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Marketing & Social Media

Come TikTok sta cambiando l’industria musicale

Fonte: https://newsroom.tiktok.com/en-us/tiktok-launches-musician-program-tiktok-spotlight-to-support-independent-artists-starting-with-japan-and-korea

Secondo una survey TikTok è diventata la piattaforma numero uno che le persone utilizzano per scoprire nuova musica superando le ben note Youtube e Apple Music, se si tiene conto della crescente quantità di artisti che registrano canzoni appositamente per i trend di questo nuovo social, si comprende quanto stia cambiando il mondo dell’industria musicale.

Cos’è TikTok: la storia e i dati

TikTok è il giovane social network cinese che in poco tempo ha superato ogni record affermandosi come app più scaricata del 2021 arrivando a 800 milioni di utenti attivi nel mondo. La piattaforma come la conosciamo oggi nasce nel 2017 dal rebranding di un altro social: Musical.ly, il quale consisteva in brevi video lip-sync dove gli utenti sceglievano la canzone e inventavano dei balletti. Con l’acquisizione da parte del colosso cinese che si occupa di piattaforme digitali, Bytedance, Musical.ly si è trasformato in un social innovativo che mette al centro la creatività degli utenti con lo slogan “make every second count” ovvero “fai che ogni secondo conti”.

Quali novità porta: cosa lo distingue dagli altri social

Le novità apportate da questo social network sono diverse: i video verticali, la grafica semplice, l’algoritmo, le modalità di interazione, ma soprattutto il suono. Su TikTok ancor più che su altre piattaforme, quest’ultimo è fondamentale, si potrebbe dire sia music-based dato che ogni video deve avere una canzone o almeno un sound on, perché senza l’esperienza viene vissuta a metà. Bytedance sin dal giorno zero ha puntato proprio su questa peculiarità portando un’altra innovazione: il copyright delle canzoni sulla piattaforma. I suoi predecessori Instagram e Facebook bannavano i video quando questi venivano caricati con una canzone coperta da copyright come sottofondo e l’unico modo per avere musica sotto i video era comprare i diritti o mettere musica non coperta da diritto d’autore. TikTok fa esattamente il contrario: acquista i diritti della maggior Labels come Warner Music Group, Sony Music, Universal Music Group facendo si che i suoi utenti possano scegliere queste canzoni da un ampio catalogo e metterle nei video permettendo quindi a chiunque di scoprire continuamente nuovi brani, salvarli e riutilizzarli in una propria versione di quella challenge o trend. Ma non finisce qui: sono le stesse etichette discografiche che oramai, avendo compreso il potenziale di queste piattaforme, le utilizzano per cercare talenti e proporre loro dei contratti, promuoversi e vendere in un mondo che vede sempre di più lo streaming (80% degli ascolti in Italia) come forma di fruizione prediletta.

Come sta rivoluzionando l’industria musicale

La notizia che ha fatto scalpore nel mondo musicale è quella dello studio condotto dal sito internet Onlineroulette.org secondo il quale TikTok è diventata la prima piattaforma digitale che le persone (il 60% di quelle studiate) utilizzano per scoprire nuova musica superando le già affermate Youtube e Apple Music; inoltre metà di queste affermano che la piattaforma influenzi i loro gusti musicali. Se si prende in considerazione il fatto che tra le quattro canzoni più ascoltate su Spotify nel 2020, tre avevano una cosa in comune, ovvero essere andate virali su TikTok, viralità che dagli artisti viene sempre più spesso ricercata registrando canzoni ad hoc, si comprende quanto stia effettivamente rivoluzionando questo tipo di industria.

 

 

Esempi di viralità in tutto il globo

Diversi sono gli esempi di persone normali che sono riuscite a far conoscere il loro primo pezzo e la loro musica a moltissime persone arrivando a firmare con le più grandi etichette discografiche che dopo il successo le hanno notate, perché grazie a questi strumenti siamo nell’epoca in cui, se si ha un’idea, si può diventare famosi producendo e cantando una canzone semplice e orecchiabile ma soprattutto facilmente ballabile e riproducibile: è il caso di “Old Town Road” la canzone mix tra country e trap di Lil Nas X che è diventata il primo caso eclatante di canzone scritta da un ragazzo qualunque che ha comprato la base per qualche dollaro ed è arrivato a battere il record di settimane consecutive al primo posto della Billboard Hot 100.

Ma non finisce qui, questo è stato solo il primo di una lunga serie: il rapper australiano Powfu con “Death Bed”, Nathan Evans un postino scozzese che con “The Wellerman” ha creato una hit che incrocia novità e tradizione e che è stata replicata da migliaia di persone grazie al meccanismo dello stitch che permette di continuare il video di un’altra persona e condividerlo sul proprio profilo.

Non mancano gli esempi italiani: il 18enne Matteo Romano che prima ancora di scrivere una canzone ha cantato una sua breve composizione di 15 secondi al pianoforte che sono bastati per fare il giro di TikTok Italia e che l’hanno portato a scrivere per intero “Concedimi” brano con 4 milioni di streaming su Spotify. E infine Pietro Morello prodigio di diversi strumenti musicali che oltre ad aver fatto uscire alcuni singoli tra cui “Filo(sofia)”, porta quotidianamente la musica che i follower gli propongono di replicare.

Proprio per questo motivo è oramai quasi imprescindibile per un artista pubblicare sui social in particolare TikTok per farsi conoscere, data la grande visibilità che questa piattaforma ancora concede: perché non solo i nuovi cantanti in erba, ma anche quelli già affermati possono ritrovare la fama e tornare sulla cresta dell’onda grazie ad un pezzo virale sul social cinese (uno studio di Uswitch ha calcolato l’effettivo impatto sul guadagno degli artisti). È stato il caso di Jason Derulo che dopo cinque anni di “silenzio artistico” è tornato in cima alle classifiche con un brano che è diventato un balletto famosissimo (creato sulla base di un artista 17enne: Joshua Stylah) e uno dei pezzi più ascoltati e utilizzati nella storia di TikTok: “Savage Love”. Lo stesso ha fatto il cantante canadese Justin Bieber che grazie a “Peaches” ma soprattutto “Yummy” è tornato al centro dell’attenzione: milioni di persone le hanno usate come suono base dei loro brevi video prima sulla piattaforma cinese e poi anche negli Instagram Reels.

Non è la prima volta che succede: Despacito e Gangnam Style

A differenza di quanto si possa pensare, questo non è un fenomeno nuovissimo e guardando indietro nel tempo si possono trovare alcune canzoni che potrebbero essere note ai più e che sono nella top 3 dei video più visti su Youtube in assoluto: “Despacito” di Luis Fonsi e Daddy Yankee con 7,3 Mrd di visualizzazioni e “Shape of You” del cantante inglese Ed Sheeran con 5,3 Mrd visualizzazioni.

Prima ancora di loro, la mamma per così dire, delle canzoni virali è un brano che ha fatto ballare il mondo intero nel 2012 ovvero “Gangnam Style” di Psy, un rapper sudcoreano che grazie a questa hit si è fatto conoscere a miliardi di persone rimanendo al primo posto come video più visto sulla piattaforma fino al 2017 quando è stato spodestato dalla più recente Despacito.

In futuro? Prospettive e critiche tra chi crede che si stia rovinando la musica e chi vede in ciò la democrazia culturale

Questi esempi e numerosi altri stanno dividendo l’opinione pubblica tra chi pensa che questa sia per tutti una possibilità di esprimersi e far conoscere la propria arte e chi invece denuncia un abbassamento della qualità dovuto al fatto di dover trovare la hit ripetitiva e a malapena orecchiabile ma che sia perfetta per i vari duetti e che quindi diventi virale su TikTok, concetto che vale sia per gli aspiranti performer che per gli artisti già affermati (Justin Bieber stesso è stato accusato adi aver creato Yummy apposta per la viralità social). A questo si aggiunge l’accorciamento della lunghezza delle canzoni in media dovuto al fatto che gli artisti preferiscono arrivare velocemente al “dunque” causa l’abbassamento della soglia dell’attenzione dovuto proprio all’utilizzo delle canzoni sui social media.

Se c’è una cosa che non si può negare è però la democratizzazione della musica: ora infatti è possibile realizzare i propri sogni più facilmente che in passato senza dover per forza passare per un intermediario difficile come un’etichetta discografica oppure aspettare di essere abbastanza famosi da passare in radio o televisione, ora non si deve attendere nessuno per far fare il giro del mondo al proprio pezzo, e allo stesso modo anche gli spettatori hanno maggior potere decisionale: come in una sorta di “televoto 2.0” sono le persone stesse a far risaltare o pubblicizzare una canzone a seconda dei like che mettono, degli shares e dei duetti che intraprendono decidendo, in pratica, quali canzoni ascoltare tutto il giorno dato che saranno le stesse a finire anche nelle classifiche di Spotify e nei Per te di TikTok.

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Pinterest: inclusività e ispirazione al centro della nuova strategia “human centric”

Il 7 Aprile 2021 Pinterest, il social network fondato da Evan Sharp, Ben Silbermann e Paul Sciarra nel 2010, ha tenuto un evento in cui ha reso note al pubblico una serie di novità introdotte sulla piattaforma, riguardanti soprattutto alcuni nuovi strumenti di moderazione dei contenuti: tra tutti, spiccano il Creator Code e il Creator Fund.

Una spinta al rispetto e all’inclusività: il Creator Code

“Pinterest è diventato quasi l’ultimo angolo positivo di Internet, abbiamo investito un enorme sforzo per mantenere la negatività offline” ha affermato Evan Sharp, co-founder, Chief Design e Creative Officer di Pinterest. “Quando si è circondati dalla negatività e da un senso di inadeguatezza, è difficile riuscire a essere creativi. Su Pinterest, però, è tutta un’altra storia. Facciamo della gentilezza il nostro caposaldo e mettiamo il benessere dei creators al primo posto. Scopri come cambiano le cose quando crei contenuti in una community più aperta e accogliente.”

Si apre così la nuova pagina che illustra il Creator Code, uno dei nuovi strumenti di moderazione ideati da Pinterest con lo scopo di far crescere una community basata sul rispetto dell’altro, sull’inclusività, sulla positività e sull’ispirazione. Il Creator Code è la politica sui contenuti progettata da Pinterest per far sì che la piattaforma rimanga un luogo sicuro e stimolante: il codice impone l’accettazione delle linee guida prima che i creators possano iniziare a pubblicare Pin, ed è composto da soli 5 articoli, concisi ma d’effetto.

Il primo articolo invita ad esprimere chi sei, ma senza provocare danni: Pinterest incoraggia gli utenti a condividere contenuti di qualità, che rispecchino se stessi, il loro personale punto di vista e la loro esperienza. Ma lo fa ricordando di prestare attenzione affinché la propria libertà d’espressione non finisca per danneggiare o offendere un’altra persona o un gruppo di persone. Un esempio: evitare di utilizzare frasi come “Errori di stile da evitare” se si vogliono condividere idee di moda, per non deridere o umiliare le persone che si vestono in un certo modo. Oppure, nel proporre ricette che reinterpretano piatti tradizionali, non utilizzare stereotipi scherzosi o offensivi legati a una cultura o a una comunità.

Il secondo punto è parla di qualcosa, ma verifica la realtà dei fatti, ovvero, condividi ciò che avviene nel mondo, per aiutare le persone a imparare e a crescere, ma prenditi il giusto tempo per verificare i fatti su cui si basano i contenuti che pubblichi. “In un mondo in continua evoluzione” si legge sotto quest’articolo “è facile diffondere informazioni non vere”. Perciò, ad esempio, bisogna fare attenzione a condividere modi creativi per decorare i dispositivi di protezione individuale di cui abbiamo imparato a non poter fare a meno, senza però diffondere informazioni o pratiche prive di fondamento scientifico che possano ledere la salute di qualcuno.

Nel terzo articolo Pinterest invita ad ispirare l’azione, ma senza provocare danni, detto in altro modo a condividere informazioni che instillino nelle persone nuove idee ma senza incoraggiare azioni che potrebbero provocare danni, come quelle che necessitano dell’utilizzo di materiali pericolosi o che richiedono di affrontare sfide che mettono a rischio la sicurezza delle persone.

Il penultimo punto si concentra invece sul condividere idee originali, anche sotto forma di contenuto visivo, ma senza oltrepassare il limite, affinché Pinterest rimanga un luogo sicuro per tutti. Sì ai contenuti artistici che promuovono un rapporto sano con il proprio corpo, no ai contenuti espliciti o che raffigurano le persone come oggetti sessuali.

Infine troviamo un invito a incoraggiare le persone, piuttosto che dividerle. “Pinterest è un luogo dove si respira positività e tu puoi contribuire a mantenerlo tale” si legge in chiusura nell’ultimo punto del creator code, che invoglia a diffondere idee che uniscano le persone, e non danneggino o fomentino odio verso determinati gruppi o comunità.

In un anno tumultuoso come il 2020, segnato dalla pandemia globale e da movimenti politici e di rivolta in tutto il mondo, Pinterest ha scelto di puntare su un’idea che rafforzasse la community e contribuisse a creare uno spazio positivo e stimolante, che appare in contrapposizione al mood di altri social che divengono spesso teatro e culla di disinformazione, discussioni e attacchi personali tra gli utenti.

“Siamo stati tra le prime piattaforme a vietare tutti gli annunci di disinformazione politica o sanitaria, l’incitamento all’odio, al bullismo o all’autolesionismo, per questo il nuovo creator code è così importante” sottolinea, ancora una volta, Evan Sharp.

Ma l’impegno di Pinterest per l’inclusività non si esaurisce qui: la nascita del Creator Fund

Un’altra novità a richiamare l’attenzione è l’introduzione del Creator Fund, un fondo da 500 mila dollari messo in campo per supportare i creators appartenenti a categorie sottorappresentate. Il programma, che attualmente è disponibile solo negli Stati Uniti, ha permesso di collaborare con creators appartenenti a diversi background e ha dato loro la possibilità di seguire corsi di formazione, di consulenza strategica creativa e di ricevere budget per la creazione di contenuti. L’iniziativa è nata dalla necessità di supportare quei creators e quelle comunità che sulla piattaforma appaiono sottorappresentate, e l’obiettivo di Pinterest è quello di continuare a lavorare con persone provenienti da ambienti di minoranza, assicurandosi che il 50% di coloro che prendono parte al programma provenga da categorie sottorappresentate.

In un mondo in cui “le aziende tecnologiche si comportano spesso in modi che appaiono inumani”, spiega Evan Sharp, Pinterest è impegnato a costruire una società tecnologica Human centric, ovvero con al centro l’essere umano, per costruire un business al servizio dei nostri utenti e dei nostri azionisti”.

Rimane solo da attendere, per vedere se i nuovi strumenti introdotti da Pinterest sortiranno gli effetti desiderati e se le nuove idee permeeranno altri canali social, raggiungendo così un bacino di utenti sempre più vasto e rendendo quello human centric l’approccio chiave e fondante del mondo di internet.

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Instagram si apre ai più piccoli

Facebook pensa ad una nuova versione di Instagram per i bambini under 13. Questa recente rivelazione è stata data da un sito web d’informazione, noto come Buzzfeed News, il quale ha riportato in un suo recente articolo la notizia. Sembrerebbe una scoperta non del tutto prevista da parte dei creatori, in quanto trapelata da una nota interna pubblicata su un forum per dipendenti della società. Al suo interno Vishal Shah, vicepresidente del prodotto Instagram, ha riportato: “Sono entusiasta di annunciare che per il futuro prossimo abbiamo individuato nei giovanissimi una priorità per Instagram”.

Possiamo ritenerlo quindi come un progetto al quale stanno lavorando in questi ultimi mesi data l’importanza e considerato anche le recenti vicende che hanno visto coinvolta una bambina di Palermo di 10 anni, morta a causa di una challenge sul social TikTok. A fronte di questo fatto i creatori di Instagram stanno pensando ad un modo per poter tutelare maggiormente i giovanissimi con età inferiore ai 13 anni, dandogli la possibilità di restare in contatto con i propri familiari o amici, monitorati in tutta tranquillità dai propri genitori.

Nuove regole giuridiche per l’uso dei social ai minori

Per effetto del GDPR, Regolamento Generale per la protezione dei dati personali, entrato in vigore nel 2016, l’età minima per poter prestare il proprio consenso al trattamento dei dati personali, ai sensi dell’articolo 8, è lecito se il minore abbia almeno 16 anni. Agli stati è data però la possibilità di poter derogare a tale età, ma non al di sotto dei 13 anni; infatti, in Italia, l’età minima per poter iscriversi a qualsiasi social network è almeno pari a quest’ultima con l’obbligo di supervisione di un anno da parte dei genitori. A tal proposito il Digital Report in Italia del 2018 ha riportato che la percentuale di uso dei social network tra i 13 e i 17 anni era dello 0,5%; notiamo come nel Digital Report del 2020 questa percentuale è cresciuta fino ad arrivare all’1,6%. Da ciò deduciamo che, con il passare del tempo, l’attitudine tra i più giovani ad approcciarsi al mondo social è sempre più in voga e prematura; per questo, creare un’applicazione per tutelarli è il primo passo verso un mondo sempre più incentrato sull’uso del digitale.

Recentemente il Garante per la protezione dei dati personali ha imposto l’obbligo, in un suo provvedimento, di “blocco immediato” nei casi in cui non sia possibile accertare con certezza l’età del nuovo iscritto e di rimozione immediata di tutti quei profili appartenenti a bambini con età inferiore a 13 anni. Inizialmente esso era stato emesso solo nei confronti di TikTok, ma successivamente è stato esteso anche a Facebook e Instagram.

Cosa ne pensa Adam Mosseri

A capo di questo nuovo progetto che vedrà coinvolto IG per under 13, ci sono Adam Mosseri, capo di Instagram, e Pavni Diwanji assunta a Dicembre 2020 da Facebook la quale, negli anni precedenti, aveva collaborato presso l’azienda Google per sviluppare una applicazione nota come “Youtube Kids” che consente di poter visionare video adatti per un pubblico di minori.

Lo stesso Adam Mosseri ha poi twittato: “I bambini chiedono sempre più spesso ai loro genitori se possono iscriversi ad applicazioni che li possano aiutare a stare in contatto con i loro amici. Stiamo esplorando una versione di Instagram in cui i genitori hanno il controllo, come abbiamo fatto con Messenger Kids. Condivideremo di più lungo la strada”. Tale conferma verso questo progetto a cui stanno lavorando ha suscitato svariate reazioni non positive da parte degli utenti del social network Twitter; alcuni lo hanno considerato ironicamente come una “opportunità interessante” per sfruttare e danneggiare emotivamente un intero nuovo settore della società, altri considerano Facebook e tutte le sue proprietà come delle prigioni, e infine alcuni criticano il fatto che non deve esserci il bisogno di programmare questa nuova versione di Instagram solo perché i bambini lo stanno “chiedendo”.

I precedenti interventi per avvicinare i più piccoli al mondo social

In effetti sia l’applicazione Messenger Kids, sia YouTube hanno dovuto affrontare diversi ostacoli nel corso della loro esistenza. La prima applicazione, rilasciata nel 2017, che consente ai più piccoli di potersi scambiare messaggi sotto la supervisione e il controllo dei loro genitori, nel 2019 a causa di un bug ha permesso ai bambini di entrare in chat o per meglio dire in “gruppi” creati con adulti non autorizzati. Il gruppo Facebook si è fin da subito attivato per contattare via mail, qui riportata, i genitori e rassicurarli sul fatto che avrebbero provveduto a risolvere prontamente il problema.

Alla seconda piattaforma non è andata meglio, in quanto Google, proprietaria di YouTube, è stato accusato dalla Federal Trade Commission al pagamento di una multa di 170 milioni di dollari per aver tracciato dati personali di bambini di età inferiore ai 13 anni, senza il previo consenso dei genitori, per poi inviare loro pubblicità mirata.

Cyberbullismo e sicurezza

Oltre ad essere una questione informatica e giuridica di grande novità è quindi diventato un vero e proprio problema etico all’interno del quale personaggi noti come ad esempio Jeremy Hunt, politico e membro del Parlamento britannico, ha espresso la sua opinione in un tweet criticando apertamente le applicazioni di messaggistica per bambini così dicendo: “Facebook mi aveva detto che sarebbero tornati con delle idee per prevenire l’uso dei minorenni del loro prodotto, ma invece stanno attivamente prendendo di mira i bambini più piccoli. State lontano dai miei bambini.”

Un sondaggio del 2019 condotto da Ditch the Label, ente dedicato alla promozione dell’uguaglianza che fornisce supporto ai giovani colpiti da bullismo e cyberbullismo nel Regno Unito, ha riportato che un quinto dei giovani ne è stato vittima nell’ultimo anno e uno dei modi tramite il quale esso si scatena è l’uso dei social, in particolare caricando o postando video nei quali i ragazzi si divertono a prenderne in giro altri. Ciò accade anche a causa del fatto che ormai l’85,8% dei giovanissimi tra 11 e 17 anni utilizza quotidianamente il cellulare come riportato dai dati Istat, ma un dato importante è dato dall’84,9% che rappresenta la percentuale di adolescenti (14-17 anni) che quotidianamente accede ad Internet. Tra i più giovani si registra una quota pari al 7% di casi di cyberbullismo di cui è necessario tenere conto.

Sappiamo bene che così come accade nella vita reale, anche per i social è possibile mentire sull’età siccome, in Italia, le false dichiarazioni sono considerate reato solamente se rese davanti ad un pubblico ufficiale. Il primo grande ostacolo da superare è infatti quello di riuscire a sviluppare un riconoscimento facciale artificiale in grado di poter verificare l’esattezza dell’età anagrafica e grazie al quale sarà impossibile inserire una data di nascita falsa.

Oltre a ciò, si vorrà rafforzare la sicurezza in modo da rendere più difficile la ricerca di bambini da parte degli adulti e di impedire ad essi di poter inviare messaggi a persone con età minore di 18 anni.

 

Una lettera per Mark Zuckerberg

Questo progetto sembra non avere un grande successo tra i diversi gruppi di consumatori a tutela dell’infanzia i quali, guidati dall’organizzazione no-profit Campaign for a Commercial-Free Childhood, si sono uniti e hanno scritto una lettera a Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, esprimendo la loro contrarietà nei confronti di Instagram under 13, chiedendo loro di abbandonare l’idea in quanto, a loro detta: “non è il rimedio giusto e metterebbe a rischio i giovani utenti in quanto, negli anni della scuola elementare, essi sperimentano una incredibile crescita nelle loro competenze sociali, nel pensiero e nel senso di sé. Abbiamo paura che questa proposta possa sfruttare questi rapidi cambiamenti evolutivi. Instagram, in particolare, sfrutta la paura dei giovani di perdersi e il desiderio di approvazione dei pari per incoraggiare bambini e adolescenti a controllare costantemente i propri dispositivi e condividere foto con i propri follower.”

Concludono così la loro lettera:Un Instagram per bambini sottoporrà i più piccoli a una serie di gravi rischi e offrirà pochi vantaggi alle famiglie”.

La data di lancio ufficiale non è stata ancora comunicata e non sarà, a quanto risulta dalle indiscrezioni, a breve, ma è da considerare come al primo posto tra gli obiettivi principali che i creatori si sono prefissati di portare a termine. A fronte di questo la privacy e la sicurezza per i minori sono, in questo campo, gli argomenti più sensibili che vogliono e devono essere protetti per poter costruire questa nuova versione, in modo da poter essere utilizzata in piena sicurezza e per garantirne un uso sicuro da parte di una categoria che, al giorno d’oggi, ha maggiormente bisogno di essere tutelata.

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Il successo di Clubhouse e dei formati audio: intervista a Mario Moroni

© Max Bertoli | Source: www.mariomoroni.it

In queste ultime settimane tra i dispositivi provvisti di sistemi iOS c’è stata l’esplosione di un nuovo social network: si chiama Clubhouse e si basa sulla creazione di stanze virtuali nelle quali si può comunicare con gli altri utenti solamente attraverso l’audio.

Si tratta di un’applicazione che ha suscitato molta curiosità e di cui in effetti si conosce ancora poco, motivo principale per cui spesso all’interno delle “room” l’argomento centrale di cui si discute è proprio Clubhouse!

Molte personalità del web vi partecipano quotidianamente in maniera molto attiva, in modo tale da sfruttare al massimo questo nuovo social e con l’intento di crearvi una community.

Per approfondire questo tema e scoprire le potenzialità legate alla piattaforma abbiamo fatto affidamento sul parere di chi della sua voce ne ha fatto uno strumento di lavoro: Mario Moroni, creatore del podcast quotidiano “Il caffettino” e autore del libro “Startup di merda”, il quale spesso organizza interessanti room a tema su Clubhouse.

Mario, in Italia i podcast vengono ascoltati sempre di più, mentre in queste ultime settimane c’è stato il boom di Clubhouse. Secondo te, a cosa è dovuto questo enorme successo dei formati audio?

“Il mondo dei podcast sta funzionando già da diversi anni perché i contenuti letti oppure visti attraverso i video hanno una fruizione che viene lasciata allo smartphone e al computer, quali i video di Tik Tok e i reels, contenuti ai quali però non si riesce a prestare molta attenzione se si sta facendo altro.

I contenuti audio stanno funzionando da diverso tempo perché le persone hanno la possibilità di svolgere altre attività nello stesso momento come, per esempio, correre, fare commissioni, magari viaggiare (quando si poteva viaggiare).

Nell’ultimo periodo, Clubhouse ha avuto una vera e propria esplosione, a differenza di altri social del mondo audio che abbiamo avuto modo di conoscere in passato, anche durante la pandemia, i quali non hanno riscontrato lo stesso successo.

I creatori di Clubhouse hanno fatto leva su due argomenti principali: il primo l’esclusività, il fulcro fondamentale del social è infatti il fatto di potervi accedere grazie a un invito e che all’interno del social ci siano determinate persone. Lo stesso vale per l’esclusività tecnica, dato che per il momento è disponibile solamente per sistemi iOS.

Il secondo riguarda il fatto che Clubhouse sia stato in grado di rimettere una netiquette, parola che nel mondo del digital si è sentita all’epoca dell’inizio web. Essa consiste in una sorta di regolamento non scritto, la buona educazione che noi professionisti, imprenditori o anche utenti utilizziamo come early adopter, ovvero come utilizzatori iniziali di qualsiasi piattaforma.

Questo sui social non c’è più da un po’ di tempo: su Tik Tok si viene invasi dai video mentre si scorre la home, e lo stesso accade anche sui vecchi Facebook e Instagram dove tutto è ormai un po’ alla mercé di tutti.

Dunque, il fatto che ci sia una sorta di esclusività e ordine delle cose ha attirato molto l’attenzione dei più grandi e dei più importanti.

Anche se ad ora iniziano già a vedersi le prime crepe…”

Sia Clubhouse che i podcast lavorano attraverso l’audio, ma, nonostante ciò, presentano delle importanti differenze. Quali sono le potenzialità di Clubhouse che i podcast non hanno, o viceversa?

“Innanzitutto, Clubhouse è un mondo social, avrà e ha quindi le stesse dinamiche di tutti i social network. Le piattaforme social di norma funzionano sempre tutte così e Clubhouse è identica a tutte le altre: fa arrivare gli early adopter, i più scaltri diciamo, che vedono tutto gratis e con una portata organica altissima. Su un nuovo social quando si fa qualcosa si viene ascoltati da moltissime persone, il che incentiva a farci rimanere di più sulla piattaforma, più si rimane sulla piattaforma più si è premiati dai likes, dai followers, e dai contenuti, e infine piano piano tutta l’esaltazione iniziale diminuisce, come una droga. Come la classica regola metaforica della rana bollita, la quale si trova in una pentola d’acqua che si riscalda gradualmente, per cui nel momento in cui la temperatura diventa troppo alta la rana muore senza accorgersene.

Questa è la stessa situazione, in qualche maniera siamo inconsapevolmente presenti a questo cambio di paradigma.

Il livello successivo sarà la monetizzazione di Clubhouse, che ad oggi è un po’ un mistero, però accadrà, dato che i creatori del social sono attualmente in perdita.

I podcast invece non sono dei social, sono contenuti che non si devono usufruire necessariamente in diretta, come accade invece per Clubhouse, dove se non si arriva al momento giusto si perde la live e il contenuto perché non lo si può rivedere in un momento successivo. Il contenuto di Clubhouse arriva infatti a un limitato numero di persone alla volta, non è determinato da una scalabilità.

Per il momento i podcast sono one to many, mentre Clubhouse è composto da piccole-micro community, com’è oggi il trend dei social.

Nei podcast c’è anche una qualità sonora superiore, a differenza di Clubhouse sul quale si utilizzano microfono e cuffie del cellulare.

I podcast hanno fatto la loro fortuna sulla lentezza, sui contenuti medio-lunghi, sugli approfondimenti e su una qualità alta.

Essendo poi contenuti e non social, possono stare su diverse piattaforme, come Spotify, Apple Podcasts, Google Podcasts o altre app di podcasting senza curarsi di algoritmi o fattori che invece determinano il successo delle singole piattaforme.

Chiaramente la similitudine sta nel fatto che entrambi siano contenuti audio e che in qualche maniera siano frutto del lavoro dei content creator; dietro non c’è un’intelligenza artificiale, ma ci sono degli esseri umani che comunicano sempre con altri esseri umani.”

Per chi è adatta una piattaforma come Clubhouse?

“Clubhouse è adatta a qualsiasi persona o azienda.

Abbiamo già visto delle aziende fare delle room per i propri clienti, aziende che vogliono avere un contatto diretto e in questo momento molto naturale con gli eventuali ascoltatori.

Questo social differisce dai podcast in quanto vi è la possibilità di aprire un dialogo con gli altri utenti, che salendo sul palco virtuale delle room di Clubhouse hanno l’occasione di esprimersi e confrontarsi tra di loro. Questo è il lato bello del social.

Inoltre, si possono creare stanze differenti in base alle esigenze e agli obiettivi che si vogliono raggiungere: si può creare una room aperta al pubblico, una room social solo per le persone che mi seguono o una room chiusa, accessibile solo tramite un invito.

C’è differenza anche tra room e club: la room è una sorta di evento che c’è in quel momento mentre il club è una sorta di pagina Facebook. Ad oggi le room sono aperte a tutti mentre i club non lo sono, bisogna fare richiesta ed essere accettati.

I test che ho visto svolgere dalle aziende in queste settimane sono stati sia positivi che negativi: positivi per quelle aziende dinamiche e al passo con i tempi che sperimentano tantissimo e che non hanno necessità di monetizzare subito, negativi per coloro che vorrebbero ricavare un guadagno immediato, dato che per il momento le persone sono su Clubhouse solo per comunicare.”

In questi ultimi giorni sono state create delle stanze virtuali con il solo scopo di aumentare i propri follower. Secondo te, si sta perdendo l’interesse verso la creazione delle conversazioni?

“Questo è un “escamotage” che viene utilizzato su tantissimi social e che è mutuato da altri social, come i gruppi di scambio like o la classica pratica del “follow unfollow”.

È un’ottica di scorciatoia tra chi nel 2021 non ha ancora capito come funzionano i social: il numero dei follower non è importante, questa è solamente un’ottica di vanità, una vanity metric, perché non ha nessun effetto che io abbia 10.000 follower o 1.000 follower.

L’ottica consiste nel capire chi sono quei follower e perché ti seguono!

Se arrivano notifiche che ci riguardano a profili che non interagiscono con noi, non facciamo altro che dare una comunicazione negativa al social, che pensa che i nostri contenuti non interessino a nessuno.

La verità è che la maggior parte delle persone che seguo stanno andando nella direzione completamente opposta, impegnandosi nella creazione di contenuti utili e di qualità.

In questo modo le persone sono più attratte da quello che diffondiamo e ricordano il nostro obiettivo, che da professionisti e utenti è quello di stare sui social spendendo del tempo per ottenere o dare qualcosa che ci è utile.

Può darsi che per la maggior parte delle persone che seguono il social ci sia una “decadenza del contenuto”, ma in realtà non è così, dato che vediamo benissimo che quando le cose vengono fatte bene le persone rispondono e ci sono.

Non dobbiamo mai avere l’ottica di creare il contenuto perfetto, perché quello non c’è mai, e soprattutto su un social nuovo si fa fatica a misurare i risultati, dato che è ancora sperimentale e le statistiche per il momento non ci sono. È tutto ancora molto all’inizio.

Chiudo dicendo che effettivamente il modo in cui noi stiamo vivendo questo social è molto più veloce rispetto a quello che abbiamo visto in passato per app come Snapchat, Tik Tok o prima ancora anche per Instagram e Facebook; tutto quello che sta accadendo adesso in soli tre mesi in molti social del passato l’abbiamo visto accadere in sei mesi, in un anno o in cinque anni. È solo cambiata la velocità di trasformazione, però non è cambiato nient’altro.”

In futuro le persone continueranno ad utilizzare Clubhouse o si tratta semplicemente del trend del momento?

“Se lo sapessi investirei o non investirei in azioni!

Quello che posso fare è prevedere due strade: la prima, che è quella più interessante secondo me, è che Facebook stia creando il clone di Clubhouse. Bisogna quindi capire se lo strumento Clubhouse funziona perché funziona bene Clubhouse o solo perché funziona la sua funzionalità. E se fosse così, quale sarà il suo futuro?  Si trasformerà in Snapchat, che in seguito all’introduzione delle storie da parte di Instagram è stato dimenticato, quindi la copia di Facebook andrà a buon fine, oppure accadrà come nel caso di TikTok in cui Instagram ha replicato la funzionalità di creazione dei video attraverso i reels ma nessuno la utilizza?

Una seconda ipotesi da tenere in considerazione potrebbe essere il fatto che in qualsiasi caso Clubhouse diventi una sorta di LinkedIn, ovvero una piattaforma per poche persone che si rivolge soprattutto a un target over 25.

Bisogna vedere come sarà l’evoluzione.

Dubito che la funzionalità di Clubhouse sia l’unico punto a favore di Clubhouse, perché in passato altri social audio hanno fatto anche meglio, ma sono finiti in tragedia in pochi mesi.

Per il momento non c’è nessuna novità nel modello di business, per cui quando il progetto verrà totalmente reso pubblico bisognerà capire quali saranno le reazioni delle persone.

Se a inizio marzo Clubhouse sarà disponibile anche per i dispositivi Android scopriremo in pochissimi giorni quali saranno i risultati.

Ciò che è certo è che una sfida come questa mancava da tempo.

L’importante è continuare a creare contenuti, in modo tale da capire come funziona il gioco e se ha senso portarlo avanti!”

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Clubhouse potrebbe cambiare la nostra società? Tutto quello che avreste voluto sapere sul social audio del momento

È il social del momento, funziona solo via audio ed è estremamente esclusivo, dato che ci si può accedere solo per invito. Di cosa stiamo parlando? Di Clubhouse, ovviamente.

Fondato a marzo 2020 dalla startup Alpha Exploration, Clubhouse è guidato dall’imprenditore Paul Davison e dall’ex ingegnere di Google Rohan Seth: il lancio effettivo è stato tra aprile e maggio 2020, solo negli Stati Uniti.

Nonostante i soli 1500 utenti iniziali, la valutazione di Clubhouse si è aggirata da subito attorno i 100 milioni di dollari, ottenendo un investimento di 12 milioni di dollari da parte di Andreessen Horowitz, una delle maggiori società di venture capital.

In appena 10 mesi sono stati raggiunti i 5 milioni di iscritti e nelle ultime settimane è stata registrata una crescita esponenziale, che ha portato i followers a 6 milioni. A tutto questo si affianca il recente finanziamento di 100 milioni di dollari erogato sempre da Andreessen Horowitz, il supporto di oltre 180 nuovi investitori e una valutazione quantitativa/monetaria pari al miliardo di dollari.

Perché ClubHouse piace così tanto?

Ma qual è il segreto del suo successo? I motivi sono tanti. Innanzitutto l’elemento su cui si fonda, l’uso della voce, è allineato al trend registrato in questi ultimi anni, soprattutto nel periodo della pandemia, cioè la crescita, riprendendo le parole di Gaia Passamonti, di tutto ciò che ha come elemento centrale l’audio: “il fenomeno dei podcast, l’uso degli smart speakers e dei comandi vocali”.

Altri elementi chiave, afferma sempre Gaia Passamonti, riguardano l’autenticità e la spontaneità che ancora risultano presenti sul social e la possibilità di potersi trovare nella stessa stanza con personaggi di rilievo, come Elon Musk, e poterci parlare come se fossero persone qualunque.

Proprio su quest’ultimo aspetto si basa un altro elemento di successo: la strategia in fase di lancio negli Stati Uniti. L’applicazione, infatti, era riservata a poche celebrità (come Drake, Kevin Hart, Oprah Winfrey) e attraverso la meccanica degli inviti, nel corso del tempo, il social network è stato circondato da un’aura di esclusività, alimentando e accrescendo l’interesse verso un prodotto sperimentato da pochi. Interessante e determinante il fatto che questa meccanica degli inviti non sia mai stata abbandonata, riuscendo, a livello di marketing, ad aumentare l’engagement e i nuovi iscritti.

Come funziona?

La registrazione avviene tramite l’invito di chi è già presente su Clubhouse e solo attraverso il numero di cellulare. Una volta ricevuto, occorre abilitare l’accesso alla propria rubrica, inserire nome, cognome, immagine del profilo e selezionare gli argomenti e le persone di interesse, così da permettere all’algoritmo della piattaforma di generare una homepage personalizzata.

Nella parte superiore della schermata principale ci sono una serie di icone, più la sezione legata al proprio profilo. Due di queste consentono di ricercare/esplorare all’interno della piattaforma e visualizzare le notifiche. Le altre due, invece, permettono di visualizzare la propria rubrica, gli inviti posseduti e gli eventi sul calendario: tutti quelli imminenti, quelli solo per noi (in base alle aree di interesse selezionate) oppure i propri eventi.

Per quanto riguarda il profilo, al suo interno è presente la biografia che lo descrive (rappresenta l’unica sezione testuale), il numero di persone che si segue e che ci seguono, il collegamento al proprio profilo Twitter e Instagram, la data in cui si è entrati su Clubhouse e la persona che ci ha invitati.

Considerando invece la parte centrale della schermata principale, è qui che vengono visualizzate in maniera verticale le “room”, stanze virtuali create da amministratori/moderatori e all’interno delle quali avviene l’interazione vocale in tempo reale; inoltre, grazie al sistema di calendarizzazione e di indicizzazione, l’utente viene facilitato nella ricerca delle room.

Possono essere di tre tipi (open, social, closed), in base al livello di accesso, e sono costituite da 3 figure di utenti: moderatori, speaker e ascoltatori.

I primi, oltre ad essere i creatori delle room, gestiscono la conversazione, possono invitare gli speaker, conferire o togliere la parola ed espellere dalla stanza altri utenti. I secondi, gli speaker, sono gli utenti che dalla “platea” hanno “alzato la mano” (attraverso l’apposito pulsante), sono stati accolti sul “palco” dai moderatori e, come suggerisce il nome, stanno parlando. Infine, gli ascoltatori sono tutti coloro che partecipano in maniera passiva, limitandosi ad ascoltare con il microfono in muto.

All’interno delle room, oltre al tasto per alzare la mano e chiedere di parlare, sono presenti altri due pulsanti, il simbolo “+” e “leave quietly”. Attraverso il primo è possibile invitare i propri followers nella stanza in cui ci si trova oppure condividere il link della stessa. Il secondo, invece, permette di abbandonare la stanza.

Le teorie sociologiche che spiegano l’evoluzione dei social

Per arrivare a capire come Clubhouse stia riuscendo a farsi strada in questa “alluvione comunicazionale”, diventa necessario ripercorrere le tappe che illustrano i cambi di potere nell’informazione e che spiegano le dinamiche sull’insediamento dei social e il conseguente mutamento sociale del mondo contemporaneo.

L’analisi in oggetto ha inizio con la crisi della modernità caratterizzata dal passaggio da un capitalismo marxista ad un capitalismo industriale fordista e prefordista improntato alla produzione di denaro per mezzo delle merci, un cambiamento che ha stravolto tutti gli ambiti legati alla sfera pubblica e privata dell’individuo.

Le cause sono da imputare ai mezzi di comunicazione che, come ha affermato Harold Innis, storico dell’economia canadese e sociologo della comunicazione, vanno a “determinare il nascere, l’affermarsi e il declinare degli imperi, in quanto chiavi del processo economico e politico”; infatti, nel concreto, i mezzi di comunicazione definiscono le coordinate spazio-temporali della società ovvero quelle che fanno capo “alle forme di organizzazione, alla distribuzione del potere tra i gruppi (in particolare a livello socioculturale con la nascita di nuove classi sociali) e ai tipi di conoscenza accumulata dal popolo (grazie, per esempio, alle nuove tecnologie)”.

Puntando la lente di ingrandimento sui mezzi di comunicazione in esame (televisione, radio e rete internet), è possibile vedere il meccanismo che permette loro di avere “tutto questo potere”.

Questo meccanismo è strutturato in quattro stadi, come spiega il sociologo e studioso della comunicazione britannico Denis Mcquail, e porta il nome di “stadi della frammentazione del pubblico“: nel primo si vede come l’introduzione di nuovi mezzi per la diffusione di informazione, caratterizzati da un piccolo “ventaglio di canali comunicativi” (ne è un esempio la televisione), rappresentavano per il pubblico un’alternativa e un’aggiunta ai tradizionali mezzi di comunicazione. Ma essendo novità ancora ad un livello primitivo di “performance”, il pubblico al quale si rivolgevano era un pubblico indistinto (quindi non vi era la necessità di dare vita a più programmi a seconda dei gruppi di audience esistenti).

Il progresso permette l’entrata nel secondo stadio ovvero in quello del pluralismo, caratterizzato da una maggiore diversificazione interna nella cornice unitaria (i vertici della comunicazione, infatti, restano le public interest intermediaries). Si assiste, così, alla nascita di programmazioni day-time, di quelle notturne e di quelle regionali, in quanto più persone possono permettersi di toccare con mano le nuove tecnologie.

Si arriva al modello che rappresenta la nostra epoca ovvero quello denominato centro periferia. Esso è caratterizzato da un’offerta mediatica più ampia che porta con sé valori come “l’autonomia e l’indipendenza, l’etica della condivisione e della trasparenza, lo stile immediato, personale e posizionato, la dislocazione e l’allargamento dello spettro delle fonti e la bi-direzionalità”; conseguenza della presa di coscienza degli individui di avere una maggiore possibilità di diversificazione, nonché della volontà degli stessi, di non essere più un pubblico passivo ma prosumer.

Si attiva, così, una reazione tecnologica a catena definita “domestication” da Roger Silverstone: una maggiore scelta porta gli individui ad integrare le tecnologie nella vita di tutti i giorni ed ad adattarle alle proprie necessità.

Una “dieta mediatica“, quindi, dettata dal senso di appartenenza al proprio ambiente culturale e al proprio gruppo di interazione: ed è qui che entra in gioco l’abilità strategica di ogni impresa di diventare la guida mediatica di quei gruppi che sono vicini al brand in un modo quasi mistico. Riuscire a creare una relazione intima con loro (come fa per esempio la RedBull con gli eventi di sport estremo) darà all’impresa il materiale che le serve per migliorarsi e conquistare anche una fetta di mercato più ampia (applicazione delle logiche tribali). L’ambiente circostante viene inevitabilmente a modificarsi portando tutti gli individui ad un ulteriore adattamento.

Uno schema da non sottovalutare dato che si arriverà ad un punto in cui ciascun individuo si affiderà completamente alla tecnologia: nell’ultimo stadio, infatti, si assisterà ad una totale frammentazione del nucleo centrale (non ci sarà più un punto comune di partenza o di fruizione delle informazioni), con conseguente scelta dei canali mediatici senza l’uso di schemi prefissati e con esperienze molto sporadiche di ascolto condiviso.

Non essere al quarto stadio non devi farci dimenticare che siamo ormai entrati nell’era del capitalismo cognitivo-post fordista, ove la produzione di ricchezza non si fonda più esclusivamente su una produzione materiale ma anche su quella immateriale, ovvero su quella della conoscenza (e, in particolare, della conoscenza codificata).

Differenziazione social: dalle necessità dei primi anni 2000…

Definito il quadro teorico, è possibile entrare nel dettaglio delle tematiche social più di nostro interesse.

Gli anni 2000 sono caratterizzati da investimenti nell’ambito delle tecnologie della comunicazione, col fine di garantire lo sviluppo di piattaforme innovative incentrate non più solo sulla scrittura ma anche sulla diffusione e condivisione di immagini, video e audio, che hanno permesso ai fruitori di averne traccia sui propri sistemi digitalizzati (a differenza di quanto poteva accadere con la radio, la televisione o con il telefono stesso).

Un’importante novità è stata messa a punto nel 2011 in Italia, dove gli investimenti in campo tecnologico erano minimi, soprattutto se paragonati a quelli fatti da colossi come Cina e Stati Uniti.

Si sta parlando del social media creato da Sonia Topazio ovvero FreeRumble; esso permette la condivisione di file audio di qualsiasi formato e argomento, in tempi rapidi. Tutto questo, nel rispetto totale della privacy di ciascun utente: una volta compilato un form, il profilo dell’utente può rimanere nell’anonimato senza necessità di mostrare foto o dati sensibili.

Una svolta significativa nel contesto digitale, ma che purtroppo non è riuscita a riscuotere il successo mediatico sperato. Una spiegazione valida di questo “insuccesso” è possibile ritrovarla proprio grazie all’esame approfondito della storiografia dei social network: l’impatto di ciascuno di essi piuttosto che il loro utilizzo, dipende dal contesto socioculturale degli individui che ne fanno uso. E al tempo, la dimensione digitale era improntata su una condivisione volta a generare un’interazione e un confronto immediato e per questo necessitava dell’uso di messaggi o mail istantanei, piuttosto che di immagini o video personali e formativi per mostrare a tutti le proprie potenzialità o i propri sprazzi di vita quotidiana. Si dava così più valore alla vanità e all’apparenza, relegando i valori più profondi alla sfera privata (in quanto considerati una debolezza o una stranezza). Pochi anni prima, infatti, erano nati Facebook e Youtube, a cui ancora non ci si era abituati.

… alle necessità dei nostri giorni

Il progresso tecnologico accelera a velocità mai viste prima e, come già anticipato con la teoria di Mcquail, arriva a cambiare le nostre abitudini permettendoci di poter assistere ad alcuni momenti di vita quotidiana da remoto. Una possibilità che sembra calzare a pennello con l’arrivo della pandemia da Covid-19.

Eppure quel progresso tecnologico tanto stimato, sembra far crollare i sistemi valoriali cardine delle nuove tecnologie di comunicazione e portare con sé la necessità e il desiderio degli utenti di ritrovare quel senso di umanità e semplicità, ormai perduti.

Sulla base di quanto affermato poc’anzi, si vede come Clubhouse sia nato per essere una nuova e migliorata versione dei social moderni: prima di tutto perché porta al centro l’individuo (spogliato dei filtri e delle barriere sociali), mettendogli a disposizione la forma più spontanea e diffusa di comunicazione, ovvero la conversazione. E considerando l’epoca in esame, queste conversazioni devono tener conto del linguaggio e del contesto socioculturale (che, come affermava Duranti, sono facce della stessa medaglia) di ciascun individuo; da questo la possibilità di creare stanze sui più svariati argomenti e nell’idioma desiderato.

Per far sì che tale esperienza si avvicini ancora di più alla realtà, l’ordine di interazione è lasciato in mano ai soggetti interessati che così seguono le logiche e le strutture comunicative tipiche di una conversazione orale (escludendo, perciò, la possibilità di prenotarsi o di scrivere in una chat apposita).

Continuando nella logica di un rimando alle conversazioni dal vivo, ciascun soggetto è libero di scegliere l’argomento di discussione, tra quelli offerti, o di proporli come in una classica uscita tra amici, rispettando logiche temporali diverse a seconda della “situazione in esame”.

“Ciò che hai da dire” si fonda su saperi che fino ad ora erano stati appannaggio della conoscenza codificata: si parla, infatti, della conoscenza personale che, come affermato da Von Hayek, è un rimando al valore intrinseco di ogni persona, e della conoscenza sociale che è collegata al concetto marxiano di general intellect, cioè di quell’insieme di saperi e competenze frutto della condivisione tra persone.

La possibilità di non dover rincorrere l’argomento di tendenza e di non incappare nelle echo-chambers dei social media, permette all’utente di formarsi e/o poter approfondire qualsiasi tema in tempo reale (senza rimandi ad altri link) e di confrontarsi con esperti piuttosto che attingere da testimonianze dirette.

Viene dato spazio all’humor, alle comunicazioni emotive (nella forma dell’entusiasmo, dell’indignazione o della critica) e a quelle giocose, ma anche alle comunicazioni serie; uno spazio concesso a chiunque, in grado di livellare le disparità legate al potere visivo: non ci sono più maschere.

Ultimata la conversazione, non ne rimane più traccia ma solo un ricordo legato a quegli istanti, legato alla memoria di ciascuno di noi; senza possibilità di condividere quanto detto su tutta la rete, non è possibile sapere se e a chi arriveranno queste parole, si dà un valore diverso alla comunicazione, un valore più personale e libero dall’interferenza mediatica.

Dalla società all’individuo: la psicologia dietro al nuovo social

Se da un lato questo social può essere usato per conversare con le persone in “piazza” come ai vecchi tempi, una novità la aggiunge: si può arrivare a parlare direttamente con il VIP di turno, evento che non capita proprio tutti i giorni.

I social network hanno da sempre permesso di avvicinare l’individuo comune ai “grandi”; e se un tempo era una cosa straordinaria riuscire anche solo a salutare e ricevere un autografo dal proprio idolo limitandosi per il resto del tempo ad ammirarlo attraverso uno schermo televisivo, ad oggi non è strano ricevere una risposta sporadica ad un messaggio o ad un commento inviato a qualcuno “con tanti followers”. Ma Clubhouse è andato oltre, arrivando quasi ad annullare quella distanza e completando, così, quello che si può definire l’avvicinamento dei miti.

Il fatto di essere così meritocratico facilita questo processo dato che non conta quanto si è famosi, se si ha qualcosa di intelligente da dire si possono avere i due minuti di “gloria”, intervenire e tutti stanno ad ascoltare in modo democratico.

Questa cosa piace talmente tanto che una delle frasi maggiormente ripetute da chi lo sta sperimentando è proprio: “armati di tempo perchè ne occorre molto e può creare dipendenza”.

Creare dipendenza: lo sa fare bene

Il fatto curioso è che Clubhouse non ha metriche, a parte il numero di followers e i relativi seguiti (che non si vedono durante la prima interazione nella stanza con una persona ma è necessario cliccare sul profilo), non ci sono like, dislike, reazioni e quant’altro, le cosiddette vanity metrics accusate da sempre di essere la causa dei problemi di dipendenza legati ai social, qui non esistono… e allora, cosa crea dipendenza?

Si ipotizzano due ragioni: il bisogno di avere interazioni con altri esseri umani in questo periodo così delicato, ma soprattutto la FOMO.

FOMO è un acronimo che sta per “fear of missing out” ovvero la paura di perdersi qualcosa, teorizzata nel 2004 da Patrick J. McGinnis, un fenomeno sociale evidente ancora prima di Clubhouse, ma è con quest’ultimo che viene ancora più accentuata; può risultare faticoso uscire da determinate stanze nelle quali vengono trattati argomenti di interesse che quindi non si vogliono perdere, anche se queste dovessero durare per ore.

Inoltre, ad accentuare ulteriormente questo fenomeno è il fatto che ciò che viene detto su Clubhouse, rimane su Clubhouse, non essendo possibile registrare (è contro il regolamento) ed è per questo che la FOMO diventa saliente; le storie di Instagram sono visualizzabili per 24 ore, una foto su Facebook tendenzialmente rimane per sempre, ma ciò che non riesci ad ascoltare da una conversazione su Clubhouse, lo hai perso per sempre.

Passare il tempo in una stanza e cosa si “guadagna”

Sicuramente ci sono degli aspetti a cui fare attenzione come il fatto di trascorrere molto tempo sulla piattaforma, ma non mancano di certo i lati positivi: in primis molte persone sostengono di aver trovato dei gruppi in cui si discute di aspetti legati alla sfera affettivo-personale, dove persone si confrontano e confortano a vicenda su temi anche molto delicati.

Clubhouse può anche diventare un luogo dove passare del tempo in maniera piacevole con le persone, sentirsi meno soli ed evadere dalla quotidianità.

Non dovrebbe sorprendere questo fenomeno di supporto psicologico di gruppo che si sta verificando in molte stanze, il termine stesso “clubhouse” infatti non è stato inventato di recente: le clubhouse sono nate nell’America degli anni ‘50, luoghi creati in alternativa ai disumanizzanti manicomi, dove i malati si davano aiuto reciproco trascorrendo del tempo insieme.

Non solo intrattenimento: qui si studia

Aggiungendo il fatto di poter ascoltare esperti dei più svariati settori che spiegano argomenti interessanti, ecco che si ottiene pure il fine educativo della piattaforma che potrebbe realmente diventare una miniera di conoscenza per i più curiosi desiderosi di imparare qualcosa in una versione in diretta del podcast.

Le opportunità per usarlo bene sono parecchie, si può persino migliorare una lingua parlando con dei native, se lo si desidera. Non resta dunque che capire come evolverà in futuro, si continuerà ad utilizzarlo in maniera educata come molte persone stanno riferendo, o tenderà a “sporcarsi” velocemente come spesso succede?

Prospettive future: come potrebbe evolversi il modello di business ma non solo

Come si evolveranno i rapporti umani e il digitale in futuro? quello che è certo è che la “rivoluzione vocale” è stata lanciata e non si può più tornare indietro, sia che Clubhouse vada avanti sulle proprie gambe sia che venga acquisita da altri, dato che gli early adopters stanno apprezzando questo nuovo modo di comunicare, molto più personalizzato e meritocratico.

Di sicuro  le altre “Big” non si limiteranno a guardare, in primis Zuckerberg, il cui detto nel mondo digital “Mark o copia o compra” si conferma nuovamente: Facebook ha già annunciato l’idea di introdurre delle features audio.

Ora che la startup ha passato il primo round di finanziamenti, va definito come si potrà evolvere sul piano commerciale dato che per il momento non sta fatturando non essendoci un vero e proprio business model. Gli esperti come Marco Montemagno ipotizzano degli scenari futuri per monetizzare, tra cui introdurre stanze a pagamento come se ci fosse un ticket di partecipazione ad una conferenza oppure aggiungere pubblicità.

Non è tutto così semplice: rimangono delle questioni aperte

La prima è legata alle privacy policy: lo Stanford Internet Observatory ha scoperto che Clubhouse collabora con la startup cinese Agora cioè colei che fornisce la struttura back-end all’app stessa, nonché l’ente al quale giunge la trasmissione in chiaro di metadati rilevanti e che ha potenzialmente la possibilità di intercettare, prelevare e conservare anche frammenti di registrazioni. Tali registrazioni possono quindi arrivare al governo della Repubblica Popolare (che in questi giorni ha bloccato il social nel paese). Questo è possibile, come spiegato nel rapporto della Observatory, perché il codice ID univoco di ogni utente, oltre che quello delle varie room, viene regolamentato da una crittografia obsoleta che consentirebbe la facile intercettazione di tutto ciò che accade nelle stanze. L’unico modo per impedire ad Agora di avere accesso all’audio grezzo, consiste nell’utilizzo, da parte di Clubhouse, di un metodo di crittografia personalizzato (end to end): sebbene ciò sia possibile, richiederebbe al social network di distribuire le chiavi pubbliche a tutti gli utenti, cosa non immediata da implementare.

Ma non finisce qui: l’app richiede l’accesso alla rubrica per poter mandare gli inviti (mandarli non è obbligatorio, ma se li hai, è inevitabile che qualche amico te li chieda) e quindi può “vedere” tutti i contatti salvati, procedura che va contro il GDPR europeo; infatti, in merito a questi problemi si è mosso, in questi giorni, anche il Garante italiano della privacy al fine di far luce sulla questione. La startup americana, però, mette le mani avanti: “stiamo rinforzando le misure di sicurezza per impedire all’azienda cinese di prelevare dati, creando diversi blocchi nell’applicazione stessa”.

La seconda invece è che per il momento non c’è nessun reale controllo, se non quello arbitrario dei moderatori delle stanze, meccanismo che potrebbe diventare pericoloso: stanze create da estremisti di ogni genere in grado di generare degli hate speeches di stampo razzista o omofobo. Allo stesso tempo è più semplice che in altri social fingere di essere qualcuno che non si è semplicemente registrandosi con nome e foto altrui si può parlare e quindi esprimere idee che vengono collegate a quella persona non presente invece che a colui che ha “rubato l’identità”, quasi nessuno sarebbe in grado di riconoscere la voce, rendendo tutto molto credibile e rischioso per la “vittima”. Se a questo ci aggiungiamo il fatto che nonostante il regolamento vieti di registrare, ci siano persone che lo facciano comunque, fa ben capire quanto lavoro ci sia ancora da fare in materia di sicurezza.

Infine, la terza questione è legata al fatto che per il momento il social esiste solo per il sistema operativo iOS, anche se questo problema è destinato a risolversi a breve: i founder hanno già annunciato di essere al lavoro sulla versione per Android che verrà rilasciata quanto prima permettendo così ai “momentaneamente esclusi” di registrarsi (infatti la maggior parte dei dispositivi mobili, ha sistema Android).

Riflessioni

È ancora presto per giungere a conclusioni affrettate, Clubhouse è rivoluzionario, promettente e in certe questioni anche un po’ controverso, ma allo stesso tempo molto giovane: le possibilità di evolversi sono praticamente infinite.

L’unico modo per sapere di più è aspettare e vedere che succede, nel frattempo non resta che godersi lo spettacolo rimanendo con il dubbio: riuscirà a diventare il nuovo Facebook coinvolgendo “vocalmente” tutto il mondo?

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Marketing & Social Media

Influencer Marketing, raccontato da Matteo Pogliani

Chiunque possieda un profilo social avrà sperimentato, come utente, l’influencer marketing. Quanto però conosciamo davvero questa realtà e le relazioni che intercorrono tra brand, influencer e pubblico? Ce le racconta attraverso questa intervista Matteo Pogliani, Head of Digital per l’agenzia Open-Box e professionista che si occupa da molti anni di comunicazione, soprattutto nel mondo online.

Come potremmo definire l’influencer marketing?

Si tratta di un tipo di marketing basato sul coinvolgimento di figure che, grazie a un’attività di personal branding, hanno guadagnato autorevolezza e una forte reputazione online. Queste persone sono centrali all’interno del network e rappresentano un medium e un plus per la comunicazione aziendale, perchè le loro qualità vengono prese in prestito dal brand. È una strategia efficace: gli influencer hanno naturalmente un appeal rispetto ai propri follower e, a differenza di quanto accade nel marketing tradizionale, vengono eliminate le sovrastrutture commerciali. La comunicazione così è più leggera e ha un impatto maggiore sull’utente. Bisogna fare attenzione a scegliere le persone giuste, perchè “il chi vale quanto il cosa”: solo così gli influencer riescono a essere driver per relazioni con gli utenti finali, accorciando la distanza tra brand e utente grazie all’affinità con i propri followers.

Da quando è nato si sta evolvendo?

Un’evoluzione c’è stata: già negli anni 50’ si parlava degli “opinion leader” come di figure che avevano un impatto sulle persone. Per sfruttare questa influenza però bisognava avere accesso ai mezzi di comunicazione di massa. Le prime vere e proprie forme di influencer marketing si sono sviluppate sui blog, mentre ora che queste attività non sono più rare il canale principale è Instagram. Il valore del contenuto sta tornando centrale: lo testimonia il fatto che ora si parli sempre di più di “content creator” e non solo di influencer. Ciò si riflette anche in un altro aspetto: se una volta era l’influencer a far produrre per sé un contenuto da pubblicare, ora le aziende stanno sfruttando la capacità dei creator di creare contenuti per il brand stesso (ne sono un esempio i ragazzi di “Casa Surace” e i “The Jackal”)

Che caratteristiche ha un progetto di influencer marketing efficace?

L’elemento decisivo per giudicare l’efficacia di un progetto è il suo risultato, anche se per arrivare a un buon risultato ci sono dei criteri generalmente validi. Bisogna aver chiaro il concept del progetto nel momento in cui si seleziona l’influencer più adatto e considerarne il pubblico in base a dati come l’età, il sesso e le affinità con il creator. Un errore frequente infatti è la scelta basata unicamente sull’ampiezza della fanbase, o sulla fama. Questo tipo di marketing è di principio uno strumento trasversale e quindi adatto anche ad aziende più piccole, che riescono però a raggiungere una nicchia di interesse. È importante che non ci sia contrasto di stile, mood e tono tra il brand e l’influencer: limitarsi a inviare un prodotto all’influencer per vederlo condiviso nelle stories di Instagram spesso può rivelarsi un errore. Non bisogna considerare solamente l’affinità tra la fan base e il creator, ma anche quella tra il creator e il prodotto stesso. Una cosa importante da considerare per l’azienda è che l’influencer marketing è uno spot che si accende sul brand: se la sua presenza online non è perfetta si vedranno le crepe del progetto.

Come nasce un progetto di influencer marketing?

Si parte dal colloquio con l’azienda: bisogna conoscerne gli obiettivi legati al business, per esempio il lancio di un prodotto ( un obiettivo di business infatti non può essere il raggiungimento di un certo numero di follower). Da un briefing iniziale nasce il concept di progetto, l’idea creativa alla base. Si sceglie allora il canale migliore per realizzarlo e in base a questo si attiva la fase di influencer outreach: si fanno valutazioni profonde sulle collaborazioni passate di un influencer, sulla sua performance nella collaborazione con i brand e sulla sua reputation, per verificare che non abbia scheletri nell’armadio. Una volta individuata la persona giusta, viene comunicata una linea guida del progetto da seguire, senza però imporle uno stile comunicativo. Dopo la pubblicazione si fa un monitoraggio per capirne l’impatto: si analizza la conversazione online prima e dopo la pubblicazione, uno dei pochi strumenti sia qualitativi sia quantitativi per valutare l’impatto della campagna. Anche il valore equivalente, un concetto del marketing tradizionale che si applica anche ai social, è importante: per esempio, quando si analizza la performance di un’attività di influencer marketing su Instagram considerandone le interazioni che ha generato e il reach ci si chiede quante risorse si sarebbe dovuto mettere in campo se si fosse investito per lo stesso progetto in advertising di Instagram.

Esistono linee guida che influencer e aziende devono seguire?

Sì, esistono e sono consultabili da tutti: lo I.A.P ( Istituto per l’autodisciplina pubblicitaria)  le ha inserite in un documento pubblico, la Digital chart. Il principio fondamentale è la riconoscibilità della non spontaneità di un qualsiasi contenuto frutto di una collaborazione tra influencer e brand. L’utente può accorgersene grazie a dei disclaimer, come #adv o #ad seguiti dal nome del brand, che devono essere inseriti nella prima parte del post. Lo stesso principio vale anche nel caso di un prodotto spedito come regalo, che deve essere segnalato dall’hashtag #gifted; non è ritenuto sufficiente dallo stesso I.A.P invece l’uso dell’opzione “branded content” su Instagram. Le multe per chi non rispetta queste regole ci sono e si inaspriscono nel caso in cui non si informino gli utenti sui rischi per la salute. In Italia però non è mai stata comminata una: nella maggior parte dei casi la segnalazione di un contenuto che non rispetta le regole finisce in una cancellazione o in un’integrazione del contenuto stesso, quando però il danno nei confronti degli utenti è già stato fatto.

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Marketing & Social Media

TikTok e la nuova pop-culture

Se c’è una cosa che abbiamo sicuramente appreso da questo funesto 2020 è proprio che i social sono ormai arrivati a dettare, nel bene o nel male, le regole e i tempi della nostra vita. Il lockdown obbligato della scorsa primavera ha infatti esplicitato una verità finora rimasta in sordina: siamo tutti diventati, direttamente o indirettamente, schiavi della rete.

Nel periodo di quarantena, a cui tutta l’Italia ha dovuto sottostare per contrastare l’avanzamento della pandemia, i social sono stati sicuramente un mezzo efficace per vincere la solitudine. Instagram, Facebook e Whatsapp ci hanno infatti permesso di mantenere i rapporti sociali e rimanere aggiornati su cosa stesse accadendo fuori dal microcosmo di casa nostra. Ma nell’elenco delle app che non possono mancare sul cellulare fa capolino un’altra icona che ha ormai conquistato il posto fisso nella nostra schermata home ed è destinata a rimanerci ancora per molto: sto parlando di TikTok.

Secondo i dati statistici, è TikTok l’applicazione più scaricata del 2020. Ma perché un’altra app? Facebook e Instagram non ci bastavano?

TikTok, questo sconosciuto

Lanciato in Cina nel 2016 inizialmente sotto il nome di musical.ly, TikTok è la nuova piattaforma social che nello scorso anno ha letteralmente subito l’invasione da parte di milioni di giovani. Ne abbiamo sentito parlare ininterrottamente per molti mesi, ma di cosa si tratta veramente?

Il social è nato come piattaforma destinata ad un pubblico di adolescenti ma l’età media degli utenti, ad oggi, si aggira tra i 18 e i 24 anni. Il social network cinese ha registrato un vero e proprio boom di nuovi iscritti nel 2020, complici la noia e la necessità di novità scaturite dal lockdown, ed è arrivato a toccare i 63,3 milioni di download solo nel mese di agosto. Il suo cavallo di battaglia è sicuramente la completa rivoluzione del concetto di “contenuto”: sulla piattaforma infatti si trovano solo dei mini-video dalla durata massima di 15-30 secondi, non ci sono foto e non c’è uno spazio dedicato al pubblico confronto (manca, per così dire, un analogo dei post su Twitter o Facebook). L’unica possibilità concessa agli utenti per scambiarsi opinioni è utilizzare lo spazio dedicato ai commenti presente sotto ogni video. Questa opzione però risulta estremamente limitante se si considera che esiste un massimo di battute relativo ad ogni commento. Molto spesso infatti si scatenano vere e proprie discussioni causate principalmente da incomprensioni o fraintendimenti dovute proprio a commenti precedenti. Talvolta, la giungla che si scatena sotto ad ogni video degenera in veri e propri dissing, “litigi a distanza” pieni di astio e uscite teatraleggianti, che possono trascinarsi per giorni.

Sebbene queste novità possano sembrare a primo impatto disorientanti (anche per un qualsiasi utente della genZ), ci si accorge ben presto che non siamo lasciati soli nell’esplorazione di questo nuovo mondo: l’algoritmo di TikTok infatti ci accompagna assiduamente in ogni nostra ricerca.

La presenza costante di un tracciamento che incrocia i nostri interessi con i contenuti virali è incredibile ed inquietante allo stesso tempo. Nonostante siamo tutti consapevoli di essere ogni giorno direttamente o indirettamente controllati (basti pensare ai cookie di Google), la personalizzazione attuata da TikTok è incredibilmente tangibile. L’algoritmo infatti governa i contenuti che ci vengono mostrati sulla base di interessi specifici, like, trend ed interazioni. In questo modo, la “home” (per i più esperti, il feed) di due utenti, anche coetanei e con interessi simili, può risultare completamente differente a seconda dei parametri valutati dall’applicazione.

Dimmi com’è il tuo feed e ti dirò chi sei

La struttura dell’applicazione in realtà è semplice ed immediata. Sulla piattaforma infatti esistono solamente due sezioni principali: i “seguiti” ed i “per te”. Se da un lato nei seguiti troviamo solo video di utenti selezionati da noi, nei “per te” troviamo i video fatti su misura per noi. Vi compaiono infatti i trend del momento, i contenuti virali o appositamente consigliati dall’algoritmo di tiktok.

Può accedere quindi che per un periodo la tua schermata sia occupata costantemente da video di Timothee Chalamet, gattini e ricette vegane, per poi passare irragionevolmente a popolarsi di comedy, vlog e “what I eat in a day”: dipende tutto da te e dall’algoritmo.

É necessario puntualizzare che comunque TikTok si è dimostrato essere un grande bacino di creatività, nel senso più democratico del termine. Ogni utente della piattaforma è infatti un potenziale “content creator”e ha le piene possibilità di generare un trend o di far diventare virale un proprio video (registrato amatorialmente col proprio cellulare) , raggiungendo centinaia di migliaia di visualizzazioni in poche ore…se l’algoritmo sarà clemente. L’unica autorità a cui l’utente deve sottostare infatti rimane l’algoritmo: niente su TikTok è affidato al caso.

L’interrogativo a questo punto rimane solo uno: siamo noi a decidere cosa guardare o è l’algoritmo che decide cosa farci piacere?

Non solo balletti

Siamo ormai nel 2021 e TikTok è sicuramente diventata una di quelle applicazioni mainstream fondamentali che tutti conosciamo, nel bene o nel male. Il nuovo social è rivoluzionario proprio nella sua istantaneità: tra migliaia di mini video di 15 secondi si nasconde un mondo pieno di risorse e creatività, che è riuscito ad inglobare anche la cultura.

Si potrebbe dire che l’audience si divide tra chi lo giudica “aberrante ed infantile” e chi invece ritiene che sia una “grande risorsa”. Di rado infatti si incorre nella cosiddetta “macchia grigia” degli indecisi: Tiktok o lo odi o lo ami, raramente esistono vie di mezzo. Se lo scarichi, finisci inevitabilmente con l’esserne un avido consumatore. Troppo spesso infatti si finisce con lo spendere inconsapevolmente intere ore scrollando da un video ad un altro e ascoltando sempre le solite canzoni in tendenza: senza accorgertene, quei ripetitivi jingle diventano così anche il sottofondo delle nostre esperienze giornaliere.

I più scettici si rifiutano di scaricarlo perché ritengono che sia un’applicazione estremamente superficiale. La piattaforma infatti è diventata famosa proprio per la possibilità di abbinare musica (o altri contenuti audio) a brevi video di ogni tipo. Se però i trend iniziali consistevano principalmente nel realizzare semplici coreografie su una base musicale, adesso possiamo affermare che questi confini sono stati ampiamente superati. Il Tiktok di oggi non è più il mondo dei “balletti” dell’esordio. Sulla piattaforma possiamo trovare una grande varietà di contenuti a scopo ludico o didascalico, dall’attivismo a tematiche lgbtqia+, alla politica fino alla cultura. Nel giugno scorso per esempio, la piattaforma è stata letteralmente invasa da video/testimonianze del movimento BLM (Black Lives Matter), esponendo pubblicamente i fenomeni di violenza messi in atto dalla polizia contro gli afroamericani e mostrando così la rivoluzione che finalmente stata avvenendo negli USA contro secoli di razzismo sistemico. Milioni di utenti hanno visto, ricondiviso e commentato i video delle proteste, contribuendo a diffondere i valori del movimento.

UffizziGalleries on Tiktok

In un mondo in costante accelerazione, dove la soglia dell’attenzione si riduce sempre di più e la comunicazione diventa immediata, è necessario adeguarsi alle regole del gioco.

La capacità del content creator sta proprio nel riuscire ad “evocare” i concetti più che nell’enunciarli, e sicuramente chi gestisce l’account Tiktok degli Uffizi (@Uffizigalleries), uno dei musei più famosi al mondo per le sue straordinarie collezioni di sculture antiche e di pitture (dal Medioevo all’età moderna), è riuscito nell’intento.

A causa dell’emergenza sanitaria causata dalla pandemia del coronavirus, i musei sono stati costretti a rimanere chiusi per mesi, rendendo così impossibile a milioni di persone di poter accedere ai luoghi dell’arte. Di fronte alla stasi totale però, gli Uffizi sono un grande esempio di propositività ed ingegno. Se è impossibile avere un contatto diretto col visitatore, occorre portare l’arte sui social, a casa del pubblico: e quale miglior vetrina sul mondo se non proprio TikTok?

La campagna social messa in atto dalla pagina ufficiale degli Uffizi è chiara: in questo periodo storico, è più che mai necessario diffondere e far conoscere le opere d’arte ad un pubblico più vasto possibile, cercando in particolare di catturare l’attenzione del target giovanile, così da trasformare followers in futuri visitatori.

“Questi video ideati e creati con il linguaggio al momento più convenzionale ai giovani, permettono all’arte di avvicinarsi alle nuove generazioni” afferma Ilde Forgione, social media manager degli Uffizi, in un’intervista su RepubblicaFirenze. Forgione racconta che il progetto è nato in accordo con il direttore Eike Schmidt che, sempre su Repubblica, spiega come secondo lui anche un museo possa fare umorismo: “serve ad avvicinare le opere a un pubblico diverso da quello cui si rivolge la critica ufficiale, ma anche a guardare le opere in modo diverso e scanzonato. In un momento difficile come questo, è importante, ogni tanto, concedersi un sorriso e un po’ di autoironia. E se è possibile farlo grazie alla grande arte, ancora meglio”.

Tra i video creati dall’account Uffizigalleries diventati virali su TikTok non si può non consigliare la visione di alcune clip, come il video sul ritratto di Petrarca , poeta proto-umanista consumato dall’amore per Laura, che ha raggiunto gli oltre 64mila likes grazie all’acuta scelta di un audio trend del periodo.  Tra gli altri video di successo, ricordiamo il TikTok fatto in occasione del GayPride, il video con protagonista La Primavera di Botticelli e quello che racconta il mito del satiro Marsia, scorticato vivo da Apollo.

Gli Uffizi si sono quindi dimostrati un grande esempio di innovazione ed apertura in un mondo troppo spesso recidivo al cambiamento.

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Marketing & Social Media

Whatsh(app)ppening? Dati e informativa sulla privacy

L’applicazione di messaggistica instantanea WhatsApp è entrata nella quotidianità delle nostre vite, al punto che il suo nome è diventato una espressione gergale usata per riferirsi all’azione di scambiarsi messaggi.

Lanciata sul mercato nel 2009, dopo il 2014 è entrata a fare parte del gruppo Facebook Inc.

Oltre alla sopra citata WhatsApp e l’omonima applicazione Facebook l’azienda possiede diverse controllate tra cui Instagram, Onavo, Oculus VR LLC, LiveRail, CrowdTangle e tante altre.

Com’è strutturata l’azienda?

WhatsApp Ireland Limited con sede a Dublino, si occupa di gestire tutti i dati degli utenti che risiedono in un Paese o in un territorio appartenente allo Spazio Economico Europeo.

Questa distinzione è necessaria perché l’Unione Europea ha redatto un Regolamento con l’obiettivo di rafforzare la protezione dei dati personali dei suoi cittadini.

Mentre i dati di tutti gli altri utenti vengono gestiti da WhatsApp LLC che ha sede a Menlo Park in California, Stati Uniti.

Quali dati raccoglie l’applicazione dagli utenti? Che tipo di dati sono?

Quando l’utente spunta la famigerata casellina “accetto i termini e le condizioni di utilizzo” dà il suo consenso alla raccolta dati che ne deriva e quindi, in base alle informazioni che decide di cedere, sarà in grado accedere o meno a determinate funzioni.

É interessante sapere che al momento della creazione dell’account personale l’utente sottoscrive a WhatsApp una licenza globale, che autorizza l’applicativo ad ottenere tutti i dati ed i contenuti dell’utente ricevuti o condivisi  tramite i suoi servizi cui diritti servono per garantire una migliore user experience agli utenti finali.

Possiamo distinguere due tipi di informazioni: quelle fornite direttamente dagli utenti, e quelle raccolte in automatico dal software.

L’utente fornisce informazioni in merito a:

  • le generalità riguardanti il suo account come il numero di cellulare, l’immagine del profilo e l’eventuale stato
  • I suoi messaggi; curioso è sapere che WhatsApp si comporta come una sorta di tramite per quanto riguarda l’invio dei messaggi.

Una volta consegnato il messaggio al destinatario esso viene salvato sul dispositivo di arrivo e l’applicativo procede poi con l’eliminazione dai suoi server.

In caso non fosse possibile recapitare il contenuto del messaggio, esso viene conservato in forma crittografata nei server fino ad un massimo di 30 giorni e superato questo limite si procede con l’eliminazione definitiva del messaggio.

  • Anche i suoi file multimediali vengono salvati sempre in forma crittografata nello stesso modo nei server, in modo di da poterli condividere con altri utenti in maniera efficiente e veloce.
  • Le sue connessioni: acconsentendo alla funzione di caricamento dei contatti si forniscono alla piattaforma tutti i recapiti telefonici presenti all’interno della rubrica.

Le informazioni raccolte automaticamente invece riguardano:

  • Le attività dell’utente come ad esempio le modalità di interazione coi suoi contatti e con gli eventuali gruppi di cui fa parte, il registro delle chiamate, la data e l’ora dell’ultimo accesso qualora ci sia, la data di aggiornamento delle informazioni di profilo.

WhatApp riceve inoltre informazioni sull’utente anche da altri utenti, come una sorta di controllo incrociato dei dati.

  • Informazioni riguardanti il tipo di dispositivo utilizzato ed il tipo di connessione; il modello di hardware, il tipo di sistema operativo utilizzato, la potenza del segnale, l’operatore telefonico, le informazioni relative al browser, al tipo di rete mobile o il provider.
  • Informazioni sulla posizione: quando l’utente attiva i servizi di geolocalizzazione dalle impostazioni sul proprio dispositivo, WhatsApp le riporta nei propri server, riporta quando e come l’utente ha condiviso la propria posizione coi suoi contatti o quando l’utente ha visualizzato la posizione ricevuta dai suoi contatti.

Se invece il servizio di posizione è disattivato, si ricorre ad altri indirizzi come il prefisso telefonico per stimare dove l’utente potrebbe trovarsi.

  • I cookie: il software rileva i cookie dell’utente come ad esempio le preferenze sulla lingua, il fuso orario, su cosa l’utente cerca e si interessa quando naviga sul web.

Possiamo dire che un servizio è gratuito perché il mezzo di scambio utilizzato è diverso dalla moneta?

Quali sono i nostri parametri per definire qualcosa come gratuito?

4 Gennaio 2021

L’aggiornamento delle policy, inizialmente doveva essere accettato dagli utenti entro la data 8 febbraio 2021 per continuare ad utilizzare il social, chi non si trovasse d’accordo con queste policy veniva implicitamente esortato a disiscriversi.

Specifica chi è l’azienda responsabile dei dati, inserisce il requisito dell’età minima di sedici anni per potersi iscrivere, viene citato il codice europeo delle comunicazioni elettroniche, spiega come il software collabora con le altre aziende del gruppo di cui fa parte, e si propone di creare una migliore comunicazione tra le aziende perché molte si affidano all’applicazione per gestire la comunicazione coi propri clienti.

Riguardo la comunicazione con le aziende del gruppo Facebook viene evidenziato come questo permetta di offrire i servizi in modo efficiente ed affidabile, garantire protezione e sicurezza tramite l’eliminazione degli account di spam, ottenere una condivisione diretta tra i contenuti condivisi su Facebook e WhatsApp tramite ad esempio la condivisione di link nelle chat, e avere a disposizione i recapiti commerciali delle aziende che lavorano sul social tramite link personalizzati.

Il Garante della privacy italiano lo scorso 14 gennaio è intervenuto d’urgenza perché ritiene che i contenuti dell’aggiornamento siano poco chiari e che necessitano di attente valutazioni.

Alla luce di queste proteste WhatsApp ha rinviato la data al 15 maggio.

Anche gli utenti si sono trovati perplessi da questo aggiornamento, tanto da registrare nelle scorse settimane una “migrazione” verso altri social di messaggistica istantanea come Telegram.

Da un lato il software mette a disposizione degli utenti gli strumenti di crittografia end-to-end. Perché questo bisogno di collaborazione con le altre controllate del gruppo?

Sabato 30 gennaio Whatsapp ha pubblicato delle stories contenti alcuni chiarimenti sulle nuove policy.

L’applicativo spiega che il nuovo aggiornamento riguarda solamente il rapporto con le aziende, un servizio facoltativo destinato alle funzionalità business.

L’introduzione dei messaggi effimeri potrebbe rappresentare una risorsa aggiuntiva per proteggere la privacy degli utenti?

La possibilità di scaricare i propri dati potrebbe tranquillizzare gli utenti?

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Marketing & Social Media

Tumblr e censura: andiamo a fondo della questione

Nel Novembre del 2018 la Apple si è trovata costretta a rimuovere Tumblr dal proprio store in seguito alla scoperta di materiale pedopornografico su tale piattaforma.

Questo è quanto si legge sui diversi siti che affrontano il tema in oggetto, affermazioni mai confermate ma neanche smentite dallo staff e dallo stesso CEO di Tumblr Jeff D’Onofrio: nei post ufficiali si legge, infatti, che per il 17 Dicembre dello stesso anno sarebbero entrate in vigore delle Linee guida più restrittive al fine di adeguare il social alle direttive imposte da ciascun paese per il rispetto degli utenti a seconda dell’età, del genere e della provenienza e, così, mantenere attivo Tumblr, farlo evolvere e, infine, avere un impatto positivo nel mondo.

Una censura che avrebbe posto delle limitazioni anche nella pubblicazione di materiali pornografici che non recavano alcun danno ai minori di 18 anni, materiali che rappresentavano i fondamentali della piattaforma.

Le origini

Tumblr nasce nel 2007 per mano di David Karp e Marco Arment (che lascerà la compagnia nel 2010) con lo scopo di creare una versione innovativa del classico social network; la piattaforma si basa, infatti, sulla creazione di brevi blog personali (tumblelog) personalizzabili con immagini, video o GIF e anche grazie a semplici tips grafiche fornite dalla piattaforma stessa. Gli sviluppatori, però, non imposero significative restrizioni a livello di libertà di espressione e, così, i loro seguaci videro la possibilità di sfruttare la piattaforma per parlare di porno in chiave creativa e nel formato di un diario personale, possibilità negata su moltissimi altri siti.

Con l’acquisizione della compagnia da parte di Yahoo! prima e di Verizon Communications dopo, i proprietari della piattaforma hanno cercato di pulirla solo con bot e Safe Mode, per evitare significativi stravolgimenti all’”orientamento” della stessa; ma da come si è potuto leggere nell’incipit, le azioni intraprese sono state vane.

Tutta l’attenzione al porno… buono

Nelle nuove linee guida si legge, infatti, del divieto di pubblicare <<contenuti per adulti che includono principalmente foto, video o GIF che rappresentano organi genitali esposti o capezzoli femminili, nonché tutti i contenuti, tra cui foto, video, GIF e illustrazioni, che rappresentano atti sessuali (comprese le immagini ingannevoli ovvero quelle che richiamano tale contenuto ma sotto mentite spoglie)>>; le uniche azioni permesse riguardano <<l’esposizione di capezzoli femminili per l’allattamento, momenti prima o dopo il parto e situazioni legate alla salute, come ad esempio immagini successive a mastectomia o interventi chirurgici relativi al cambiamento di sesso. Contenuti scritti come erotismo, nudità impiegata per temi politici o di attualità e immagini di nudi in ambito artistico, come sculture e illustrazioni, possono essere liberamente postati>>.

Una sostanziale differenza rispetto alle sue origini e una differenza che ha fatto storcere il naso a molti seguaci, che si sono visti limitare anche la possibilità di esprimere la loro creatività in campo artistico e scientifico; una scelta che ha portato ad un significativo calo dei nuovi iscritti e ad un’altrettanta migrazione su altri siti più permissivi in termini di pornografia. Un risultato alquanto negativo nonostante il tentativo del CEO di Tumblr di rimediare a questa restrizione facendo leva sul buon senso degli iscritti: i contenuti espliciti rimangono visibili solo al suo proprietario, con l’auspicio che lo stesso adotterà un comportamento diverso in futuro. Una sorta di escamotage che richiama quel senso di “permissività” e di comunità tipici di Tumblr.

Alla fin fine, se si entra nell’applicazione, si vede come non tutti i contenuti pornografici siano stati oscurati: permangono le immagini che lasciano poco spazio all’immaginazione, come accade su Instagram.

L’iniziativa degli utenti più affezionati

Di tutta risposta, coloro che volevano salvare il materiale pornografico di Tumblr e mantenere viva la sua tradizione, hanno fondato un gruppo di volontari chiamati Archive Team che hanno provveduto a fare un backup di tutto il materiale prima della fatidica data, aiutati anche dall’Internet Archive, un’organizzazione no profit americana che ha messo a disposizione il suo Wayback Machine, ovvero il suo archivio digitale.

Ad affiancare questa corsa contro il tempo, è stata creata la piattaforma Tapblr che ha permesso di ripristinare il proprio blog di Tumblr inserendo le credenziali di accesso dello stesso nella nuova piattaforma: indagando più a fondo, però, poco si sa di chi ha creato tale social e di come riesca a “sfuggire” al controllo delle autorità competenti.

Ma di tutta questa storia una cosa è certa: di fronte ad una limitazione della libertà di espressione, non ci sarà mai un punto di incontro tra le parti interessate e neanche una possibilità di ascolto reciproco, ma solo una continua lotta legale e personale.

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Marketing & Social Media

Twitter e il caso Trump: l’oggettività delle condizioni di utilizzo dei social media e il relativismo con cui possono essere lette

I fatti di Capitol Hill, con l’assalto di un gruppo di facinorosi al Parlamento americano e il conseguente ban di Trump dai principali social network, hanno aperto una discussione molto accesa sul ruolo che le piattaforme digital assolvono nel dibattito politico. Il ban è partito da Twitter e si è esteso anche a Facebook. Mark Zuckerberg ha addirittura definito “troppo pericoloso l’uso dei social da parte di Trump in questo periodo” . Un’azione legittima da parte delle due piattaforme a seguito della ripetuta violazione delle condizioni di utilizzo: nelle norme di Twitter, ad esempio, si può leggere che “sono proibiti contenuti finalizzati a incitare la paura, odio e violenza.”. Tuttavia sorge spontaneo porsi delle domande. Rimuovere Trump dai social media è stata una misura decisiva, anche se tardiva, per evitare la propagazione di messaggi di odio e violenza? Nel caso di un contenuto censurato, quanto si possono considerare oggettivi i criteri con cui quest’ultimo è stato eliminato? E infine, se non ci fossero state le incitazioni di Trump, sarebbe stato evitato tutto quello che è successo?

Il fenomeno delle “Eco chambers”

Le “eco chambers“, letteralmente “camere dell’eco”, sono un concetto importante nel mondo delle scienze sociali: si creano quando un gruppo di persone che condividono la stessa visione del mondo si trova isolato dalla discussione generale. Ogni opinione espressa rimbalza come un’eco senza incontrare smentite o critiche: chi la ascolta fa parte della stessa fazione e la appoggia senza remore. Estromettere le voci estremiste e inaccettabili dai social network più diffusi sembra una mossa necessaria e probabilmente lo è, ma potrebbe avere degli effetti collaterali.

Su Twitter infatti circolano idee e opinioni di ampio raggio: su Parler invece, la piattaforma di microblogging su cui a seguito del ban di Trump si sono spostati molti suoi accaniti sostenitori e già frequentata da estremisti, probabilmente no. Amazon e Google hanno riconosciuto il rischio legato a questa piattaforma e l’hanno rimossa dai loro server, di fatto impedendone l’accesso. Un’azione legittima, ma su cui possiamo ulteriormente riflettere: con la chiusura di Parler, si evitano odio e incitamento alla violenza o si provoca la nascita di altri spazi web di condivisione di messaggi inaccettabili?

Non sarebbe quindi meglio, da questo punto di vista, che queste voci rimanessero su Twitter, venendo sanzionate quando necessario, ma non incoraggiando questa deriva?

Il caso dell’Ayatollah Khamenei

«Non è improbabile che vogliano contaminare altre nazioni. Data la nostra esperienza con le scorte di sangue contaminate dall’HIV in Francia, neanche i vaccini francesi sono affidabili», ha scritto l’Ayatollah Khamenei sul suo profilo twitter attaccando non solo i vaccini contro il Coronavirus, ma avanzando un sospetto pregiudizievole nei confronti di un’intera nazione. Lo stesso attacco scritto pochi giorni dopo il ban dell’ex presidente Trump, è stato rivolto anche ai vaccini sviluppati in Gran Bretagna. Twitter ha reagito tempestivamente sospendendo l’account del leader iraniano fino al momento in cui i tweet, considerabili fonte di disinformazione, non sono stati rimossi. Se Twitter sceglie di sospendere un utente perchè non ha rispettato le condizioni di utilizzo si rischia di innescare una reazione a catena in cui molti esponenti politici potrebbero essere rimossi per la trasmissione di messaggi “non giusti e costruttivi”: non è facile individuare infatti la linea che separa un contenuto “sbagliato” da uno che “rappresenta un pensiero soggettivo seppur non condivisibile”.

La sospensione dell’account dell’ambasciata cinese

In questi ultimi giorni ha fatto ulteriormente discutere un tweet dell’ambasciata Cinese negli U.S.A., che è stata la causa scatenante del blocco del relativo account: Twitter lo ha considerato “disumanizzante nei confronti delle donne di etnia uigura“, una minoranza musulmana della zona dello Xinjiang, territorio nord-occidentale della Cina. Secondo quanto scritto dall’ambasciata, “grazie alle politiche di Pechino le donne uigure non sono più considerate come macchine per bambini”. Difficile contestualizzare questo blocco al di fuori delle politiche oppressive che le potenze occidentali attribuiscono al governo centrale di Pechino nei confronti dello Xinjiang, tradizionalmente separatista, e in particolare di Etnia uigura, anche tramite la denuncia dell’istituzione di “campi di rieducazione al lavoro”.

Una questione complessa che dimostra che il blocco di un account possa riflettere un contesto più ampio: non dobbiamo dimenticarcene nemmeno quando consideriamo l’espulsione di Trump dalle piattaforme social.

Ma in conclusione, quanto peso hanno questi tweet? 

La violazione oggettiva delle condizioni di utilizzo va sicuramente considerata, ma al di là di questa possiamo riflettere su molti risvolti di questi eventi.

Se pensiamo che le parole di Trump a cui é seguito l’assalto al Congresso ( e anche l’intervento dell’Ayatollah) sono state rivolte a un pubblico in grado di filtrare le informazioni con una propria capacità di giudizio, sorgono alcune questioni. Ci si chiede se, nel caso in cui gli incitamenti all’odio di Trump fossero stati evitati, ci sarebbe ugualmente stato l’assalto al Congresso. È legittimo rimuovere dei contenuti considerati “disinformazione” e per nulla costruttivi, pensando che le persone, senza una propria capacità di giudizio, vengano influenzate a compiere azioni sbagliate? È proprio il fatto che le parole di Trump siano state cancellate dopo essere state condivise con un’utenza globale che ha permesso ai cittadini di giudicare l’ex presidente Trump per la sua figura e di trarre adeguate considerazioni sul personaggio.

Gli ultimi eventi che si stanno verificando ci mostrano le dimensioni della potenza di cui dispongono i social media a livello mondiale: questo comporta una loro continua evoluzione verso un miglioramento costruttivo delle piattaforme. Bisogna prestare attenzione a quando la volontà di un miglioramento porta all’eliminazione di utenti poco esemplari dal momento che potrebbe portare a una controversia tra ciò che è giusto e sbagliato.

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Marketing & Social Media

Twitter: policy e ban di Trump

Lo scorso 9 gennaio l’ormai ex-presidente degli Stati Uniti Donald Trump è stato definitivamente bannato da Twitter, il suo principale strumento di comunicazione con il pubblico.

Il duro provvedimento è stato preso dall’azienda in seguito alla pubblicazione di un tweet scritto dall’ex-Presidente, il quale avrebbe incitato i manifestanti delle scorse settimane di Capitol Hill a compiere azioni violente.

I creatori di Twitter hanno commentato l’accaduto affermando che, a seguito di un profondo controllo, hanno stabilito la sospensione ufficiale dell’account per evitare la diffusione di ulteriori messaggi simili, i quali non rispettano termini e condizioni stabilite dalla piattaforma.

https://twitter.com/TwitterSafety/status/1347684877634838528?s=20

Questa decisione ha suscitato pareri molto contrastanti sulla questione, in quanto molti credono sia stata la decisione migliore, altri invece che la libertà di espressione sia stata limitata.

Nello specifico, quali sono le regole che qualsiasi utente iscritto al social deve impegnarsi a rispettare? E quali tra queste sono state trasgredite dall’ex-Presidente?

Regole e norme di Twitter

Come ogni piattaforma, anche Twitter possiede norme molto precise e articolate per tutelare i propri utenti.

Queste regole hanno lo scopo di far svolgere le attività garantite dal social senza turbare coloro che non desiderano visionare contenuti violenti o in grado di minacciare la propria sicurezza.

Le norme definite da Twitter sono raggruppabili in tre macrocategorie: sicurezza, privacy e autenticità.

Per garantire sicurezza e protezione di ogni iscritto, la compagnia si impegna ad eliminare contenuti violenti e sensibili, tra cui: messaggi che contengono atti di terrorismo, violenza minorile, abusi e molestie, autolesionismo e suicidio, beni e servizi illegali o dichiarazioni che incitano all’odio e alla violenza.

Il social, inoltre, si assume il compito di proteggere i dati e le informazioni private delle persone, perciò è assolutamente vietato condividere materiali altrui senza il loro esplicito consenso.

Infine, una delle regole fondamentali è rappresentata dall’autenticità delle informazioni pubblicate, che non devono avere lo scopo o la capacità di manipolare il pensiero altrui, non possono violare diritti quali norme su copyright e marchi e soprattutto non possono essere ingannevoli o false.

Twitter non solo si assume le responsabilità delle sue azioni, ma si impegna anche a chiarire dettagli e motivazioni che li costringono a prendere i provvedimenti nei singoli casi.

Le norme ideate sono infatti il risultato di approfondite ricerche sulle attitudini e le tendenze degli utenti online; ciò consente alla piattaforma di comprendere quali paletti porre in contesti differenti per potersi adattare sempre di più alle esigenze delle persone.

Per farlo, vengono raccolti regolarmente dei feedback dai membri interni all’azienda da ogni paese, in modo tale da adattare le regole ai differenti contesti culturali e sociali di tutto il mondo.

Un importante aspetto di cui Twitter tiene conto è infatti anche il contesto in cui viene svolta la trasgressione, se avviene nei confronti di altre persone, se la persona in questione ha dei precedenti, se l’obiettivo prevede il coinvolgimento di un pubblico molto ampio e naturalmente in generale la gravità della violazione.

Le azioni di ammonizione che possono essere intraprese dipendono dal caso specifico: Twitter potrebbe limitare la visibilità di un determinato tweet, oppure rimuoverlo definitivamente a seconda della sua pericolosità.

In altri casi è prevista invece la sospensione temporanea del profilo o l’impossibilità di interagire o pubblicare messaggi sulla piattaforma.

Il provvedimento più severo è quello che ha subito Donald Trump: la sospensione permanente del profilo, azione che non permette all’interessato di creare un eventuale nuovo account. 

Eccezioni previste per messaggi di interesse pubblico

Twitter prevede all’interno del proprio regolamento delle eccezioni per gli utenti che diffondono messaggi di interesse pubblico.

Soprattutto nel caso degli account di leader mondiali o rappresentanti governativi sono previste numerose esenzioni nel caso in cui vengano infrante alcune linee guida, tra cui la pubblicazione di messaggi che normalmente verrebbero immediatamente eliminati.

Ciò però non autorizza chiunque abbia una certa posizione a violare le norme della piattaforma senza alcuna conseguenza: la sospensione definitiva dell’account avviene nel momento in cui viene riscontrato nella pubblicazione un elevato rischio potenziale, quando vi è un evidente richiamo alla violenza o una call to action a danno di istituzioni o altre persone.

Trump, nel corso della sua permanenza sul social durata 12 anni, avrebbe scritto più di 57 mila tweet dichiarando più di 18 mila false accuse secondo il Washington Post e, secondo il New York Times, insultando circa 598 persone, luoghi o cose.

In quasi tutti i casi Twitter ha lasciato visibili i messaggi, fino al momento in cui è stato sospeso il suo profilo, in quanto le informazioni scritte dall’ex-Presidente avrebbero potuto essere considerate di pubblico interesse.

Quali regole ha infranto Trump?

In considerazione delle norme che regolano la piattaforma e in funzione dei privilegi e delle protezioni concesse alla figura di Donald Trump, la prima segnalazione da parte di Twitter nei suoi confronti è avvenuta il 26 maggio 2020. In questa data, le sue dichiarazioni riguardanti il voto postale previsto per le presidenziali di novembre sono state definite dalla piattaforma come potenzialmente fuorvianti e, in calce ai contenuti in questione, è stato inserito, attraverso la frase “Get the facts about mail-in-ballots” e preceduta da un punto esclamativo, un collegamento ad un articolo della CNN riguardante le sue forzature e imprecisioni.

Potenzialmente fuorviante è risultato essere un altro tweet con il quale venivano accusati i democratici di voler rubare le elezioni.

Dopo pochi minuti dalla sua pubblicazione, il contenuto è stato “oscurato”, mantenendo la possibilità di leggerlo attraverso il tasto “visualizza”, ed è stata limitata la funzione “retweet”. Il processo di censura ha riguardato, in generale, tutti i suoi tweet che denunciavano le elezioni come truccate.

Un’altra regola violata da Trump in più occasioni riguarda la glorificazione della violenza. La sua prima segnalazione si inserisce nel contesto delle proteste che hanno seguito la morte di George Floyd e anche in questo caso i contenuti in questione sono stati censurati (vedi ANSA e The Verge).

In funzione di questa regola è avvenuta prima la sospensione temporanea di 12 ore, a causa di alcune sue dichiarazioni che legittimavano l’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021, e successivamente quella permanente, nella notte fra venerdì 8 e sabato 9 gennaio.

Sviluppi e riflessioni

Dopo la sospensione definitiva da Twitter e da Facebook, anche altre piattaforme, come YouTube, TikTok e Twitch, hanno seguito lo stesso percorso.

Jack Dorsey, CEO e cofondatore di Twitter, nel commentare queste decisioni, ha affermato: “non penso sia stato un atto coordinato. Più probabilmente, le varie aziende hanno tratto le loro conclusioni o sono state incoraggiate dall’azione di altre”. La sospensione permanente viene però definita dallo stesso Dorsey come fallimentare, dal punto di vista del dialogo e del dibattito politico. Afferma anche, e soprattutto, la necessità di riprogettare le regole, sia dell’azienda sia di internet, perché l’epilogo della vicenda Trump – Twitter “stabilisce un precedente che ritengo pericoloso: il potere che un individuo o un’azienda hanno su una parte della conversazione pubblica globale”. Conversazione pubblica online che risulta essere già di per sé oggetto di discussione in merito al fatto che essa passi attraverso poche piattaforme private che agiscono sulla base di regole stabilite in autonomia.

Sempre secondo Dorsey, tale questione è assorbita dal pluralismo delle piattaforme online: “Twitter è soltanto una piccola parte della conversazione più ampia che avviene su internet. Se qualcuno non è d’accordo con le nostre regole, può semplicemente andare su un altro servizio online”.

https://twitter.com/jack/status/1349510769268850690?s=20

E adesso?

Molti si sono chiesti come farà Trump a comunicare senza il social preferito, ma il vero problema è: come farà Twitter senza di lui?

Bisogna ricordare che l’azienda californiana nel 2016, a 10 anni dalla sua fondazione, era valutata meno di 10 miliardi di dollari, risultava essere in difficoltà e stava vivendo una fase di incertezza esistenziale.

Un anno dopo, Donald Trump, presente sulla piattaforma dal 4 maggio 2009, diventa presidente degli Stati Uniti, e questa carica politica, insieme ad altri fattori come il flusso costante di contenuti pubblicati, caratterizzati da una retorica provocatoria ed incendiaria, e la base di sostenitori (e followers) di riferimento, riesce straordinariamente a risollevare l’azienda che, ad oggi, risulta quotata intorno ai 44 miliardi di dollari.

La sospensione applicata potrebbe portare ad una diminuzione dell’attenzione globale nei confronti della piattaforma stessa e un abbandono importante dei seguaci di Trump, che potrebbero confluire verso altri competitor.

Interessanti in questo senso risulteranno essere le novità e le strategie che Twitter intenderà applicare.

Non ci resta che attendere i loro prossimi tweet.

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Marketing & Social Media

Il Natale dal punto di vista di Coca-Cola

Lo scorso 6 Dicembre, in piazza Duomo a Milano, è stato allestito l’attesissimo albero di Natale, quest’anno sponsorizzato e illuminato da uno dei marchi più apprezzati e influenti al mondo: Coca-Cola.

L’azienda ha sfruttato l’occasione per farsi carico di un’importante causa che ha come obiettivo primario il supporto dei più bisognosi, e nello specifico il sostegno alla Rete Banco Alimentare.

Un’ulteriore iniziativa natalizia di Coca-Cola ha avuto come protagonista il suo iconico camion rosso, che nelle ultime settimane è stato avvistato in giro per l’Italia in occasione del “Truck Tour”.

L’evento ha suscitato molta curiosità da parte degli italiani che uscendo di casa hanno sperato di incrociarlo per le strade della propria città.

Queste sono state soltanto alcune delle attività di marketing che l’azienda ha intrapreso in occasione di questo Natale molto particolare.

Infatti, come accade ogni anno da ormai qualche decennio, Coca Cola ha diffuso online il suo personale video marketing a tema natalizio: la nuova campagna intitolata “A Natale, regala qualcosa che solo tu puoi donare”.

Si tratta di un breve video focalizzato sul valore della famiglia, realizzato con scene semplici ma ricche di significato che ha commosso ed emozionato molti spettatori.

Fonte: https://medium.com/@Stewart_Fabrik/holidays-are-coming-the-coca-cola-christmas-branding-story-8f08e2be8def

Come Coca-Cola ha interpretato il Natale

L’azienda ha da sempre avuto idee spettacolari per la realizzazione dei suoi spot, specialmente per quelli natalizi, che secondo molti avrebbero contribuito a definire una visione del Natale così come lo conosciamo oggi.

Infatti, è convinzione comune il fatto che Babbo Natale, rappresentato con la tipica immagine alla quale siamo abituati e soprattutto con indosso l’abito rosso, sia frutto della creazione della stessa Coca-Cola. Questa opinione è stata però smentita dall’azienda, la quale ha affermato che l’idea del vestito rosso di Santa Claus non sia nata da loro ma sia stata presa dal fumettista Thomas Nast: https://www.coca-colaitalia.it/il-nostro-mondo/pubblicita/babbo-natale-vestito-rosso .

È comunque innegabile il fatto che il trascorrere del tempo e gli spot natalizi di Coca-Cola che si sono susseguiti negli anni abbiano notevolmente influenzato l’immagine del personaggio di Babbo Natale, e la coincidenza tra i suoi colori e quelli del brand rappresenta un ulteriore aspetto positivo per l’azienda.

Fonte: https://medium.com/@Stewart_Fabrik/holidays-are-coming-the-coca-cola-christmas-branding-story-8f08e2be8def

Fonte:
https://www.coca-cola.co.uk/our-business/history/holidays-are-coming-the-history-of-coca-cola-and-christmas

Gli spot natalizi più iconici e commoventi

L’unione delle voci di tutto il mondo degli anni ‘80

Uno tra i primi spot realizzati da Coca-Cola, che ancora oggi viene piacevolmente ricordato, ha per protagonisti ragazzi di diverse etnie, che unendo le proprie voci in un canto natalizio rappresentano l’affetto che unisce le persone che condividono lo spirito del Natale.

https://www.youtube.com/watch?v=_zCsFvVg0UY

I Christmas Trucks dal 1995 ad oggi

I camion rossi natalizi di Coca-Cola sono stati ideati, creati e utilizzati negli spot del brand ormai più di venti anni fa, ma sono stati protagonisti di altre campagne fino a diventare elementi importanti per l’azienda anche al giorno d’oggi, come si è visto per l’evento “Truck Tour” di queste settimane.

Consistono in un fondamentale simbolo di Coca-Cola e vengono facilmente riconosciuti in tutto il globo.

https://www.youtube.com/watch?v=E3Wvb0dapZA&list=RDE3Wvb0dapZA&start_radio=1

Gli orsi polari degli anni ’90

Nella campagna “Northern Lights” del 1993 appaiono per la prima volta i protagonisti di moltissimi spot che verranno realizzati in futuro da Coca-Cola: gli orsi polari.

A partire da questa pubblicità vennero in seguito riutilizzati per diverse campagne, soprattutto quelle natalizie, nelle quali gli animali, rappresentati come una classica famiglia, bevono naturalmente la bibita e trascorrono insieme il Natale.

https://www.youtube.com/watch?v=NgZ6X0zo8is

Fonte: https://www.youtube.com/watch?v=K9rb7ZfNmr8

Coca-Cola, la bibita che ha accompagnato per generazioni 2006

Spot che come tema centrale presenta la fiducia del marchio che ha accompagnato intere generazioni per molto tempo.

Il tutto avente per protagonista l’immancabile personaggio di Babbo Natale.

https://www.youtube.com/watch?v=OG5SOUCyuCM

“A Natale, regala qualcosa che solo tu puoi donare” 2020

Per concludere un anno così complicato Coca-Cola è riuscita a trasmettere un bellissimo messaggio focalizzato sull’importanza dell’affetto per la famiglia, valore alla base del Natale.

Coca-Cola punta molto sul lato emotivo con storie semplici che arrivano sempre al cuore del pubblico; inutile dire che riesce sempre a commuovere tutti!

https://www.youtube.com/watch?v=yg4Mq5EAEzw

Gli spot realizzati da Coca-Cola in occasione del Natale sono diversi tra loro, ma si accomunano per il fatto che trattano sempre temi importanti, differenti a seconda del contesto in cui viene realizzata la campagna.

Ogni spot riesce a scaldare il cuore di chi li guarda.

Punto a favore per un’azienda che è già molto forte e che con le storie natalizie che ha creato negli anni è riuscita a conquistarsi sempre di più la fiducia dei suoi consumatori.

Coca-Cola ha sempre ideato soluzioni originali per sorprenderci, cosa potrà mai creare per stupirci ancora?