà, spesso fondate da team multidisciplinari che includono ingegneri, medici e bioinformatici, stanno guidando una nuova era della medicina digitale. Secondo recenti dati, le startup del settore AI in sanità hanno raccolto miliardi di dollari in finanziamenti, catalizzando lo sviluppo di tecnologie avanzate come algoritmi di monitoraggio per trial clinici e piattaforme per la medicina predittiva.

Un esempio concreto del valore economico e sociale dell’AI è rappresentato dagli algoritmi che monitorano in tempo reale i trial clinici, identificando anomalie e accelerando il processo di approvazione dei farmaci. Startup come Imagene, che utilizzano approcci innovativi come il self-supervised learning per superare i limiti dei dataset ridotti o non etichettati, stanno dimostrando che è possibile ridurre i bias geografici ed etnici, migliorando così la cura delle minoranze meno rappresentate nei materiali impiegati per l’apprendimento degli algoritmi. Tuttavia, anche modelli avanzati richiedono aggiornamenti costanti, risorse computazionali elevate e una supervisione umana accurata.

Parallelamente, le istituzioni sanitarie e politiche assumono un importante ruolo nel guidare e regolamentare questa trasformazione. L’Unione Europea, attraverso l’AI Act, sta sviluppando normative che definiscono standard di sicurezza ed equità per l’uso dell’AI, con un’attenzione particolare al settore sanitario. “Senza una regolamentazione chiara e condivisa, sottolinea Fabrizio D’Alba, rischiamo di perdere di vista l’obiettivo finale: migliorare la qualità della cura e ridurre le disuguaglianze”.

Nonostante possano essere previsti alcuni vantaggi economici, l’espansione dell’AI in sanità non è quindi priva di rischi. La concentrazione delle innovazioni tecnologiche in startup private solleva interrogativi su come garantire equità nell’accesso e trasparenza nell’utilizzo dei dati sanitari. Paesi con risorse limitate potrebbero restare esclusi da queste innovazioni, aggravando le disuguaglianze globali. La stessa adozione di tecnologie AI in contesti clinici avanzati può sollevare dubbi etici legati alla sostituzione del giudizio umano con quello di un algoritmo.

 

Intelligenza artificiale e relazione medico-paziente

L’AI ha il potenziale di migliorare la qualità delle cure, ma non deve compromettere il cuore della professione medica: il rapporto umano tra medico e paziente. Se utilizzata correttamente, può supportare i professionisti nel prendere decisioni più informate e rapide, lasciando loro più tempo per instaurare una relazione empatica con il paziente. Come osservato da Dean Bitan, cofondatore di Imagene, l’AI non è solo uno strumento per aumentare l’efficienza, ma anche un mezzo per estendere l’accesso a cure di alta qualità, persino in aree rurali e svantaggiate.

Tuttavia, un’adozione indiscriminata e poco critica della tecnologia potrebbe compromettere il ruolo decisionale del medico, riducendo il suo apporto a semplice supervisore di algoritmi. La formazione dei professionisti sanitari deve quindi diventare una priorità, per consentire loro di integrare l’AI nella pratica clinica senza rinunciare al loro ruolo centrale. Come evidenziato durante il Forum Sanità 2024, “la tecnologia non sostituirà mai la sensibilità e il giudizio umano, ma può amplificarne l’efficacia quando utilizzata con consapevolezza”.

 

Collaborazione tra algoritmo e professionista umano

L’intelligenza artificiale rappresenta quindi una straordinaria opportunità per trasformare il settore sanitario, ma la sua diffusione deve essere guidata da principi di equità, sicurezza e responsabilità. Startup, istituzioni e professionisti sanitari devono collaborare per creare un ecosistema in cui l’innovazione tecnologica sia al servizio delle persone, non viceversa.

Solo un approccio consapevole e collaborativo potrà garantire che l’AI diventi un alleato indispensabile, migliorando non solo la qualità delle cure, ma anche il benessere complessivo della società. La vera sfida non è solo sviluppare tecnologie avanzate, ma far sì che queste possano essere accessibili e utili per tutti, contribuendo a una sanità più giusta, inclusiva e umana.

 

Fonti

  • Annual Review of Biomedical Data Science Probabilistic Machine Learning for Healthcare Irene Y. Chen

 

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Ambiente, società e tecnologia

Cultura digitale e musei: come l’AR sta trasformando l’arte e il patrimonio culturale

Nell’era della digitalizzazione, risulta sempre più semplice ed immediato ricorrere a spazi o mezzi digitali per approfondire ed esplorare qualsivoglia aspetto o campo d’interesse. Tra mostre con stanze immersive quadrimensionali, prodotti artistici generati dall’Intelligenza Artificiale e tour virtuali di svariati musei, anche la fruizione culturale si sta evolvendo e trasformando seguendo una direzione sempre più digitalizzata.

 

Intelligenza Artificiale: dalla parola all’immagine

Gli sviluppi della fusione tra arte e digitale hanno caratteri proteiformi e la loro concretizzazione risulta varia nel processo di realizzazione e nel risultato finale. Una prima introduzione a questi innovativi sistemi è raccontata da Chiara Canali, Rebecca Pedrazzi e Davide Sarchioni, esperti nel settore di divulgazione artistica; il trio ha tenuto un convegno riguardo l’omonima mostra L’opera d’arte nell’epoca dell’IA in cui viene illustrato, sia in chiave verbale che figurata, come si stia progredendo verso la costruzione e creazione di immagini o elementi artistici attraverso la descrizione testuale inserita in un sistema di Intelligenza Artificiale. Nel dettaglio, scopriamo come tali programmi, attraverso la catalogazione di parole o frasi in campi semantici distinti, siano in grado di risalire a illustrazioni diverse per formarne una inedita. Tale processo viene espresso e ampiamente approfondito nel saggio del filosofo contemporaneo Pietro Montani, intitolato Immagini sincretiche ed edito Maltemi; l’autore spiega, in termini epigenetici,come l’uso del linguaggio sia finalizzato anche alla costruzione ideologica e consequenzialmente pratica di segni visivi. Risulta quindi immediato comprendere la modalità del processo avanguardista sopracitato e di come questo si avvalga della stretta connessione tra la parola e l’immagine presente, in modo innato, nella mente di ciascuno.

 

Celerità creativa: la reversibilità dell’errore

Il giornalista Vanni Santoni sottolinea la rapidità di tale processo creativo: dall’inserimento testuale alla produzione finale dell’illustrazione artistica passano pochi secondi e, di conseguenza, il tempo tra l’idea e il suo compimento è quasi immediato.

I vantaggi di questa celerità riguardano la flessibilità e la dinamicità delle creazioni stesse: un errore, un qualsiasi mutamento o persino un immediato cambio d’idea artistica sono completamente reversibili e non richiedono un elevato impegno economico o fisico; infatti, sarà necessario il solo inserimento di un nuovo testo rettificato per ottenere un nuovo prodotto creativo.

 

Oppressione tradizionalista o avanguardia artistica?

Sebbene i giovamenti siano lampanti, non sono trascurabili gli svantaggi di questo sistema; infatti, l’aumento di opere generate dall’Intelligenza Artificiale è direttamente proporzionale al fragoroso malcontento degli archivi istituzionali. 

Ne è esempio il caso della fumettista Sarah Andersen insieme all’artista Kelly McKernan e l’illustratrice Karla Ortiz, le quali accusarono Stability AI, Midjourney e DeviantArt di violazione di copyright. Tali aziende, sfruttando la ricezione immediata di diverse immagini, ricorsero anche a illustrazioni di matrice analogica e quindi appartenenti ad artisti o archivi esistenti che, senza aver dato alcuna autorizzazione, trovarono le loro opere mutate da terzi.

Oltre a ciò, i critici più conservatori si trovano in opposizione con i nuovi sistemi di sviluppo creativo ed artistico, considerandoli oppressori di processi d’arte tradizionale che, sebbene necessitino di tempistiche maggiori e di un impegno manuale costante, sono avvalorati proprio dalla dedizione analogica e dallo studio ricercato dell’artista stesso, diametralmente distante dalla fugace creazione dell’Intelligenza Artificiale.

 

Dall’azienda all’esposizione d’arte: il caso Lenovo

Si pone in una posizione di mediazione Massimo Chiaretti, manager di primo livello per Lenovo, il quale spiega come questi nuovi processi siano da considerare come “un’estensione pre-cognitiva: prima di noi. Per l’artista un “superpotere” lecito”. Sarà proprio Chiaretti, coadiuvato da Fondazione Cariplo, ad avviare una collaborazione con il MEET Digital Culture Center, crocevia tra arte e cultura digitale; figlia di questa unione è la mostra AI yoga per Intelligenze Artistiche, presentata nella sede MEET di Milano dal 19 al 29 settembre del 2024. In questo spazio espositivo, dieci artisti differenti hanno usufruito del prodotto tecnologico Lenovo Yoga Slim 7x per produrre vere e proprie opere d’arte di differenti stili e materiali.

 

L’idea nella Grande Mela e l’approccio britannico

Ampliando lo sguardo, si nota che il supporto delle nuove tecnologie nel campo artistico e culturale, è fruibile anche oltreoceano. Ne è esempio il progetto sviluppato dal MoMa di New York associato con Google Art & Culture Lab: Identifying art through machine learning; grazie ad un algoritmo generato da Google, si prende in esame ogni reperto fotografico dell’archivio museale innestando connessioni tra la documentazione online e quella analogica. Il risultato è la genesi di nuovi sistemi e chiavi di lettura indipendenti dalle logiche curatoriali o soggettivo-interpretative.

Con le stesse fondamenta, viene elaborato Recognition un programma di Intelligenza Artificiale di cui si avvale la Tate Gallery di Londra per associare le immagini di opere d’arte esposte o conservate nel museo a rappresentazioni giornalistiche che vengono pubblicate dalla redazione di Reuters scovando analogie o parallelismi volti ad attivare un conseguente controcircuito dell’immaginario visuale e illustrativo.

 

I sopracitati sono solo pochi ma efficaci esempi d’espressione del binomio arte e tecnologia; la prospettiva di molti è di un accrescimento e fusione costante di questi due mondi con l’augurio che possa essere una continua evoluzione senza trascurare i lati più storici e processuali degli sviluppi artistici.

 

Fonti: 

https://insideart.eu/2024/07/05/ia-larte-e-intelligente-e-artificiale-per-definizione/ 

https://www.artribune.com/progettazione/new-media/2023/02/intelligenza-artificiale-sofferenza/

https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/intelligenza-artificiale-arte-e-cultura-elementi-per-una-vera-valutazione-estetica/  

https://www.carraro-lab.com/home/ 

https://www.corriere.it/tecnologia/24_settembre_20/l-intelligenza-artificiale-come-musa-per-l-arte-cosi-ha-ispirato-una-mostra-a0971cb7-a08d-45b2-850c-29d821893xlk.shtml

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Ambiente, società e tecnologia

Realtà aumentata e fitness: il futuro dell’allenamento digitale

Trovarsi a correre insieme ad un coach di alto livello, o a combattere sul ring della palestra sotto casa con un noto avversario, o ancora a calciare un tiro in porta, senza realmente colpire un pallone da calcio. Con l’avvento della Realtà Aumentata (AR) tutto questo non farebbe più parte del mondo immaginato. Con l’utilizzo di questa nuova tecnologia diventa possibile “trasferire” un campo da calcio, da tennis o una pista di atletica in un altro contesto, su un qualsiasi terreno, in salita, in discesa, sulla sabbia. Tutto questo permette di trasformare un allenamento “generale”, in un allenamento specifico.

La realtà aumentata sta facendo il suo ingresso anche nel settore del fitness, offrendo esperienze di allenamento interattive e stimolanti, destinate a ridefinire il modo in cui ci alleniamo. Diventa infatti possibile inserire elementi virtuali, all’interno del mondo reale, consentendo all’atleta di mantenere il contatto visivo con il mondo reale. Quando applicata al fitness, la AR trasforma la percezione dell’allenamento, rendendolo un’esperienza visivamente stimolante.

Questa nuova tecnologia non ha coinvolto solo gli atleti e gli sportivi, ma ha rivoluzionato anche l’esperienza dei fan, offrendo nuove opportunità di coinvolgimento e interazione durante gli eventi dal vivo e attraverso piattaforme digitali.

 

Quali prospettive per la Realtà Aumentata nello sport?

Rispetto ai primi rilasci, che consistevano in un browser specifico per mobile devices, si sono fatti passi da gigante. Negli ultimi anni, lo sviluppo di tecnologie avanzate applicate a smartphone e tablet hanno permesso di realizzare app specifiche per un uso sempre più comune della AR.

E tutto questo è stato adattato agli ambiti più disparati: dalla ricerca di informazioni, per raggiungere località specifiche o banalmente la propria auto in un parcheggio di grandi dimensioni, al gaming, giocando con personaggi inventati, alla medicina fino al mondo del fitness.

Quando si parla di realtà aumentata, i precursori, annoverati tra i prodotti maggiormente pubblicizzati e che hanno destato maggiore interesse, si trovano sicuramente i Google Glass, superati poco tempo dopo dagli occhiali messi in commercio da Meta e Apple. Questi dispositivi hanno rappresentato solo una delle tecnologie in grado di offrire esperienze di realtà aumentata al grande pubblico, da cui è nata una nuova “era” nel mondo high tech.

Non sorprende dunque che tutte le aziende più all’avanguardia dal punto di vista tecnologico e innovativo siano in prima linea in questa rivoluzione, anche in ambito fitness. Queste stanno sviluppando soluzioni che possano rappresentare un buon connubio tra tecnologia avanzata e facilità di utilizzo.

Se ci si focalizza sul mondo del fitness, l’implementazione dell’AR avviene principalmente attraverso dispositivi come smartphone, tablet e occhiali intelligenti. Questi strumenti utilizzano fotocamere e sensori per rilevare l’ambiente circostante e sovrapporre contenuti digitali pertinenti.

Ad esempio, durante una sessione di allenamento, un’applicazione AR può proiettare un istruttore virtuale che mostra come eseguire gli esercizi, fornendo indicazioni visive e correzioni in tempo reale.

L’obiettivo comune è quello di trasformare un allenamento in un’avventura interattiva, dove la maggior parte delle attività sono il più possibile vicine a quelle “reali”, ma allo stesso tempo prive di rischi. Questo consente al gesto atletico di essere pulito, lineare, facile da cogliere e analizzare.

Un esempio? Zwift, leader in questo campo, ha rivoluzionato il ciclismo indoor e la corsa, offrendo ambiti di allenamento in AR, dove i ciclisti e i runners possono competere o allenarsi insieme a persone da tutto il mondo.

 

Allenarsi meglio: i vantaggi della Realtà Aumentata nello sport

Si parla quindi di un passo in avanti per quanto riguarda gli allenamenti specifici: i visori di AR, combinando innovazione tecnologica e precisione analitica, consentono di migliorare le performance degli atleti. Non si tratta infatti solamente di un modo più interessante e interattivo di allenarsi, ma di un sistema più complesso che permette di ottimizzare ogni aspetto del movimento fisico, dall’analisi tecnica ai miglioramenti tattici.

Nel calcio, alcune squadre stanno integrando la realtà virtuale e aumentata per simulare situazioni di gioco realistiche, aiutando i giocatori a sviluppare la capacità di decisione sotto pressione.

Grazie all’AR, i calciatori possono analizzare e replicare movimenti specifici o posizionamenti tattici, senza dover scendere in campo. Questo permette di risparmiare tempo e ridurre i rischi di infortuni legati agli allenamenti intensivi. Ad esempio, un attaccante può simulare situazioni di tiro in porta con la pressione virtuale di un difensore, migliorando la velocità e la precisione delle sue azioni.

Realtà Aumentata al servizio dei fan

L’AR e le aziende che lavorano con essa non si sono limitate a rivoluzionare il mondo dell’allenamento, ma anche a trasferire l’esperienza dei fan nello sport, facendo sentire gli spettatori più vicini e partecipi agli atleti che scendono in campo e consentendogli di immergersi completamente nell’evento sportivo, anche a distanza.

Le squadre e le organizzazioni sportive hanno implementato (e continueranno a farlo) applicazioni per migliorare l’interazione con i fan: durante le partite, gli spettatori possono utilizzare i loro smartphone per accedere a contenuti esclusivi, come replay a 360 gradi, statistiche in tempo reale e grafiche che arricchiscono la visione della partita e quindi l’“experience” dello spettatore. Alcuni stati stanno perfino sperimentando, senza distrarlo dal gioco. occhiali AR che proiettano informazioni direttamente nel campo visivo dello spettatore

Inoltre, sarà sempre più facile ampliare l’accessibilità degli eventi sportivi: i tifosi che non possono partecipare fisicamente alle partite possono vivere esperienze immersive dal proprio salotto, come se fossero seduti sugli spalti. Questa fusione tra tecnologia e sport sta ridefinendo il concetto stesso di tifo, rendendolo più interattivo, personale e coinvolgente.

Dati e allenamento: un binomio vincente per il fitness

Un ultimo vantaggio dell’applicazione della realtà aumentata nel mondo del fitness è la sua capacità di raccogliere e analizzare dati real-time, offrendo informazioni preziose per il miglioramento della performance e la personalizzazione dell’allenamento.

La possibilità di raccogliere i dati sullo stato di salute e allenamento non è di certo una novità: questo avveniva già attraverso gli smartwatch, fasce con cardiofrequenzimetro integrato e app evolute attraverso cui è possibile monitorare l’allenamento e adattarlo alle esigenze/possibilità dell’utente. Ma adesso a  questo si aggiunge il monitoraggio specifico legato anche alla tipologia dei movimenti effettuata e alla potenza muscolare generata in ciascun esercizio. 

Nel fitness, questa capacità consente di creare programmi di allenamento su misura, adattati alle esigenze specifiche di ogni individuo. Ad esempio, un’app AR può rilevare errori nella postura durante uno squat, fornendo suggerimenti immediati per correggere il movimento e prevenire infortuni. Al contempo, i dati raccolti vengono archiviati per analisi a lungo termine, permettendo di monitorare i progressi nel tempo e identificare aree che necessitano di miglioramento.

Questa raccolta dati è particolarmente utile anche per gli sport professionistici. Nel calcio, ad esempio, l’analisi in tempo reale dei movimenti dei giocatori può essere utilizzata per ottimizzare le tattiche di gioco e prevenire sovraccarichi fisici. Nel tennis, tecnologie simili tracciano il posizionamento in campo e la velocità dei colpi, offrendo agli atleti e agli allenatori una panoramica dettagliata delle performance e spunti di miglioramento su cui intervenire per migliorare.

Questo approccio rende la realtà aumentata non solo uno strumento per migliorare le prestazioni, ma anche un potente alleato per il benessere globale.

È tutto oro quello che luccica?

Sicuramente, i dispositivi di realtà aumentata stanno riscrivendo le regole del fitness e dello sport, trasformando l’allenamento in un’esperienza dinamica, personalizzata e immersiva. Quello che un tempo era confinato alle palestre o ai campi di allenamento specifici ora è a portata di mano, nel salotto di casa o sul campo di gioco virtuale. Startup visionarie e tecnologie all’avanguardia stanno aprendo la strada a un futuro dove il confine tra reale e virtuale si dissolve, portandoci in un mondo dove migliorarsi non è solo possibile, ma anche incredibilmente divertente.

Ma lo sport, anche quello individuale, è sempre stato un momento di incontro e di scambio, di sacrificio e devozione: avere la possibilità di svolgere qualsiasi tipo di allenamento senza la necessità di entrare in contatto con “il reale” non potrebbe portare ad una sensazione di alienazione e allontanamento da quella che è l’esperienza autentica dello sportivo, fatta di contatto umano e interazioni sociali? Oltre al fatto che le tecnologie di AR, soprattutto in quanto non largamente diffuse, potrebbero non essere alla portata economica di tutti.

La chiave sta nel trovare il giusto equilibrio per riuscire a sfruttare al meglio le potenzialità che le innovazioni offrono senza distaccarsi troppo dalla realtà. Qui il nocciolo della rivoluzione digitale, indipendentemente dall’ambito di applicazione: scegliere come renderla parte integrante della vita senza perdere di vista l’essenza delle cose.

Fonti:

https://www.technogym.com/it/newsroom/realta-virtuale-allenamento-sport/

https://www.wired.it/article/realta-virtuale-calcio/

https://www.innovationpost.it/attualita/la-tecnologia-scende-in-campo-ecco-lo-sport-4-0/

https://arweb.it/realta-aumentata-ar-nello-sport/

https://www.gazzetta.it/attualita/26-09-2024/meta-svela-orion-caratteristiche-e-funzionalita-degli-occhiali-ar.shtml

https://www.intelligenzaartificiale.it/realta-aumentata/

 

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Economia, StartUp e Fintech

Economia creativa e intelligenza artificiale: sfide e opportunità per i professionisti del futuro

L’intelligenza artificiale, meglio detta in questo caso G.A.N. (Generative Adversarial Network) rappresentano forse una delle evoluzioni tecnologiche più d’impatto dell’epoca presente. C’è lo stupore che desta la realizzazione di materiale creativo (apparentemente) nuovo e originale da parte di un computer, lo sfondamento del muro che nell’immaginario collettivo separava questi ultimi dall’uomo: la creatività. C’è anche la paura che l’idea di essere sostituito può generare nel professionista delle industrie creative, con il dilagare di governance sempre più concentrati sul taglio dei costi e sull’efficienza. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale non può realisticamente sostituire del tutto, almeno per il momento, il lavoro di coloro che rappresentano l’economia creativa, ma è possibile che un giorno ciò non corrisponda più alla realtà… Quali sono dunque i rischi e le sfide che gli artisti, i compositori, gli scrittori contemporanei affrontano? E quali affronteranno domani? Ancora, viene da chiedersi anche quali vantaggi questi professionisti traggono e potrebbero trarre in futuro da queste tecnologie che hanno giusto adesso raggiunto il livello di funzionalità necessario ad entrare nella “cultura pop”.

 

Allucinazioni, biases, diritto d’autore: le sfide

Quanto alle sfide non è difficile immaginare che un giorno le intelligenze artificiali possano davvero sostituire il lavoro di professionisti del settore creativo: accade già oggi quello che anche solo cinque anni fa sarebbe stato quasi inimmaginabile e piccole imprese così come start-ups neonate utilizzano software come ChatGPT e Dall-E per evitare di disperdere risorse di cui non dispongono per l’assunzione di copywriters, artisti e designers. Con molta cura e attenzione sembrerebbe possibile rendere i prodotti dell’A.I. indistinguibili dall’operato di un essere umano: vorrebbe dimostrarlo la vittoria di “Théâtre D’opéra Spatial”, opera generata da J. Allen utilizzando Midjourney, alla Colorado State Fair; il caso, assai controverso, ha infiammato a più riprese il dibattito sulla legittimità artistica delle “opere” create da intelligenze artificiali. Ovvio però che, senza l’intervento umano – e di uno che sappia cosa sta facendo – è molto difficile che oggi l’A.I. sostituisca completamente un professionista del settore creativo a pari requisiti. È un dibattito aperto: durante lo sciopero dello scorso maggio, la Writers Guild of America ha commentato la situazione evidenziando come “le industrie creative sono uno dei settori in cui la mancanza di un approccio centrato sull’uomo nell’implementazione dell’intelligenza artificiale rischia di far perdere all’intero sistema la sua stessa raison d’etre”. Secondo l’Harvard Business Review “uno scenario possibile vede la competizione ingiusta degli algoritmi ed una governance inadeguata portare allo spiazzamento della creatività umana autentica […]”.

 

L’utilizzo delle intelligenze artificiali per generare materiale in ambito professionale è poi minacciato da quello che è un framework legislativo ancora acerbo: sull’A.I. si dice ancora poco o nulla nei parlamenti di tutto il mondo – anche se alcune aree stanno facendo progressi – e nel frattempo dilagano i contenziosi su diritto d’autore e proprietà intellettuale. L’intelligenza artificiale, infatti, sebbene possa apparentemente produrre materiale originale, lavora in alcun casi in modo difficilmente assimilabile alla creatività umana: le reti neurali sono addestrate utilizzando un data lake, un enorme set di informazioni e dati che il software utilizza – attraverso diverse possibili modalità – per trarre relazioni, interconnessioni, metodi di rielaborazione a partire (solitamente) dal materiale finito per poi svolgere il processo inverso una volta finito l’addestramento. In breve, per addestrare un “pittore A.I.” vengono utilizzate milioni di opere d’arte, fotografie, e di informazioni sulle suddette, dalle quali il modello sarà in ultimo capace di trarre delle conclusioni che gli permetteranno poi di realizzare “nuove” opere d’arte da un prompt. Il problema è in primis rappresentato dal data lake stesso, che non sempre viene aggregato, categorizzato e classificato in modo etico: più di sedicimila artisti hanno lamentato l’uso illecito delle loro opere da parte di Midjourney per il training del modello, ed il caso non è isolato. In secondo luogo, quando i dataset utilizzati sono ristretti il risultato finale può presentare molte somiglianze con il materiale del dataset, ponendo sia un precedente pericoloso che un rischio di contenziosi con i creator originali, specialmente se non interpellati perché la loro opera fosse legittimamente utilizzata per addestrare il modello. Al contempo non risulta difficile immaginare che la controparte a questa situazione sul piano etico e legislativo sia l’illegitimità, seppur non uniformemente in tutti i contesti nazionali, delle pretese a livello di diritto d’autore su opere realizzate con l’intelligenza artificiale. Ciò rappresenta ovviamente un grande pericolo per gli enti coinvolti che, realizzato un contenuto da fruire o da utilizzare per la promozione o ancora finalizzato alla vendita, non vorrebbero vederlo sottratto da altri. In ultimo, sull’argomento licensing, alcuni software permettono per contratto di licenza l’utilizzo a fini commerciali del materiale generato solo se questo è stato realizzato con abbonamenti premium o utilizzando particolari piani sottoscritti ad hoc. I problemi che derivano da dataset ridotti o costruiti con determinati bias si espandono anche oltre la questione sul diritto d’autore: non sono stati rari i casi di modelli che, addestrati su dati ristretti, specifici, parziali oppure prevenuti, producevano output poco vari o recanti gli stessi pregiudizi insiti nel data lake. Esempi che ci mettono in guardia sulla presumibile apartiticità delle intelligenze artificiali sono processi di acquisizione del personale che vedono i modelli perpetrare, attraverso i loro suggerimenti, fenomeni di razzismo e sessismo sistemico, oppure modelli di riconoscimento facciale incapaci di identificare le caratteristiche visive di individui non caucasici.

 

La maggioranza dei risultati insoddisfacenti legati all’uso dell’intelligenza artificiale in settori creativi nasce sostanzialmente dalla mancanza di supervisione da parte della creatività umana, ma ancor più dalla competenza: non è necessario girare troppo a lungo su internet per trovare esperti che al lancio di ChatGPT hanno voluto mettere il G.A.N. alla prova su una varietà di argomenti per segnalarne importanti mancanze. La cosa che più preoccupa delle cosiddette allucinazioni non è un fattore legato all’assurdità – in certi casi – delle informazioni fornite, quanto la certezza matematica con cui il modello ce le propone. Quando le nozioni presentate non sono neanche lontanamente di nostra conoscenza, come possiamo determinare con certezza che il modello non stia fraintendendo o rimescolando in maniera inesatta o prevenuta i dati a sua disposizione? Per spezzare una lancia a favore del modello di OpenAI, il motivo per cui GPT non è in grado di contare le “R” nella parola “strawberry” ha poco a che fare con la qualità con cui elabora le informazioni a sua disposizione e riguarda più come il modello “vede” le parole, il processo chiamato tokenisation. È una parabola interessante però, utile a notare come sebbene questi modelli abbiano grandi potenzialità (e siano eccellenti a svolgere certe funzioni e operazioni) nessuno è onnipotente: DALL-E non è capace di scrivere, così come determinate immagini quali “caverne prive di finestre sul cielo” o “persone senza denti” sono – inspiegabilmente – molto difficili da ottenere; e ancora, ChatGPT genera spesso informazioni totalmente errate su argomenti non estensivamente documentati, o comunque poco presenti nel database dal quale è stato addestrato (e non solo).

 

Dunque le opere creative realizzate tramite l’intelligenza artificiale sono solo in rari casi qualitativamente equiparabili all’operato di un professionista delle industrie creative e in determinati contesti legislativi o tramite l’utilizzo di determinati software è impossibile rivendicare i contenuti realizzati come propri. Inoltre, vi sono importanti rischi che l’intelligenza artificiale pone quando i dati di partenza non sono affidabili o raccolti in maniera eticamente e legalmente accettabile. Ma quali sono invece i meriti dei G.A.N. e quale il loro possibile ruolo nell’economia creativa?

 

Spunti creativi e prompt engineering: cosa i modelli fanno bene

 

Per parlare dei meriti “trasversali” è implicito, dal punto di vista economico, che esistano dei casi d’uso, segmenti in cui l’I.A. non sottrarrebbe lavoro a nessun professionista: determinate realtà semplicemente non possiedono o non sono intenzionate a investire il budget necessario nell’impiego di un professionista del settore a prescindere. Queste realtà sono spesso piccole imprese, magari di nuova formazione; piuttosto che lasciare queste senza risorse in senso creativo perché non possiedono le risorse necessarie, l’utilizzo dell’intelligenza artificiale può essere una buona risorsa per ottenere materiale utilizzabile, sebbene la differenza con il materiale in cui l’uomo – nella veste dei founder in questo caso – ci ha messo del suo è spesso abbastanza evidente. Ed è su quest’ultimo punto che si concentrano quasi tutti gli altri vantaggi che i modelli e le reti neurali possono e potranno portare ai professionisti dei settori creativi. In un’intervista per Radio Davos, lo scrittore Deepak Chopra ha dichiarato che, pur non avendo ancora fatto uso di intelligenze artificiali generative nel suo processo creativo, immagina lo farà sicuramente nel futuro, aggiungendo che “qualsiasi strumento che permetta ad un artista di creare è fantastico […]”. Questo ruolo di assistenza al processo creativo è lo stesso che l’Harvard Business Review vede tra i migliori possibili risultati dell’integrazione dell’I.A. nelle industrie creative, evidenziando come molti business già promuovano l’uso dell’intelligenza artificiale, solo però con lo scopo di migliorare l’efficienza di determinati processi (e quello creativo è stato sempre risaputamente difficile da efficientare). Un altro aspetto di grande importanza nel quale i modelli – quando utilizzati con cognizione di causa – sta nella risoluzione di un problema che affligge i creativi di tutto il mondo da tempi immemori: l’art block, il blocco creativo, quella situazione in cui, per quanto ci si sforzi non si riescono ad avere buone idee (o non si riesce a vedere alcuna delle proprie idee come buona); in queste situazioni l’intelligenza artificiale può essere di grande aiuto per trovare uno spunto, qualche stimolo esterno. Anche nei casi meno estremi, i modelli generativi sono un potente strumento per trovare nuove idee dagli spunti che questi software ci lanciano, osservare nuovi fronti, uscire dagli schemi della propria mente: se ne fa già grande utilizzo nell’ambito business più generale quando si lavora in gruppo su spunti prodotti individualmente, a volte elaborati proprio in tandem con modelli generativi. Il vantaggio che può essere tratto nel proprio lavoro creativo dall’intelligenza artificiale, al di là della propria esperienza professionale, sembrerebbe essere in ultima battuta condizionato anche dalla conoscenza delle basi di quello che viene definito prompt engineering, la conoscenza delle tecniche per la scrittura di prompt che massimizzano la qualità dei risultati ottenuti modificando in determinati aspetti il prompt, l’insieme di parole utilizzate per spiegare all’I.A. quale risultato l’utente vuole ottenere.

 

 

In definitiva, i vantaggi principali non starebbero, almeno per il momento, nel sostituire il lavoratore creativo con la macchina in una sorta di nuova rivoluzione Fordista, ma nell’affiancarlo perché i modelli generativi possano dargli spunti, velocizzare il suo lavoro, permettere una migliore comunicazione tra committente e professionista. È importante notare come la maggior parte degli insuccessi nell’uso di modelli generativi in questo settore stiano proprio nel tentativo di rimpiazzare i professionisti con il modello stesso, senza che quest’ultimo sia supervisionato da qualcuno di qualificato nell’ambito di interesse. La strada, insomma, pare non sia quella di generare l’illustrazione con il modello e inserirla direttamente nel materiale pubblicitario dell’azienda, rischiando anche di incorrere in contenziosi, ma utilizzare invece questi software per generare moodboards più precise, per fornire al professionista immagini di riferimento più in linea con la propria visione, per efficientare ed integrare l’opera dei creativi senza tentare di sostituirla integralmente.

 

Fonti:

 

https://www.weforum.org/stories/2024/02/ai-creative-industries-davos/

https://www.nytimes.com/2022/09/02/technology/ai-artificial-intelligence-artists.html

https://hbr.org/2023/04/how-generative-ai-could-disrupt-creative-work

https://hbr.org/2023/04/generative-ai-has-an-intellectual-property-problem

https://techcrunch.com/2024/08/27/why-ai-cant-spell-strawberry/

https://www.reddit.com/r/dalle2/s/crPpig1opr

https://community.openai.com/t/why-is-it-that-dall-e-cant-write/646218

https://medium.com/@rickspair/the-future-of-creativity-how-generative-ai-is-revolutionizing-art-and-design-art-generativeai-166edb1d0267

https://medium.com/@calebpr/data-leak-midjourneys-unauthorised-use-of-16-000-artists-works-sparks-legal-and-ethical-56b862899e6f

https://www.nature.com/articles/s41586-024-07856-5

https://www.media.mit.edu/articles/artificial-intelligence-has-a-problem-with-gender-and-racial-bias-here-s-how-to-solve-it/

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S2713374524000050

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Ambiente, società e tecnologia

L’idrogeno verde in Italia

In Africa diversi stati si mobilitano per diventare tra i primi fornitori al mondo, ma qual è la situazione in Italia?

L’Italia scommette sull’idrogeno verde: una rivoluzione energetica in corso

In un panorama energetico globale in rapida evoluzione, anche l’Italia si sta posizionando come un attore chiave nella corsa all’idrogeno verde – una fonte di energia pulita che promette di rivoluzionare diversi settori industriali e contribuire significativamente alla decarbonizzazione. Con investimenti mirati, progetti innovativi e una crescente consapevolezza del potenziale di questa tecnologia, il nostro Paese sta gettando le basi per un futuro energetico più sostenibile.

La strategia nazionale e gli investimenti

L’Italia ha elaborato una strategia ambiziosa per lo sviluppo dell’idrogeno verde, puntando a produrre 700.000 tonnellate di H2 entro il 2030, installare 5 GW di elettrolizzatori e generare 10 miliardi di investimenti. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha stanziato 3,64 miliardi di euro per l’intera filiera dell’idrogeno rinnovabile, a cui si aggiungono i progetti IPCEI e la mission Innovation Clean Hydrogen.

Uno degli elementi chiave di questa strategia è la creazione delle cosiddette “Hydrogen Valleys“, veri e propri hub per la produzione di idrogeno verde. Attualmente, sono stati finanziati 52 progetti su tutto il territorio nazionale, da completare entro il 31 dicembre 2026, con un investimento totale che sfiora i 600 milioni di euro. Il 50% dei fondi è destinato al Mezzogiorno, dove si concentrano 28 dei 52 progetti.

Impatto economico

La distribuzione degli investimenti riflette un impegno significativo verso lo sviluppo equilibrato del settore in tutto il Paese. Il Mezzogiorno riceve la fetta più consistente, con 225 milioni di euro, seguito dal Nord con 162,5 milioni e dal Centro con 62,5 milioni. Le regioni che hanno ottenuto i finanziamenti più cospicui sono Campania, Puglia e Sicilia, ciascuna con 40 milioni di euro, seguite da Lombardia e Trentino-Alto Adige.

Questi investimenti non solo mirano a ridurre le emissioni di CO2, ma promettono anche di creare nuovi posti di lavoro – molti dei quali ad alta specializzazione – stimolando l’economia locale e posizionando l’Italia come leader nella produzione e nell’utilizzo dell’idrogeno verde.

Sfide e opportunità

Nonostante i progressi, restano diverse sfide da affrontare. Cristina Maggi, direttrice di H2IT, l’associazione italiana per l’idrogeno, sottolinea la necessità di recepire le direttive europee, integrare l’idrogeno nelle strategie nazionali di sviluppo e fornire supporto alle aziende per concretizzare i progetti e sviluppare competenze.

L’industria italiana sta già dimostrando la sua capacità di innovazione in questo settore. Un esempio significativo è il treno a idrogeno sviluppato da Alstom, gruppo industriale che opera nel settore della costruzione di treni e infrastrutture ferroviarie, che entrerà in servizio in Valcamonica, nell’ambito del progetto H2iseO. Questo progetto non solo sostituirà i treni diesel su una linea non elettrificata, ma contribuirà anche a creare una Hydrogen Valley nella regione.

Il primo impianto italiano di idrogeno verde

Un passo concreto verso la realizzazione di questa visione dell’Italia come pioniera dell’idrogeno è rappresentato dall’apertura del primo impianto italiano di idrogeno verde a Pizzighettone, in provincia di Cremona. Realizzato dalla startup H2 Energy, questo impianto, più piccolo di un autoarticolato, è uno dei rari esempi al mondo di soluzioni industrializzabili per la produzione di idrogeno verde, con una capacità di produzione di circa 18 kg di idrogeno l’ora.

L’impianto, che occupa uno spazio relativamente contenuto, utilizza la tecnologia PEM (Polymer Electrolyte Membrane), ovvero con membrana a scambio protonico, e rappresenta un importante banco di prova per lo sviluppo futuro del settore. Come sottolinea Claudio Mascialino, co-fondatore di H2 Energy, “un impianto da 1 megawatt oggi è una palestra per i 200 megawatt di domani”.

Una delle principali difficoltà per l’utilizzo su scala industriale di questa fonte di energia pulita, infatti, sono i costi di produzione ancora troppo alti. Lo sviluppo di nuove soluzioni per l’ottenimento di idrogeno da fonti sostenibili è quindi fondamentale per il futuro di questa energia verde, così promettente per l’obiettivo della decarbonizzazione e della lotta al riscaldamento globale.

Ricerca e sviluppo

Nel nostro paese il settore della ricerca gioca un ruolo cruciale nello sviluppo dell’idrogeno verde. ENEA, l’Agenzia Nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, sta esplorando nuove frontiere in questo ambito: in particolare, indaga l’impiego dell’idrogeno come carburante alternativo per la mobilità sostenibile, ma anche come fonte di energia nei settori cosiddetti “hard-to-abate” (difficili da decarbonizzare) quali cementifici, acciaierie, cartiere, vetrerie, imprese siderurgiche e chimiche – industrie da cui arriva più o meno il 20% delle emissioni globali.

Parallelamente, si stanno studiando percorsi alternativi per la produzione di idrogeno rinnovabile, come ad esempio l’utilizzo di biomasse. Franco Cotana, amministratore delegato di RSE (Ricerca sul Sistema Energetico S.p.A.), evidenzia le potenzialità di questo filone, che può contare su diverse materie prime, dagli scarti agricoli alle colture marginali.

Abbiamo parlato dei vari metodi collaudati – più o meno “green” – per produrre l’idrogeno in questo articolo, che vi consigliamo di leggere per approfondire l’argomento e capire la differenza tra idrogeno verde, blu e grigio.

Prospettive future

Le previsioni per il futuro dell’idrogeno verde sono, insomma, promettenti. Deloitte – una delle Big Four, ossia delle quattro società di revisione contabile che si spartiscono il mercato mondiale – prevede che il mercato emergente dell’idrogeno verde ridisegnerà la mappa globale dell’energia e delle risorse già nel 2030, creando un Mercato da 1400 miliardi di dollari all’anno entro il 2050.

L’Italia, con la sua presenza industriale in tutti gli aspetti della filiera dell’idrogeno e le sue competenze di ricerca, è ben posizionata per giocare un ruolo di primo piano in questa rivoluzione energetica. Tuttavia, come sottolineano gli esperti, è fondamentale accelerare l’implementazione delle strategie, sostenere l’innovazione e creare un quadro normativo chiaro per sfruttare appieno il potenziale di questa tecnologia.

In conclusione, l’idrogeno verde rappresenta per l’Italia una straordinaria opportunità di guidare la transizione energetica, contribuendo agli obiettivi di decarbonizzazione e creando al contempo nuove opportunità economiche. La sfida ora è trasformare questa visione in realtà, attraverso un impegno continuo e collaborativo tra istituzioni, industria e ricerca.

 

Fonti:

https://www.wired.it/article/idrogeno-verde-h2-energy-primo-impianto-italia/

https://www.infobuildenergia.it/approfondimenti/idrogeno-verde-in-italia/

https://www.ilsole24ore.com/art/il-governo-punta-52-valli-dell-idrogeno-italia-ecco-cosa-sono-e-dove-si-trovano-AFbzvhtC?refresh_ce&nof

https://modofluido.hydac.it/idrogeno-italia

https://www.qualenergia.it/articoli/decarbonizzare-settori-hard-to-abate-concorso-molte-tecnologie/#:~:text=Si%20chiamano%20settori%20hard%20to,dall’altro%20%C3%A8%20anche%20difficile%2C

https://ibicocca.unimib.it/the-africa-green-hydrogen-alliance-investire-sullenergia-pulita/

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Ambiente, società e tecnologia

Le quote ambientali: il diritto ad inquinare

Cosa sono le quote ambientali e perché si parla di diritto ad inquinare? Ecco come funziona il meccanismo a tutela dell’ambiente ma anche del diritto a fare impresa.

 

Si sente spesso parlare delle quote ambientali, vendute e acquistate su appositi mercati da vari soggetti economici: ma di che cosa si tratta esattamente? Approfondiamo il funzionamento di questo sistema di scambio che mira a far coincidere opportunità commerciali e lotta al cambiamento climatico.

Cosa sono le quote ambientali?

Le “quote ambientali” o “carbon credit” sono emissioni di CO2 che le aziende sono autorizzate ad emettere. Queste quote a disposizione delle aziende sono parte di un grande Mercato nel quale le si possono vendere, cedere o acquistare. Entrando più nel tecnico, stiamo parlando del “Sistema Europeo di Scambio quote di gas a effetto serra” (nel suo nome originale “European Union Emissions Trading System” abbreviato EU ETS). Questo strumento è il principale mezzo utilizzato dall’Unione Europea per raggiungere l’obiettivo di abbattimento delle emissioni nei principali settori industriali e in quello dell’aviazione.

È stato introdotto con la Direttiva 2003/87/CE e poi modificato dalla Direttiva UE 2018/410 per adempiere agli impegni presi ratificando il Protocollo di Kyoto del 1997 (entrato in vigore nel 2005).

A cosa servono?

L’obiettivo che spinse all’introduzione delle quote di carbonio era quello di ridurre del 62% rispetto ai livelli del 2005 le emissioni di gas climalteranti da parte dei settori disciplinati dal sistema, entro il 2030.

Con queste pratiche i Paesi firmatari mirano, sfruttando gli stessi meccanismi di mercato, ad abbattere l’anidride carbonica (CO2) derivante da produzione di energia elettrica e di calore; dai settori industriali ad alta intensità energetica, comprese raffinerie di petrolio, acciaierie e produzione di ferro, metalli, alluminio, cemento, calce, vetro, ceramica, pasta di legno, carta, cartone, acidi e prodotti chimici organici su larga scala; dall’aviazione civile.

Inoltre, si vogliono contrastare le emissioni di ossido di diazoto (N2O) derivante dalla produzione di acido nitrico, adipico, gliossilico, gliossale, e di perfluorocarburi (PFC) derivanti dalla produzione di alluminio.

 

Come funziona questo meccanismo?

Il principale strumento utilizzato dall’UE per contrastare il cambiamento climatico sono per l’appunto le quote ambientali. Esso si basa su un meccanismo di tipocap&trade” : ovvero consiste nel fissare viene fissato un tetto massimo complessivo alle emissioni consentite sul territorio europeo (cap), a cui corrisponde un equivalente numero quote” (1 tonnellata di CO2 è uguale ad 1 quota) che possono essere acquistate e vendute su un apposito Mercato (trade). Ogni operatore industriale e aereo attivo nei settori coperti dallo schema deve compensare su base annua le proprie emissioni effettive (verificate da un soggetto terzo indipendente) con un corrispondente quantitativo di quote.

Per agevolare i controlli e la contabilità sono stati istituiti anche dei Registri: ovvero dei sistemi di banche dati elettroniche e standardizzate suddivise in conti per il rilevamento delle quote e delle transazioni effettuate. Uno di questi è “ITL” (International transaction log) che garantisce la conformità di tutte le transazioni con le regole stabilite dal Protocollo di Kyoto, gestendo controlli automatici in tempo reale per assicurare che ogni Unità di Emissione sia presente esclusivamente in un conto e che non sia già stata ritirata o cancellata.

Le transazioni che è possibile effettuare si dividono in 8 tipi:

  1. Issuance: creazione dell’Unità di Emissione (quota);
  2. Conversion: Trasformazione da una tipologia ad un’altra;
  3. External transfer: trasferimento esterno verso un altro registro;
  4. Cancellation: trasferimento interno al fine di non rendere la quota disponibile;
  5. Replacement: trasferimento interno per rimpiazzare una tipologia mancante;
  6. Retirement: trasferimento interno per poter essere utilizzata da un altro paese;
  7. Carry-Over: cambio del periodo di validità;
  8. Expiry date change: cambio della data di scadenza.

È bene precisare che il quantitativo complessivo di quote disponibili per gli operatori (cap) diminuisce nel tempo imponendo di fatto una riduzione delle emissioni di gas serra nei settori soggetti ad ETS: in particolare, al 2030, il meccanismo garantirà un calo del 43% rispetto ai livelli del 2005.

 

Il “carbon leakage”

Le quote possono essere allocate a titolo oneroso o gratuito. Nel primo caso vengono vendute attraverso aste pubbliche alle quali partecipano soggetti accreditati che acquistano principalmente per compensare le proprie emissioni. Le transazioni vengono poi registrate secondo le caratteristiche esposte sopra. Nel secondo caso, le quote vengono assegnate gratuitamente agli operatori a rischio di delocalizzazione delle produzioni in Paesi caratterizzati da standard ambientali meno stringenti rispetto a quelli europei (c.d. carbon leakage o fuga di carbonio). Le assegnazioni gratuite sono appannaggio dei settori manifatturieri e sono calcolate prendendo come riferimento le emissioni degli impianti più virtuosi, detti “benchmarks”, prevalentemente basati sulle produzioni più efficienti.

Tra i Paesi più famosi per le politiche poco virtuose sul carbonio, troviamo gli Stati Uniti d’America, la Russia, l’Australia e la quasi totalità dei paesi del continente africano.

Va detto che non in tutti i paesi del mondo si adotta il medesimo meccanismo europeo, molti applicano direttamente una tassa sull’emissione di carbonio

 

Ecotasse

Le tasse sul carbonio (note anche come “ecotasse”) sono applicate proporzionalmente alle emissioni e possono fornire un incentivo significativo alla decarbonizzazione, in quanto le aziende riducono le loro emissioni per evitare di pagare la tassa.

Ad oggi sono in vigore 68 Mercati del carbonio nazionali e subnazionali, che coprono circa il 30 per cento delle emissioni globali. Di questi circa un terzo è coperto dalla Cina; gli altri 44 sono in fase di studio. Dei meccanismi implementati, circa la metà sono sistemi di scambio di emissioni (come gli EU ETS) e l’altra metà sono tasse sul carbonio.

Il prezzo medio del carbonio, basandoci sui dati del 2021, è stato di 21,2 dollari/tonnellata di CO2e (CO2 equivalente, misura che esprime l’impatto sul riscaldamento globale di una certa quantità di gas serra, prendendo l’anidride carbonica come valore di riferimento), con variazioni significative tra i vari Paesi. Alcuni di questi prezzi sono molto alti; per esempio, il sistema ETS dell’Unione Europea ha raggiunto un picco di quasi 90 euro/tonnellata di CO2e nel dicembre 2021.

Il prezzo necessario per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione stabiliti nella COP21 di Parigi è nell’ordine di 150-200 dollari/tonnellata di CO2e entro il 2050 (con una certa differenziazione a seconda dei Paesi): è evidente che la strada da percorrere è ancora lunga.

 

Le opportunità del Mercato del carbonio

I Mercati del carbonio obbligatori incentivano le aziende a trovare soluzioni intelligenti per la decarbonizzazione, più di quanto farebbero se avessero una soglia di regolamentazione statica, come ad esempio le tasse sul carbonio. Con quest’ultima, come già descritto, le aziende ridurrebbero le loro emissioni fino a raggiungere lo standard regolamentato; con i Mercati del carbonio, invece, più le aziende decarbonizzano più possono creare valore. Sui Mercati del carbonio le aziende possono infatti vendere le proprie quote di emissione in eccesso ad altri operatori del Mercato. Possono anche sviluppare progetti di sviluppo ambientale e vendere le compensazioni che ne derivano, o acquistare da altre ditte compensazioni in eccesso rispetto alle loro esigenze di decarbonizzazione per poi commercializzarle, come se fossero un vero e proprio asset in borsa.

Ciò è un vantaggio anche per i governi e i cittadini in generale, poiché con il sistema del mercato del carbonio è probabile che la transizione energetica avvenga più velocemente. Purché, ovviamente, questo asset venga ben sfruttato e non se ne abusi ai danni dello Stato e di noi cittadini – il che purtroppo può accadere, si veda il caso di questi giorni che vede coinvolto Arcelor Mittal (conosciuto comunemente col nome di “Ilva” di Taranto), sul quale potete trovare un approfondimento qui.

In uno scenario mondiale dove il clima è in inesorabile peggioramento, ogni strumento per contrastare il declino ambientale è fondamentale. Forse, però, bisognerebbe avere il coraggio di stringere di più i parametri e prefiggersi obiettivi più elevati, per spingersi verso una sempre maggiore efficacia delle politiche intraprese.

 

Fonti:

https://www.mase.gov.it/pagina/emission-trading

https://www.mase.gov.it/pagina/il-mercato-delle-quote-di-co2

https://www.esg360.it/esg-world/ets-come-funziona-il-mercato-delle-emissioni-di-co2-in-europa/

https://www.isprambiente.gov.it/it/attivita/cambiamenti-climatici/politiche-sul-clima-e-scenari-emissivi

https://it.wikipedia.org/wiki/Carbon_tax

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2024/07/04/ilva-truffa-sulla-c02-lex-ad-ammetteva-i-dati-sono-finti/7610992/

https://www.ilsole24ore.com/art/ex-ilva-truffa-stato-quote-co2-10-indagati-vecchia-gestione-AFs4RJSC?refresh_ce=1

 

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Ambiente, società e tecnologia

Il fenomeno del “Washing”: quando il marketing diventa ingannevole

Il “washing” è un termine generico che descrive le pratiche di marketing e comunicazione ingannevoli messe in atto da aziende ed enti per farsi pubblicità e migliorare la loro immagine, fingendo di sostenere determinate cause o valori di cui in realtà non si fanno realmente promotori. Questo fenomeno assume diverse forme, come il greenwashing (ambientalismo), il pinkwashing (parità di genere), il rainbow-washing (diritti LGBTQ+), e così via adattando i neologismi. Sebbene queste campagne possano sembrare lodevoli a prima vista, in realtà rappresentano una forma di inganno nei confronti dei consumatori, che vengono fuorviati sul reale pensiero dell’azienda.

 

Che cos’è il greenwashing

Il greenwashing è probabilmente la forma più conosciuta di washing. Si tratta di una pratica attraverso la quale le aziende si presentano come più ecologiche e rispettose dell’ambiente di quanto non siano in realtà. Questo può avvenire attraverso pubblicità fuorvianti, etichette chimeriche sui prodotti o dichiarazioni di sostenibilità non supportate da azioni concrete.

Un esempio noto di greenwashing è stata la campagna pubblicitaria che BP “Beyond Petroleum” ha messo in pratica da inizio 2000. Essa promuoveva un’immagine verde nonostante l’azienda fosse ancora fortemente dipendente dai combustibili fossili. L’azienda, a distanza di quasi un quarto di secolo, è ancora concretamente affezionata al petrolio. Internet, d’altro canto, è pieno di notizie su aziende criticate per aver esagerato i benefici ambientali dei loro prodotti o per aver utilizzato certificazioni ambientali discutibili.

Il greenwashing non solo inganna i consumatori, ma può anche rallentare gli sforzi per affrontare problemi ambientali reali, poiché le aziende possono utilizzarlo per cullarsi di prassi vetuste e ormai già entrate nelle consuetudini aziendali, evitando di apportare  cambiamenti reali.

 

Il rainbow-washing e lo sfruttamento dei diritti LGBTQ+

Il rainbow-washing è la forma di washing che coinvolge lo sfruttamento dei diritti e delle cause legate alla comunità LGBTQ+ a fini di marketing. Questo fenomeno si verifica quando le aziende promuovono prodotti o campagne pubblicitarie che sembrano supportare l’inclusione e l’uguaglianza LGBTQ+, ma in realtà non intraprendono azioni concrete per sostenere questa comunità, per contrastare la discriminazione intra-colleghi sul posto di lavoro, o addirittura l’azienda fa discriminazione in prima persona con le assunzioni, arrivando a finanziare organizzazioni o politici che ne ostacolano i diritti.

Vi sono casi che vedono coinvolte anche grandi aziende come Coca-Cola, McDonald’s e AT&T, che hanno lanciato campagne pubblicitarie pro-LGBTQ+ ma allo stesso tempo hanno sostenuto politici o organizzazioni contrarie ai diritti di questa comunità.

Un caso eclatante di questa pratica lo si può trovare proprio nel calcio e da ultimo nei Mondiali 2022. Potete approfondire l’argomento nell’articolo di Cecilia Palese che trovate qui.

 

Vegan-Washing e altri casi di appropriazione

Il vegan-washing, o veggie-washing, è una pratica simile al greenwashing, ma incentrata sul veganismo o i diritti degli animali. Si verifica quando le aziende pubblicizzano prodotti o servizi come vegetali o vegani. Ad esempio, quando un’azienda introduce alternative a base vegetale alla sua linea di prodotti non vegani per migliorare la propria immagine tra i consumatori più compassionevoli e competere per una quota del Mercato vegano/vegetariano senza mai effettivamente ridurre il loro contributo alla sofferenza degli animali.

Un’ipotesi eclatante di veggie-washing è stata il caso della catena di fast-food Burger King, che nel 2019 ha lanciato un veggie burger chiamato “Veggie Steakhouse” che in realtà veniva cotto sulla stessa griglia della carne, rendendolo non vegetariano.

Altre forme di washing includono il pinkwashing femminista, in cui le aziende fingono di sostenere l’empowerment delle donne a scopo di marketing, e il washing culturale, il fenomeno per cui aziende socialmente e ambientalmente irresponsabili puntano a migliorare la loro immagine promuovendo iniziative artistiche e culturali, senza per questo cambiare le loro politiche aziendali. Famoso è il caso di alcune grandi industrie petrolifere: potete trovare un approfondimento qui.

 

Le conseguenze del Washing sulle aziende

Il washing può avere gravi conseguenze per le aziende che lo praticano. In primo luogo, queste pratiche fasulle possono portare a una perdita di credibilità e fiducia da parte dei consumatori, che si sentiranno traditi e ingannati. Questo può danneggiare gravemente la reputazione e l’immagine del marchio, portando a boicottaggi e campagne di sensibilizzazione da parte di attivisti e associazioni di consumatori.

Inoltre, il washing può esporre le aziende a rischi legali per pubblicità ingannevole o false dichiarazioni. Diverse autorità di regolamentazione e organizzazioni di tutela dei consumatori hanno intrapreso azioni legali contro aziende colpevoli di greenwashing o di altre forme di washing.

 

L’UE in campo contro il greenwashing

Il 17 gennaio 2024, il Parlamento Europeo ha approvato in definitiva la Direttiva UE che mira a migliorare l’etichettatura e mette al bando l’uso di dichiarazioni ambientali fuorvianti. Questa Direttiva ha trovato il favore di tutti gli stati membri che l’hanno approvata e pubblicata in Gazzetta Ufficiale UE.

Le nuove regole vietano l’uso di indicazioni ambientali generiche come “rispettoso dell’ambiente“, “rispettoso degli animali”, “verde”, “naturale“, “biodegradabile“, “a impatto climatico zero” o “eco” se non supportate da prove.

La Direttiva bandisce anche l’uso dei marchi di sostenibilità, data la confusione causata dalla loro proliferazione e dal mancato utilizzo di dati comparativi. In futuro nell’UE saranno autorizzati solo marchi di sostenibilità basati su sistemi di certificazione approvati o creati da autorità pubbliche.

Inoltre, vieterà le dichiarazioni che suggeriscono un impatto sull’ambiente neutro, ridotto o positivo in virtù della partecipazione a sistemi di compensazione delle emissioni. Ovvero quel meccanismo che permette alle aziende di vendere o acquistare quote ambientali per poter rientrare in determinati standard di inquinamento.

 

Come riconoscere il Washing

Per evitare di cadere vittime del washing, è importante che i consumatori siano in grado di riconoscere i segnali di allarme nelle comunicazioni aziendali. Ecco alcuni aspetti da tenere d’occhio:

  1. Dichiarazioni vaghe o esagerate: Le affermazioni ambientali, etiche o sociali dovrebbero essere specifiche e supportate da prove concrete.
  2. Mancanza di trasparenza: Le aziende autenticamente impegnate in una causa saranno aperte e trasparenti sulle loro pratiche e sui loro sforzi. Le informazioni dovrebbero essere facilmente reperibili dal sito.
  3. Pubblicità contraddittoria: Se un’azienda promuove una causa con una mano ma la contraddice con le sue azioni o altri messaggi pubblicitari, è un potenziale segnale di washing.

 

È fondamentale che i consumatori non si fidino ciecamente delle affermazioni di marketing, ma verifichino le reali azioni e politiche dell’azienda prima di supportarla. Allo stesso modo, le aziende dovrebbero adottare una comunicazione autentica e trasparente, evitando di sfruttare indebitamente cause nobili per scopi pubblicitari.

 

 

Fonti:

https://www.greenpeace.org/usa/recapping-on-bps-long-history-of-greenwashing/

 

https://www.corriere.it/economia/22_dicembre_28/greenwashing-bp-investe-piu-petrolio-che-fonti-rinnovabili-6039d3f0-867c-11ed-95ee-af8dc55ce986.shtml

 

https://thevision.com/attualita/pride-sponsor/

 

https://www.lettera43.it/gabbana-post-gay-grillini-coming-out-lgbt/

 

https://www.today.it/donna/dolce-gabbana-boicottati-vip-omosessuali.html

 

https://jacobinitalia.it/il-cultural-washing-delle-aziende-petrolifere/

 

https://www.europarl.europa.eu/news/it/press-room/20240112IPR16772/il-pe-adotta-una-nuova-legge-contro-greenwashing-e-informazioni-ingannevoli

 

http://www.collectivelyfree.org/veganwashing-the-lie-of-vegan-unity/#:~:text=“Veganwashing”%20refers%20to%20a%20form,with%20veganism%20or%20animal%20rights.

 

https://ibicocca.unimib.it/latomizzazione-nel-calcio-la-fifa/

 

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Ambiente, società e tecnologia

Scamcoins come casinò: com’è cambiata la percezione del denaro nell’era dell’economia digitale e delle criptovalute

Era il mese di gennaio del 2009 quando un gruppo di visionari, celati sotto lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto, gettò le fondamenta di una rivoluzione finanziaria senza precedenti: il Bitcoin, la prima valuta digitale (o criptovaluta).

 

Nel corso del suo primo anno di esistenza, il Bitcoin si misurava in mere frazioni di centesimi di dollaro statunitense o, addirittura, con un valore vicino allo zero. Nessuno, all’epoca, avrebbe potuto prevedere che la modesta (e apparentemente trascurabile) nascita di una valuta virtuale avrebbe rappresentato il nucleo di un fenomeno globale, destinato a rivoluzionare irrimediabilmente il panorama economico mondiale.

 

Bitcoin: l’avventura nell’incognita finanziaria

 

È inevitabile che, nel tempo, il modo di gestire e concepire il denaro cambi in base alle implicazioni culturali, economiche e sociali di riferimento. A differenza del mondo reale, il settore dell’informatica e della tecnologia concepisce 15 anni come un periodo di tempo molto lungo. Sarebbe stato impensabile, all’epoca, pensare di affidarsi quotidianamente alle piattaforme digitali per effettuare pagamenti, investimenti e transazioni finanziarie, come accade oggi.

 

Acquistare un Bitcoin significava, nel 2009, investire in qualcosa di estremamente incerto: l’esposizione al rischio di hackeraggio, la mancanza di regolamentazioni chiare e le fluttuazioni estreme del valore erano solo alcune delle preoccupazioni di quei pochi interessati a scommettere su questo nuovo software.

 

Seppur sia difficile fornire una cifra precisa sul numero di persone che decisero di investire in Bitcoin, è invece chiaro che i primi a gettarsi nella mischia furono solo degli “avventurieri digitali”: informatici, programmatori e appassionati di tecnologia che, spinti dalla determinazione e dalla voglia di esplorare il promettente mondo delle criptovalute, sfidarono il rischio e si lanciarono in questa nuova frontiera finanziaria. Acquistarono alcuni Bitcoin per cifre irrisorie e questi vennero trasferiti all’interno di un primo embrione di portafoglio digitale, custodito da password private.

 

L’investitore più famoso è sicuramente Lazlo Hanyecz, un programmatore di Jacksonville (Florida) che il 22 maggio 2010 utilizzò, per la prima volta nel mondo reale, i propri Bitcoin come valuta di scambio: 10.000 Bitcoin per due pizze. Scelta abbastanza discutibile, considerando il fatto che di lì a poco (per l’esattezza il 6 novembre dello stesso anno) la capitalizzazione del Bitcoin avrebbe raggiunto il milione di dollari, con un tasso di cambio pari a mezzo dollaro per Bitcoin. Ad ogni modo, era solo l’inizio di un cammino che, seppur tortuoso, portò il Bitcoin a raggiungere cifre inimmaginabili.

 

Nessuna valuta al mondo ha raggiunto, in 10 anni, una quotazione pari a quella del Bitcoin. Al momento in cui si scrive, un Bitcoin vale ben 47.888,06 dollari; il prezzo viene aggiornato ogni 5 minuti dal sito Soldionline.it.

 

Perdita di accesso, perdita di fortuna: i Bitcoin persi nelle profondità digitali

 

Ciò che viene simpaticamente mostrato nel nono episodio dell’undicesima stagione di The Big Bang Theory, “La complicazione dei Bitcoin” (o The Bitcoin Entanglement), rispecchia la realtà: come il protagonista Leonard Hofstadter, molte persone che investirono anche pochi centesimi in questa valuta nel 2009 lo fecero in maniera del tutto informale o per mera curiosità. Ironicamente (o meglio, drammaticamente) questi ultimi si sono ritrovati ad affrontare, più che un possibile rischio, un problema reale: quello di aver perso le password dei propri portafogli digitali e di aver reso impossibile l’accesso ai propri fondi, inevitabilmente maturati nel corso degli anni.

 

Si tratta di un evento esemplare, che dovrebbe servire da ammonimento sulla necessità di trattare con serietà i propri investimenti finanziari, anche quando sembrano solo un gioco. Tuttavia, ciò non accade: anzi, oggi il mondo delle criptovalute, oltre a essersi consolidato in maniera massiccia, ha visto emergere sfide ben più significative e complesse.

 

La proliferazione delle scamcoins

 

Le scamcoins (o criptovalute truffa) sono criptovalute create con l’intento di ingannare gli investitori e ottenere denaro o informazioni personali in modo fraudolento.

 

I creatori delle scamcoins sono tutt’altro che sprovveduti e, tramite campagne marketing ingannevoli, profili falsi sui social e cloni di criptovalute legittime riescono a far diventare virali i propri progetti, seppur vuoti o addirittura fasulli. Tutto ciò non ha a che fare e non dev’essere confuso con il termine cryptoscam, che si riferisce, invece, a qualsiasi truffa o frode che coinvolga le criptovalute.

 

I principali canali di diffusione delle scamcoins sono l’app di messaggistica Telegram e diverse piattaforme online. Poocoin, ad esempio, è un sito web che si occupa di aggregare i dati (come il prezzo in tempo reale) e fornire grafici dettagliati sull’andamento delle diverse criptovalute; in aggiunta, permette agli investitori di monitorare i propri wallets (portafogli digitali) e di interagire tra loro, promuovendo alcune crypto e creando avvisi personalizzati. Premettendo che questo sito non è direttamente coinvolto nella creazione e nella promozione delle scamcoins, queste ultime possono essere in esso pubblicizzate dagli utenti stessi, i quali sono esenti da controlli di sicurezza mirati e, conseguentemente, sono esposti a vari tipi di minacce online.

 

“Squid Game” e “Rug Pull”: tra finzione e realtà

 

Un esempio di scamcoin ormai famoso è il token non ufficiale (ma omonimo) legato alla serie Netflix sudcoreana Squid Game, reso disponibile agli investitori il 20 ottobre 2021 sottoforma di un pay-to-play: acquistando queste criptovalute, gli utenti avrebbero potuto giocare a un gioco ispirato alla serie tv e sarebbero stati premiati, all’interno di esso, con “token $SQUID”.

O almeno, questo è ciò che gli fecero credere i promotori.

 

 

In sole due settimane, Squid Game arrivò a valere ben 2.861 dollari e il market cap (cioè il valore totale in dollari) arrivò a 2,1 milioni di dollari (il picco più alto fu, addirittura, di 7 milioni). Crescita piuttosto irregolare; affiancata al fatto che gli utenti stavano riscontrando alcune difficoltà nel ritirare i propri soldi (che nel frattempo continuavano ad aumentare), ciò spinse l’ex Twitter (ora X) a limitare temporaneamente l’account della criptovaluta, con l’accusa di attività sospette.

 

Tutto ciò non ha impedito ai creatori di prelevare l’intera liquidità (pari, in quel momento, a poco meno di 3,4 milioni di dollari) e riscontrare che, come previsto, si trattava di una scamcoin.

 

Quest’operazione è stata un gigantesco rug pull: questo termine si riferisce a una manovra dannosa che si verifica quando gli sviluppatori di una criptovaluta abbandonano improvvisamente il progetto, fuggendo con i fondi degli investitori e facendo precipitare il valore della criptovaluta (nel caso di $SQUID si era giunti a quasi una frazione di centesimo). In poche parole, è una truffa con la quale si “tira il tappeto” dai piedi degli investitori, lasciandoli senza alcuna possibilità di recupero dei loro fondi.

 

La riduzione delle truffe online

 

Squid Game è stata solo una delle molteplici scamcoins ad aver truffato gli investitori; si tratta di un fenomeno che persiste e continuerà a farlo, seppur (forse) con un impatto minore. Le truffe facilitate sono diminuite da 55,4 milioni di dollari nel secondo trimestre del 2023 a 13,6 milioni nel terzo trimestre dello stesso anno, con una diminuzione del 75% dell’importo perso dagli investitori a causa delle truffe.

 

Secondo le analisi, questa diminuzione può essere attribuita a vari fattori: un aumento della consapevolezza complessiva tra i membri della comunità, un’impennata nei prodotti di sicurezza che segnalano siti web e attività dannose e la numerosità di utenti che individuano le truffe in anticipo e forniscono avvisi prima che i truffatori possano avere successo.

 

Scamcoins come casinò

 

Perché, allora, le persone continuano a investire nelle scamcoins, pur conoscendone i rischi?

 

Le scamcoins, a differenza delle critpovalute tradizionali, raggiungono picchi di valore molto alti in poco tempo, arrivando a market cap davvero elevati. Gli utenti sanno riconoscere una criptovaluta legale da una seconda truffaldina, ma decidono consapevolmente di rischiare e provare a far maturare molti soldi in poco tempo per poi battere sul tempo gli sviluppatori, ritirando per primi la propria liquidità.

 

Verrebbe da chiedersi: davvero le persone tengono così poco alle proprie risorse finanziarie?

 

Ci sono molti modi di investire i propri soldi e le criptovalute sono, ormai, largamente diffuse. La scelta di fidarsi delle scamcoins sembra essere quella che, in questo campo, richiede il minimo sforzo e fa ottenere il massimo risultato ed è per questo che potrebbe essere paragonata al gioco d’azzardo.

È un po’ come scommettere su un mazzo di carte truccato: si potrebbe vincere qualche volta, ma alla fine il banco (o, in questo caso, lo sviluppatore truffaldino) ha sempre la meglio, perché lascia l’investitore senza speranze e con un portafoglio più leggero.

 

 

Fonti:

Wired, Storia breve del Bitcoin

“The Bitcoin Entanglement”, The Big Bang Theory

PooCoin

Soldionline.it

Cosa sono le scamcoins?

Squid Game, la criptovaluta truffaldina

Rug Pull

La riduzione delle truffe online

 

Immagini:

Il pump and dump del prezzo di SQUID, fonte CoinMarketCap

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Ambiente, società e tecnologia

L’atomizzazione nel calcio: la FIFA

Guidate dalla bramosia dei social media, le società calcistiche odierne si trovano ad agire in un equilibrio precario tra immagine pubblica e ricerca di profitti.

Questo equilibrio, tuttavia, è spesso macchiato da una profonda ipocrisia.

 

Lega Serie A e pride

 

Ormai da tempo il 30 giugno rappresenta la fine del mese del pride; con esso, ogni anno svanisce anche la tintura arcobaleno che va momentaneamente a dipingere molte aziende, istituzioni e società.

Ma c’è un angolo di mondo in cui, durante questo mese, questa bandiera non ha mai sventolato: non si parla banalmente di Paesi a religione musulmana (aventi, quindi, una cultura diversa dalla nostra), ma di luoghi in cui le stesse aziende che in occidente abbracciano la retorica LGBTQ+ diventano improvvisamente silenziose.

 

La Lega Serie A, massima divisione professionistica del calcio italiano, non ha fatto eccezione. Ogni profilo X (ex Twitter) della Lega, col sopraggiungere dell’estate, si colora di arcobaleno, tranne uno: quello dedicato al pubblico arabo, che rimane sempre neutro.

 

La FIFA nel calcio

 

Non si parla solo di Serie A; il discorso, molto più ampio e complesso, è esteso (quasi) da sempre all’intera federazione FIFA.

 

Nonostante il suo ruolo di centralità sociale (sia diretta che indiretta) il calcio viene spesso sottovalutato dal punto di vista storico.

Ormai questo sport non rappresenta solo una mera forma di intrattenimento, ma un terreno in cui cultura di massa, economia e politica convergono, dando vita a un universo di nazioni in competizione tra loro. Non è un  caso che, ad oggi, il vincitore di questo torneo venga considerato non solo un campione sportivo, ma anche un simbolo di unità e eccellenza nazionale.

 

Fu con la nascita della Football Association (FA) nel 1863 che il calcio si affermò come sport nazionale; qui cominciarono a delinearsi, oltre che delle regole simili a quelle che conosciamo oggi, anche i valori capitalistici di questo sport: coloro che dimostravano di essere più intraprendenti sul campo riuscivano a raggiungere, poi, anche una maggiore ascensione sociale.

 

La nascita del calcio è un fenomeno che viene collocato nella Gran Bretagna antecedente all’Età Vittoriana, la quale, tuttavia, ne rappresenta il periodo di massima affermazione. Si tratta di un periodo durante il quale nacquero, nelle campagne britanniche, nuovi sport aventi l’obiettivo di limitare la violenza e diffondere valori come l’autocontrollo e la disciplina. Il calcio rappresentava, nello specifico, una causa di identificazione per gruppi e comunità di individui.

 

In concomitanza all’introduzione del concetto di tempo libero nel mondo lavorativo, il calcio iniziò a permeare sempre di più la vita quotidiana dei cittadini: dapprima solo all’intero dell’impero britannico e in seguito anche al di là dei suoi confini, crebbe la partecipazione della classe lavoratrice e nacquero i primi professionisti del calcio.

 

Mentre la Gran Bretagna rinunciava al ruolo di guida nel calcio internazionale, nel 1904 venne fondata la FIFA, un organismo in grado di regolamentare e coordinare questo sport su scala internazionale.

 

Nata all’insegna all’apoliticità e alla continuità del calcio internazionale, nel 1904 l’allora piccola federazione FIFA aveva come motto “for the good of the game”. Fu grazie ad essa che a molte squadre venne permesso, senza distinzione di status, di partecipare alle competizioni internazionali. E fu sempre grazie alla FIFA che i calciatori, nel tempo, cominciarono a essere retribuiti.

 

Il suo successo economico, tuttavia, arrivò solo nel 1932, quando si dotò di un sistema giuridico e costituì il proprio quartier generale a Zurigo.

 

Calcio e politica

 

Non è facile, per società di questo calibro, mantenere l’obiettivo di apoliticità. Basti pensare che in questo periodo si tennero il Mondiale italiano del 1934, conosciuto con la nomea di “Coppa del Duce”, e il Mondiale del 1938 in Francia: qui gli italiani, nella partita contro i francesi, si presentarono con una divisa nera e, alla fine della partita, si esibirono in un saluto romano, affiancato da un un telegramma di Mussolini che recitava “vincere o morire”.

 

La Repubblica Federale Tedesca e i Mondiali del 1974

 

Facciamo un salto temporale: nel 1974, durante il Mondiale di calcio nella Repubblica Federale Tedesca, la FIFA dimostrò chiaramente di seguire una politica basata principalmente sui possibili riscontri economici, anche a discapito di questioni morali ed etiche.

 

L’episodio emblematico di questo Mondiale fu la partita tra Cile e Unione Sovietica, che si svolse in un contesto carico di tensioni politiche internazionali. La partita era stata organizzata a Mosca, al fine di distogliere l’attenzione dal reale utilizzo che si stava facendo dello stadio nella capitale cilena: veniva usato come campo di concentramento. La FIFA, informata dei fatti, inviò sul campo dei delegati conservatori, i quali ignorarono le violazioni dei diritti umani e decisero di mandare avanti l’incontro.

 

Il colpo di Stato di Pinochet in Cile dell’11 settembre 1973 portò l’Unione Sovietica a ritirarsi; il Cile, nonostante la mancanza di avversari sul campo, venne costretto dalla FIFA a segnare un goal simbolico; i giocatori cileni, per lo più socialisti, vennero minacciati e costretti a giocare.

 

È molto importante tener vivo il ricordo di questi eventi: il Mondiale del 1974 riuscì a far raccogliere molti soldi alla FIFA, molti di più rispetto alle edizioni precedenti, alimentati, oltre che da un crescente interesse globale dato dalla partecipazione di nuove squadre e nazioni, anche dall’avanzamento tecnologico che negli anni ‘70 caratterizzò il mondo televisivo e pubblicitario. Il marketing vide l’entrata di marchi e aziende che iniziarono a vedere nel calcio una vetrina ideale per promuovere i propri prodotti, sponsorizzandosi sulle divise.

 

Il Qatar e i Mondiali del 2022

 

Spostiamo l’attenzione ai giorni nostri. I Mondiali di calcio del 2022 vengono ormai ricordati a causa della straordinaria vittoria dell’Argentina di Messi, vincente ai rigori contro la Francia; ci si dimentica spesso che sono anche stati i Mondiali in Qatar.

 

Il Qatar è noto per le sue pratiche discutibili in materia di diritti umani e, in particolare, per la sua scarsa attenzione ai diritti delle donne. Inoltre, durante un’intervista nel programma “Uncensored” condotto da Piers Morgan, il segretario generale del comitato supremo dei Mondiali di calcio del Qatar, Hassan al Thawadi, ha rivelato che la costruzione degli impianti sportivi (che avrebbe poi permesso lo svolgersi del Mondiale) ha causato la morte a circa 400/500 lavoratori. In realtà, secondo il Guardian la cifra reale è pari a circa 6.500, se non più alta.

 

Nonostante ciò, molti club (anche in Serie A) mantengono relazioni strette con questo Paese, firmando accordi di sponsorizzazione e partecipando a tornei e competizioni lì organizzate. Molte delle partnership con il Qatar sono strettamente legate alle ingenti somme di denaro che circolano nell’ambiente: si pensi, ad esempio, all’acquisizione di club come il Paris Saint-Germain, rilevante a livello nazionale a causa dell’entità del monte ingaggi degli atleti che ne fanno parte. Stipendi altissimi: 100 milioni per Neymar, 72 milioni per Kylian Mbappè, 54 milioni per Lionel Messi.

O, ancora, si pensi all’incasso di ben 260 milioni di dollari per la stagione corrente (2023/2024) di Cristiano Ronaldo nel club saudita Al-Nassr.

 

La fascia One Love

 

Veniamo al fatto più eclatante: in vista dell’edizione in Qatar, otto nazionali si sono trovate di fronte a un rifiuto della FIFA nel voler indossare, come segno di sostegno alla comunità LGBTQ+, la “fascia One Love”, creata nel 2020 per iniziativa dell’Olanda: una fascia bianca con un cuore arcobaleno. Le otto Nazionali coinvolte (oltre alla Norvegia, che non ha partecipato ai Mondiali) avevano già utilizzato la fascia durante le partite della Nations League, previa approvazione da parte della UEFA.

Tuttavia, in vista dei mondiali e citando l’Articolo 13.81 del suo regolamento sull’equipaggiamento, la FIFA dichiarò che:

 

Per le competizioni finali FIFA, il capitano di ciascuna squadra deve indossare la fascia da capitano fornita dalla FIFA

 

e distribuì quindi alle 32 Nazionali una fascia con la scritta “No Discrimination“.

Il protagonista dell’opposizione fu Manuel Neuer, portiere e capitano della Germania, che dichiarò la sua intenzione di scendere in campo con la fascia One Love anche a rischio di sanzioni; alla fine optò per la seconda scelta (cioè la fascia No Discrimination), ma la squadra tedesca lanciò lo stesso un messaggio di protesta: tutti i giocatori decisero di coprirsi la bocca con le mani in occasione della foto di gruppo.

 

I Mondiali di calcio femminili

 

Nessuna fascia arcobaleno e One Love neanche ai Mondiali femminili di calcio del 2023, ospitati in Australia e Nuova Zelanda. La FIFA, anche in questo caso, ha posto un chiaro veto sulle calciatrici: chiunque la indossasse sarebbe stata sanzionata o, addirittura, costretta a lasciare il campo.

 

Perché parliamo di “atomizzazione”

 

Generalmente, quando si fa riferimento a quel processo intenzionale e coercitivo di manipolazione volto a influenzare le credenze, le percezioni e i comportamenti di un individuo – spesso attraverso tecniche di controllo dell’informazione – si sta parlando di “brainwashing” (letteralmente “lavaggio del cervello”). Questo processo può essere utilizzato per indurre un cambiamento nell’atteggiamento delle persone, in modo da conformarli a determinate ideologie, credenze o obiettivi.

In un certo senso, è questo che accade attraverso il bombardamento di informazioni che riceviamo quotidianamente tramite i social media e la pubblicità: uno stimolo costante di immagini, frasi, idee che tendono a plasmare la mentalità, le idee, i desideri.

 

Un fenomeno relativamente recente connesso a questo è quello del “washing” dell’immagine di un marchio o di un ente, che a seconda delle istanze socio-politiche più sentite in certi contesti prende vari prefissi (dal “greenwashing” al “pinkwashing”, al “rainbow-washing” e via dicendo): si aderisce ad una causa gradita al pubblico, ma solo in modo apparente, comunicando messaggi contraddittori con le proprie azioni concrete che però inducono potenziali clienti, difficilmente in grado di verificare se ciò che è comunicato sia veritiero, a preferire il proprio marchio ad altri.

 

Per indicare il fenomeno che ci siamo sforzati di descrivere è però interessante usare anche un’altra categoria, che inserisce questi esempi in un ragionamento più ampio sulla società contemporanea: quella di “atomizzazione”. Questo termine si riferisce al processo attraverso il quale le comunità e le relazioni sociali diventano sempre più frammentate e individualizzate, con un’attenzione crescente ai bisogni dei singoli piuttosto che alle reali strutture collettive. Fenomeno che, in determinati contesti, porta delle conseguenze negative: si pensi all’aumento dell’isolamento sociale, o ancora alla perdita di solidarietà e coesione sociale.

L’atomizzazione delle aziende in relazione ai temi sociali fa riferimento al modo in cui le imprese, per interessi prettamente economici, possono reagire o adattarsi a questioni sociali rilevanti – i movimenti per i diritti umani, l’uguaglianza di genere, l’inclusione LGBTQ+ e la sostenibilità ambientale, per esempio – in modo da ottenere un ritorno d’immagine.

 

Il profitto

 

Gli esempi di doppi standard sopra descritti (scelti tra i tanti) sono un riflesso diretto dell’atomizzazione delle aziende calcistiche: mentre i dirigenti si affrettano a sostenere le giuste cause per apparire progressisti e socialmente responsabili, dietro le quinte c’è una ricerca spregiudicata del profitto. I club sono disposti a sacrificare non solo i principi morali e gli ideali che sostengono pubblicamente, ma anche la fiducia e l’integrità dei propri giocatori pur di ottenere sponsorizzazioni lucrative e faraonici accordi commerciali.

 

Per i tifosi e gli appassionati di calcio, questo scenario solleva molte domande importanti. Come possono le squadre giustificare il loro impegno a favore della giustizia sociale quando le loro azioni dimostrano il contrario?

Come si può continuare a sostenere delle cause nobili mentre si stringono accordi con Paesi che calpestano i diritti umani?

Il calcio, ormai, fa parte a tutti gli effetti della nostra società: sono davvero questi i valori che gli alti dirigenti delle Federazioni vogliono lasciare ai tifosi di tutto il mondo?

 

Fonti:

L’ipocrisia della Lega Serie A: bandiera arcobaleno sì, ma non nei Paesi arabi

Riccardo Brizzi, Nicola Sbetti, “Storia della Coppa del Mondo di Calcio”

Prime ammissioni sui morti sul lavoro in Qatar

6.500 morti tra i lavoratori in Qatar

I mondiali del 2022 e la fascia One Love

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Ambiente, società e tecnologia

Dove nascono i dati per istruire l’AI

Si sente spesso parlare di intelligenza artificiale, ma di cosa si tratta esattamente e di cosa ha bisogno per funzionare e svilupparsi? I dati sintetici che alimentano le AI e rispondono ai nostri quesiti.

 

Introduzione al Machine Learning

Il machine learning, o apprendimento automatico, è un campo dell’intelligenza artificiale che permette ai computer di imparare e migliorare dalle esperienze, senza essere esplicitamente programmati. I sistemi di machine learning utilizzano algoritmi che analizzano grandi quantità di dati per individuare relazioni, costruendo modelli che li rendano capaci di compiere previsioni o decisioni senza ulteriori istruzioni.

Questo approccio ha rivoluzionato molti settori, come il riconoscimento vocale, la visione artificiale, il processo decisionale automatizzato e molto altro ancora. Tuttavia, il successo del machine learning dipende fortemente dalla disponibilità di dati di addestramento di alta qualità e rappresentativi del problema da risolvere.

La nascita dei dati sintetici

Con l’aumento delle applicazioni di machine learning, è emersa la necessità di grandi quantità di dati di alta qualità per l’addestramento. Raccogliere e annotare manualmente questi dati può essere un processo lungo, costoso e soggetto a errori. Inoltre, in alcuni casi, i dati reali potrebbero essere limitati o addirittura impossibili da ottenere a causa di vincoli legali, etici o pratici.

Per superare questa sfida, i ricercatori hanno sviluppato tecniche per generare dati sintetici, ovvero dati artificiali creati al computer. Questi dati sintetici mirano a replicare le proprietà dei dati reali, pur mantenendo la privacy e riducendo i costi e gli sforzi di raccolta dei dati.

Cosa sono i dati sintetici

I dati sintetici sono dati artificiali generati tramite modelli o simulazioni al computer invece di essere raccolti dal mondo reale. Questi dati cercano di replicare le caratteristiche statistiche e le proprietà dei dati reali, come la distribuzione, la varianza, le correlazioni e le dipendenze tra le variabili.

A differenza dei dati reali, i dati sintetici non contengono informazioni personali identificabili o dati sensibili, riducendo così i rischi di violazione della privacy. Inoltre, poiché sono generati al computer, possono essere prodotti in quantità pressoché illimitate e con una vasta gamma di variazioni, superando i vincoli e i costi associati alla raccolta di dati reali.

 

Le tipologie di dati sintetici

Esistono diverse tipologie di dati sintetici, ognuna con le proprie caratteristiche e applicazioni:

  1. Dati sintetici generati da modelli: sono creati utilizzando modelli matematici o statistici che cercano di replicare le proprietà dei dati reali. Ad esempio, i modelli generativi avversari (GAN) possono essere addestrati su dati reali e quindi utilizzati per generare nuovi dati sintetici con caratteristiche simili.
  2. Dati sintetici da simulazioni: questa tipologia di dati sintetici è generata attraverso simulazioni al computer che modellano ambienti o processi realistici. Un esempio di utilizzo di questi dati lo troviamo nei giochi o nelle applicazioni di guida autonoma, dove i dati sintetici possono essere generati da simulazioni in ambienti virtuali con diverse condizioni di illuminazione, meteorologiche e di traffico.
  3. Dati sintetici ibridi: questi combinano dati reali e sintetici per massimizzare i vantaggi di entrambi. Possono essere utilizzati come base per generare variazioni sintetiche, aumentando così la diversità e la quantità dei dati di addestramento.
  4. Dati sintetici specifici al dominio: generati per applicazioni particolari, come ad esempio l’imaging medico (ndr. diagnostica per immagini), la visione artificiale per la produzione o la guida autonoma. Questi dati sintetici sono progettati per catturare le caratteristiche specifiche di un determinato dominio o problema.

Quando si utilizzano i dati sintetici

I dati sintetici vengono utilizzati in vari casi, ad esempio quando i dati reali sono limitati o costosi da raccogliere: in alcuni ambiti, come la medicina o le applicazioni militari, la raccolta di dati reali può essere estremamente costosa o addirittura impossibile. I dati sintetici offrono un’alternativa economica e scalabile.

Risultano utili anche per mantenere la privacy dei dati sensibili: nei casi in cui i dati contengano informazioni personali o sensibili, l’uso di dati sintetici può garantire la privacy e la conformità normativa.

Infine, si possono sfruttare anche per creare set di dati di addestramento più ampi e diversificati. I dati sintetici, infatti, possono essere generati con una vasta gamma di variazioni, aumentando la diversità e la rappresentatività dei set di dati di addestramento.

Si possono quindi utilizzare per simulare casi estremi o rari che sarebbero difficili o pericolosi da riprodurre nel mondo reale.

Infine, quando si esplorano nuovi domini o concetti, i dati sintetici sono preziosi in quanto perfetti per generare esempi iniziali e valutare la fattibilità di un’applicazione di machine learning.

 

Performance dei dati sintetici

Numerosi studi hanno dimostrato che i modelli di machine learning addestrati con dati sintetici possono raggiungere prestazioni comparabili o addirittura superiori a quelli addestrati con soli dati reali.

In generale, l’uso di dati sintetici può migliorare le prestazioni dei modelli di machine learning in diverse situazioni:

  • Quando i dati reali sono limitati o distorti: i dati sintetici possono compensare la mancanza di dati reali o le distorsioni nei set sperimentali di dati esistenti.
  • Per migliorare la generalizzazione: i dati sintetici possono introdurre variazioni che aiutano i modelli a generalizzare meglio a nuove situazioni.
  • Per affrontare i problemi di overfitting ossia un adattamento eccessivo che avviene quando un modello statistico molto complesso si adatta ai dati osservati perché ha un numero eccessivo di parametri rispetto al numero di osservazioni. L’aggiunta di dati sintetici può ridurre il rischio di overfitting o la tendenza dei modelli a memorizzare i dati di addestramento invece di imparare concetti generalizzabili.

 

Vi è da evidenziare, però, che la qualità dei dati sintetici dipende dai modelli e dagli algoritmi utilizzati per generarli, nonché dalla rappresentatività dei dati di addestramento originali. La generazione di dati sintetici di alta qualità e rappresentativi richiede una profonda comprensione dei dati reali e dei modelli statistici sottostanti. Se non sono generati correttamente, i dati sintetici possono introdurre distorsioni o artefatti che potrebbero influenzare negativamente le prestazioni dei modelli di machine learning.

In molti casi, l’approccio migliore è una combinazione di dati reali e sintetici, che sfrutta i punti di forza di entrambi.

Il rispetto della privacy

Ciononostante, i dati sintetici hanno un grande vantaggio pratico rispetto a quelli reali, perché evitano ogni problematica relativa alla privacy. Poiché questi dati non contengono informazioni identificabili o dati sensibili, possono essere condivisi e utilizzati per l’addestramento dell’AI senza violare la privacy degli individui.

Questo aspetto è di fondamentale importanza in settori come la sanità, le finanze e il governo, dove la protezione dei dati personali è una priorità assoluta. I dati sintetici consentono di sfruttare i vantaggi dell’apprendimento automatico senza compromettere la privacy dei cittadini o dei clienti.

Inoltre, l’uso di dati sintetici può ridurre i rischi legali e di conformità associati alla condivisione o all’elaborazione di dati personali, semplificando la collaborazione tra organizzazioni e la condivisione di conoscenze, grazie per l’appunto ai loro vantaggi sotto l’aspetto della tutela della privacy.

 

Non c’è dubbio sul fatto che l’intelligenza artificiale sta entrando a grandi passi nelle nostre società, e molto probabilmente sarà sempre più diffusa e impattante in futuro. Come per ogni tecnologia – e forse particolarmente in questo caso, vista la delicata natura cognitiva dei compiti che per la prima volta assegniamo alle macchine tramite l’uso di AI – è fondamentale sviluppare attenzione rispetto al suo metodo di funzionamento e alle conseguenze del suo utilizzo. Questo articolo spera di contribuire almeno in minima parte a tale obiettivo: formare una coscienza collettiva rispetto alla natura dell’intelligenza artificiale e delle sue applicazioni concrete.

 

Fonti:

 

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Ambiente, società e tecnologia

Cannabis, la rinascita “green” dell’Italia: un occhio alla Carmagnola

Cannabis”: un termine spesso frainteso, associato al mero spettro della droga e relegato, poi, nell’ombra della legalità.

 

È a tal proposito che la situazione legale e la concezione sociale di questa pianta è molto variegata, sia in Europa che nel mondo: ponendo sotto la lente d’ingrandimento anche solo i Paesi europei, è possibile notare una netta differenza fra quelli che hanno adottato politiche più liberali e quelli che, invece, mantengono leggi più restrittive.

 

I primi Paesi a legalizzare del tutto la cannabis sono stati, nel 2021, il Lussemburgo e Malta : qui, ogni maggiorenne può coltivare, acquistare e consumare cannabis a uso personale, senza limiti di THC (un principio attivo il cui nome scientifico è delta-9-tetraidrocannabinolo). Inoltre, è disponibile la cannabis medica per i pazienti che ne hanno bisogno.

Particolarmente importante, negli ultimi mesi, l’evoluzione della situazione tedesca: il 23 febbraio 2024 la Germania ha approvato una legge riguardante l’uso e la coltivazione privata della cannabis.

 

Ad ogni modo, non è difficile venire a conoscenza degli svariati e possibili utilizzi della cannabis. Ciò che rimane tra storia e mistero è, invece, la prestigiosa tradizione italiana nel campo della produzione della cannabis, sia in termini di qualità che di quantità. Una realtà storica che sembra paradossale, se si pensa all’attuale concezione che gli italiani hanno di questa pianta.

 

Cannabis e fascismo: è davvero un binomio perfetto?

 

Paradossale è davvero il termine giusto per descrivere la nostra relazione con questa pianta: il settore canapicolo italiano raggiunse il suo massimo splendore durante il periodo fascista, tra i primi anni ‘20 e la metà degli anni ’40.

 

Nel 1918 nacque il Sindacato di Filatori e Tessitori di Canapa e il settore cominciò a essere coordinato e vigilato dalla Confederazione Fascista Agricoltori, che controllava tutti i consorzi. Si trattava di un organismo che disciplinava la produzione, proporzionandola alla domanda, valorizzava i prodotti e promuoveva i processi di lavorazione della fibra. Il filato di canapa italiano era rinomato in tutto il mondo a causa della sua morbidezza, lucentezza e bianchezza.

 

Come riportato dal Catalogo del Linificio e Canapificio Nazionale, nel 1923 il settore impiegava circa 20.000 persone, con stabilimenti concentrati maggiormente nel nord; si pensi a quelli di Cassano d’Adda e di Genova, città la cui azienda di filati per l’industria navale divenne la prima nel Mediterraneo per produzione.

 

L’importanza della canapa per l’economia italiana divenne tale che Benito Mussolini, nel 1925, arrivò a pronunciarsi in questo modo:

 

La Canapa è stata posta all’ordine del giorno della nazione, perché per eccellenza autarchica è destinata ad emanciparci quanto più possibile dal gravoso tributo che abbiamo ancora verso l’estero nel settore delle fibre tessili. Non è solo il lato economico agrario, c’è anche il lato sociale la cui incidenza non potrebbe essere posta meglio in luce che dalla seguente cifra: 30.000 operai ai quali dà lavoro l’industria canapiera italiana“.

 

Tuttavia, il declino della reputazione della cannabis ebbe inizio pochi anni dopo, quando iniziò il processo storico alla base delle mistificazioni odierne. L’hashish, un derivato puramente ricreativo della cannabis, venne dichiarato dallo stesso Mussolini “nemico della razza” (e, in vero stile fascista, venne definita una droga da “ne**i”).

 

Il proibizionismo statunitense

 

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale l’utilizzo industriale della pianta sembrò ricominciare a crescere, sia in termini monetari che qualitativi. Ma la storia aveva in serbo ben altro.

 

Occorre infatti ricordare che il tracollo dell’industria della cannabis in Italia avvenne durante gli stessi anni del proibizionismo statunitense circa l’alcool e le droghe, che culminò nella messa al bando di cannabis e hashish. Il fenomeno può quindi essere visto come un riflesso sul nostro paese delle influenze globali e delle pressioni politiche dell’epoca.

 

Le politiche proibizioniste adottate dagli Stati Uniti esercitarono una notevole influenza sull’opinione pubblica internazionale e sull’adozione di politiche simili in altri Paesi, portando dapprima alla demonizzazione della cannabis e poi alla graduale scomparsa dall’industria dall’economia italiana, che ne definì un tracollo inarrestabile. Così in Italia il declino della canapa, una delle piante più utili per l’uomo, divenne una questione ideologica.

 

L’Italia oggi: una questione di THC

 

La situazione legale attuale della cannabis in Italia si dirama in due sottogruppi, in base alla dose di THC (o delta-9-tetraidrocannabinolo) contenuta nella pianta: una sostanza psicotropa prodotta dai fiori di cannabis e avente effetti stimolanti e analgesici.

 

La cannabis ad alto contenuto di THC, comunemente nota come marijuana, è illegale in Italia per uso ricreativo e viene considerata una sostanza stupefacente ai sensi della legge: in Italia sono puniti il possesso, la coltivazione, la vendita e il consumo di marijuana. La base legale per la proibizione della cannabis ad alto contenuto di THC è insita nella Legge 685/1975, cioè la Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, che classifica la cannabis come una sostanza stupefacente.

 

La situazione è diversa per la cannabis a basso contenuto di THC, come la varietà industriale di canapa: nel 2016, infatti, è stata approvata la Legge 242/2016, che ha permesso la produzione di canapa con un contenuto di THC inferiore allo 0,6%, purché venga utilizzata per la produzione di fibre tessili, materiali edili, alimenti e cosmetici.

 

Inoltre, la Legge 94/1998 in materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico e la successiva Ordinanza del 2006 sull’importazione di medicinali a base di THC hanno aperto la strada alla produzione e alla vendita di prodotti a base di cannabis per uso medico, creando le basi per l’utilizzo terapeutico della cannabis in Italia (sebbene la sua attuazione sia stata progressiva e soggetta a regolamentazioni specifiche).

 

Seppur la produzione canapicola sembri suddivisa in due prodotti ben distinti, la situazione è molto complessa, a causa della concezione che i diversi partiti politici hanno della stessa. Si pensi alle ultime dichiarazioni di Matteo Salvini: sebbene l’attuale codice della strada preveda già il ritiro della patente per chi guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, durante l’evento conclusivo della campagna elettorale del centrodestra in Sardegna, tenutosi il 21 febbraio 2024, il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti ha proposto di “ritirare la patente a chi viene trovato alla guida drogato”.

Risulta chiaro che la riforma, ancora in attesa dell’approvazione del Parlamento, mira unicamente a rendere più severa la norma già esistente.

 

AssoCanapa

 

Nel 2018 l’Associazione Coordinamento Nazionale per la Canapicoltura in Italia, meglio conosciuta come AssoCanapa, ha iniziato a contrastare le conseguenze che avevano (e hanno) le norme molto restrittive del nostro Paese a riguardo della cannabis.

 

Fondata circa venti anni fa, AssoCanapa ha più volte difeso soci e clienti accusati di spaccio di droga, a causa della somiglianza che le proprie piante di canapa industriale avevano con le varietà ad alto contenuto di THC. Un malinteso non da poco, considerando l’arresto di quei coltivatori che, come dimostrato in diversi casi, stavano semplicemente coltivando la canapa per usi industriali.

 

La Carmagnola

 

Uno dei pionieri di questo movimento è stato Felice Giraudo, un uomo di 83 anni, perito agrario ed ex sindaco di Carmagnola, una città situata a trenta chilometri da Torino.

 

Negli anni ’90, Giraudo e la sua ex assistente Margherita Baravalle decisero di riportare in produzione le varietà tradizionali e locali di canapa, come l’omonima Carmagnola, al fine di utilizzarle come isolante termico e acustico nelle case.

La Carmagnola è una storica varietà di cannabis italiana, avente una dose di THC inferiore allo 0,2%. Ciononostante, il percorso intrapreso per ricominciare a produrla è stato molto tormentato.

 

L’aspetto più interessante di questa storia rimane il potenziale economico: secondo le stime di Giraudo, isolando due terzi delle case italiane con la Carmagnola lo Stato avrebbe potuto risparmiare circa 45 miliardi di euro all’anno in costi di riscaldamento e raffreddamento. Possibile che non siano stati (e non vengano tuttora) presi in considerazione questi dati così importanti?

 

Una cosa è certa: la cannabis continuerà sempre a far parlare di sé, ad aprire menti e a offrire nuove prospettive. Sia che si tratti di una antica varietà come la Carmagnola che delle più moderne coltivate in laboratorio, la cannabis rimane una pianta dalle moltissime potenzialità.

 

Oggi, mentre assistiamo a una rinascita dell’interesse per le sue molteplici applicazioni, dalla produzione di biomassa alle potenzialità nel campo medico e industriale, questa pianta continua a rappresentare un simbolo di resilienza e adattabilità; la sua presenza persiste come un legame forte con la storia agricola e industriale dell’Italia.

 

Fonti:

Sindacato di Filatori e Tessitori di Canapa

Catalogo del Linificio e Canapificio Nazionale

Confederazione fascista dei lavoratori dell’agricoltura

Il discorso di Mussolini

  1. 22-12-1975 n. 685 Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza.

Legge 242/2016

Intervista al presidente di AssoCanapa Felice Giraudo

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Ambiente, società e tecnologia

The Africa Green Hydrogen Alliance: investire sull’energia pulita

Come alcuni stati del grande continente africano contribuiranno a salvare il mondo dal surriscaldamento climatico. Un bene per la comunità ma anche un possibile asset sul quale investire.

 

Chi è ‘AGHA’?

‘AGHA’, The Africa Green Hydrogen Alliance, è un consorzio di stati del continente africano. Nata a Glasgow in Scozia durante la COP26, ventiseiesima edizione della ‘Conference of the Parties’ (anche nota come United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC, ovvero la Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici), AGHA si prefigge lo scopo di sfruttare l’importante potenziale tecnico e di mercato della produzione di idrogeno verde e dei suoi derivati in favore di tutto il mondo.

Fanno parte di questa alleanza l’Egitto (col Ministero dell’Elettricità e delle Energie rinnovabili, MOERE), il Kenya (col Ministero dell’Energia), la Mauritania (Ministero del Petrolio, dell’Energia e delle Miniere), il Marocco (con IRESEN), il Namibia (Commissione dell’Idrogeno Verde), il Sudafrica (con ‘Industrial Development Corporation’).

Questi paesi sono tutti mossi dall’obiettivo di divenire una potenza energetica cardine nello sviluppo mondiale. Oltre alla finalità ben chiara vi sono anche un progetto ed una coordinazione tali da poter garantire una concreta stabilità dell’Alleanza. Va detto, però, che tra le consociate il Kenya è lo stato che avrebbe maggiore disponibilità di produrre idrogeno verde in quanto già avvezza a produrre il 90% della sua elettricità da idroelettrico, energia geotermica, solare ed eolica, nonché biomassa.

 

Cos’è l’idrogeno verde?

Ma cos’è l’idrogeno verde? Come lo si produce? Ci addentriamo in una spiegazione un po’ più tecnica, che semplificherò per la massima comprensione.

L’idrogeno, come fonte energetica così come la conosciamo, per sprigionare energia deve essere nella sua forma semplice: H2. Nell’universo l’idrogeno è l’elemento di gran lunga più disponibile, ma sulla terra lo troviamo principalmente legato ad altri elementi. Bisogna dunque separare l’idrogeno dal resto dei composti in cui si trova e per fare ciò è richiesto un grande dispendio di energia. Ci sono circa 40 metodi per creare H2, ma certamente il più efficiente è l’elettrolisi.

Se l’energia utilizzata per ricavare H2 deriva da fonti di energia rinnovabile si parla di “idrogeno verde”, diversamente si parla di “idrogeno grigio” nel caso si utilizzino combustibili fossili e di “idrogeno blu” ove le emissioni di combustibili fossili utilizzati per produrre idrogeno vengano catturate.

Verrebbe naturale domandarsi perché usare una fonte di energia primaria, quali ad esempio i combustibili fossili, per produrre altra energia primaria invece che produrre energia elettrica. La risposta è semplice: perché è più conveniente!

Ebbene, l’energia elettrica è una fonte di energia secondaria poiché per crearla serve l’ausilio di un’altra fonte. L’assenza di batterie di stoccaggio capaci di conservare ingenti quantità di energia elettrica fa sì che l’energia prodotta debba essere consumata in un lasso di tempo breve. L’idrogeno dal suo canto ha invece il valore aggiunto di poter essere facilmente stoccato nel sottosuolo, immesso nelle condutture del gas, trasportato anche liquido. Inoltre, l’idrogeno ha un’alta densità energetica: un chilogrammo sprigiona 120 megajoule di energia. Una potenza ben tre volte in più grande di quella sprigionata dalla benzina.

Nel mondo attualmente la più grande produzione di idrogeno verde avviene in un impianto realizzato in soli due anni, tra il 2018 e il 2020, a Fukushima, a 250 km da Tokyo. Denominato ‘Fukushima Hydrogen Energy Research Field’ (anche conosciuto come ‘FH2R’), lo stabilimento include 40 mila m2 di estensione per l’impianto e 180 mila m2 di pannelli fotovoltaici. Produce 1.200 m3/h di H2. Ovvero l’equivalente del fabbisogno di 150 abitazioni per un mese stando alle stime giapponesi.

 

Perché investire in Africa?

AGHA inizia il suo “pitch” (ndr. presentazione a fini di promozione di un nuovo progetto o di una nuova impresa) affermando che «C’è un crescente consenso internazionale che vede giocare all’idrogeno verde un probabile ruolo vitale nella transizione del mondo verso un futuro energetico sostenibile. Prodotto utilizzando energia generata da fonti rinnovabili […] potrebbe inoltre contribuire ad aumentare la sicurezza energetica attraverso la diversificazione delle fonti, riducendo nel contempo le emissioni di gas serra per aiutare il mondo a raggiungere lo zero netto» [TdA]. Con questo incipit AGHA vuole trasmettere un chiaro messaggio ambientalista, oltre che affermarsi come principale esportatore di una fonte di energia sulla quale garantisce in prima persona.

L’Alleanza stima una crescita della domanda mondiale di idrogeno di circa 7 volte il valore registrato nel 2020 di 89 Mt (ndr. Milioni di tonnellate) vedendo entrare nel mercato come possibili clienti, oltre alle industrie chimiche e di raffinazione che attualmente coprono la quasi totalità della richiesta di idrogeno, l’industria dei trasporti, quella del riscaldamento di edifici, l’industria del ferro e dell’acciaio, quella dell’energia, oltre che altre tipologie di industrie non considerate nello specifico.

Secondo le loro previsioni «la mobilità, che rappresenta circa il 19% delle emissioni globali oggi, dovrebbe essere il segmento di utilizzo finale dell’idrogeno più grande entro il 2050» in quanto «l’idrogeno può essere utilizzato […] specialmente nei settori difficili da decarbonizzare, come i mezzi di trasporto a lungo raggio e l’industria pesante».

Alla luce della nuova rotta politica intrapresa a livello globale riguardo alla riduzione delle emissioni di CO2, The Africa Green Hydrogen Alliance stima un taglio dei costi di produzione di idrogeno verde del 60% entro il 2030. Arrivando addirittura ad eguagliare già nel 2028, grazie all’introduzione di tariffe sull’anidride carbonica, il costo dell’idrogeno grigio. In questo modo l’idrogeno verde diverrebbe più competitivo rispetto ad altre alternative a basse emissioni di carbonio entro il 2030, in circa 20 applicazioni pratiche.

 

 

Il grande continente

C’è un elemento fondamentale che determina un mix di successo per AGHA: il continente africano! Morfologicamente parlando l’Africa presenta vaste aree di terra non abitata. Per non parlare della quantità di Sole da cui è ben irradiata. Perché questi fattori rappresentano un vantaggio? Per capirlo basta pensare alla quantità di suolo occupato per la centrale di Fukushima, citata poco fa. L’Africa ne dispone in quantità ben più elevate che potrebbero essere utilizzate senza sottrarre suolo agli abitanti.

Tirando le somme, AGHA e il continente africano hanno tutte le carte in regola per porsi al mondo come operatore chiave di un mercato che ancora non conosce molti player, ma che ben sappiamo esistere. Ciò l’ha dimostrato non solo ufficializzando la sua esistenza e la sua mission in una conferenza internazionale ma annunciandola parallelamente anche al lancio di ‘RepowerEu’ (ndr. Programma di accelerazione per la diffusione delle energie rinnovabili nell’Unione Europea). Ciò fa ben sperare per quanto riguarda la diversificazione del rifornimento energetico europeo e la disintossicazione dal petrolio e dal gas russo.

 

Fonti:

https://climatechampions.unfccc.int/africa-green-hydrogen-alliance/

https://gh2.org/sites/default/files/2022-11/Africa’s%27s%20Green%20Hydrogen%20Potential.pdf

https://www.italiaoggi.it/news/africa-idrogeno-verde-per-la-ue-2607204#:~:text=L’Africa%20green%20hydrogen%20alliance,di%20nuovi%20posti%20di%20lavoro

https://www.geopop.it/perche-l-idrogeno-e-il-combustibile-ideale-per-la-transizione-energetica/

https://www.geopop.it/a-fukushima-si-trova-il-piu-grande-impianto-per-la-produzione-di-idrogeno-verde-al-mondo/

https://www.afsiasolar.com/suez-could-become-africas-gateway-to-a-green-hydrogen-economy/