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Economia, StartUp e Fintech

Cosa significa innovare nel settore assicurativo: l’esempio delle start up Pula e Marshmallow

Anche un settore tradizionale come quello delle assicurazioni negli ultimi anni è stato interessato dall’innovazione tecnologica e pure in questo campo l’Intelligenza Artificiale e le altre nuove tecnologie si sono dimostrate forti alleate quando ben sfruttate nelle loro potenzialità. Dopo il termine Fintech, non è raro sentire oggi parlare di Insurtech (l’unione dei termini insurance e technology), che indica proprio le nuove tecnologie applicate alle assicurazioni, in particolare le assicurazioni del ramo danni. La recente emergenza sanitaria inoltre ha dato un ulteriore impulso all’innovazione che è stata particolarmente evidente nel settore finanziario.

Come emerge da un articolo del blog di N26, le nuove società Insurtech hanno un grande vantaggio competitivo che le differenzia dai grandi colossi delle assicurazioni e dai loro tradizionali modelli di business: proprio l’uso di strumenti innovativi. Grazie all’elaborazione di dati reali anziché l’utilizzo di modelli statistici che suddividono la popolazione in ampie categorie, è possibile offrire polizze costruite su misura e più vicine alle caratteristiche dei singoli clienti. Inoltre, le società Insurtech offrono servizi più smart come app per la gestione delle polizze oltre a una maggiore efficienza e tempi burocratici più brevi grazie alla digitalizzazione dei processi.

 

Danni ambientali – L’esempio di Pula

Le nuove opportunità in un settore tradizionale come quello assicurativo hanno aperto le porte a molte nuove attività imprenditoriali che propongono soluzioni e prodotti innovativi; un ambito in cui sono nate diverse start up è quello della copertura dai danni ambientali, considerate le conseguenze che il cambiamento climatico sta provocando ad esempio a molte attività agricole.

In un articolo del Financial Times viene approfondito quello che sono riuscite a fare alcune start up Insurtech per supportare gli imprenditori agricoli nei paesi emergenti, soprattutto i piccoli agricoltori che non possono permettersi di acquistare alcune costose polizze assicurative; la mancanza di copertura dai danni provoca inoltre un ulteriore effetto ossia la riluttanza di agricoltori e allevatori a fare investimenti in nuove tecnologie per la loro attività. Pula è una di queste start up Insurtech: “Utilizza il Machine Learning e i dati storici di clima e produzione per offrire un’assicurazione basata su un indice di resa per area per gli agricoltori” si legge nell’articolo del Financial Times, “Questo tipo di copertura basa i pagamenti sulla rendita media di un’area e in questo modo gli agricoltori ricevono un indennizzo se la rendita media raggiunta in una stagione è minore rispetto alla rendita assicurata”. Pula offre anche altri servizi e prodotti per i quali gli agricoltori assicurati possono beneficiare di migliori condizioni per via della forza contrattuale della start up.

I problemi del cambiamento climatico e della volatilità dei prezzi non riguardano però solo i paesi emergenti ma sempre più anche le economie avanzate con gravi conseguenze, come accadde nel 2015 a Chicago quando la caduta del prezzo del latte mise in ginocchio molte famiglie.

 

Assicurazione auto – La start up Marshmallow

Nel Regno Unito sta avendo molto successo la start up Marshmallow che offre un’assicurazione auto in cui sono compresi molteplici servizi, oltre la presa in carico della compensazione di CO2 delle prime 500 miglia – circa 800 km – per ogni polizza venduta (iniziativa in collaborazione con ClimatePartner).

I fondatori della start up raccontano sul sito come è nata la loro idea: definiscono il settore assicurativo broken (“rotto”) e i sistemi tradizionali “impersonali” e “obsoleti”, i preventivi estremamente costosi. Hanno deciso così di cercare di portare un cambiamento, partendo dall’offrire assicurazioni auto più economiche ma con l’obiettivo ultimo di trasformare l’intera industria. I servizi e prodotti da loro offerti sono più rapidi, con un supporto clienti attivo 24h e sette giorni su sette, gestione delle polizze con app o da sito e soprattutto più giusti rispetto al calcolo dei preventivi e nell’inclusione di una più ampia platea di clienti altrimenti rifiutati da altre compagnie di assicurazione, tutto ciò grazie all’uso della tecnologia e all’analisi dei dati.

 

Il rapporto degli assicuratori con l’Intelligenza Artificiale

La società di revisione e consulenza PwC ha pubblicato i risultati di una sua indagine e di un sondaggio proposto ad alcune aziende statunitensi di assicurazioni che usano l’Intelligenza Artificiale per la loro attività, dal quale sono emerse interessanti evidenze: quasi due società di assicurazioni su tre che ha investito in IA ha riscontrato benefici in termini di soddisfazione dei clienti mentre quasi la metà di queste società dichiara che l’IA ha favorito i processi decisionali. Di seguito gli ambiti in cui gli investimenti in Intelligenza Artificiale hanno avuto profitto:

 

 

Ai primi posti dunque ci sono una miglior esperienza dei clienti e un supporto nel prendere decisioni, ma compaiono anche benefici in termini di innovazione di prodotto e servizio, incremento di produttività o efficienza e riduzione dei costi.

Dall’altro lato non mancano le preoccupazioni di chi usa questa tecnologia per quanto riguarda i rischi di attacchi informatici e la privacy dei clienti, anche se i rischi non sono legati alla tecnologia in sé ma a un problema più ampio ossia la mancanza di competenze tecniche specifiche per una gestione appropriata ed efficiente dell’Intelligenza Artificiale. Inoltre, talvolta permane una certa titubanza nell’introdurre questi strumenti in azienda e anche laddove vengano fatti gli investimenti, mancano strutture organizzative e strategie ben definite.

Ciò che è necessario sono investimenti in formazione continua, oggi più che mai, e sensibilizzazione riguardo ai vantaggi di accogliere l’innovazione e pensare al di fuori degli schemi senza timore.

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Economia, StartUp e Fintech

Investimenti sostenibili e rating ESG

La sostenibilità della finanza viene da tempo studiata e analizzata ma è solo di recente che è diventata argomento frequente di discussione, complice la maggiore attenzione che viene posta sul rispetto dell’ambiente e il raggiungimento di determinati obiettivi di inquinamento entro scadenze fissate a livello globale. Sempre più imprese dichiarano di svolgere attività sostenibili e attente all’ambiente ma non solo, crescono di importanza il rispetto dei diritti dell’uomo, gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 e l’adozione di criteri etici di gestione aziendale.

 

Come sono legate la finanza e la sostenibilità, e in particolare i criteri ESG dei quali sentiamo spesso parlare?  Innanzitutto, i criteri ESG (Environmental, Social, corporate Governance) permettono di valutare l’impatto a livello ambientale, sociale e di governance di un’attività; tali valutazioni vengono assegnate a titoli, fondi di investimento ed emittenti per misurarne appunto la sostenibilità e permettere agli investitori di poter fare scelte responsabili. Esempi di indicatori ESG possono essere le emissioni di COdi un’azienda per il pilastro “E”, le condizioni di sicurezza sul posto di lavoro per il pilastro “S” o il numero di donne presenti nel consiglio di amministrazione per il pilastro “G”.

 

A livello nazionale Borsa Italiana ha recentemente annunciato l’avvio del progetto ESGeneration Italy, insieme alla Federazione Banche Assicurazioni e Finanza e il Forum per la Finanza Sostenibile, che ha l’obiettivo di condurre l’Italia in una posizione emergente e in un ruolo attivo all’interno del panorama internazionale della finanza sostenibile. Come riportato sul sito ufficiale tale progetto è ispirato ai principi di promozione dei criteri ESG, di trasparenza e di prospettiva di medio-lungo termine, i medesimi che sono alla base dell’atto costitutivo di un investimento sostenibile e responsabile della finanza italiana firmato da tre associazioni tra cui l’Associazione Bancaria Italiana.

 

Il 18 ottobre 2021 Euronext, il principale mercato finanziario nell’Eurozona, ha dato il via all’indice di borsa MIB ESG che è il primo indice ESG dedicato alle blue-chip italiane (le società con la maggiore capitalizzazione) con l’obiettivo di evidenziare quelle con le migliori prestazioni e quindi con un più alto punteggio (rating ESG). Tale punteggio viene assegnato sulla base di 38 criteri suddivisi in 6 aree principali legate alle responsabilità ambientali, sociali e di governance delle aziende; in particolare ad ogni azienda viene assegnato un punteggio da 1 a 100 che è rivisto ogni tre mesi.

 

Sono sempre più frequenti gli annunci di banche e altre istituzioni finanziarie che invitano a investire in maniera responsabile e scegliere di supportare imprese con alti rating ESG. Amundi, società di gestione del risparmio, ha creato un mini-sito in cui espone il suo piano triennale per diventare 100% ESG e le azioni intraprese per far sì che tutti i loro fondi di investimento abbiano alti rating ESG senza sacrificare i rendimenti finanziari degli stessi. Le due cose non si escludono: come rivela uno studio di Amundi gli investitori che indirizzano i propri risparmi in fondi ESG ottengono rendimenti più alti; la stessa informazione la troviamo in un articolo de il Sole 24 Ore che riporta come l’andamento dei titoli in borsa di società con rating ESG più alto sia maggiormente favorevole, considerando il medio-lungo termine.

 

Il problema risiede piuttosto nella corretta valutazione dell’effettivo rispetto dei criteri ESG da parte delle società, soprattutto dal punto di vista ambientale per via di comunicazioni scorrette ad esempio, che non corrispondono a impegni reali di riduzione dell’inquinamento. Un recente report dell’OCSE inoltre analizza le pratiche di mercato  e i principali problemi di investimenti ESG e transizione climatica, fornendo alcune soluzioni. I problemi evidenziati riguardano la scarsa comparabilità attuale dei diversi sistemi di rating ESG e la qualità dei dati utilizzati per le decisioni di investimento, risolvibile mediante un intervento più ampio e incisivo delle autorità regolatrici; il disallineamento tra il criterio ambientale dei rating ESG e la transizione ecologica, questione che richiede una maggior trasparenza e un maggior dettaglio dei punteggi usati per i rating ESG; infine il report indica la necessità di <<rafforzare l’integrazione dei rischi e delle opportunità della transizione climatica in strutture di mercato e prodotti in modo che migliori l’efficienza del mercato per supportare un’ordinata transizione a basse emissioni di carbonio>>.

È urgente la collaborazione tra paesi e la definizione di precise pratiche comuni per permettere una reale transizione verso la sostenibilità e permettere a tutti di collaborare, perché ognuno con le proprie scelte può fare la differenza.

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La comunicazione della BCE oggi tra vignette e post su Instagram

“I banchieri centrali sono conosciuti per il loro linguaggio, che una persona media fatica a comprendere. Spesso viene usato intenzionalmente.”

 

Inizia così una domanda provocatoria di David Rubenstein posta all’attuale presidente della BCE Christine Lagarde durante una recente intervista del David Rubenstein Show.

 

“Lei invece utilizza un linguaggio che sembrerebbe tutti riescano a comprendere, molto semplice e avanti. Non dovrebbe essere una sorta di norma, rendere ciò che comunica comprensibile al cittadino medio?” prosegue Rubenstein. Affermazione facilmente condivisibile se si guarda una delle conferenze stampa della BCE di dieci anni fa, ricca di tecnicismi e difficile da seguire per via della voce dell’interprete inglese che si sovrappone alla voce francese del presidente della BCE di allora. “Sì David, credo sia estremamente importante che le persone comprendano quello che facciamo. Ha a che fare molto con la fiducia: se qualcuno parla con te in un linguaggio completamente incomprensibile, come fai a fidarti? Per me è stato molto importante concordare con il Consiglio Direttivo che avremmo comunicato in una maniera più chiara e semplice.”

 

La BCE ha da poco rivisto il suo linguaggio e tra le strategie vi è quella di utilizzare brevi frasi nelle dichiarazioni sulle decisioni di politica monetaria, rilasciate ogni sei settimane dopo la riunione del Consiglio Direttivo, così che siano comprensibili anche dai meno esperti. Non solo alla BCE, ma anche Jerome Powell della Federal Reserve americana ha lo stesso obiettivo di chiarezza della comunicazione.

 

La comunicazione, una chiara e incisiva comunicazione, è estremamente importante e imprescindibile in molti campi. Per la Banca Centrale Europea è un vero e proprio strumento a disposizione del banchiere centrale per raggiungere determinati obiettivi; fa parte degli interventi cosiddetti non convenzionali tra cui rientrano l’alleggerimento quantitativo (più noto come quantitative easing), il credit easing e appunto la forward policy guidance. Quest’ultima permette alla BCE, mediante i suoi annunci, di condizionare le aspettative dei mercati sui futuri livelli dei tassi di interesse al fine di raggiungere dati obiettivi macroeconomici. L’ex presidente della BCE e attuale presidente del consiglio Mario Draghi fu il primo a utilizzare questo tipo di annunci e ad invitare i colleghi all’utilizzo. Volendo utilizzare i tecnicismi dei banchieri centrali, i loro annunci vengono anche indicati come annunci “delfici” quando sono più impliciti e “odisseici” quando al contrario sono espliciti. Per far sì che le strategie risultino efficaci una Banca centrale deve essere innanzitutto credibiletrasparente, le persone devono riporre fiducia ed essere sicure che la banca metterà in pratica ciò che comunica di fare. Le comunicazioni dei banchieri centrali influenzano i comportamenti e creano aspettative nei mercati che hanno importanti ripercussioni sull’economia reale.

 

Per rendere dunque il suo linguaggio meno ostico e più vicino al panorama comunicativo odierno la BCE ha deciso di utilizzare termini semplici, frasi brevi e maggiormente comprensibili, ed ha recentemente iniziato a comunicare le proprie decisioni di politica monetaria e a pubblicare contenuti informativi nella forma di post su Instagram e LinkedIn affiancati da grafiche. Dopotutto le decisioni hanno conseguenze sulla vita di tutti i giorni, sul prezzo del mutuo in termini di tasso di interesse ad esempio, ed è importante che vengano comprese.

 

Di seguito una delle vignette con cui ha tentato di spiegare il nuovo obiettivo di inflazione per l’area Euro del 2% nel medio termine per cui un’inflazione troppo bassa (deflazione) non è desiderabile quanto un’inflazione troppo alta:

comunicazione bce
Fonte: sito BCE https://www.ecb.europa.eu

Oltre a comunicare la BCE ha affermato di voler interagire con i cittadini e a tal fine ha messo a disposizione dei contatti sul suo sito ufficiale: è possibile mandare una mail, una lettera o telefonare in apposite fasce orarie per porre domande, dare suggerimenti o commenti riguardanti l’attività della BCE. Ricevere feedback, capire le aspettative delle persone e le loro preoccupazioni sul futuro può aiutare la BCE a condurre la politica monetaria in maniera più efficiente ma non solo, il coinvolgimento dei cittadini può far meglio comprendere ciò che fa la BCE e accrescere la fiducia nell’Eurosistema.

 

Nel sito della BCE è presente inoltre la sezione “Facciamo chiarezza” dove è possibile trovare risposte a molti dubbi tra infografiche e video di un minuto tra cui il video “cos’è la vigilanza bancaria europea” o “cosa rappresenta la firma sulle banconote”.

 

Per i più curiosi qui l’ultimo paper del consulente della BCE Gabriel Glöckler intitolato “Clear, consistent and engaging: ECB monetary policy communication in a changing world” (chiara, coerente e coinvolgente: la comunicazione sulla politica monetaria della BCE in un mondo in cambiamento).

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Intervista a Federico Masi, co-fondatore della start up FinTech FLOWPAY

Il pagamento delle fatture in ritardo è un’abitudine molto diffusa a livello nazionale e non solo. I pagamenti in ritardo si trasformano in costi che non riguardano solo le imprese ma si trasferiscono al settore bancario per via dei rapporti che ci sono tra imprese e banche. Flowpay è una start up che nasce con l’obiettivo di porre rimedio a questo problema automatizzando il pagamento delle fatture elettroniche con l’uso dell’open banking, facilitando il rapporto tra le controparti.

 

Come è nata Flowpay?

 

Flowpay nasce a ottobre 2019 dall’incontro tra me, che venivo dal mondo start up e conoscevo molto bene l’integrazione bancaria e i pagamenti, Edoardo Tommasi, Lorenzo Rossi e Tiziano Pacciani di Banco Digitale che si occupavano di soluzioni blockchain e DLT. Ci siamo trovati a una fiera di matching business to business organizzata da Banca Intesa. Io avevo la necessità di creare un metodo di riscossione che rendesse più certi gli incassi di fatture B2B.

 

Questa necessità è sorta in seguito a una tua esperienza diretta?

 

Sì ed oltre alla mia esperienza studiando il mercato di riferimento ho potuto apprendere che, attualmente, il 40% delle fatture che sono in pagamento scadono senza essere pagate. In Italia il problema è particolarmente rilevante perché da una parte è quasi normalizzato il pagamento delle fatture in ritardo e la presenza di molte PMI si traduce in un fabbisogno di liquidità più urgente dal momento che le piccole imprese hanno meno capacità a finanziarsi; tutto ciò crea un problema notevole per l’economia. Inizialmente l’idea che abbiamo avuto era creare una fattura programmabile come se fosse uno smart contract, ed è da qui che nasce Flowpay che successivamente si evolve in un istituto di pagamento. Siamo la prima start up ad essere autorizzata dalla Banca d’Italia a operare come PISP e AISP, l’autorizzazione è giunta a febbraio.

 

Cosa sono queste due tecnologie?

 

La normativa sui pagamenti europei ha introdotto una nuova organizzazione chiamata TPP, third party providers. Alla base c’è un soggetto che si interpone tra banche, o altri operatori finanziari tradizionali, e l’utente, che è autorizzato ad effettuare alcune operazioni attraverso la tecnologia o l’interfaccia offerta dalla terza parte, ossia permettere di mediare le operazioni di informazione (visualizzazione degli estratti conto o di pagamenti) da un utente ad un certo numero di banche, accorciando così la distanza finanziaria tra utente e banca. Le banche, a loro volta, sono obbligate ad esporre questi servizi via API, permettendo in questo modo a terze parti come Flowpay di poter visualizzare tutti i conti di un cliente operando per conto suo, rendendo più comoda la gestione di diversi conti e i pagamenti. Dato che il problema su cui ci siamo concentrati è l’incasso delle fatture, Flowpay utilizza un sistema, il primo di questo tipo, di request-to-pay open banking; dunque, un’azienda che deve ricevere un pagamento può condividere un link con la fattura che deve essere pagata dal cliente che a sua volta può procedere al pagamento con approvazione tramite OTP (One time password). Il pagamento può essere istantaneo, oppure creato oggi per domani con bonifico ordinario, o ancora ordinato oggi per un pagamento a 30 giorni. La nostra value proposition è questa; il consenso al pagamento viene inizializzato oggi dal cliente che deve pagare il fornitore anche se il pagamento effettivo è differito (a 30 o 60 giorni), Flowpay fa da fluidificante della relazione commerciale.

 

Così il recupero crediti è più agile?

 

Flowpay mitiga il rischio di dover dedicare tempo eccessivo al recupero crediti. Chi si occupa di recupero crediti può integrare la nostra API per avere un sistema di informazione maggiore perché l’azienda che implementa il nostro sistema può inviare un link al cliente e chiedere di essere pagata attraverso questo link in uno step, senza dover perdere tempo nel recuperare l’informazione della fattura, il destinatario del pagamento, l’IBAN.

 

Come è accessibile il servizio?

 

Il servizio è offerto tramite una piattaforma integrabile via API quindi è rivolta a molti soggetti come chi si occupa di commercio B2B, chi si occupa di Invoice Trading, finanza alternativa come factoring/reverse factoring o instant lending, chi si occupa di recupero crediti, ma offriamo anche una interfaccia utente per le piccole e micro realtà. Per questo abbiamo integrato i gestionali o i provider di fatturazione elettronica come fattura in cloud, Aruba e MyFoglio.

 

Quali sono i costi?

 

L’iscrizione a Flowpay è gratuita. I pagamenti sono anch’essi gratuiti mentre sugli incassi richiediamo lo 0,03%. La concorrenza, non Open Banking, ha prezzi molto più alti se pensiamo alle commissioni applicate da Stripe, PayPal.

 

Avete pensato a soluzioni per i crediti delle imprese verso la Pubblica Amministrazione?

 

La PA non paga con bonifico ma con mandato, ricorrendo ad una procedura autorizzativa per cui il dirigente preposto alla tesoreria all’interno di un ente pubblico dà mandato alla banca tesoriera di pagare. Allo stato attuale la nostra soluzione non è applicabile. Ho parlato con un hedge fund che ha svolto diverse operazioni su crediti scaduti o crediti in bonis di lungo termine e per loro il fatto che la PA paghi molto in ritardo non è altro che un vantaggio, perché riescono a raccogliere una massa di crediti dello Stato che sono sicuramente esigibili, anche se molto in ritardo, ma ciò crea una situazione molto sfavorevole per le imprese. Stiamo parlando con soggetti istituzionali per trovare una soluzione per le fatture verso la PA.

Ho letto che offrite anche un servizio di credit scoring?

Lo implementeremo in futuro, abbiamo ancora bisogno di dati per istruire con Machine Learning il nostro motore di credit scoring. In futuro, avendo indicazione di ogni soggetto circa le sue attività commerciali, attive e passive, noi riusciremo a mappare e dedurre quali saranno i comportamenti di pagamento dei vari soggetti che appartengono alla rete del nostro utente. L’obiettivo è offrire un payment scoring delle aziende per consigliare ai nostri utenti quali rapporti sono più profittevoli, fino ad arrivare a predire quando conviene ai nostri utenti chiedere l’incasso in base al comportamento passato del cliente/fornitore. Questo permetterà di pianificare e prendere migliori decisioni di allocazione finanziaria di breve termine.

 

Quale tecnologia utilizza Flowpay?

 

Flowpay nasce come una rete distribuita, ossia con la possibilità di installare nodi di dati all’interno di un certo numero di istituti finanziari, e non per creare una rete interbancaria, perché i clienti, di fatto, rimangono clienti diretti delle banche, per poi condividere questo patrimonio informativo con tutte le banche che avessero aderito e dare quindi credibilità e autorevolezza alla rete Flowpay. Questo primo passo con le banche non è andato come sperato perché le banche temono che possiamo sottrarre loro clienti, timore non fondato perché ci appoggiamo alle banche per il nostro lavoro, non ci occuperemo mai di raccolta del risparmio ma anzi la nostra collaborazione può portare ai nostri partner risultati più proficui e nuovi clienti che sono alla ricerca di servizi più efficienti. Si iniziano però a vedere alcuni passi positivi verso la nascita di alcune partnership.

 

Che tipo di difficoltà avete riscontrato dalla vostra nascita ad oggi? Avete ricevuto supporto dallo Stato se è stato richiesto?

 

Per adesso non abbiamo ricevuto aiuti dallo Stato ad eccezione del supporto avuto da Banca D’Italia che ha compreso molto bene e ci ha aiutato a creare un Unicum nel panorama FinTech italiano. Diciamo piuttosto che abbiamo scontato, e stiamo scontando, il prezzo di aver creato la nostra iniziativa in Italia, che nonostante diversi proclami mi sentirei di dire che non è il posto giusto per aprire una startup. Per diversi motivi:

 

  1. Il livello di richieste, soprattutto di Compliance Normativa, in Italia è forse il più alto di Europa ed in un contesto di Single Europe Payment Area (SEPA) vede le aziende italiane soccombere, per questioni di adeguamenti normativi, alla competizione con operatori esteri che possono operare in tutta Europa, compresa l’Italia, con un quadro normativo più lasso;
  2. Non esistono strumenti di capitale (equity o debito agevolato) adeguati a realtà come la nostra che devono competere da subito almeno su base europea. I fondi di Venture Capital con cui abbiamo parlato sono in gran parte esteri e tutti hanno storto la bocca quando hanno compreso che eravamo italiani e chiesto anche esplicitamente di rivedere la localizzazione della società su altri territori;
  3. Gli incumbent (banche e altri attori istituzionali) invece di aprirsi all’Open Innovation sono restii alla collaborazione anche perché non esistono meccanismi di incentivo all’innovazione.

Speriamo che questo secondo tentativo di finanziamento a Invitalia possa dare esito positivo, così da poter dire che lo Stato ci ha aiutato.

 

Un consiglio per i giovani ragazzi che vorrebbero avviare una loro attività?

 

  1. Mio malgrado: non fatelo in Italia;
  2. Studiate bene il mercato prima di fare qualsiasi cosa, studiate la competizione e trovate qualche “sponsor” o “Early adopter” prima di partire a fare;
  3. Chiunque sia disposto a finanziare una start up non ha né voglia né tempo di comprendere nei dettagli il tuo business, deve vedere che tu lo sai fare, quindi contratti e fatturato.
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Blockchain, definizione e riflessione durante il Web Marketing Festival

Durante la prima giornata del Web Marketing Festival, in una sala dedicata si è parlato di Blockchain. Gli ospiti che hanno affrontato l’argomento sono stati, in ordine, Giacomo Vella, dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, e Massimo Chiriatti, di IBM Italia.

Il primo dei due speaker ha fornito una panoramica dell’argomento trattato: definizione delle tecnologie blockchain e distributed ledger, le tipologie di applicazioni che possono essere realizzate con queste tecnologie, visione su quelli che sono i trend e i progetti sviluppati in ambito aziendale usando queste tecnologie a livello globale.

Il secondo speaker invece ha condotto una riflessione sul concetto di fiducia, ponendo l’attenzione sulle dinamiche tra l’uomo e la macchina.

 

Blockchain e Distributed Ledger: cosa sono?

Giacomo Vella ha illustrato come, partendo da un ecosistema di vari attori/settori che vogliono interagire tra di loro e scambiarsi informazioni, solitamente ad oggi la soluzione più diffusa consiste nel fare riferimento ad una “single source of truth”, un attore centralizzato che faccia da connettore per raccogliere le informazioni per poi scambiarle tra i vari attori. L’attore centralizzato però non è sempre individuabile all’interno dell’ecosistema. In questo caso si fa riferimento ai Distributed Ledger, una famiglia di tecnologie al cui interno si trovano le blockchain, che vanno a creare il concetto di “common source of truth”, una visione della realtà tra diversi attori che vogliono scambiarsi informazioni che non prevede la presenza di un intermediario.

Vella ha posto l’accento sul fatto che, quando si parla di blockchain, si stanno considerando due grandi temi: le piattaforme blockchain, cioè le strutture abilitanti delle applicazioni che possono essere create con questa tecnologia, e le applicazioni che possono essere costruite on top a queste piattaforme.

Successivamente ha esposto le caratteristiche principali della blockchain: network di attori disintermediati che si scambiano informazioni secondo determinate regole, algoritmi crittografici che consentono a tutti gli attori di avere la stessa visione del registro, senza la necessità di mettersi d’accordo con un attore centrale.

 

Ambiti di applicazione

Gli ambiti di applicazione descritti da Giacomo Vella sono divisi in cinque macro strumenti, utilizzati ed abilitati da queste tecnologie blockchain: criptovalute, timestamping, smart contract, token e DApp.

Le criptovalute, la prima applicazione in ordine temporale, possiedono anche un significato molto importante, afferma Vella, in quanto spesso permettono alle piattaforme blockchain di funzionare. Il mercato delle criptovalute risulta essere in costante evoluzione con un valore attuale di mille miliardi di dollari.

La seconda applicazione, il timestamping, consiste nell’utilizzo del registro alla base di una piattaforma blockchain per inserirvi informazioni in grado di certificare la data di un documento, in maniera immutabile e trasparente. In questo discorso, uno degli strumenti più interessanti con il potenziale più alto è rappresentato dagli smart contract, codice informatico registrato in una blockchain la cui particolarità risiede nel fatto che possono essere eseguiti all’interno della blockchain stessa, permettendo di andare a creare delle istruzioni eseguibili automaticamente in caso di determinate condizioni. Oltretutto, il codice attivato sulla blockchain non è più modificabile, è garantito e non è arrestabile.

Tramite gli smart contract è possibile la creazione di token, asset digitali simili alle criptovalute ma con delle differenze, in quanto possono rappresentare diverse tipologie di asset digitali (beni digitali e/o fisici o addirittura dei diritti) e possono essere di tante tipologie. Ad oggi, i token sono tornati alla ribalta con tutto il mondo degli NFT, asset digitali unici non interscambiabili, creati per il loro meccanismo di unicità che sfruttano le caratteristiche della blockchain per generare questa non replicabilità.

Oltre a rappresentare il possesso in maniera univoca di un asset digitale, un’altra caratteristica degli NFT è quella di poter essere scambiati e rivenduti su dei marketplace.

Un’altra delle applicazioni della blockchain, e un modo per sfruttare le potenzialità della programmabilità e degli smart contract, è quella delle Decentralized Application (DApp). La possibilità di andare a programmare degli smart contract più o meno complessi per andare a creare delle vere e proprie applicazioni simili a quelle tradizionali ma che si appoggiano alla blockchain, interagendo sulle transazioni della blockchain stessa, garantendo, in questo modo, una serie di proprietà molto interessanti: sono incensurabili, codice open source, interoperabilità e sono globalmente accessibili.

In termini di distribuzione, delle prime 100 DApps utilizzate ad oggi, la maggior parte interessano il settore DeFi (66%), seguito dal settore del gaming (20%), marketplace di NFT (6%), gambling (5%) e social network (3%). Rappresenta un mondo in grosso fermento.

 

Trend ed evoluzione

La blockchain, spiega Vella, nei primi anni era identificata solo come una tecnologia per lo scambio di valore, con il passare del tempo sono stati introdotti gli smart contract, la possibilità di dare dei token, le DApp. Adesso sta diventando una infrastruttura tecnologica che abilita la creazione di tante applicazioni diverse.

Le ricerche svolte dall’Osservatorio dal 2016 fino alla fine del 2020 hanno interessato più di 1800 casi in tutto il mondo, per comprendere quali applicazioni vengono fatte dalle aziende, e hanno evidenziato diversi trend.

Nel 2020 si è verificato un rallentamento dell’hype perché negli anni precedenti è passato il messaggio della blockchain come la tecnologia che avrebbe risolto tutti i problemi del mondo. In realtà si è visto lo sviluppo di progetti concreti a livello operativo, quindi una riduzione progressiva degli annunci, soprattutto quelli di marketing. Se ci concentriamo sui progetti concreti vediamo una crescita sia di sperimentazione ma soprattutto di progetti operativi, da parte sia delle aziende che delle PA.

Riguardo i settori di applicazione, il finanziario con l’80% risulta essere il più attivo ed è in forte crescita. Aspetto interessante in questo caso è il fatto che inizialmente la blockchain ha rappresentato una minaccia, adesso invece rappresenta un’opportunità.

Gli altri due settori in termini di diffusione sono quello governativo (18%), riguardo alle PA (trasparenza e sicurezza), e l’Agrifood (7%). In generale comunque si rileva il fatto che tanti settori si stanno affacciando nell’utilizzo di questa tecnologia.

Se guardiamo alla diffusione del mondo, l’Asia ne fa da padrone ma l’Europa risulta essere al secondo posto. L’ecosistema, e le competenze sviluppate, risultano essere molto forti su quelle che sono queste tecnologie. L’Italia è posizionata tra le top 10, presenta una buona conoscenza di queste tecnologie, anche in termini di competenze. Gli attori che implementano la blockchain sono principalmente le grandi aziende però, in maniera lenta, si stanno avvicinando a questa tecnologia anche le PMI.

 

Tra fiducia e storia

La fiducia comporta in sé sempre un rischio”, afferma Massimo Chiriatti: a causa del Covid siamo sempre più distanti l’uno dall’altro e, dal punto di vista del tempo, le interazioni sono più rapide e si ha poco tempo per conoscersi.

Nel passato c’era il baratto, ma oggi quando si fa una transazione diretta, ci si scambia un oggetto. In questo senso, la transazione ha delle caratteristiche: è anonima, diretta, immediata e irreversibile.

Il problema di queste transazioni risiede nel fatto che è richiesta la prossimità fisica.

Se ci si sposta sul sistema finanziario, si osserva il fatto che è stato inventato anche per permettere di fare transazioni da remoto, risolvendo il problema della prossimità fisica. Quando però si aggiunge un intermediario, si modifica la natura della transazione stessa. Non è più anonima (serve l’identificazione) e si hanno tempi e costi.

Satoshi Nakamoto ha inventato una rete per attuare transazioni remote e globali. Rappresenta un nuovo sistema per fare transazioni perché nei sistemi precedenti, baratto e moneta, era richiesto il “trust”. Nel momento in cui viene meno questo concetto, ci si avvale del contratto: formalizzazione, terza parte, uno stato, un tribunale che possa sanzionare il contraente nel caso in cui lui non abbia rispettato i termini e le clausole contrattuali.

Se non voglio ricorrere alla fiducia o al contratto sociale, posso usare un altro sistema per fare transazioni, la blockchain, che, a detta di Chiriatti, non sostituisce i modelli precedenti ma potrebbe integrarli. La questione, afferma, è anche a livello filosofico: cosa succede quando mettiamo tra di noi una macchina?

Si va a creare una gerarchizzazione dei rapporti: è la macchina che dice a noi che abbiamo raggiunto un determinato consenso.

Alla luce di questo ragionamento, Chiriatti ha fornito anche una sua definizione di blockchain, utilizzata per comprendere se, in termini di confronto, si intende la stessa cosa: registrazione permanente del consenso raggiunto sullo stato di un asset.

La sua riflessione verte sul fatto che, quando si parla di blockchain, si intendono diritti individuali che la collettività riconosce ma, in realtà, il riconoscimento è dato da un oggetto, una macchina, una rete. Avviene, secondo Chiriatti, un passaggio dalle scienze sociali a quelle naturali, ossia quel dominio di “scienze dure” in grado di attribuire il possesso o meno di una risorsa: “Il punto allora è che la blockchain sembra che disintermedi ma, in realtà, sembra che disintermedia i centri di potere ma di sicuro intermedia le relazioni di fiducia tra le persone, aspetto questo da non sottovalutare”.

A conclusione del suo intervento, Chiriatti si è concentrato sui due modelli di blockchain: pubbliche e private.

Le prime legano insieme l’aspetto tecnologico aggiungendo un particolare economico per creare quello che viene ritenuto un contratto sociale. Si parla di contratto sociale perché si sta trattando di fiducia nelle persone e Satoshi ha proposto un metodo per scambiare valore tra le persone, evitare che altri possano confiscare il valore all’interno del portafoglio della persona, aspetto, questo, che va a minare il concetto stesso di fiducia. L’altro punto riguarda l’impossibilità di inflazione la base monetaria perché scritta nell’algoritmo, quindi ci si fida di un “sistema algoritmo” che ci garantisce questo stato di cose.

D’altro canto, nel caso del secondo modello di blockchain, quelle private, dove la fiducia è massima verso l’interno e nulla nei confronti dell’esterno, quando si possiedono dei valori nel proprio portafoglio, quando non si ha fiducia in sé stessi e si perdono le chiavi, si crea un problema irreversibile. Stessa cosa nel caso di furto. Il terzo rischio è rappresentato dall’eredità. Il tema della fiducia legato alla blockchain va affrontato e non sottovalutato, per evitare che una macchina “ci scomunichi”, ponendoci sotto la macchina.

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Economia, StartUp e Fintech

Storie di Brand: quattro aziende da scoprire

Quando si parla di Brand si pensa immediatamente alla traduzione letterale italiana che corrisponde al marchio o alla marca.

Oggi il Brand non è più solamente un segno distintivo che identifica l’insieme dei prodotti e servizi venduti dall’azienda, ma rappresenta sempre di più una cosa a sé stante in grado di condizionare le vite delle persone che vi entrano in contatto.

Il cliente non sceglie più un Brand semplicemente per il prodotto o servizio che offre ma anche per la sua storia, ed è quindi interessante capire i meccanismi e le strategie che sono state adottate nel corso degli anni da aziende in contesti e ambiti differenti che le hanno portate in una direzione sempre più vicina e attenta ai cambiamenti della società.

I Brand si evolvono continuamente in relazione al cambiamento delle persone con cui interagiscono.

 

Punk Marketing Manifesto di WeRoad con Fabio Bin

Punk e marketing? Cosa c’entrano l’uno con l’altro?

Lo abbiamo scoperto dallo speaker Fabio Bin, Chief Digital & Marketing Officer di WeRoad, una delle aziende più conosciute e di successo in Italia nell’ambito dell’organizzazione di viaggi ed esperienze in tutto il mondo.

Fabio Bin, WeRoad

Gli elementi che compongono una strategia di comunicazione, secondo Fabio, sono essenzialmente tre: le risorse, spesso scarse per cui è consigliato “fare con quello che si ha”, successivamente le ipotesi che necessitano sempre di essere validate, quindi bisogna prima fare per poter poi sapere, e infine il contesto che è in continua mutazione, quindi se non si è flessibili si rischia in breve tempo di non restare al passo con gli eventi.

Per Fabio è inoltre molto importante un motto che rappresenta l’approccio con il quale sviluppa la strategia di marketing della sua azienda, ovvero: “done is better than perfect”, fatto è meglio di perfetto.

Durante il suo intervento, Fabio ha spiegato il parallelismo che ha individuato e che vede coinvolti il punk e la strategia di marketing adottata per la comunicazione di WeRoad: entrambi sono grezzi, ovvero diretti, brutali, capaci di innovare “a colpo di martello”, non vogliono piacere a tutti, sono genuini e simbolo di una Brand personality molto forte.

Per metterli in pratica è fondamentale adattarsi e utilizzare i mezzi a propria disposizione e fare da soli quello che serve per raggiungere l’obiettivo.

Infine, entrambi sono pura azione, veloci, non sono pensiero ma creazione, ed energia.

Il punk marketing manifesto dal quale l’incontro prende nome, è costituito da una serie di punti che insieme definiscono la strategia di marketing adottata da WeRoad. Gli step da seguire sono: non fare pubblicità ma contenuti, non pensare a vendere, “fare il Brand” e tirare fuori la propria voce in qualsiasi occasione, prendere posizione, puntare ad avere fan e non clienti, dire no ad ogni cosa che potrebbe rallentare, non preoccuparsi del budget perché esso non serve!

Tra tutti i punti fondamentali raccontati da Fabio, ce n’è uno particolare sul quale è importante soffermarsi: “il tuo Brand non è tuo”; infatti, oggi il Brand non appartiene più all’azienda, ma alla community, a coloro che ci lavorano e hanno una relazione con esso, perché ormai ha proprio una sua personalità. Per citare Fabio, “quando il Brand diventa della community, diventa vivo”.

 

Educazione sessuale, non torniamo alla normalità con Nicolò Scala di Durex Italia

Durex è un Brand con una reputazione molto forte, può considerarsi il leader di mercato e sinonimo della sua categoria, e da anni impegna nella creazione e divulgazione di solidi programmi educazionali.

Nicolò Scala, marketing manager di Durex Italia, ci ha raccontato l’aspetto fondamentale che distingue la comunicazione di Durex da quella dei suoi competitor sul mercato, ovvero il dualismo che lo rende sia iconico che ironico, che lo porta a presentarsi ai clienti e alla community con un tone of voce che si è costruito negli anni, che possiede un limite molto sottile tra volgarità e banalità, nelle quali però riesce a non cadere mai.

Nicolò Scala, Durex Italia

Per riuscire a contrastare la scarsa informazione e la presenza di taboo che riguardano ancora l’argomento sessualità, Durex è convinto che sia necessario incrementare la formazione o semplicemente iniziare a parlarne, proprio perché, riprendendo le parole di Nicolò, “tacere significa comunicare e radicare che di sesso non si deve parlare”. Nasce quindi l’esigenza secondo il Brand di normalizzare l’argomento sessualità.

Per raggiungere ciò, Durex si è impegnata negli anni a costruire una comunicazione riconoscibile e originale attraverso delle strategie di marketing specifiche focalizzate su tre punti principali: il real time marketing, ovvero il “marketing in tempo reale” realizzato prendendo spunto da eventi di attualità non sempre programmati, l’inclusione e infine l’educazione e l’ironia come chiavi del successo.

Quando la comunicazione diventa efficace e le persone iniziano ad apprezzare veramente il Brand e diventare dei veri e propri “fan”, la fanbase interviene e difendere il Brand da opinioni negative, e questi rappresentano dei piccoli segnali che dimostrano come l’azienda abbia lavorato bene nel corso degli anni alla creazione del suo Brand.

Anche in tempo di lockdown, dopo alcune insicurezze legate al taglio dei costi dovuti alla crisi, tra cui quelli dedicati all’area marketing, si è deciso infine di non tagliare il budget e di sviluppare invece delle strategie per far sentire la propria presenza anche quando le vendite dei prodotti erano calate del 70%.

Da lì è partita una nuova campagna che ha avuto molto successo, dalla quale lo speech ha preso il suo nome, ovvero “non torniamo alla normalità” in quanto secondo Durex era ed è tutt’ora necessario un cambio di mentalità e concezione del sesso, ed è importante provare a costruire un messaggio che non sia solo del Brand, ma anche di salute pubblica.

“Parliamone di più tutti, ciascuno può contribuire positivamente” è il messaggio di un Brand che è andato oltre la sola vendita dei propri prodotti e che oggi si impone sul mercato anche per quello che ha da dire.

 

Barbie e l’evoluzione di un Brand con oltre 60 anni di storia da giocattolo a Role Model con Andrea Ziella

Tutti conoscono Barbie, la linea di bambole di plastica commercializzate dall’azienda Mattel, ma pochi sanno che questo giocattolo oltre ad aver compiuto oltre 60 anni di storia, oggi non è più considerato un semplice oggetto dedicato al divertimento dei bambini ma molto di più.

Andrea Ziella, Head of Marketing and Digital a Mattel Italia, ci ha raccontato attraverso diverse tappe i sessanta anni di storia della bambola spesso criticata ma che negli ultimi decenni ha subito un’importante evoluzione sotto diversi aspetti.

L’obiettivo principale di Ruth Handler, creatrice di Barbie, era che “attraverso Barbie le bambine potessero essere tutto ciò che desideravano. Barbie è sempre stata la prova che le donne avessero infinite possibilità”.

In questi decenni Barbie ha collezionato diverse professioni e culture, ed è stata inoltre musa ispiratrice per tantissimi stilisti, tra cui Dior e Givenchy.

Ma oggi qual è il purpose, ovvero lo scopo ultimo di Barbie? La risposta di Andrea Ziella è stata “ispirare il potenziale infinito che c’è in ogni bambina”.

Soprattutto in questi ultimi anni il Brand si è evoluto in maniera notevole: dal 2014, il focus su Barbie è iniziato a cambiare e a dedicarsi su cosa possedeva (what she owns), nel 2016, era importante ciò che era (what she is), infine dal 2018 è diventato cosa ispira alle persone (what she inspires).

Il concetto di diversità è altrettanto sempre più presente, in quanto oggi Barbie conta più di 35 tipi diversi di colori di pelle e più di 94 tipologie di capelli.

Che dire invece del corpo di Barbie? È sempre stato molto discusso e criticato soprattutto per il fatto che non fosse affatto inclusivo, motivo per il quale negli anni si è cercato di creare nuove “shapes”, corporature differenti, che ad oggi sono più di 9.

In seguito a questi numerosi cambiamenti, il Brand ha fatto rumore a livello internazionale, tanto che il Time ha dedicato una copertina proprio all’iconica Barbie. Questo fatto è particolarmente rilevante in quanto il Time non dedica spesso copertine del proprio magazine a dei Brand, a meno che, come in questo caso, valga la pena raccontare una determinata storia.

Oggi, le Barbie non sono più semplici giocattoli, ma delle Role Models con l’obiettivo di rappresentare un punto di riferimento per le bambine di tutto il mondo.

Nel caso dell’Italia, Barbie ha preso le sembianze di numerose donne in grado di ispirare le bambine, quali Samantha Cristoforetti, Elisa Toffoli, Rosanna Marziale e anche la più recente Estetista Cinica (con la quale Barbie ha inoltre realizzato lo scorso 8 marzo una campagna per ispirare le bambine e parlare di empowerment femminile).

Ecco perché oggi il Brand parla spesso anche di riduzione del dream gap project, ovvero ciò che separa le bambine dal loro vero potenziale.

Questo è uno dei casi in cui un Brand ha fatto un cambiamento radicale nel corso degli anni e oggi riscontra sempre più successo.

 

Comunicare in coerenza o anche come non dimenticare che il contesto è decisivo per la creatività con Danilo Crocetto di NeN

Spesso capita di vedere per alcune città dei manifesti interessanti e insoliti di un nuovo Brand chiamato NeN: messaggi che attirano l’attenzione e che sicuramente non passano inosservati.

Di cosa si occupa NeN? Danilo Crocetto, Marketing & Communication Manager, ci ha raccontato che NeN è un fornitore di luce ed energia.

Ciò che la distingue dagli altri competitor del settore è la sua strategia di comunicazione che le ha permesso di farsi conoscere maggiormente e di non passare inosservata.

L’energia di NeN crea empowerment, abilita a qualcosa di nuovo e non è assolutamente vista come elemento solamente a livello economico o solamente come elemento fondamentale che serve ogni giorno.

Un aspetto determinante che porta questa azienda a raggiungere i notevoli risultati in ambito marketing è il fatto che il suo team sia composto soprattutto da persone che arrivano da contesti quali marketing, comunicazione e digitale, che di conseguenza non sono esperte di come vendere energia ma di come renderla unica agli occhi dei clienti o potenziali clienti.

Danilo ha fatto degli esempi per poter far comprendere a pieno il loro modo di comunicare con gli utenti, dato che i messaggi creati da loro sono completamente diversi rispetto a quelli ai quali l’utente è normalmente abituato.

NeN pensa che in questo sia un mercato che abbia bisogno di una serie di elementi in grado di isolarlo dal contesto. Non bisogna raccontare un messaggio in maniera astratta ma cercare prima di tutto di immedesimarsi nella situazione in cui l’utente si trova, per poterlo comprendere e partire così da quella situazione per creare un’esperienza di comunicazione che sia coerente sia al messaggio che si vuole mandare sia al contesto del momento di fruizione.

L’utente medio è interessato al servizio, qualunque sia il fornitore, quindi le differenze del fornitore del servizio devono emergere a partire dall’esperienza e i contenuti che devono essere contestualizzati e in linea con quello che è il tone of voice e il modo di raccontare il mondo dell’energia.

Il linguaggio utilizzato è abbastanza ironico perché aiuta a staccarsi dall’idea comune e permette di far capire che non si sta parlando semplicemente di gas, ma di una azienda che è anche in grado di dare un ottimo servizio.

Queste testimonianze fornite da quattro professionisti rappresentanti di quattro aziende completamente diverse tra loro ci hanno dato modo di comprendere quanto sia fondamentale al giorno d’oggi distinguersi dai competitor e risultare unici agli occhi delle persone, e per farlo quale modo migliore di costruire e raccontare, attraverso una efficace strategia di comunicazione o altri strumenti di marketing, la propria storia?

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Economia, StartUp e Fintech

Come si sta trasformando il nostro modo di pagare?

Speciale #WMF

L’universo dei mezzi di pagamento è costellato da tantissimi strumenti che i cittadini e imprese possono scegliere per effettuare transazioni e gestire le proprie finanze: sono molte le nuove soluzioni nate negli ultimi anni per soddisfare le necessità di efficienza, velocità, sicurezza, trasparenza e lotta alle frodi.

La prima di un ciclo di conferenze sull’Economia dei Pagamenti fu organizzata dalle FED di Atlanta e di New York nel 2004 e inaugurò la nascita dei pagamenti come branca di studio di economia a sé stante.

Per una panoramica sulle innovazioni e i trend futuri il Web Marketing Festival ha accolto molti protagonisti e studiosi del settore dei pagamenti al Palacongressi di Rimini.
 

Primo giorno

Il 15 luglio Mariano Spalletti, Country Manager Italia di Qonto, e Stefano Schiavio, Head of Financial Parterships di Satispay, hanno tenuto l’intervento “Rivoluzione Fintech: la semplificazione digitale per lo small business”.

Mariano Spalletti ha ricordato i due problemi principali che ostacolano la digitalizzazione delle imprese in Italia ovvero un fattore culturale che porta le imprese stesse ad essere avverse all’innovazione digitale e al testare per prime nuove soluzioni e un fattore strutturale ossia un tessuto economico dove prevalgono piccole e medie imprese. Nonostante l’Italia parta da una posizione non favorevole rispetto alla media UE per quanto riguarda il livello di digitalizzazione delle imprese, l’ultimo periodo ha visto un rapido cambiamento verso un recupero. La digitalizzazione è un fattore di necessità e le imprese che la ignorano rischiano di perdere fatturato e clienti.

Stefano Schiavio ha citato invece il problema dei costi elevati che devono sostenere i commercianti e che li rendono restii ad accettare pagamenti elettronici e digitali, considerati un peso piuttosto che alleati in grado di fidelizzare i clienti. Le soluzioni proposte da Satispay consentono di gestire i pagamenti in maniera più efficiente e semplice abbattendo molti costi. L’abbattimento di alcune barriere all’innovazione permette dunque alle imprese di digitalizzare molti processi e i numeri dicono che la digitalizzazione degli strumenti di pagamento è in crescita. Il contante è oramai inefficiente, costoso e scomodo da utilizzare ma anche le carte di pagamento di plastica sono destinate a scomparire, così come le carte memorizzate sullo smartphone perché nonostante il supporto sia diverso rimangono le medesime procedure da seguire per effettuare una transazione così come i costi e le inefficienze. L’applicazione di Satispay è slegata da carte e permette di pagare a distanza mediante QR code.

La start up francese Qonto invece si rivolge alle imprese e tra i vari servizi che propone figurano carte virtuali, un’applicazione per gestire bonifici e addebiti nonché le spese del team e dipendenti senza ricorrere a note spese e ambisce in futuro a digitalizzare tutto il flusso di lavoro delle imprese.

Schiavio continua parlando del divario tra i piccoli rivenditori e i grandi marketplace come Amazon che si è ulteriormente allargato durante la quarantena dello scorso anno ma ciò ha portato alcune aziende a prendere la decisione di innovare. Satispay supporta gli imprenditori anche su questo lato in quanto la registrazione della propria attività sulla loro piattaforma permette di avere visibilità in modo gratuito e vi è la possibilità di creare così un canale digitale per comunicare i propri servizi ai clienti come la consegna a domicilio. Satispay nasce come azienda B2C ma ha stretto collaborazioni anche con varie banche affinché sia proposto il servizio ai loro clienti.

Il 15 luglio è intervenuto da remoto anche Demetrio Migliorati, Head of Innovation di Mediolanum, sull’argomento della moneta digitale delle banche centrali (ne avevamo parlato qui). Migliorati ha introdotto un aspetto di interesse: la programmabilità, in grado di rivoluzionare il concetto di moneta rendendo il denaro una piattaforma configurabile con logiche libere. La programmabilità della spendibilità permetterà di porre limiti ai pagamenti, ad esempio vietando la spendita di una somma di denaro ricevuta da un ente pubblico presso rivenditori con un certo codice Ateco.

Il 14 luglio 2021 l’Unione Europea ha dato il via all’indagine per un euro digitale che durerà 24 mesi. La maggior parte dei progetti di moneta digitale a livello mondiale così come molte nuove soluzioni di pagamento e autenticazione valutano l’utilizzo della tecnologia Distributed Ledger e Blockchain per l’implementazione.

Ospite dell’area Expo era anche Esendex, azienda con sede centrale a Nottingham e da qualche settimana presente anche in Italia: come ha detto il suo Head of Sales Carmine Scandale, Esendex offre una piattaforma cloud computing ed è il principale brand nell’area EMEA per le attività di comunicazione mobile di tipo B2B. Con questa piattaforma è possibile per le aziende inviare comunicazioni ai clienti per ingaggiarli e fidelizzarli, nonché inviare solleciti di pagamento che rende la riscossione dei debiti più rapida ed economica. La soluzione per i pagamenti prevede l’invio di un messaggio da parte dell’azienda ai clienti per richiedere il pagamento del debito attraverso l’accesso a un link annesso. Perché è stata scelta la modalità dell’sms? Una ricerca dell’osservatorio del Politecnico di Milano ha rilevato che il 93% delle persone che riceve un sms lo apre entro soli 3 minuti. Tra gli altri servizi offerti da Esendex ci sono soluzioni rivolte ai fornitori di utenze e ad operatori sanitari per migliorare i rapporti con i clienti e comunicare con loro in maniera efficiente.

Merita una menzione l’intervento di Sandro Vecchiarelli di Pomiager che ha parlato della tecnologia Self Sovereign Identity tramite la quale potremo comunicare la nostra identità sul web e nella vita reale in maniera più funzionale. In Europa è attualmente operativa una task force per il passaggio dalla tecnologia attuale eIDAS a quella ISS. Gli ambiti di applicazione della ISS sono numerosi: autenticazione, pagare su e-commerce e tenere un registro con tutte le ricevute digitali, accedere a servizi finanziari senza compilare lunghi moduli, contrastare l’antiriciclaggio, condividere solo le informazioni necessarie per accedere a servizi, richiedere un prestito dimostrando il nostro merito creditizio risultante dai dati del nostro profilo. I vantaggi sono molteplici e di grande portata se pensiamo che il credito potrebbe diventare più accessibile e l’identificazione delle persone più facile.
 

Secondo giorno

Il 16 luglio nello Start up District si sono tenuti i pitch di alcune start up operative in diversi ambiti tra cui finanza, salute, e-commerce, agritech & food.

Il primo pitch è stato della start up fintech Cibuspay: uno dei co-founder in 5 minuti ha spiegato il problema della complessità per le aziende nel pagare i pasti ai propri dipendenti e come loro lo hanno risolto. I fondatori di Cibuspay hanno un ristorante a Bolzano ed hanno ben presente i problemi di liquidità dei ristoranti derivanti dai pagamenti differiti delle fatture. Cibuspay è una soluzione completamente digitale grazie alla quale l’azienda assegna un budget ai propri collaboratori e questi ultimi possono pagare il loro pasto anche direttamente dal tavolo in maniera semplice e veloce. Il ristorante accetta il pagamento tramite ricezione di una notifica ed entro fine settimana riceve il pagamento, la burocrazia è azzerata facendo risparmiare tempo prezioso ai ristoratori.

Flywallet è un’altra start up fintech presentata dal suo founder Lorenzo Frollini che si propone di rendere i pagamenti più sicuri mediante un dispositivo indossabile che permette un’autenticazione biometrica risolvendo varie problematiche tra cui le frodi. Con questo dispositivo da polso è possibile anche accedere a molti altri servizi tra cui l’acquisto di biglietti per il trasporto pubblico avvicinando il wearable al tornello, conservare tutte le carte fedeltà e i badge, memorizzare i documenti di identità e grazie alle funzionalità Smart Health è possibile monitorare alcuni parametri vitali. Frollini conclude facendo notare che il mercato dei wearable è fortemente in crescita così come i dispositivi medici indossabili.

Infine, all’interno dell’iniziativa World Start up Fest si è tenuto l’evento dedicato alle scale up internazionali ScaleUp forFuture. Per il nostro settore di interesse hanno partecipato Sumup che vuole offrire prodotti facilmente accessibili anche dalle piccole attività e liberi professionisti come lettori di carte e soluzioni di riscossione da remoto; Revolut che è definita una super app finanziaria dai founder che hanno l’obiettivo di rafforzare la situazione finanziaria delle persone che si affidano a loro. Nel 2020 hanno allargato l’operatività includendo gli Stati Uniti e hanno ricevuto l’abilitazione all’open banking.

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Economia, StartUp e Fintech

L’intelligenza artificiale che unisce ricerca clinica e supporto del paziente in terapia: intervista ad Alessandro Monterosso di PatchAi

Agevolare il percorso dei pazienti sotto terapia e allo stesso tempo raccogliere dati utili alla ricerca clinica in maniera efficiente utilizzando un’applicazione semplice e intuitiva che sfrutta l’intelligenza artificiale puntando al coinvolgimento del paziente: questa è la missione di PatchAi una startup italiana fondata da Alessandro Monterosso, imprenditore, ex infermiere, Forbes under 30 e tech enthusiastic che ci ha raccontato meglio la sua storia, com’è giunto all’idea fino ad arrivare a quello che è oggi la sua startup di tech health.

 
Alessandro, partendo da te, ci racconteresti un po’ del tuo percorso professionale? Tra le cose che hai fatto ho visto spuntare anche un Forbes under 30 e una tappa nella Silicon Valley…

Nasco come infermiere pediatrico e negli anni ho portato avanti la mia formazione sia in ambito infermieristico e di ricerca che in ambito economico-manageriale. Dopo la triennale in Infermieristica a Padova mi sono specializzato in Ricerca Applicata all’Università di Trieste e ho iniziato a lavorare in corsia come infermiere di ricerca dove conducevo i famosi clinical trials per i test di nuovi farmaci da mettere in commercio con focus in oncologia e pediatria. Durante quegli anni ho lavorato anche come autore e redattore di manuali di infermieristica, ma sono sempre stato interessato all’uso della tecnologia in ambito sanitario, per questo decisi di mollare tutto e conseguire un master in Economia Sanitaria Internazionale presso l’Università Bocconi. Proprio in questa occasione ho conosciuto quelli che sarebbero poi diventati i co-fondatori di PatchAi. Subito dopo il master ho iniziato a lavorare per una casa farmaceutica nel campo del marketing centrato sul tipo di paziente donna in gravidanza. Da lì nasce la startup passando per vari percorsi di accelerazione sia in Italia che in Europa, ma soprattutto in Silicon Valley. Nel frattempo, sono stato nominato, giusto l’anno scorso per i miei trent’anni, tra i Forbes under 30 health care.

 
Arrivando proprio alla tua startup: cosa fa PatchAI, perché è davvero innovativa? Ci racconti un po’ la storia dietro la startup?

Quando lavoravo come infermiere di ricerca mi resi conto che la maggior parte della comunicazione tra il personale sanitario e i pazienti, specialmente tra una visita e l’altra una volta tornati a casa dall’ospedale, avveniva via fax oppure via mail o WhatsApp. Contemporaneamente mi accorsi che alcune case farmaceutiche adottavano delle soluzioni digitaliper la raccolta di dati molto importanti sulla salute paziente e di estremo valore riguardo l’efficacia dei farmaci; tuttavia queste soluzioni digitali erano un po’ “giurassiche”, i famosi PDTA di una volta, che servivano a ben poco dato che i pazienti tendevano a utilizzarli di rado e non riuscivano a riportare i dati tempestivamente e soprattutto desideravano comunque utilizzare WhatsApp per raccontare all’infermiere e avere un riscontro, in altre parole necessitavano di una naturale e comprensibile relazione terapeutica tra professionista sanitario e paziente. Partendo da questi presupposti, da nerd quale sono, cominciai a interessarmi alle tecnologie conversazionali come i chatbot, e mi chiedevo se fosse possibile trovare una soluzione che da un lato raccogliesse i dati nel modo migliore: in tempo reale e di qualità, ma che dall’altro lato potesse simulare la relazione terapeutica ed empatica tra infermiere e paziente: da lì il concetto della nostra startup. L’innovazione deriva proprio dal fatto di aver unito questo concetto di relazione terapeutica, proattività e coinvolgimento del paziente, con la raccolta dati, il tutto reso possibile da questo chatbot all’interno della nostra tecnologia, definita Co-PRO® technology. Con questo meccanismo andiamo a lavorare sui dati comportamentali dei pazienti, le loro preferenze e necessità per personalizzare in tempo reale l’applicazione ad ogni singolo utente in modo tale che rispecchi, guidi e migliori il percorso di ciascuno all’interno dei clinical trials. Il valore aggiunto è dato dall’insieme di, come abbiamo detto, personalizzazione, conversazione empatica e comprensione dell’engagement del paziente con il cosiddetto engagement score, questo dettaglio è fondamentale perché influisce tantissimo sull’aderenza alla terapia. Il punteggio si ottiene dalla compilazione di questionari e diari e arriva ai ricercatori per far sì che sappiano anticipatamente quello che può succedere al paziente in termini di aderenza durante lo studio clinico.

 
Il target sono i pazienti in terapia, i quali possono essere anche anziani, come avete fatto a risolvere il problema degli utenti senior con le nuove tecnologie?

Il nostro target indiretto, quello delle cause farmaceutiche, sono proprio persone over 50 e sin dall’inizio abbiamo incluso il punto di vista dei pazienti esperti, dei medici ma anche di coloro meno esperti; quindi il disegno della nostra soluzione, da come è stato ideato, è quanto più possibile semplice con l’assistente virtuale che riesce davvero a guidare l’utente e seguire alcune richieste al momento giusto e nel modo giusto. Seguendo le linee guida della buona user experience, l’applicazione risulta una sorta di WhatsApp e quindi estremamente semplice e intuitiva con delle risposte veloci che aiutano l’utente.  Abbiamo osservato che il prodotto, riguardo l’usabilità non presenta differenze significative tra l’utente 18enne e quello 60enne, il che è molto positivo dal nostro punto di vista perché le due fasce lo credono usabile allo stesso modo.

 
Riusciresti a spiegare a chi non è del settore quali sono le più grandi difficoltà che incontra la ricerca? In che modo l’app riesce a risolvere parte dei problemi?

Uno dei punti dolenti della ricerca è il tasso di abbandono, soprattutto quando si stanno studiando dei farmaci che servono a trattare patologie lunghe e complesse, con i pazienti stessi che hanno già provato diverse terapie che purtroppo non hanno funzionato e sono afflitti da patologie importanti che li pongono in una condizione molto particolare sia dal punto di vista fisico che psicologico, ecco allora che otteniamo l’elevato drop out rate: oltre il 30% dei pazienti esce dallo studio dopo 6 mesi. Questo è comprensibile se si pensa che un paziente, oltre al già gravoso problema di salute, deve compilare un questionario di una decina di domande ogni giorno, assumere tre o quattro medicinali alla volta ognuno in modo diverso: si crea un immenso patient burden come viene chiamato in gergo e la persona comincia a perdere di vista il trattamento e non seguire più quelle regole strette che, le prove in modo particolare, impongono. Come si può immaginare, i risultati sono: aumento di costi e una gestione non ottimale del proprio stato di salute oltre che un report poco affidabile sulla terapia in sé. Un altro aspetto da considerare è, come accadeva soprattutto in passato, il fatto che i pazienti sottoposti a queste sperimentazioni si sentono trattati come cavie da laboratorio (basti pensare ai termini come “arruolamento” o “soggetti” spesso usati anche in questo settore). Noi abbiamo provato a fornire una soluzione a questi grandi problemi mettendo il paziente al centro e puntando sul suo coinvolgimento e sul fatto che debba ricevere un valore di ritorno e non solo l’obbligo di dover dare, il tutto adottando una soluzione digitale e risolvendo quindi anche il problema dei questionari su carta difficili da gestire. Se digitalizzarsi prima era un nice to have ora è un must e non solo per quanto riguarda i questionari, ma anche per la cura in sé e la pandemia ha accelerato ancora più questo cambiamento: basti pensare ad un report di Accenture secondo il quale 4 terapie su 5 sono state bloccate perché non era possibile portarle avanti poiché non utilizzando soluzioni digitali c’era ancora bisogno della carta e della presenza fisica. In tutto questo l’intelligenza artificiale fa presto a inserirsi, noi la utilizziamo per andare a lavorare, come dicevo prima, sui modelli che cercano di comprendere il comportamento degli utenti in merito all’aderenza al percorso diagnostico-terapeutico rispondendo in maniera automatica e semi automatica alle funzionalità dell’app.

 
Come hai fatto a trovare un buon team che ti supportasse e sapesse svolgere le mansioni più tecniche come AI, app development e UX design?

Quando si tratta di team e startup, uno degli aspetti fondamentali a cui abbiamo sempre pensato all’inizio è che non volevamo costruire una software house che progettasse dei prodotti da immettere e modificare continuamente secondo le richieste del mercato e del cliente che ce la commissionava. Abbiamo quindi pensato ad un prodotto unico che doveva essere portato avanti da delle “superstar” adesso chiamate patchers che sposassero la causa, la visione dell’azienda; soprattutto ad oggi, in un mercato in cui figure come UX designers, product manager o ingegneri informatici sono abbastanza richieste e trovando facilmente lavoro, si rischia di avere un alto turnover nel team; da subito abbiamo cercato solo persone che sposassero la nostra visione: migliorare la ricerca clinica con il focus sull’engagement del paziente e quindi lavorare ogni giorno sviluppando soluzioni smart con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita di queste persone e guardando all’esigenza degli stakeholder coinvolti.

 
Qual è per te la parte più bella, quella di cui vai più fiero del progetto e ciò che invece magari vorresti ancora migliorare o implementare?

La parte più bella ad oggi è quella di essere riuscito a rendere realtà ciò che era soltanto un’idea e aver costruito un team che è diventato una famiglia dove non ci reputiamo un’azienda tradizionale ma una startup super dinamica e giovane, dove ognuno ha interesse, oltre che professionale, anche personale nel costruire relazioni con gli altri membri che hanno tutti l’obiettivo comune di raggiungere la vision; questi due sono gli aspetti che mi gratificano di più. Nonostante io abbia mollato la mia carriera in prima linea, riuscire a supportare i pazienti in maniera diversa, ma sempre con qualcosa di concreto che dia un impatto molto più grande di quello che potevo avere io sul singolo paziente, è molto più motivante ed è grazie al team che siamo arrivati qui.

Come vediamo il futuro? Di sicuro roseo, vogliamo crescere arrivando a 100 dipendenti e riuscire a supportare oltre 50 clienti e oltre 100 clinical trials nei prossimi cinque anni, il che significa sostenere diverse migliaia di pazienti riuscendo realmente a migliorare, tutti assieme, il futuro della sanità rendendola quando più possibile smart, empatica e accessibile. Vogliamo diventare market leader a livello europeo dove vediamo che c’è una forte mancanza rispetto all’America a livello di soluzioni. Essendo pionieri del Co-PRO®, che è il nuovo modo conversazionale di raccogliere i dati rispetto a quello che veniva chiamato lo standard di mercato e-pro, mi piacerebbe vedere questa tecnologia adottata ad un livello sempre maggiore: utilizzata da migliaia di pazienti e case farmaceutiche.

 
Un’avventura da startupper che ti porti dietro o in generale un suggerimento che adesso daresti a chi vuole iniziare a fare impresa e innovare?

Continuare a perseverare sull’idea che va raccontata a più persone possibili, anche se è ancora molto presente la convinzione che qualcuno possa rubarci l’idea se la raccontiamo, posso affermare che non è così perché quello che conta maggiormente è l’execution: tutti abbiamo mille idee ogni giorno, ma tra l’idea e il concreto c’è un mondo, nessuno ti ruba l’idea dall’oggi al domani perché, come puoi immaginare, ci vogliono tanti soldi, persone e energie per riuscire a portarla almeno in fase di prototipazione. Il consiglio è dunque quello di perseverare, raccontare il più possibile e partecipare tanto alle competizioni tra startup, avere quanto più possibile un ritorno dagli stakeholders e riuscire a costruire un network. Un dettaglio di cui vado fiero è che abbiamo vinto oltre il 95% delle competizioni sia a livello nazionale che internazionale, ma la gratificazione di vincere i ticket, i crediti o i voucher non è la cosa in assoluto più importante, sono proprio le connessioni che si creano, è il rumore che fai entrando in contatto con persone brillanti che ti possono aiutare e con cui si può avere uno scambio alla pari che fanno la differenza. Quando partecipi alle competizioni trovi sempre giurie diverse che ti fanno mettere costantemente in discussione il modello di business, la struttura aziendale, il prodotto e questo ti arricchisce enormemente, perché lavorando continuamente alla tua idea sviluppi il “bias dei paraocchi” e quindi avere punti di vista sempre nuovi e diversi aiutano a definire l’idea stessa. Come puoi immaginare dalla concezione iniziale di PatchAi ad adesso è tutta un’altra cosa com’è normale che sia, le giurie sono lì apposta per instillarti

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Economia, StartUp e Fintech

Metodi alternativi di pagamento, leggere attentamente le istruzioni prima dell’uso

I contanti stanno lentamente lasciando il posto alla moneta elettronica. Il problema è che gli utenti che utilizzano i nuovi strumenti di pagamento non sono sempre a conoscenza delle condizioni di utilizzo.

Sul sito della BCE è possibile trovare una definizione della moneta elettronica: deposito elettronico di valore monetario su un dispositivo che può essere utilizzato per effettuare pagamenti a soggetti diversi dall’emittente. Il dispositivo funziona da strumento al portatore prepagato che non coinvolge necessariamente un conto bancario. Istituti di credito, così come istituti finanziari e non, possono emettere moneta elettronica previa autorizzazione.

 

Lettera dalla FCA

Data la crescita dei servizi di pagamento e del settore della moneta elettronica, alcune istituzioni ed enti regolatori hanno sottolineato la loro preoccupazione per la mancanza di sufficienti informazioni in circolazione che consentano alle persone di prendere decisioni con consapevolezza; in particolare l’ente inglese (financial conduct authority) ha messo in guardia alcune società dal paragonarsi a banche.

Il Financial Times in un suo recente articolo cita la lettera che il direttore del dipartimento di supervisione dei pagamenti della FCA Paul Roe ha inviato ad alcune delle più importanti start-up e imprese con licenza per emissione di moneta elettronica per invitarle a informare in maniera più puntuale i loro clienti delle condizioni dei loro servizi, in particolare dovranno scrivere entro 6 settimane ai clienti informandoli dei rischi che corrono a depositare il denaro in conti non protetti dal Financial Services Compensation Scheme (il corrispondente italiano è il Fondo interbancario di Tutela dei Depositi). Seguiranno controlli a campione da parte dell’ente.

Le preoccupazioni si sono accentuate in seguito al fallimento dell’impresa tedesca Wirecard dello scorso anno (qui un articolo completo del Sole24ore), i cui clienti si sono trovati improvvisamente con la carta di pagamento bloccata. I clienti sono riusciti a tornare in possesso del loro denaro, ma non è detto che possa finire bene la prossima volta che si presenta una situazione simile.

I soldi tenuti in conti online (e-money accounts) offerti da alcune imprese non sono protetti dalla garanzia sui depositi ordinari e dunque in caso di fallimento dell’impresa i clienti potrebbero subire ritardi prolungati per recuperare il denaro o rischiare di perderne una parte, senza dimenticare che molte persone che utilizzano questi strumenti alternativi per conservare del denaro lo fanno perché hanno difficoltà ad aprire un conto in banca e dunque sono i più vulnerabili a un improvviso blocco o perdita dei fondi nel conto.

 

Il messaggio della FED

Il 20 maggio un messaggio in tema trasparenza e sicurezza è arrivato anche dagli Stati Uniti: il presidente della   Jerome Powell ha tenuto un comunicato stampa per delineare la risposta della Banca centrale degli Stati Uniti ai cambiamenti del sistema dei pagamenti portati dall’innovazione tecnologica. Powell ha dichiarato come la FED stia monitorando le innovazioni che stanno trasformando il settore dei pagamenti, delle banche e della finanza. Ha continuato affermando il fatto che l’effettivo funzionamento dell’economia americana richiede che le persone abbiano fiducia non solo nel dollaro ma anche nelle banche, nel sistema dei pagamenti e nei fornitori dei servizi che permettono il flusso di moneta quotidiano. Powell ha voluto sottolineare il fatto che non siano presenti pregiudizi verso l’innovazione citando alcuni grandi traguardi del passato come l’introduzione dei bonifici e il nuovo servizio FED Now Service che verrà lanciato nel 2023. Sono state citate le criptovalute, considerate però non d’aiuto come un comodo metodo di pagamento per via della loro alta volatilità nel valore; gli stablecoin invece sono potenzialmente più efficienti dal momento che il valore è legato a una valuta ma possono ugualmente essere rischiosi per i clienti e l’intero sistema. Nonostante il loro valore sia legato all’andamento di una valuta, gli stablecoin non offrono le stesse protezioni di altri mezzi di pagamento.

Powell ha sottolineato dunque che sono proprio le imprese che offrono questi nuovi metodi di pagamento ad essere sotto la lente d’ingrandimento delle autorità, per il fatto di non essere sottoposte alle stesse norme a cui devono invece sottostare le banche tradizionali e altre istituzioni.

Infine, ha annuncia il proseguimento delle ricerche per l’implementazione di una moneta digitale della banca centrale (ne avevo parlato qui: cosa sono le CBDC) e la pubblicazione dei risultati per l’estate prossima.

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Economia, StartUp e Fintech

Crypto art e NFT: intervista ad Andrea Concas

In queste ultime settimane gli NFT sono stati associati a qualsiasi settore, hanno avuto una crescita esponenziale e i prezzi dei token macinano record su record.

Tra i campi di applicazione più interessanti vi rientra a pieno titolo l’arte. Vediamo in questa intervista quali sono i cambiamenti che gli NFT possono portare in questo settore e come si sta muovendo l’imprenditore Andrea Concas, fondatore delle startup Art Backers e Art Rights e creatore, tra le altre, di AB Gallery, una rete di gallerie che propone un nuovo concetto di arte attraverso una selezione di opere d’arte di artisti e fotografi contemporanei e storicizzati.

Ciao Andrea, ti chiedo di presentarti ai nostri lettori con un focus sul tuo percorso di studio e quanto esso abbia effettivamente influenzato le tue scelte future.

“Sono Andrea Concas e sono un imprenditore, un art tech entrepreneur. Mi occupo di come le tecnologie possano supportare il mondo dell’arte e i suoi player, prima di tutto gli Artisti. Lo faccio con una startup innovativa, Art Rights, che si occupa della certificazione delle opere d’arte e sono docente e keynote speaker di tematiche legate al Marketing Culturale e Digital Innovation legate all’imprenditoria nel mondo dell’arte. Quindi, in questo campo, buona parte di me è anche divulgativa, affrontando a 360 gradi queste tematiche: Arte, Innovazione e Tecnologia.

Dal punto di vista formativo ho una laurea in Marketing del turismo, poi mi sono specializzato in Management dei beni e servizi culturali e successivamente un master di specializzazione all’Harvard University legato alla digital innovation, quindi, dedicato ai mercati innovativi.”

Da dove nasce il tuo interesse nell’arte? C’è stato un episodio che ti ha avvicinato a questo mondo?

“Ho avuto la fortuna di nascere in mezzo all’arte. Mio padre è uno Storico dell’Arte e Museologo ed è stato direttore di Musei Statali, per questo fin da bambino ho vissuto da vicino questo settore. Di pari passo avevo un interesse verso le tematiche del marketing e del turismo e poi mi sono specializzato nel management dei beni e servizi culturali.

Avendo avuto la fortuna di vivere fin da bambino il mondo dell’arte e lavorando con mio padre, da lì è stato naturale proseguire e trovare la mia strada.”

Perché, secondo te, gli NFT non sono una moda passeggera e cos’è “Art Rights”?

“È ancora presto per dire che gli NFT NON siano una moda passeggera. Gli NFT sono un’applicazione di una tecnologia. È molto difficile in questo momento, in cui per giunta c’è grande interesse derivante dalle grandi movimentazioni di mercato, prevedere gli sviluppi futuri.

Quello che posso dire è che sicuramente non sarà una moda la tecnologia Blockchain, che offre la possibilità di rendere le informazioni incorruttibili e immodificabili perché registrate su una rete di database distribuiti. In tal senso, nel mondo dell’arte, come in altri settori, essa può rientrare a vario titolo: nella gestione dei contratti, nella gestione dei diritti primari o secondari legati alle opere d’arte, e nel mercato.

Gli NFT sono un fenomeno di assoluto interesse. Art Rights, in tal senso, ci sta lavorando da molto tempo, ma la visione è quella di lavorare, paradossalmente, per l’autenticazione e la certificazione delle opere d’arte fisiche dove avvengono la maggior parte degli scambi sul mercato.

Gli NFT sono una declinazione, derivata dall’utilizzo di questa tecnologia, per le opere digitali. Lì è perfetta, ma in questo momento il mercato dell’arte digitale ha dei numeri relativamente bassi.
È vero che sono stati transati oltre 400 milioni di dollari negli ultimi mesi, ma il mercato dell’arte ne vale 50 miliardi secondo l’ultimo Report di UBS e Art Basel, quindi ancora non stiamo parlando di cifre rilevanti e, per giunta, dei 400 milioni, non tutte sono transazioni di crypto arte.”

Pensi che gli NFT possano democratizzare il mondo dell’arte permettendo a tutti di poter pubblicare le proprie creazioni e, in futuro, portare l’arte digitale al pari di quella fisica?

“In realtà no, nel senso che non saranno la Blockchain o gli NFT a ricoprire il ruolo di panacea dei mali dell’arte. Oggi chiunque può creare un’opera d’arte, nessuno lo vieta. Il problema sarà venderla, sarà trovare una valenza culturale, e anche gli NFT avranno i medesimi problemi. Quindi, quello che potrà portare in questo momento è un nuovo mercato e, di conseguenza, nuova linfa economica.

Ma in questo momento, questo mercato non ha nulla a che fare con il mondo dell’arte, se non per il passaggio di Christie’s dell’opera di Beeple da quasi 70 milioni di dollari.

Il mondo degli NFT è basato su regole del mondo crypto, quindi crypto economie e criptovalute, che hanno dinamiche proprie. Cosa diversa è, invece, quello dell’arte. A tutti piace pensare che la tecnologia possa risolvere le problematiche generali del mondo dell’arte, ma in questo mondo l’innovazione è di processo e non tecnologica. La tecnologia può supportare i cambiamenti, a patto che siano accettati dagli stessi player del settore.

Sicuramente gli NFT danno una possibilità ad alcune categorie di artisti di trovare il proprio spazio nel mercato (cosa che già i social network permettevano di fare). Infatti, oggi ci sono artisti che godono di grande attenzione da parte del proprio pubblico e riescono a vendere le opere senza passare dai canali canonici di validazione e vendita delle opere quali case d’asta o gallerie, ma vendendo direttamente al pubblico.

Quindi gli NFT, in tal senso, vanno a tagliare una serie di intermediari i quali, però, non sono solo dei distributori, ma portatori di valore, di validazione e di collaborazioni, andando a contribuire anche per quanto riguarda il valore culturale di un’opera. Noi non possiamo pensare ad un mondo dell’arte senza queste validazioni.

Poi, che si voglia disegnare su un foglio o creare un file digitale, non c’è nessuna legge che lo vieta.”

Qual è, secondo te, il fattore chiave che permette di diventare dei crypto artist? Cosa distingue artisti come Beeple rispetto a uno sconosciuto che fa un collage di 5000 immagini?

“Chiunque può tagliare una tela, ma ciò non vuol dire che questa sia un Lucio Fontana. Non è esclusivamente l’atto in sé o il collage. Beeple non è un classico artista ma un illustratore, non ha mai avuto un percorso di validazione nel mondo dell’arte. Questo è stato lo shock, il corto circuito, più grande.
Beeple è il terzo artista più venduto nel mondo pur non avendo uno storico, un curriculum. Ha certamente lavorato per grandi marchi, ma come illustratore. Le sue opere non sono state esposte al MoMA o battute all’asta prima di quel fatidico 11 marzo 2021. Con gli NFT se hai carta e penna o se hai un computer con Photoshop, con tecnica e una visione, puoi creare delle opere.

Ma, per rispondere alla tua domanda, innanzitutto bisogna dire che Beeple, al contrario, non era affatto uno sconosciuto nel settore crypto. Fu, anzi, uno dei primi a usare questa tecnologia, fin dal 2014, vendendo delle opere singole a 6 milioni. La novità è stata il mutamento della community che in quest’ultimo caso è al di fuori del mondo crypto. In questo momento ci sono regole precise nel mondo cripto: terminologia e linguaggio, tone of voice e dinamiche di acquisto tra i collezionisti (come del resto avviene anche nel mondo fisico).

Semplicemente lui aveva tutti i requisiti richiesti da questo nuovo tipo di community. Beeple godeva del supporto della community, chi ha partecipato all’asta di Christie’s e poi chi si è aggiudicato l’opera erano tutti collezionisti di crypto art, portatori di ingenti capitali, reali e non virtuali.

C’è da fare un’importante distinzione tra l’arte e i collectibles. Spesso le opere di cui si parla sono semplicemente delle immagini che la gente compra per collezionarle e non opere d’arte nel senso canonico del termine.

Ad oggi la piattaforma di vendita fa la differenza e, dove il mercato è completamente libero, pubblicare la propria opera su una di queste piattaforme determina, quasi automaticamente, il successo dell’opera e del suo artista.
Quindi, paradossalmente, la piattaforma valida l’artista al pari di un museo o di una galleria.

Tutti vorremmo sentirci dire che questa tecnologia rivoluzionerà il mondo e che tutti potranno diventare artisti milionari ma bisogna guardare con occhio critico e, nonostante come società e startup avrei tutto l’interesse, al momento, a mio avviso, ci sono delle problematiche a livello sociale, fiscale, culturale e deontologico.”

Quali sono i tuoi progetti futuri e qual è la visione di Art Rights?

“Nel nostro caso, che condividiamo il fatto che anche la crypto avrà il suo ruolo, il progetto sarà quello, da un lato, di supportare artisti, collezionisti, professionisti e galleristi nella certificazione delle proprie opere e del corredo documentale affinché ci sia più fiducia in questo mondo e, dall’altro, continuare a implementare la piattaforma di Art Rights, anche attraverso gli NFT, ma selezionando gli artisti a monte, lavorando sulla curatela e assicurandoci che le opere da loro prodotte abbiano sia il diritto di essere tokenizzate sia che abbiano il diritto di “firmare” l’opera a nome loro e che, quindi, effettivamente gli utenti siano verificati.

Creando una community verificata, possiamo utilizzare gli NFT e la crypto art usando le regole del mondo dell’arte ma applicando la tecnologia Blockchain alla base degli NFT. Si crea, in questo modo, un circolo virtuoso in cui l’opera fisica e l’opera digitale possono essere accompagnate da un corredo di verifica di chi e come le abbia fatte e che possa permettere loro anche di guadagnare da questo aspetto.”

Come vedi il mondo dell’arte nei prossimi 10 o anche 20 anni (vista la “lentezza” del settore)?

“Quello che è successo con la crypto ha smosso le acque perché nel momento in cui arrivano grandi case d’asta, come Christie’s e Sotheby’s, sicuramente gli operatori sono obbligati, perché lo sta imponendo il mercato, ad aggiornarsi.

Questo è un momento di grande fermento in cui le tecnologie potranno avere un ruolo sempre più importante. Ora bisogna essere in grado di spiegare ai player quali potrebbero essere i benefici che possono trarre dall’utilizzo. Il mondo dell’arte, che era già affaticato da altre situazioni, come un mercato più chiuso, sta cercando nuove soluzioni e queste soluzioni, legate anche al digitale, potranno dare nuova linfa e accogliere nuovi protagonisti. Il problema starà nell’applicazione di queste regole.

Il mondo dell’arte è capace di prendere tutto questo e sviluppare le sue dinamiche come del resto sta facendo la crypto. Perché è sbagliato associare il mondo crypto a quello dell’arte, che ha le sue regole e dinamiche. Quello che si sta cercando di fare ora è di applicare queste regole al settore della cripto.
Unendole alle opere fisiche, cercando di capire il ruolo delle gallerie, delle fiere d’arte o dei musei.

Per fare questo servirà del tempo e molte di queste riflessioni saranno oggetto di discussione nei prossimi anni: l’unione del fisico e del digitale, delle nuove possibilità di mercato derivate da un pubblico più ampio e, anche, di nuovi collezionisti provenienti dalla crypto art o dagli NFT.”

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Economia, StartUp e Fintech

La tecnologia in finanza, un’evoluzione in corso

Ci sono due aspetti complessi e delicati del mondo finanziario che possono essere supportati dall’innovazione tecnologica: la regolamentazione e la supervisione di questo settore.

Il settore finanziario è il più regolamentato e controllato dalle autorità preposte, e se pensiamo all’ultima crisi finanziaria globale ne possiamo anche comprendere il perché. I principali obiettivi della regolamentazione del settore finanziario sono assicurare stabilità, trasparenza ed efficienza mentre la supervisione è molto importante per verificare che le varie norme vengano rispettate.

La complessità della normativa che regola l’attività delle varie istituzioni finanziarie e il suo continuo aggiornamento comporta costi rilevanti per tali imprese e questo è uno dei motivi per cui è in corso lo sviluppo di tecnologie innovative che possano essere di supporto nell’implementazione, adeguamento e rispetto delle norme; questa declinazione del FinTech (Financial Technology) ossia tecnologia a supporto della finanza, viene spesso definita RegTech (Regulation Technology).

L’altro ambito che ha incontrato il supporto della tecnologia è la supervisione del settore finanziario, dando via al SupTech (Supervisory Technology). Come per la RegTech, la risorsa più importante è rappresentata dai dati grazie ai quali le autorità di vigilanza possono efficientare le loro varie attività di supervisione riducendo tempo e costi.

L’universo di start-up

L’azienda di consulenza e revisione Deloitte ha condotto recentemente uno studio individuando 413 principali aziende dello scenario del RegTech suddividendole in base all’area specifica per la quale offrono i loro servizi innovativi: reporting normativo, gestione del rischio (risk management) che oggi è ritenuto essenziale per scongiurare crisi o affrontarne una imminente, gestione e controllo delle identità ossia facilitare una adeguata valutazione e verifica dell’identità dei clienti oltre a controlli anti-riciclaggio e anti-frode, conformità alle norme (compliance) e controllo delle transazioni.

Tra le aziende leader in questo nuovo ambito figura Corlytics per l’area risk management, che offre servizi a una varietà di clienti quali banche globali e regionali, compagnie di assicurazione, enti regolatori. Corlytics raccoglie, classifica, interroga e analizza automaticamente le norme delle autorità di regolamentazione di tutto il mondo per offrire ai suoi clienti una gestione basata sui Big data.

Il Financial Conduct Authority, l’ente di regolamentazione finanziario inglese, in un articolo sul sito ufficiale parla di circa 1000 start-up attualmente attive nel RegTech e prevede un valore di mercato in crescita, che potrebbe raggiungere €55 miliardi entro il 2025, considerando che l’emergenza sanitaria ha accelerato il processo di digitalizzazione e automazione.

Autorità nel mondo

Tra le prime autorità che hanno utilizzato queste tecnologie ci sono il FCA inglese, l’ASIC in Australia e la MAS a Singapore. In Europa L’EBA, European Banking Authority, ha avviato lo scorso anno una consultazione rivolta ad istituzioni finanziarie e a fornitori di tecnologie dell’informazione e della comunicazione, rimandando alla prima metà di questo anno la pubblicazione dei risultati che possono guidare all’utilizzo di soluzioni RegTech.

In Europa la crisi finanziaria e successivamente quella del debito hanno portato alla luce la necessità di una unione anche sul fronte bancario, ritenuta essenziale per completare l’unione economica e monetaria, ed è stata messa in pratica mediante la costituzione dell’Unione Bancaria Europea che si fonda su due pilastri: il Meccanismo di Vigilanza Unico e il Meccanismo di Risoluzione Unico. Un terzo punto è attualmente in discussione e riguarda la creazione di uno schema unico di garanzia dei depositi. Le moderne tecnologie, l’Intelligenza artificiale e il Machine learning sono strumenti imprescindibili che permetterebbero alle autorità di vigilanza di poter gestire ed elaborare la grande quantità di dati e informazioni con cui lavorano ogni giorno.

La tecnologia non solo può migliorare le performance a tutti i livelli, ma potrebbe cambiare completamente alcuni paradigmi e approcci sin qui utilizzati. Ne è un esempio una dimostrazione avvenuta durante un evento in streaming tenuto dall’ente australiano ASIC: un’impresa ha dimostrato il potenziale di un’intelligenza artificiale che potrebbe valutare il grado di solvibilità di un individuo da alcuni tratti comportamentali e caratteriali e ciò permetterebbe di poter concedere credito anche a clienti di cui si hanno pochi dati oppure clienti di paesi emergenti che hanno difficoltà a dimostrare la propria capacità di rimborsare debiti e, di conseguenza, a ottenere un prestito per le loro iniziative imprenditoriali. I dati psicometrici sono stati comparati con dati storici ed è stata rilevata una affidabilità dei dati psicometrici del 91%.

Cooperazione globale

A livello globale emerge un supporto allo sviluppo di nuove tecnologie che vede il coinvolgimento di molte istituzioni ed enti con diverse iniziative, attività di networking/brainstorming e inviti all’azione.

Lo scorso anno la BIS, Banca dei regolamenti internazionali, e la presidenza saudita del G20 con il supporto di altre importanti autorità hanno organizzato una competizione che invitava a trovare soluzioni per le più grandi sfide della regolamentazione e supervisione finanziaria; i 3 vincitori sono stati invitati a mostrare i loro risultati al Singapore Fintech Festival dello scorso novembre.

Più recentemente durante il G20 tenutosi il 7 aprile è stata sottolineata nuovamente l’importanza di dati precisi e tempestivi a disposizione dei policy makers affinché possano prendere decisioni efficienti, soprattutto durante periodi di crisi come quello attuale. Nel comunicato stampa emerge la necessità di cogliere le opportunità offerte dalla tecnologia per stimolare la ripresa e dare avvio a una nuova iniziativa sulla lacuna dei dati (Data gaps iniziative – DGI). Il DGI del G20 è nato nel 2009 in seguito alla crisi finanziaria ed è un insieme di 20 raccomandazioni per il miglioramento dei dati statistici economici e finanziari che possono essere impiegati dai responsabili politici e le autorità di vigilanza.

Le sfide

I benefici dell’utilizzo delle nuove tecnologie sono dunque tanti in termini di efficienza, risparmio di tempo e denaro, maggiore sicurezza, minori rischi, contrasto alla criminalità, inclusione finanziaria ma rimangono alcune sfide: privacy, attacchi informatici, fiducia verso le imprese RegTech che devono trattare dati delicati, sviluppo competenze specifiche, complessità e varietà di scenari potenzialmente di difficile interpretazione per le macchine sono alcuni dei problemi che saranno al centro delle future discussioni dei player del settore.

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Economia, StartUp e Fintech

#iNspiration: il Capitano Daniel ai confini dei prodotti digitali

Oggi prende il via la nuova rubrica di iWrite: iNspiration.

Lo scopo di iNspiration è quello di viaggiare nelle vite dei nostri ospiti e lasciarci trasportare dai loro percorsi, sperando riescano ad ispirarci e che sicuramente ci regaleranno consigli di cui fare tesoro per il futuro

Il nostro primo ospite è Daniel Romano, un ex iStudent del V ciclo, che torna nella famiglia di iBicocca assumendo un ruolo diverso.

Ciao Daniel, benvenuto in iWrite! Fai un respiro profondo, rilassati e iniziamo: presentati pure ai nostri lettori.

Ciao, mi chiamo Daniel e nella vita sono un digital product designer! Che cosa significa? È molto semplice progetto prodotti digitali, soprattutto le App (native o web), poi gli e-commerce, i siti web, le landing page, ecc!

Sapete cosa penso? Progettare è un superpotere! È un atto di creazione, infatti durante un processo progettuale si individuano le necessità di qualcuno, si immagina qualcosa che prima non esisteva e che possa rispondere a queste necessità e lo si fa diventare realtà.

E questo qualcosa può essere in grado di cambiare il mondo in cui viviamo! Se non è un superpotere questo, allora che cosa altro dovrebbe essere?

Credo che i prodotti digitali poi abbiano qualcosa di straordinario, infatti nonostante abbiano una consistenza impalpabile rispetto ai prodotti fisici (sono fatti di software), conservano comunque questa enorme capacità di stravolgere la realtà.

Nella progettazione seguo il paradigma “utente-centrico”, un approccio che mette al centro l’utente o il sistema di utenti (umani, animali, vegetali o altro che siano)!

Parto dalla ricerca sugli utenti e arrivo a progettare la soluzione finale, ma in mezzo a questi due estremi ci sono una miriade di cose!

Prima o poi solcherò i sette mari a bordo di un gozzo, accompagnato da animali e creature fantastiche! Vuoi unirti alla ciurma? Vento in poppa ⛵

Qualche anno fa eri un iStudent ed oggi sei un ospite di iBicocca. Ti andrebbe di raccontarci la tua storia?

Certamente, molto volentieri!

Il mio percorso universitario non è iniziato in Bicocca, bensì al Politecnico di Milano  alla facoltà di “Progettazione dell’Architettura” dove ci hanno insegnato a progettare dal singolo prodotto che troviamo negli spazi che tutti noi viviamo all’intero impianto urbano.

I cinque anni passati al Politecnico mi hanno lasciato in eredità la capacità progettuale; questa può essere vista da due punti di vista differenti, da una parte come capacità progettuale specifica nell’ambito della materia architettonica e del prodotto fisico, dall’altra come capacità progettuale generale astratta dall’ambito specifico, potremmo definirla quindi “forma mentis progettuale”; il vantaggio di ciò è che è possibile applicare questa astrazione della capacità progettuale ad altri ambiti specifici diversi da quello originario.

Io credo che progettare significhi riuscire a prefigurarsi qualcosa prima che esista, proiettarne l’immagine e permettere così a una cosa di esistere ancora prima che venga effettivamente realizzata.

Al termine del mio percorso quinquennale nella progettazione avevo assunto la forma mentis progettuale, ero un tecnico (che è un modo in cui io chiamo gli operativi, cioè quelle figure che fanno, ruoli hands-on) ma avvertivo il bisogno di integrarla con una serie di abilità più gestionali e questo mi ha spinto a intraprendere un nuovo percorso di laurea triennale in “Economia delle Banche, delle Assicurazioni e degli Intermediari Finanziari” in Bicocca. Non ero sicuro riguardo dove mi avrebbe portato e nemmeno che fosse il modo giusto per integrare nel mio profilo professionale quello che volevo, ma comunque ho iniziato.

Il mio primo giorno da (nuovamente) matricola mi sono subito avvicinato al progetto iBicocca che ha cambiato il significato della mia iscrizione alla facoltà di economia: è così che sono venuto a contatto per la prima volta in modo strutturato con il mondo startup e con il mondo digital.

Per coincidenza temporale, era anche lo stesso periodo in cui avevo iniziato ad applicare la forma mentis progettuale, formata con 5 anni di Politecnico, ad un ambito nuovo per me da un punto di vista operativo/professionale, il prodotto digitale.

Le due cose, iBicocca ed imprenditorialità da una parte e progettazione del prodotto digitale dall’altra, sono andate avanti di passo passo da quel momento in avanti nella mia vita.

Questo percorso è stato il trampolino che mi ha lanciato verso il mio presente: oggi, oltre a lavorare come freelance digital product designer, sono socio fondatore di una startup in cui ricopro lo stesso ruolo di progettista del prodotto digitale – che è il nostro core business – e allo stesso tempo servo le esigenze dell’ambito business della startup, con il quale riesco a dialogare e rapportarmi senza alcuna barriera grazie alle competenze economico-imprenditoriali assunte tramite economia ed iBicocca.

Al contempo, in cantiere c’è il mio corso di Digital Product Design per trasmettere il mestiere del progettista del prodotto digitale (in giro anche detto UX e UI Designer) a chiunque provi l’interesse verso questo mondo.

In questo mondo digitale fatto di inglesismi, si sente la parola design declinata in tante forme diverse. Cosa significa UX/UI design? E come mai nel presentarti non ti sei definito tale?

Al giorno d’oggi chi si intitola “UX/UI designer”, nella grande maggioranza dei casi, non fa altro che progettare prodotti digitali cercando di dare una buona esperienza d’uso del prodotto agli utenti dello stesso; l’inglese serve a placcare d’oro e far sembrare più lucente una corona di carta stagnola (in inglese tutto ha un sapore diverso).

Per capire la definizione di UX/UI Design è necessario scomporre le parole: UX e UI sono gli acronimi di “user experience” e “user interface”; il verbo “to design” invece significa semplicemente “progettare”. Quindi il professionista in questione è qualcuno che si occupa di progettare il prodotto digitale (app, sito, ecc) per dare una buona esperienza d’uso all’utente finale.

Il termine comunque è bistrattato! La user experience, nella sua accezione completa, sarebbe l’insieme delle emozioni e delle sensazioni che l’utente prova nel suo rapporto completo con il brand, non solo con l’App, ma anche tutto il resto.

Per questo, definirsi “UX designer” (che significa “progettista dell’esperienza [totale]”), quando in realtà si progetta solo l’app o il sito e quindi si controlla solo una parte dell’esperienza (quella legata all’app o al sito appunto) è un ingigantimento del ruolo, un uso improprio del termine “user experience”.

Sarebbe più corretto dire che si è progettisti del prodotto digitale avendo come finalità una buona user experience, o se vuoi dirlo in inglese che suona meglio “user-experience digital product designer”, dove il termine “user-experience” non è più usato come nella parola “user experience designer”, ma nel senso di approccio alla progettazione del prodotto digitale.

Ps. non c’è bisogno di mettere sempre le maiuscole, non è un dramma scrivere “user experience” tutto in minuscolo.

Sappiamo che hai partecipato al Silicon Valley Study Tour come hai fatto e come pensi abbia contribuito alla tua formazione?

Ho conosciuto il Silicon Valley Study Tour (SVST) grazie ad iBicocca, infatti il V ciclo ha ospitato Paolo Marenco, co-founder dell’iniziativa che ci ha illustrato il progetto.

Appena sono venuto a conoscenza di SVST mi sono informato e ho inviato l’application per entrare a far parte di questa avventura, con cui ancora oggi collaboro.

La settimana di fuoco alla scoperta della Silicon Valley si pone l’obiettivo di portare fisicamente pochi brillanti studenti italiani nell’ecosistema imprenditoriale della Silicon Valley (California) facendoli entrare in stretto contatto con aziende come Google, Facebook, LinkedIn, McAfee, Pinterest, alcune startup di alto valore della Bay Area e università prestigiose come Berkeley e Stanford University. Il nucleo dell’esperienza è racchiuso nelle visite guidate in queste aziende e università della Silicon Valley e nella possibilità di dialogare con coloro che ci lavorano.

Non è un viaggio di tipo turistico, è un viaggio alla scoperta dell’ecosistema imprenditoriale della Bay Area, che offre un gigante carico di ispirazione e conoscenza! Ti permette di fare un tuffo dentro una realtà del tutto nuova e a te estranea per imparare modi di vivere, abitudini e mindset che con il nostro quotidiano hanno poco a che fare.

Il Silicon Valley Study Tour mi ha insegnato tantissime cose, tra queste cos’è realmente una startup e che c’è una grande differenza nel modo di fare impresa negli Stati Uniti e in Italia. Inoltre, questo tour mi ha permesso di apprezzare al meglio il ruolo che le piccole e medie imprese hanno all’interno del sistema imprenditoriale italiano (in Italia non dobbiamo per forza scimmiottare il modo di fare impresa americano).

Raccontaci del tuo progetto: come ti è venuta l’idea? Perché hai scelto proprio noi iStudent per validarla?

L’idea è estremamente semplice: mi piacerebbe insegnare la progettazione dei prodotti digitali. La motivazione che mi ha spinto a lanciare questo corso è il mio non comprendere come mai si sia generata la falsa credenza che per fare startup non sia necessario avere delle competenze specifiche, si tende a dimenticare che fare startup significa fare impresa a tutti gli effetti.

Credo nell’insegnare le competenze di cui è composta una startup piuttosto che genericamente “come fare startup”. Nello specifico, per creare una startup di tipo digitale, le competenze indispensabili sono: la capacità di progettare il prodotto digitale, la capacità di svilupparlo e la capacità di riuscire a venderlo.

Non mi va di alimentare il falso mito che con qualche mazzo di quadrifogli si possa fare successo nel mondo dell’imprenditoria e quindi cerco di essere coerente con ciò in cui credo. Credo nelle competenze, anziché nelle incompetenze. Infatti, negli ultimi anni vanno estremamente di moda queste soft skills, dimenticandosi che senza l’operatività (le competenze vere, il saper fare) sono solo un contorno.

Ho pensato di offrire questa opportunità gli iStudent perché l’ambiente di iBicocca è estremamente dinamico, composto da studenti con tanta voglia di fare e con atteggiamenti proattivi verso l’innovazione.

Credo che il mio corso possa funzionare come ponte che collega le attività pratiche con il mindset imprenditoriale ed innovativo che iBicocca vuole trasmettere.

Come hai speso le competenze apprese ad iBicocca nel mondo del lavoro? Dai tre motivi per cui vale la pena iscriversi ad iBicocca

iBicocca per me è stata la bussola che mi ha aiutato ad orientarmi e a trovare la mia strada nel mondo del digitale.

I tre motivi si possono riassumere in un unico grande consiglio da vecchio saggio che ci è passato prima di voi: cercate il giusto equilibrio tra iBicocca e studio, così da avere il tempo di dedicarvi alle attività proposte dal ciclo in tutta serenità e lasciarvi trasportare dall’entusiasmo del momento, senza però trascurare i doveri universitari.

Le attività proposte sono tutte entusiasmanti: è come se ti regalassero un seme e poi sta a chi lo riceve decidere se metterlo a frutto oppure no.