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Marketing & Social Media

Twitch: l’importanza della community

Qui su iWrite abbiamo già parlato di Twitch e delle sue potenzialità, per questo non avremmo potuto non scrivere dell’open talk che si è tenuto ai Digital Innovation Days tra Nicoletta Besio, sales director di Twitch Italia, e Alessandra Sangalli, media & PR manager presso L’Oreal.

Durante la chiacchierata, Besio ha descritto Twitch come una piattaforma difficile da definire in maniera univoca: basilarmente, si può affermare che Twitch è la piattaforma di live streaming leader mondiale, e lo è diventata offrendo contenuti che spaziano dai videogame allo sport, fino alla musica. Nonostante, infatti, Twitch sia nata come piattaforma dedicata al gaming, oggi è più corretto definire il sito come una piattaforma d’intrattenimento generico.

 

Parlando di numeri, Nicoletta Besio afferma che mensilmente, a livello globale, 7 milioni di creator producono contenuti per la piattaforma e che 30 milioni di utenti giornalieri si connettono al sito. Per testimoniare il successo di Twitch negli ultimi anni, Besio fa notare come, dal 2011 a oggi, gli spettatori siano cresciuti di più di 86 volte.

 

Tuttavia, il pillar fondamentale di Twitch rimangono le community di utenti e creator. Twitch, infatti, non ha alcun controllo a monte sui contenuti che vengono proposti sulla piattaforma, ma sono gli streamer e la community che decidono di portare le loro passioni e i loro interessi. L’interazione tra gli streamer e gli spettatori è, infatti, il vero cuore dell’esperienza di Twitch: basti considerare che circa il 70% dei viewers interagisce con la chat portando benefici anche ai brand che scelgono di investire sulla piattaforma.

 

Come possono, quindi, i brand orientarsi in un contesto simile? Secondo Besio, Twitch è una grande opportunità per i brand, soprattutto per la community e le funzionalità della piattaforma. I brand possono entrare all’interno del contenuto e raggiungere i target cosiddetti “irraggiungibili” come i millennial e la genZ. Quest’ultimi, infatti, accettano più di buon grado i contenuti pubblicitari sapendo che sono un mezzo per sostenere i propri streamer preferiti. Non è un caso che, sia a livello globale che in Italia, molte aziende, sia legate al mondo gaming che non, stiano investendo in pubblicità su Twitch. Besio, per fare un esempio, ha citato le campagne di Pringles, Porsche che ha presentato la formula e sulla piattaforma, e Burberry che ha tenuto un’intera sfilata interattiva in live.

Non è, quindi, importante avere a che fare con il gaming quanto, piuttosto, voler creare un dialogo con l’audience di Twitch (che, ovviamente, è diversa da quella di altri media).

Anche lato creator, è importantissimo per i brand riuscire a creare un rapporto fiduciario con gli streamer e capire qual è il loro linguaggio e i loro modi di rapportarsi con la community. Questo per evitare di snaturarli e rendere l’adv poco credibile. Inoltre, bisogna tenere presente che, spesso, le community più “piccole” possono ripagare maggiormente a livello di engagement e, per questo, non dovrebbero essere sottovalutate quando si sta prendendo in considerazione una campagna su Twitch.

 

Infine, parlando del futuro di Twitch, Nicoletta Besio si dice fiduciosa riguardo l’obiettivo di rimanere il posto migliore dove gli streamer possano creare le loro community e dove le persone si possano sentire a casa nel condividere le loro passioni. Anche se, come è giusto che sia, tutto rimarrà nelle mani degli streamer, delle community, e della strada che vorranno intraprendere.

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Intervista a Fabrizio Francato di Mangasenpai: cosa sono i “manga europei”?

Quando si sente parlare di “manga” è logico pensare subito al Giappone, essendone la terra natia. Tuttavia, da diverso tempo, sta emergendo una “variante” europea del classico formato giapponese che sta riscuotendo un buon successo nel nostro Paese proponendosi anche in formato di rivista. Ne abbiamo parlato con Fabrizio Francato di Mangasenpai.

 

Ciao, Fabrizio! Per iniziare, potresti spiegare ai nostri lettori di cosa ti occupi e cos’è Mangasenpai?

Mangasenpai è una casa editrice che si occupa principalmente di manga europeo, anche se nel nostro catalogo abbiamo anche manga di origine giapponese. Io mi occupo di gestire a tutti i livelli questa “creatura” che di giorno in giorno cresce sempre di più.

 

Pensi che le opere “nostrane” abbiano il potenziale per farsi apprezzare anche in Giappone?

Non lo so, onestamente. Credo che ci siano autori davvero bravi, ma sono più che certo che, al di là di un loro possibile futuro successo in Giappone, se ben guidati possono anche ottenere qui nel vecchio continente il giusto riconoscimento di pubblico. Le cose stanno cambiando e, anche grazie alle riviste di manga, un pubblico sempre più ampio sta apprezzando i mangaka europei.

Da qualche mese è iniziata la serializzazione di SenpaiPlus, la vostra rivista-contenitore dedicata al manga europeo, potresti parlarci di più di questo progetto? Da dove nasce l’idea e quali credi possa essere il suo futuro?

L’idea nasce dalla necessità di svecchiare il paradigma secondo cui “i manga sono pubblicati in occidente in volumetti, quindi anche i mangaka europei che vogliono cimentarsi con questo linguaggio narrativo e tecnico devono fare un volume di almeno 200 pagine”. Un volume di quel numero di pagine, per un solo autore, corrisponde però al lavoro di un anno (quando va bene) e fin troppe volte ho visto autori in questi anni, anche molto validi, mollare per via della massa di lavoro necessaria a fronte di un mercato che rischia sempre di essere troppo piccolo o assorbente. SenpaiPlus nasce per invertire questo paradigma. Mi sono chiesto: “Può un contenitore di fumetti manga essere il punto di partenza di tutta la filiera? Potrebbe avere successo?” Beh, i numeri sembrano dirci di sì… Quindi da oggi i manga della Mangasenpai (e speriamo anche tutti i manga delle altre case editrici che operano nel settore) nascono su rivista, vengono votati e amati dal pubblico e, solo alla fine, raccolti in volumetto. In questo modo a comprarli saranno persone molto soddisfatte, curiosi, e il passaparola volerà alto. E se questo sistema sarà virtuoso non sarà più necessario, come lo è oggi, essere “famosi” o “conosciuti” su qualche social per vendere delle copie e garantirsi un compenso per il proprio lavoro… ma basterà (anche se non è semplice) essere stati bravi, aver raccontato bene e aver coinvolto il proprio pubblico tutti i mesi sul magazine! E tra le altre cose anche la qualità media dei volumetti pubblicati nel nostro paese sicuramente si alzerà. Io dico che bisogna diffidare da ciò che non ha prima vissuto su rivista, né è stato editato…

 

 

Invece, per quanto riguarda il processo creativo dietro SenpaiPlus, come avviene la selezione delle storie da pubblicare? Quanto saranno influenti i feedback dei lettori sulle future pubblicazioni?

La selezione delle storie è piuttosto complessa; infatti i criteri che usiamo non sono solo quelli della qualità tecnica. A volta ad un autore servono due o tre capitoli per rodare ed arrivare al livello necessario. Noi consideriamo il novero dei titoli al momento della richiesta: valutiamo sempre se una certa proposta sarebbe un doppione di un altro titolo, per esempio, o se una certa serie può essere adatta alla nostra tipologia di pubblico. I feedback sono fondamentali, come ho già detto l’intera macchina parte da lì. Stiamo cercando di costruire una filiera costruita sul consenso, sulla qualità, sul valore fumettistico delle serie e non più sulla popolarità degli autori. Può forse andare bene nel mondo del fumetto tradizionale, ma nel manga, dove l’asticella della qualità che arriva dall’oriente è sempre molto, molto alta, non possiamo permetterci scivoloni. Il Giappone corre, e l’Europa ha il dovere di stargli dietro. Essere accusati di “scimmiottare” non è mai bello… soprattutto quando chi lancia queste accuse in qualche specifico caso, un po’ di ragione ce l’ha.

 

CPer concludere e parlando più in generale, negli ultimi anni abbiamo assistito a una crescita enorme del mercato dei manga in Italia, a cosa credi sia dovuto il loro successo? Pensi che si tratti di una “bolla” o che sarà sempre più comune vedere dei manga in cima alle classifiche editoriali?

Stiamo vivendo una seconda età dell’oro che sicuramente, presto o tardi, si sgonfierà. Accadrà quando le 300/400.000 persone attratte dal colorato mondo degli anime durante la pandemia cresceranno, abbandonando questo universo. Proprio come accadde anche a me, che figlio della prima età dell’oro (comprai in edicola il primo numero di Zero della Granata Press) smisi dopo dieci anni di leggere manga. Se vi va, racconto questa storia nell’editoriale di Senpai Plus numero 4…

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Investire nell’immortalità: la nuova sfida dei miliardari della Silicon Valley

A tutti i problemi c’è un rimedio, tranne che alla morte. O almeno, non ancora. Una startup della Silicon Valley è convinta che riprogrammando le nostre cellule potremmo invertire l’invecchiamento e alcuni miliardari, tra cui Jeff Bezos, ci credono, tanto da investirci.  

 

La questione è nata con l’ibernazione, ma l’industria dell’immortalità vale già miliardi

 

Prolungare il proprio tempo sulla terra, da diventare praticamente immortali, è il sogno di molti, tanto che la letteratura mondiale di ogni secolo ha raccontato molte storie a riguardo. Se prima, tuttavia, si poteva definire una completa utopia, ad oggi la scienza vi si sta avvicinando, con dei sistemi di dubbio funzionamento, ma esistenti.

 

La prima di queste possibili soluzioni è l’ibernazione, una condizione biologica in cui le funzioni vitali sono ridotte al minimo: il battito cardiaco rallenta, il metabolismo si riduce e la temperatura corporea si abbassa. Nel mondo animale è un fenomeno conosciuto come letargo, ma per gli umani la questione è molto più complessa.

 

L’Ibernazione, scientificamente detta sospensione crionica, avviene nel momento in cui una persona appena deceduta, viene sottoposta alla pratica di congelamento, immergendola nell’azoto liquido, nella speranza che, in un prossimo futuro, la medicina abbia trovato le cure necessarie che possano salvare questi corpi dalla malattia per la quale sono deceduti e possano un giorno ritornare in vita.

 

Ad oggi però, la scienza non è in grado di assicurare che i corpi, una volta ibernati, tornino in vita senza danni, in quanto nessuna tecnologia esistente permette la realizzazione di questo complicato e controverso processo.

 

Al momento esistono solo tre centri in tutto il mondo in cui è possibile eseguire la crionica sugli esseri umani: l’Alcor, in Arizona, il Cryonics Institute sempre negli Stati Uniti e fondato da Robert Ettinger, “padre” della crionica e la KryoRus, in Russia.

 

Si calcola che, attualmente, ci siano almeno 350 corpi in questo stato e altri 2000 sono già in lista di attesa, nonostante i costi del processo siano da capogiro: tra i 160 e i 200 mila dollari (anche se non mancano i primi tentativi di abbonamenti mensili per rendere il costo più conveniente come nel caso di Tomorrowbiostasis). Da questi dati si comprende bene come questo tipo di industria valga già centinaia di migliaia di dollari.

 

L’ibernazione, tuttavia, è un sistema che agisce dopo la morte, in un futuro in cui sia possibile risvegliarsi e continuare la propria vita, ma altre società stanno lavorando a soluzioni diverse.

 

Invertire l’invecchiamento: l’idea di Altos Labs è rivoluzionaria

 

Le società biotech che stanno cercando di invertire l’orologio biologico, crescono a vista d’occhio: da Human Longevity che utilizza algoritmi per prevedere, sulla base di un test del DNA, il rischio di sviluppare un cancro e Unity Biotechnology che distrugge le cellule danneggiate grazie al suo prodotto UBX0101, in grado, secondo l’azienda, di aumentare la vita media di un individuo del 24%, fino ad arrivare alla più “artigianale” Ambrosia, che vuole combattere la vecchiaia attraverso trasfusioni di plasma di giovani donatori. I risultati rimangono tutti da dimostrare, infatti, viene definita una società “morta”.

 

Tra le tante soluzioni fantasiose, una delle ultime aziende arrivate è la startup Altos Labs basata nella Silicon Valley, che ha attirato l’attenzione di un pool di miliardari, tra cui Jeff Bezos proprietario di Amazon nonché l’uomo più ricco del mondo, raccogliendo 231 milioni di dollari per sviluppare una tecnologia biologica capace di ringiovanire le cellule. Oltre alla possibilità di rallentare l’invecchiamento, vi sarebbe anche quella di “ripristinare” la giovinezza, invertendo letteralmente il processo di invecchiamento.

 

L’idea può sembrare alquanto folle, ma di diverso avviso sono i numerosi e prestigiosi scienziati che Altos Labs ha ingaggiato per lavorarci. È Shinya Yamanaka lo scienziato senior alla guida del comitato scientifico della startup, premio Nobel nel 2012 per aver scoperto il processo di rigenerazione biologica, con le cellule staminali pluripotenti indotte. Semplificando, la possibilità di riportare cellule adulte differenziate e sviluppate, ad uno stadio simil-embrionale dove potrebbero differenziarsi in qualsiasi tipo di cellula necessaria all’organismo, con forti implicazioni nell’ambito del ringiovanimento.

 

Atri scienziati, diventati famosi per esperimenti controversi, fanno parte dell’equipe. Lo spagnolo Juan Carlos Izpisua Belmonte, il biologo finito alla ribalta per un curioso esperimento che portò alla creazione di embrioni di scimmie contenenti cellule umane. Insieme a lui c’è anche Steve Horvath che ha sviluppato una tecnica per misurare l’età degli esseri umani sulla base di 353 marcatori epigenetici (alterazioni dei tag chimici del Dna, modificazioni che variano l’espressione genica pur non alterando la sequenza del DNA) che modificano il fenotipo, ovvero l’apparire, senza alterare il genotipo, ovvero l’essere, non mostrando dunque i segni del passaggio del tempo sul corpo umano. Una tecnica conosciuta anche come “orologio epigenetico” oppure “orologio di Horvath”. Lo stesso Horvarth, in un esperimento condotto nel 2019, fece assumere a nove volontari un cocktail di ormoni e farmaci per un anno. Al termine, l’età biologica del campione si sarebbe ridotta in media di due anni e mezzo (misurata attraverso i marcatori presenti nel Dna). Un risultato che sorprese lo scienziato stesso.

 

Ma funziona davvero dal punto di vista scientifico?

 

La risposta è abbastanza univoca: per ora non vi è una tecnologia in grado di ritardare l’invecchiamento e di farci aspirare all’immortalità. In Altos Labs, tuttavia, sono convinti di poter trovarla, in un modo o nell’altro e stanno quindi iniziando a realizzare centri di ricerca in tutto il mondo; avviando una campagna acquisti di scienziati da stipendiare, anche lautamente, affinché si dedichino solamente a questa iniziativa.

 

Il DNA è un codice che contiene tutte le informazioni riguardo l’esistenza di ogni singolo individuo, esattamente come il codice di programmazione sta dietro un software. È lecito chiedersi se, come avviene facilmente nel campo dell’informatica, sia possibile “hackerare” questo codice, riscrivendo alcune stringhe, per arrivare a posticipare, se non evitare, l’incombenza della morte. Essendo gli esseri viventi, l’esatto opposto di semplici macchine, la risposta potrebbe non essere così scontata.

 

Uno dei problemi che devono affrontare, come spiegano gli scienziati tra cui, Alejandro Ocampo dell’Università di Losanna per la rivista Technology Review del MIT, è che la riprogrammazione non ringiovanisce semplicemente le cellule, ma cambia la loro identità. Per questo motivo la tecnologia è ancora troppo pericolosa per essere provata sull’uomo. A riprova di ciò ne sono la testimonianza gli effetti collaterali, come la comparsa di tumori, che si sono presentati in alcuni esperimenti precedenti.

 

La questione eticità: potremmo mai diventare un mondo di immortali?

 

Oltre ai diversi problemi tecnici precedentemente affrontati, ce n’è uno che va ben oltre: l’eticità.

 

Quella dell’immortalità potrebbe essere la più grande disuguaglianza che sia mai esistita sulla terra. Nonostante ogni essere umano aspiri a vivere il più a lungo possibile, solo chi avrà il sufficiente benessere economico potrà vivere davvero quanto desidera, andando a creare un manipolo di personaggi eletti a cui è concesso vivere anche il doppio degli altri.

 

Tuttavia, la disuguaglianza tra l’elite degli “immortali” e quella dei “comuni esseri umani”, sarebbe nulla in confronto ai ben più gravi problemi che ne risulterebbero se sempre più persone cominciassero ad arrivare a vivere fino a 200 o 300 anni, in termini di sostenibilità su tutti i fronti e sovrappopolamento.

 

Magari, quando questa tecnologia sarà matura, saremo probabilmente già emigrati su altri pianeti, dove, almeno che per un po’, ci sarà posto per tutti, nel frattempo, non dobbiamo dimenticare che persino Dorian Gray desiderava vivere giovane e bello per sempre, ma alla fine, finì per rovinarsi l’esistenza ed uccidere sé stesso, senza nemmeno accorgersene, bramoso com’era di essere immortale.

 

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Realtà immersive tra opportunità attuali e utilizzi futuri

Le realtà estese o immersive, termine spesso utilizzato per indicare l’insieme di virtual reality e augmented reality (per la spiegazione completa sulla differenza, fare riferimento a questo articolo), vengono ancora identificate come tecnologie interessanti e dal grande potenziale, ma con la convinzione che siano ancora troppo acerbe, magari, senza nemmeno aver compreso i diversi ambiti di applicazione e le innumerevoli occasioni in cui queste vengono attualmente già impiegate.

 

Dalla formazione al gaming, dagli eventi alle simulazioni in ambito professionale fino ad arrivare all’arte e la terapia medica. Questi sono solo alcuni degli aspetti di cui si potrebbe parlare, come hanno raccontato alcuni speaker, al Web Marketing Festival, di cui riportiamo un paio di incontri.

 

La VR gamification come strumento di marketing

 

Manuel Bazzanella, Founder e CEO di Digital Mosaik, azienda trentina che si occupa di virtual reality, ha tenuto un talk riguardo all’impiego della VR nel mondo del marketing tramite l’utilizzo della gamification.

 

Cosa sono gamification, VR e a cosa servono

 

Manuel è partito proprio dal termine: per gamification s’intende l’utilizzo delle dinamiche ludiche in contesti non ludici per aumentare coinvolgimento e motivazione. Secondo Manuel, giocare è vivere, poiché le dinamiche sono le stesse: superare le sfide, procedere a livelli, ottenere riconoscimenti. Il gioco è ormai diventato una meccanica motivante con cui si possono rivestire tantissime altre attività e progetti, tra cui, l’ambito del marketing. Il concetto di gaming, inoltre, diviene superiore quando incontra la realtà virtuale e nell’ultimo periodo se ne parla parecchio perché a livello globale si sta andando proprio in questa direzione: intercettare il trend adesso, può portare ad un grosso vantaggio competitivo in futuro.

 

I bambini, sin da subito, vengono istruiti alle dinamiche ludiche: livelli da raggiungere, ricompense e doni, distintivi da esibire. Queste sono le regole dei giochi che si trasportano anche nel caso della VR. La virtual reality include facilmente il concetto di flow, teorizzato dallo psicologo Mihály Csíkszentmihályi. Esso è lo stato particolare di perfetto coinvolgimento, in cui l’attività che dobbiamo svolgere non è né troppo semplice né troppo difficile, sfidante al punto giusto, tanto che diverte, facendo perdere il senso del tempo. Da qui si arriva al motivo per cui la realtà virtuale è così efficace. Secondo alcuni studi, il coinvolgimento è 3,75 volte più elevato, l’apprendimento è per il 275% maggiore perché, secondo il cono dell’apprendimento, facendo, si comprende meglio. Infine, potendo praticare senza distrazioni, la concentrazione risulta essere 4 volte più elevata.

 

Manuel arriva quindi alla VR in sé, che abbiamo detto far parte delle tecnologie immersive, ovvero tutte quelle tecnologie che consentono, all’interno di una sorta di ambiente fisico, ricostruito in 3D, di interagirci, muoversi e toccare ciò che ci circonda. È evidente come, una volta indossato questo, dice il CEO con in mano un visore, “la realtà scompare e si viene teletrasportati in un ambiente completamente diverso. In questo ambiente le situazioni cambiano: la persona diventa protagonista diretta con un forte reazione emotiva e non più ricettore passivo dell’esperienza”.

 

Manuel sottolinea il fatto che sia AR che VR siano dei nuovi mezzi di comunicazione e come tali possiedono un loro linguaggio caratteristico che va compreso fino in fondo, ancora prima di voler impiegare questa potente tecnologia nella propria realtà quotidiana o aziendale, ma soprattutto andrebbe compresa prima che questo diventi prioritario, in un futuro molto prossimo. Rispetto a tutti gli strumenti che conosciamo adesso, la realtà virtuale non va a sostituirli, quanto piuttosto ad integrarli, essendo una tecnologia diversa che permette di compiere svariate attività.

 

Come utilizzare l’unione di VR e gamification

 

Dopo aver compreso i due concetti, ci si chiede come questi possano essere uniti, ma soprattutto come utilizzarle per far sii che risultino fruttuosi commercialmente. Un esempio è quello dell’azienda produttrice dell’aceto balsamico di Modena: prima delle degustazioni, lasciando indossare un visore, mostrando gli ingredienti dell’aceto balsamico come se gli utenti fossero dentro un gioco nel quale avrebbero dovuto partecipare attivamente. Un altro spunto lo dà IKEA che permette di arredare la casa con il visore, vedendo, prima di acquistare, come determinati mobili starebbero in una stanza della casa.

 

Il mercato in generale si divide in B2C e B2B, e quello delle realtà estese non fa eccezione. A livello B2C, ovvero per il cliente diretto, esistono delle piattaforme da cui è possibile scaricare i mondi con i quali interagire, in quello che sarebbe l’equivalente virtuale dell’App store dello smartphone. A livello B2B si possono proporre applicazioni fruibili solo lato business, con visori diversi da quelli client, appositi per aziende. Questi ultimi visori risulterebbero più costosi (anche 1000 euro rispetto ai 300 a cui si può trovare un visore client), ma sarebbero in grado di fornire molte informazioni come le analytics. Dati analitici riguardo l’utilizzo del dispositivo e la permanenza dell’utente su una determinata applicazione, darebbero molte informazioni utili ai responsabili aziendali.

 

Per un’azienda, la convenzione su larga scala è alta, in quanto, questa tecnologia è in grado di sostituire tutta una serie di costi che normalmente vengono dati per assodati, ma che in realtà non lo sono. Lo stesso Elon Musk ha annunciato di voler implementare queste tecnologie per gli acquisti delle Tesla: poter vedere virtualmente la macchina e decidere di comprarla, magari in Bitcoin, senza uscire di casa e doversi recarsi al concessionario, permetterebbe all’azienda di Palo Alto di ridurre i costi, in primis degli immobili. Per le aziende, inoltre, potrebbe essere un ulteriore mezzo per proporre la propria pubblicità, e quindi un’occasione da non farsi sfuggire.

 

La reale dimensione del mercato

 

Manuel arriva infine al tema delle dimensioni del mercato. I dati parlano chiaro: le realtà estese sono in netta crescita, e dovrebbe far riflettere il fatto che Oculus, realtà nata da un ragazzino in un garage americano, sia stata comprata da Facebook che tutti conosciamo come il re dei videogiochi. L’acquisizione può significare solo una cosa: Zuckerberg ha in mente di creare la più grande piattaforma di incontri in realtà virtuale dove poter lavorare, giocare e incontrarsi. Ed è proprio Facebook che durante la pandemia ha aperto Facebook Reality Labs ambiente in cui le varie aziende condividono il sapere per il continuo sviluppo di questa tecnologia.

 

“Ad alcuni può far paura, ma essendo nato in un paesino di 80 abitanti, da sempre immagino mondi fantastici in cui gioco e sono il protagonista principale” ci rivela Manuel.

 

Il metaverso sta arrivando

 

Il talk è stato tenuto da Matteo Favarelli, Co-founder e COO di AnotheReality, azienda milanese specializzata nella realizzazione di contenuti in realtà virtuale con il focus in gaming e entertainment e consulente LBE (location based entertainment).

 

Breve storia dell’evoluzione dei computer e origine della realtà virtuale

 

Matteo inizia il suo discorso con una frase ad effetto pronunciata da uno dei consiglieri del presidente americano: “nei prossimi 15 anni ci saranno più cambiamenti che in tutta la storia umana fino ad oggi” e questo, può voler dire che siamo sulla rampa di lancio di una nuova rivoluzione.

 

La storia dell’evoluzione dei computer viene raccontata come una “storia di evasione”. Dapprima c’è stata l’evasione dei mainframe, i computer giganti che occupavano una stanza intera, dagli scantinati, per arrivare nelle nostre case. Successivamente c’è stata l’evasione dell’informazione dalle librerie che sono finite su Internet. Infine, abbiamo avuto un’evasione dei computer dalle case che sono arrivati nelle tasche di chiunque, rendendo a tutti accessibile qualsiasi informazione. Ora stiamo arrivando alla quarta rivoluzione, quella degli spatial computer con un’evasione dell’informazione dagli schermi per aprirsi ad un mondo spaziale.

 

Ma cos’è uno spacial computer? Tradotto diviene “computer nello spazio”, e non è bellissimo ammette Matteo, ma non è altro che: “quel punto d’interpolazione tra ciò che è la realtà vera e propria e ciò che è digitale”. Di questa famiglia fanno parte realtà aumentata e virtuale, le cosiddette realtà estese o immersive.

 

Da dove arrivano i mondi simulati? Matteo fa un salto indietro nel tempo partendo dal 1700 con la cosiddetta “panorama rotunda”, uno dei primi tentativi di far vivere un mondo diverso con la rudimentale tecnologia del tempo. Non sono stati registrati grandi avanzamenti di questa tecnologia prima del 1929, anno in sono nati i primi simulatori di volo, con i quali si sono allenati migliaia di piloti. Solo alla fine degli anni ’80 si sono potuti vedere i primi veri esperimenti di realtà virtuale con simulatori costosissimi e pesanti che hanno portato all’unico risultato di finire nel “dimenticatoio”. Questo fino a quando, un giorno, un “pazzo psicopatico”, come scherzosamente l’ha definito Matteo, si è accorto che tutti possiedono uno smartphone, un tipo di tecnologia con uno schermo ad alta risoluzione e per giunta, in costante miglioramento. Prendendone un paio e posizionandoli davanti agli occhi, ecco che un ragazzino in un classico garage americano, ha inventato Oculus: il primo visore dei tempi moderni, il primo da poter essere chiamato tale.

 

L’idea è stata talmente innovativa e dall’alto potenziale, che poco dopo Zuckerberg in persona lo ha contattato per acquistare la startup per ben 2 miliardi di dollari. Il fatto che Facebook, una delle big corporate mondiali, che tutti conosciamo come il “re dei social”, si stia interessando a questo tipo di tecnologia, dà un segnale molto chiaro: il social del futuro non sarà un’applicazione sul cellulare, bensì un vero e proprio mondo parallelo. Dopo l’ingente spesa, il fondatore di Facebook ha inviato una lettera agli investitori della società, per giustificare l’acquisto. Cosa c’era scritto in quella lettera è rimasto nella storia: “non abbiamo comprato una startup che progetta dispositivi, noi abbiamo comprato quest’idea, questa nuova tecnologia. Noi abbiamo comprato il futuro”.

 

Dopo Facebook tanti altri giganti del tech hanno annunciato nuove uscite di dispositivi di VR. Questa tecnologia sta crescendo tanto velocemente che un visore diventa obsoleto in media dopo 8-12 mesi. Secondo le stime attuali, game changer sarà l’arrivo di Apple sul mercato: per l’anno prossimo hanno previsto l’uscita di alcuni visori, e come sappiamo, l’azienda fondata da Steve Jobs e Steve Wozniak, entra sul mercato solo quando le tecnologie sono già mature.

 

Perché se ne parla tanto: gli sviluppi potenziali

 

Matteo arriva al perché abbiamo parlato di tutte queste cose: realtà virtuale e aumentata ci permettono di vivere quella che è la convergenza di tantissime tecnologie che ad oggi permettono di vivere in altri mondi. Tutte queste tecnologie ad oggi comunicano in una maniera classica, utilizzando quindi un display, ma le prospettive sono ben diverse. In futuro potremmo avere un avatar, che “vivendo” a fianco a noi, potrebbe utilizzare ogni aspetto dell’Internet passando in maniera sempre più fluida da un mondo all’altro; basterà indicargli di entrare nella “porta di Google” per fare una ricerca, oppure in quella di Amazon per acquistare un capo di abbigliamento, magari usando la Blockchain per pagare. Le prospettive sono quelle di far convergere piattaforme che già utilizziamo in mondi virtuali, creando esperienze sempre più fluide e avendo un’interazione che oggi fatichiamo ad immaginare.

 

A riprova di questo, i mondi virtuali si sono posizionati terzi tra quindici in un elenco di trend futuri stilato da ARK Invest. Per virtual worlds loro intendono: videogame, augmented reality e virtual reality. Ma cos’hanno in comune questi mondi? Vengono sviluppati con le stesse tecnologie.

 

Cosa ne ha permesso lo sviluppo

 

Il merito del perché queste tecnologie oggi sono già in parte pronte è da ritrovarsi nei videogiochi. Essi, infatti, sono stati i primi ad aver creato veri e propri mondi virtuali in cui si è immersi con un avatar che diventa il protagonista attivo dell’azione. Due esempi? “Doom”, un classico sparatutto del 1993 e “Second life”. Anche se molto diversi tra loro, in primis l’accessibilità e la persistenza ovvero il fatto che le dinamiche del videogioco proseguono anche se non si è collegati, entrambi sono stati tra i primi a dare una vera esperienza utente dal punto di vista di chi gioca.

 

A molti, sentendo parlare di videogiochi, potrebbe venir in mente il ragazzino che davanti ad uno schermo nella sua cameretta schiaccia rapidamente i tasti di una console. Ma la realtà è molto diversa: ad oggi il mercato dei videogiochi fa numeri da capogiro, ben 160 miliardi di dollari. Mettendo insieme tutta l’industria musicale con quella del cinema non si arriva nemmeno a metà del mercato dell’industria videoludica.

 

Le corporate hanno compreso il grande guadagno che può derivare da questo mercato in continua crescita e alcune hanno tentato i primi approcci in termini di pubblicità, facendo apparire i loghi oppure creando eventi da loro sponsorizzati. È stato il caso di Fortnite, uno dei videogiochi più amati del momento, in cui è stato organizzato un concerto a cui hanno partecipato migliaia di persone collegate in diverse stanze virtuali una a fianco all’altra, quasi contemporaneamente (la vera contemporaneità non è ancora possibile con la tecnologia attuale. Un altro esempio recente è il fenomeno di Roblox (ne parliamo nel dettaglio in questo articolo), videogioco usato soprattutto dai giovani, dove è possibile costruirsi un proprio mondo personalizzato, con tanto di oggetti ed esperienze precise alle quali possono partecipare anche i propri amici che ovviamente sono collegati da un’altra console, magari dall’altra parte del mondo.

 

Dove vogliamo arrivare?

 

A questo punto Matteo ci pone una domanda intrigante: “dove vogliamo arrivare?”, dandoci subito dopo una risposta altrettanto affascinate. Attualmente il problema è che i mondi virtuali sono indipendenti e scollegati tra loro, ma in futuro diventeranno uno, quello che i futuristi chiamano “metaverso”. Con questo termine si intende un macro-universo dove tutti i piccoli mondi sono interoperabili tra loro e non più delle bolle separate. Essendo uniti in un unico “universo virtuale”, usando lo stesso avatar e la stessa user experience, si potrà navigare in un luogo unico fortemente spazializzato. In questa dinamica si potranno includere anche molte piattaforme che già conosciamo: Google, Amazon, i social network, i videogiochi, i webinar ecc.

 

Il metaverso fa parte da un processo abbastanza lungo di smaterializzazione, con questo termine s’intende il progressivo sostituirsi di oggetti materiali con applicazioni e tecnologie digitali. Nelle prospettive future, probabilmente non avremo nemmeno più bisogno di computer e smartphone sulla nostra scrivania, ma soltanto di un paio di occhiali sempre indosso, che ci facciano vivere un mondo in realtà aumentata attraverso i nostri occhi.

 

Le proiezioni del mercato della dematerializzazione? Una crescita di 1.5 triliardi entro il 2030: la direzione è chiara, non possiamo più ignorare questo fenomeno.

 

Matteo conclude il talk con una sorta di suggerimento, un’altra frase ad effetto: “I mondi virtuali esistono, provateli. La rivoluzione tech in parte c’è già e aumenterà ulteriormente nei prossimi dieci o quindici anni. L’hardware sta raggiungendo velocemente il grado di maturità richiesto. Il futuro è adesso”.

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Ray-Ban Stories: gli occhiali intelligenti di Facebook

Girare delle Stories e condividerle immediatamente senza nemmeno estrarre il cellulare dalla tasca, il quale, probabilmente, non sarà più indispensabile. Basteranno, invece, un paio di occhiali, che in futuro potremo avere sempre indosso, per svolgere le più svariate attività quotidiane.

 

Cosa sono i Ray-Ban Stories e cosa permettono di fare

 

Annunciati con grande clamore dal CEO di Facebook, Mark Zuckerberg, si chiamano Ray-Ban Stories e sono occhiali intelligenti nati dalla partnership tra il colosso di Menlo Park e l’azienda italo-francese EssilorLuxottica.

 

All’apparenza sembrano dei normalissimi Ray-Ban (su questo, i designer, sono stati inflessibili), ma osservando bene la montatura, accanto alle lenti, si nota un piccolo led che si accende quando, chi l’indossa, decide di immortalare il momento.

 

Essi possono registrare fino a 35 video di massimo 30 secondi oppure scattare 500 foto. Dopodichè è possibile caricare i contenuti in modalità wireless sull’app apposita Facebook View, dove le foto sono criptate. Da Facebook View, l’utente può condividere quei contenuti sui social network, sulle app di messaggistica istantanea come Whatsapp e Telegram, oppure salvare il materiale nella memoria interna del telefono.

 

Per utilizzarli è necessario possedere un account Facebook e installare l’app Facebook View. Dotati di un processore Snapdragon, comunicano con lo smartphone mediante bluetooth e possiedono una batteria che promette un uso moderato fino a sei ore. Il prezzo, per il momento, è di 329 euro.

 

Citando le parole di Andrew Bosworth, vicepresidente di Facebook Reality Labs: “siamo appassionati di ricercare dispositivi che offrano alle persone modi migliori per connettersi con i propri cari. I dispositivi indossabili hanno il potenziale per farlo”. Insomma, sempre più connessi senza nemmeno dover porre uno smartphone tra noi e la realtà.

 

Aspettative deluse per molti: non sono i primi e niente AR

 

I Ray-Ban Stories non sono di certo una rivoluzione, poiché molti altri, prima di Facebook hanno tentato, fallendo: i Google Glass nel 2013 sono stati l’esempio più eclatante per poi arrivare agli Spectacles del social network Snapchat che già nel 2017 aveva teorizzato la condivisione immediata tramite occhiali intelligenti assieme a tante altre aziende come Lenovo e Bose.

 

Alcuni problemi di qualità, estetica (indossare degli occhiali da sole anche in metropolitana d’inverno?) e soprattutto privacy, sono rimasti e l’aggravante è quello di non aver aggiunto nessuna novità sostanziale, o almeno, quella che tutti si aspettavano: la realtà aumentata.

 

La realtà aumentata, quella tecnologia per la quale si potrebbero vedere sovrapposte, ad esempio, le indicazioni di Google Maps alla strada reale, e di cui abbiamo parlato in questo articolo, sarebbe stata una rivelazione poiché, finora, non c’è stato quasi nulla di davvero efficiente messo in commercio a disposizione di tutti (a parte i costosissimi e non così funzionali Hololens di Microsoft).

 

Ponendo lo sguardo sull’aspetto tecnico invece, per ora non sembrano possedere una grandissima qualità di immagine, solo cinque megapixel, dovuta anche al poco spazio concesso dai designer agli sviluppatori hardware per i processori necessari.

 

Tuttavia, non solo i nuovi occhiali intelligenti “mancano” di funzionalità ed elevata qualità, ma presentano un altro grosso problema.

 

Registrare chiunque senza che se ne accorga: il grande problema della privacy

 

Facebook, conoscendo i problemi legati alla privacy emersi con i predecessori, ha provato ad ovviare questo problema con il led sulla montatura: il piccolo indicatore luminoso si accende quando gli occhiali stanno registrando, avvisando le persone che sono state fotografate o filmate. Inoltre, quando si imposta l’app Facebook View, vengono visualizzati anche i messaggi che chiedono agli utenti di “rispettare gli altri intorno a te” e chiedono se “ci si sente appropriati” a scattare una foto o un video in quel momento.

 

Sembra un modo, per l’azienda di Menlo Park, un po’ per “avere la coscienza pulita” e un po’ perché è obbligatorio, proprio come i messaggi di rischio sui pacchetti di sigarette. Di fatto però, i problemi di otto anni fa non sono stati risolti e su questo punto è già intervenuto il Garante della privacy chiedendo informazioni in merito al trattamento dei dati.

 

Il reale problema è che la funzione primaria di questi occhiali non è semplicemente la video ripresa, ma, come dice il nome stesso, la condivisione del materiale online.

 

Almeno per il momento, non possiedono ancora il riconoscimento facciale, funzionalità che, se dovesse essere aggiunta, ricorderebbe molto 1984 di Orwell. Con questi colossi, tuttavia, è presto detto: pare proprio che Andrew Bosworth, responsabile della divisione hardware, ci stia lavorando con il suo team.

 

Queste dichiarazioni e i fatti attuali sono preoccupanti, ma non sembra essere di questo avviso Rocco Basilico, Chief Wearables Officer di Luxottica, che, in un’intervista al Corriere sostiene: «Abbiamo fatto un buon lavoro con gli esperti di privacy e abbiamo un partner (Facebook, ndr) tra i migliori in questo campo. Sugli occhiali c’è un Led: se io registro, tu lo vedi subito. Con lo smartphone non è così chiaro»

 

L’introduzione dell’AR necessita del giusto tempismo, in che direzione stiamo andando?

 

Nonostante le numerose, e spesso giustificate critiche, ce n’è una diversa, di delusione: non sono il portale verso il metaverso che molti si aspettavano e, secondo altri, è stata proprio una mossa voluta dal genio di Mark Zuckerberg che parla di voler muoversi in questa direzione ormai da anni, ma potrebbe aver capito che i tempi non sono ancora maturi.

 

Il metaverso, quella fusione degli spazi virtuali che avverrà in un futuro non troppo distante e di cui abbiamo trattato meglio in questo articolo, è una rivoluzione e, come molti sanno, le grandi innovazioni, per essere comprese a fondo, devono “uscire allo scoperto” quando i tempi sono maturi, altrimenti potrebbero risultare un flop del momento.

 

Forse, il CEO di Facebook vuole partire piano, lasciando che le persone e la società intera si abituino ad indossare degli smart glasses. Questo potrebbe essere un primo passo nella direzione del metaverso, dove tutti indosseremo perennemente degli occhiali che, grazie alla realtà aumentata, sovrappongano al mondo reale, un mondo digitale che ci aiuti nelle attività di tutti i giorni e dove potremo interagire con persone dall’altra parte del mondo, come se fossimo lì fisicamente grazie ai nostri avatar.

 

Durante l’attesa, intanto, vale la pena cominciare ad allenarsi a distinguere ciò che è reale e ciò che non lo è, visto che, ironia della sorte, sarà sempre più difficile riuscirci.

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Da Web Reevolution a We Make Future: intervista a Cosmano Lombardo

Il Web Marketing Festival o We Make Future è un evento che negli ultimi anni ha coinvolto e riunito molte persone e aziende con passioni e interessi condivisi in un unico punto: il Palacongressi di Rimini.

È qui che ogni anno imprese, startup, professionisti, istituzioni e studenti si incontrano per partecipare ai talk sui temi più disparati, fare networking, formazione e molto altro.

Un evento che non avremmo avuto modo di conoscere fino in fondo se non grazie alle parole dello stesso ideatore e founder, Cosmano Lombardo, il quale a fine Festival ci ha rilasciato un’intervista inerente all’evento.

 

Cosa ti ha portato all’ideazione di questo evento e quali sono state le difficoltà iniziali?

“È stato l’ascolto dell’esigenza da parte delle persone che incontravamo anno dopo anno durante i tour di formazione gratuita in giro per l’Italia.

Siamo partiti nel 2007 con la prima giornata di formazione gratuita a Pizzo Calabro: allora si parlava di SEO, di posizionamento dei siti sui motori di ricerca e mese dopo mese, anno dopo anno abbiamo aumentato i temi, ma soprattutto le persone ci chiedevano un punto di incontro.

È così che abbiamo pensato a quello che inizialmente era il Web Reevolution, il nome del primo festival che aveva come tema centrale lo sfruttamento della rivoluzione del web per l’evoluzione della società. Successivamente, l’evento ha cambiato nome in Festival Web Marketing, in seguito è diventato Web Marketing Festival fino ad arrivare ad oggi con il We Make Future.

Le difficoltà iniziali invece sono state sicuramente tante, soprattutto lo è stato il fatto di riuscire a coinvolgere più soggetti per mettere in piedi qualcosa che potesse rappresentare tutti. Devo dire però che le difficoltà iniziali sono nulla rispetto alle difficoltà che abbiamo riscontrato nell’organizzazione questa edizione che, devo ammettere, ci ha messo veramente a dura prova.”

Le principali differenze tra il Web Marketing Festival prima della pandemia e quello attuale? Credi che la modalità ibrida utilizzata quest’anno possa essere mantenuta anche in futuro?

“Ci sono delle difficoltà organizzative dettate dai cambiamenti costanti delle normative, quindi riuscire a creare un contesto che possa essere gradevole e rassicurante per le persone è qualcosa di molto difficile, e allo stesso tempo creare qualcosa di disruptive e innovativo.

Purtroppo, alcune idee a cui abbiamo pensato non le abbiamo potute concretizzare.

Detto ciò, nella fase post pandemica, sicuramente questo format ibrido rimarrà per alcuni eventi.

Noi, a dire il vero, già nel 2019 avevamo intrapreso questa strada e nel 2020, se non ci fosse stato il covid, avremmo realizzato un evento ibrido, non così forzatamente ibrido.

Credo però che parte di quello che abbiamo visto in questi giorni ci sarà anche nel 2022.”

A livello organizzativo, quante persone fanno parte del team? Quali figure professionali sono necessarie nello staff dell’organizzazione?

“Le persone che lavorano all’evento durante tutto l’anno in realtà sono pochissime.

Chi lavora costantemente 365 giorni all’anno, e dico 365 perché si lavora anche durante le festività, sono 12 persone. Dopo di che, c’è una seconda fase che parte quando ci si avvicina all’evento in cui il team si allarga con risorse che vengono aggiunte, infine quando manca poco all’evento vi è il coinvolgimento di tutta l’azienda della nostra business unit che si occupa di consulenza, fino ad arrivare ai tre giorni in cui siamo più di 120/130 persone.

Il numero necessario è molto maggiore, nel senso che per mettere in piedi una manifestazione come questa credo che sarebbe necessario un numero di 50 persone costantemente attive.”

Per quanto riguarda l’accessibilità dell’evento, cosa state progettando di fare in futuro?

“Il prossimo anno sicuramente andremo a realizzare, per quanto riguarda il Mainstage, tutti i momenti, sia quelli di show che i talk con modalità più accessibili. Anni fa facevamo solo la parte di talk, quest’anno, con questa collaborazione con l’accessibilità si è aggiunta la parte di show.

Quest’anno non siamo riusciti a realizzare l’interpretazione in lingua LIS anche dei talk perché era troppo complicato dal punto di vista tecnologico, ma il prossimo anno ci sarà anche questo.

Stiamo sviluppando una serie di campagne di comunicazione e continuiamo a supportare la storia di Pasqualino.

Il percorso che abbiamo intrapreso con loro ad agosto sta andando avanti e sono felicissimo della promessa fatta dal ministro Bianchi, il quale ci ha detto che andrà in Calabria da questa famiglia a settembre e forse anche molto prima.”

Avete particolari progetti futuri per l’evento? Per esempio, portare l’evento in altre città o addirittura in altri paesi?

“C’è in atto un innovation planun progetto di diffusione dell’innovazione nei piccoli centri e all’estero.

Abbiamo quindi dato vita ad Hubitat, la rete di hub sull’innovazione e la sostenibilità in giro per l’Italia nei piccoli centri e nei borghi; quindi, prendiamo dei posti culturali, storici e tradizionali come, per esempio, in Calabria un castello, per andare a creare degli hub.

Abbiamo anche fatto una call for cities italiana per organizzare degli eventi della durata di due giorni in vari contesti come Taranto, Firenze e molti altri, e abbiamo lanciato il Word Wide Events, degli eventi internazionali del Web Marketing che partiranno a settembre dalla Grecia e successivamente in altre 13 tappe in giro per il mondo.”

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We Make (Sustainable) Future: riflessioni sulla sala green del Web Marketing Festival

Il secondo giorno del Web Marketing Festival sono state aperte, per la prima volta in assoluto, le porte della sala SDGs per ospitare diversi interventi sulle tematiche attinenti agli obiettivi dell’Agenda 2030. Gli speaker, susseguitisi sul palco, hanno fornito diverse letture dei “Sustainable Development Goals” fissati dall’ONU nel 2015 che, almeno fino al 2030, dovranno guidare il progresso umano sul nostro Pianeta.

 

Le aziende e gli SDGs

Ad aprire le danze è stato il Professore Andrea Alemanno, e lo ha fatto con una premessa volta a sottolineare come l’interesse verso i temi ambientali sia sempre esistito ma che si è tramutato in coscienza nel momento in cui l’ecocidio si è manifestato inequivocabilmente agli occhi dell’opinione pubblica come un evento molto probabile e molto dannoso. Il professore, ha mostrato alla platea come il timore che si è instillato nella comunità investa di responsabilità le aziende che per essere scelte dai consumatori devono mostrarsi sempre più autentiche, più credibili e in grado di creare esternalità positive nell’ecosistema in cui operano.

Si va delineando, ha continuato il relatore, il paradigma del “consumatore eroe”, sei italiani su dieci sono attenti alle loro scelte di consumo; nel mondo questo tasso si abbassa a quattro persone su dieci. Un altro dato confortante in arrivo dal Belpaese è che, a differenza di quanto accade nel mondo, non si riscontra alcuna polarizzazione tra categorie di consumatori: la questione ambientale interessa tutti senza distinzioni di età, censo e genere. Ad oggi, non è solo il mondo della produzione a dover tener conto dell’importanza che gli obiettivi di sviluppo sostenibile hanno per il nostro futuro, anzi, lo stesso deve fare la finanza e questo fornisce una spinta in più alle aziende che oggi, più che mai, investono green.

Anche la tecnologia ha trovato il suo giusto spazio nella relazione del Professor Alemanno che ha ricordato come per portare a termine la missione “sviluppo sostenibile” non può essere assolutamente trascurato il contributo della tecnologia e il suo ruolo di abilitatrice della sostenibilità. Lasciando il palco, il relatore si è rivolto direttamente agli spettatori invitandoli a abbandonare la logica compensativa per abbracciarne una rigenerativa con un cambio di paradigma dall’economia circolare a quella elicoidale, in cui il sistema non si chiude in sé stesso ma è continuamente proteso in avanti in perpetua evoluzione.

La seconda speaker, Barbara Degani, ha introdotto il tema della relazione, un concetto fondamentale per lo sviluppo sostenibile tanto che l’ultimo tra gli obiettivi individuati dall’ONU è volto proprio al rafforzamento e al rilancio del partenariato globale. Senza la collaborazione tra governi, settore privato e società civile, ha rilevato il relatore, la sfida di sostenibilità non può essere vinta.

La Dottoressa Degani, ha illustrato l’impossibilità, per le aziende, di affrontare da sole il percorso verso l’innovazione green e ha ribadito, a più riprese, l’importanza del coinvolgimento degli stakeholder e la necessità di instaurare con loro una relazione collaborativa. A tal proposito, assume un ruolo fondamentale il bilancio di sostenibilità ossia “l’esito di un processo con cui l’amministrazione rende conto delle scelte, delle attività, dei risultati e dell’impiego di risorse in un dato periodo, in modo da consentire ai cittadini e ai diversi interlocutori di conoscere e formulare un proprio giudizio su come l’amministrazione interpreta e realizza la sua missione istituzionale e il suo mandato”.

Il bilancio di sostenibilità, con il quale l’azienda comunica periodicamente ai portatori d’interesse i risultati sociali e ambientali della sua attività, è lo strumento d’eccellenza per onorare l’impegno preso con il diciassettesimo obiettivo di sviluppo sostenibile e permette il monitoraggio sia degli emergenti bisogni sociali sia dei nuovi bisogni di mercato. Sebbene per molte attività non sia ancora obbligatorio, questo rappresenta un momento di incontro sia per i consumatori che per gli investitori oltre che essere un momento di profonda conoscenza di sé stessi per l’azienda che lo redige.

 

Economia circolare

Successivamente nella sala SDGs, grazie all’intervento del Professor Mazzanti, è stato approfondito il tema dell’economia circolare. In particolare, è stato posto l’accento sul fatto che il modello economico circolare è pensato per potersi rigenerare da solo e si basa su di un sistema economico pianificato per riutilizzare i materiali nei cicli produttivi successivi, riducendo al massimo gli sprechi. Per perseguire gli obiettivi di circolarizzazione dell’economia fondamentale si rivela l’investimento sull’innovazione e in particolare sui settori di ricerca e sviluppo.

Purtroppo l’Italia, pur avendo degli ottimi risultati per quanto riguarda le politiche sul riuso dei materiali, ha ancora molte difficoltà nell’affermazione di politiche volte agli investimenti. Prova ne è che l’innovation index le attribuisce “solo” il trentesimo posto nella classifica globale, affermandosi fanalino di coda dei paesi europei. Il Professore, citando Alexander Langer, ha ricordato come la realizzazione della conversione ecologica, ormai imprescindibile per la società, potrà essere raggiunta solo quando assumerà una certa desiderabilità sociale. Solo quando tutti sceglieranno consapevolmente di muoversi verso un modo più verde sarà possibile vedere attuata la rivoluzione ecologica di cui il Pianeta ha bisogno.

 

La responsabilità sociale d’impresa

Quello dello sviluppo sostenibile è un problema complicato che si articola secondo diversi gradi di complessità ma Elisa Serafini, capo degli affari pubblici in Gloovo, ci ha mostrato come anche la responsabilità sociale d’impresa (CRS) sia uno dei modi possibili per contribuire al raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030. All’interno del suo discorso sono stati moltissimi gli esempi di aziende che, tramite le proprie azioni e le proprie scelte, sono riuscite a creare delle esternalità positive all’interno dell’ecosistema che le ospitava.

Tra tutti i casi mostrati, il più interessante è stato quello dell’impegno sociale di Cartoon Network a seguito del taglio dei fondi alle scuole pubbliche americane che ha generato una diffusa mancanza di personale deputato al controllo dell’attività ricreativa. Cartoon Network, in risposta a queste notizie, ha deciso di predisporre sul suo sito un modulo attraverso il quale i genitori, indicando la loro disponibilità, si sostituivano al personale scolastico nella sorveglianza dei momenti ricreativi. Questa operazione, con costi quasi irrisori per la società, ha permesso non solo di creare un impatto positivo sulle scuole ma ha anche permesso a Cartoon Network di raccogliere un considerevole numero di dati sui fruitori dei loro canali. L’insegnamento che si è ritenuto di poter trarre da questa storia è che la prima scintilla che accende il motore dell’impegno sociale ha una natura altruistica ma in fondo l’essere umano, pur essendo un animale sociale, tende quasi sempre a prodigarsi per gli altri al fine di raggiungere una sua gratificazione personale. Quando si parla di responsabilità sociale d’impresa, è opportuno quindi accontentarsi del bene fatto senza guardare troppo al perché ma solo godendo delle ricadute positive del sistema.

 

Il ruolo dell’istruzione

Nella sua terza giornata il WMF ha ospitato una serie di interventi interamente dedicati all’importanza dell’istruzione per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile. In particolare, è stato introdotto il progetto “Dialoghi delle cattedre UNESCO”. Questo è “un programma di incontri Webinar realizzati dalle Cattedre UNESCO italiane che, anche attraverso il confronto con altri studiosi ed esperti sui temi della sfida globale per lo sviluppo sostenibile, si raccontano ad un pubblico vasto”.

All’introduzione affidata alla Professoressa Rondinella, è poi seguito l’intervento della Professoressa Mini che ha sottolineato come il raggiungimento di alcuni obiettivi possa essere valutato tramite una serie di indici che hanno una stretta correlazione con il mondo dell’istruzione e in specie con il “performance index” il quale tiene conto della capacità di lettura e comprensione del testo, delle capacità logico matematiche e delle capacità di problem solving, ossia tutte quelle abilità considerate fondamentali per la vita adulta. In particolare, il perseguimento dell’obiettivo 3 può essere misurato dal “life expectancy index”, l’obiettivo 4 dal “life long learning” mentre l’obiettivo 5 dal “gender inequality index” e, infine, l’obiettivo 8 dal “youth not in school or in employment”. Tutti questi indicatori si rispecchiano perfettamente nel “performance index”.

Il Web Marketing Festival ha dedicato due intere giornate alle tematiche dello sviluppo sostenibile che, come visto, è stato indagato attraverso diverse lenti ma, ancora una volta, con un unico esito: la permanenza dell’uomo sul Pianeta, secondo le attuali modalità, è insostenibile. Siamo gli abitanti dell’ultimo minuto ma siamo stati noi a distruggere la casa che ci ospita; se non si corre al più presto ai ripari la Terra non avrà problemi a liberarsi di noi. Perché, a differenza della consolidata visione antropocentrica, la Terra non ha bisogno di noi ma è la nostra specie, che per sopravvivere, ha bisogno lei.

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Divulgazione e social network: intervista a Marco Martinelli

Fonte immagine originale: https://newsroom.tiktok.com/it-it/un-creator-al-giorno-marco-martinelli

Ricercatore presso la Scuola Superiore Sant’Anna, amministratore delegato di Canapisti, performer di musica e teatro, divulgatore televisivo e TikToker, Marco Martinelli è uno che ha saputo unire la passione per la scienza, la comunicazione e lo spettacolo e che fa della multidisciplinarietà il suo grande punto di forza nella missione di portare la scienza a quante più persone possibili combattendo la disinformazione. Al Web Marketing Festival è stato presente in qualità di relatore, il suo talk, intitolato: “Scienza a colpi di Tik Tok, le frontiere della divulgazione” si è tenuto al mattino e ne riporteremo il riassunto, subito dopo invece, l’abbiamo intervistato per scoprire qualcosa in più del suo percorso e non solo.

 

Il talk di Marco Martinelli

Marco ha iniziato il suo intervento raccontando un po’ di sé: da sempre con una grande passione per la scienza, mentre era studente di biotecnologie all’università, ha avuto l’occasione di fare un provino musicale su Rai 1 data la sua passione per il canto e il ballo. Da lì, grazie a Raffaella Carrà, ha iniziato in TV arrivando a lavorare al canale “Rai Cultura”. Dopodiché si è buttato sui social e Tim Vision, “allo stesso tempo continuo con la musica perché mi sento completo solo se faccio tutte queste cose”, ci ha rivelato.

Successivamente comincia a raccontare di come è approdato sui social media in particolare Tik Tok“: durante un esperimento di routine di estrazione delle proteine sotto cappa, ho deciso di provare a riprendermi sul social mentre lo eseguivo, la prima volta ci ho messo un sacco, ben un’ora in confronto ai venti minuti che ci vogliono di solito, ma dopo solo mezz’ora, quel video aveva 500 mila visualizzazioni e il mio professore che all’inizio bonariamente mi prendeva in giro, visti quei numeri, mi ha esortato a continuare”.

Come ha detto Marco, su Tik Tok, se si fanno contenuti interessanti, questi raggiungono tantissime persone, perché la reach organica è ancora alta. Perché lo fa?  è convinto ci sia un bisogno incredibile di portare la scienza ai ragazzi e questo ritiene essere un ottimo veicolo.

Marco prosegue con il suo discorso illustrando dapprima la storia della divulgazione che parte dal 1600, nascita della Royal Society di Londra, fino ad arrivare ai giorni nostri: prima radio, televisione e riviste e poi i social media, il primo tra i quali YouTube. Con i social nasce anche il termine edutaiment ovvero il concetto di educare, divertendo allo stesso tempo chi ascolta, deriva dall’unione delle parole inglesi entertainment e education che significano rispettivamente: divertimento e educazione. Questo concetto è stato portato avanti soprattutto sul social cinese, in cui uno degli hashtagpiù utilizzati è proprio #imparacontiktok, di cui Marco è ambasciatore, o content creator, come si chiamano oggi.

Arriva poi ad enunciare quelle che secondo lui sono le caratteristiche del divulgatore: multidisciplinarietà, specificità e infine la creatività “che è importantissima non solo all’interno della creazione dei contenuti ma anche all’interno della scienza”. Conclude il talk raccontando dell’uso alternativo che ha pensato per la canapa e infine alcune tips per chi si vuole buttare nel mondo della divulgazione sui social network, perché secondo lui, lo possono fare tutti, a delle condizioni.

 
Marco, il tuo talk è incentrato sulla divulgazione, cosa significa per te divulgare bene e perché hai iniziato a farlo? cosa ti piace di più?

Difficile dire cosa significhi divulgare bene, sicuramente, per una buona divulgazione, ci devono essere degli ingredienti. Il primo è la capacità di comunicazione e la capacità di entusiasmare facendo passare una sensazione, che secondo me è anche la caratteristica grazie alla quale alcuni divulgatori rimangono più di altri. Il secondo ingrediente è l’essere riconoscibile, avere un format per il quale le persone capiscono immediatamente che siamo noi. L’ultimo che non può mancare è l’essere preparati e dare dei contenuti che siano verificabili, validi, basati su delle fonti che siano il più possibile derivanti da pubblicazioni scientifiche comprovate da degli studi verificabili che poi, come sappiamo per tutta la scienza, falsificabili, dato che essa progredisce grazie alla sua falsificabilità. Quindi riassumendo, la combo giusta è comunicativa: carisma, conoscibilità e iniezione di contenuti che siano validi scientificamente.

Io lo faccio perché mi piace, mi diverte, è la mia passione: adoro la comunicazione in generale. Ritengo che questa sia importante anche dal punto di vista etico: ad esempio è importante comunicare che la cannabis non è solo una droga, ad esempio, ma una pianta con tanti benefici e che può essere usata anche come droga. Oppure: comunicare è un fatto etico, come dire che l’omosessualità è contro natura quando contro natura non vuol dire nulla; insomma, ci sono anche dei risvolti etici e sociali della scienza su cui, secondo me, è bello schierarsi e la scienza dovrebbe prendere una posizione e la comunicazione può aiutare.

 
Durante il discorso hai parlato molto di multidisciplinarietà, come credi che questo possa essere un valore aggiunto?

Credo che la multidisciplinarietà sia un valore aggiunto perché ti consente di collegare tanti più aspetti. Nel mio caso specifico, è stato un aiuto molto importante perché lavorando su palchi, cantando e suonando, ho l’abitudine a confrontarmi con un pubblico. Confrontarmi in maniera più corretta, più sana con delle persone che mi seguono sui social, anche se le modalità sono diverse, gli ingredienti alla base sono più o meno gli stessi. Quindi la multidisciplinarietà è stata veramente una “manna dal cielo”, da sempre una mia caratteristica perché, devi sapere che ho la “teoria degli ortaggi”: ci sono le cipolle o le carote. Le carote sono persone specialistiche, bravissime in un ambito, ti faccio l’esempio di un mio professore: fisiologo vegetale che nella vita fa solo quello, la risultante è che lui è la potenza di questa materia, così come molti medici. Poi ci sono le persone come me, che sono delle cipolle, ovvero persone che hanno più strati e si espandono nel terreno in modo orizzontale. Vorrei far notare che non c’è un modo giusto di essere, ma c’è il proprio modo di essere e secondo me sei tanto più efficace quanto più sei aderente con te stesso e quanto più sei vero. In quest’ultimo caso l’obiettivo è quello di far convergere tutti questi interessi in modo tale che diventino sinergici.

 
Hai fatto divulgazione anche per la Rai e adesso sei amministratore delegato di Canapisti, ci racconti un po’ questi due momenti della tua storia professionale? 

Certo, la Rai è stata un’esperienza bellissima e spero si ripeti. Lì ho fatto divulgazione, conducendo dei programmi, in un ruolo leggermente diverso dal vero e proprio divulgatore, ero più un comunicatore. Per quanto riguarda Canapisti, l’ho creata perché desideravo una realtà che potesse, in qualche modo, aiutarmi a fare ricerca sulla cannabis. Attraverso Canapisti io non guadagno niente: in pratica, tutti i soldi che guadagniamo, li spendiamo per pubblicare ricerche scientifiche. Questo è un ottimo modo per tentare di creare un prodotto che possa aiutare qualcuno. Attualmente siamo in contatto con un progetto che spero vada in porto: il filtro risanamento della cannabis per i campi intorno a Milano, che sono purtroppo assediati dal piombo prodotto dalle marmitte delle macchine. La canapa aiuterebbe molto, in quanto possiede delle proprietà filtro depuranti, praticamente assorbe dal terreno questi metalli. Ci sono tante iniziative in cantiere e credo che il filo rosso sia il cercare di fare bene, di volere bene, perché è giusto così: migliorare il mondo intorno a noi. Secondo me, far stare bene gli altri, è un buon motore attraverso il quale orientare le proprie idee.

 
Parli di opportunità per chi vuole fare divulgazione grazie al digitale, ad oggi letteralmente tutti potrebbero farlo e difatti un aspetto di internet è che tutti possono dire la loro. Secondo te dove sta il punto di equilibrio tra libertà di creare contenuti e avere delle informazioni vere e certificate?

Rifacendo il punto di quanto detto nel talk: tutti possono fare divulgazione, è vero, il grande rischio, tuttavia, è che si creino degli “sciamani”. Come dicevo, queste possono essere persone brave a fare comunicazione, che sanno dire la loro, ma che purtroppo mancano di contenuti veritieri. Oppure persone che non dicono cose false, la maggior parte saranno pure veritiere, ma ogni tanto sparano qualche sciocchezza. Nell’etica del divulgatore, dove non c’è un codice etico, dovrebbe starci anche quello di evitare di dire falsità, e se ci si dovesse trovare a dirlo, di comunicarlo il prima possibile. A mio avviso, prima di parlare di un argomento che non si conosce, è fondamentale confrontarsi e formarsi. In merito a questo concetto ho un esempio: a volte faccio dei video sulla robotica, ma per farli, non essendo io un ingegnere, parlo con un professore dell’università che mi spiega le cose e io poi le riporto. Dobbiamo fare questa operazione per cercare di rispettare il pubblico.

 
Siamo giunti a parlare di edutaiment, come pensi che questa forma di educazione possa rivoluzionare un po’ il mondo di apprendimento e della cultura?

Secondo me la televisione sta affrontando un momento drammatico, questo perché presto dovrà fare un passaggio. Molto probabilmente diventerà come Netflix, con dei contenuti on demand. Contemporaneamente, quello che viene prodotto sui social in merito alla divulgazione, alla fine potrebbe diventare un contenuto on demand, facendo un passaggio da YouTube a questo nuovo sistema. Certo, essendoci già YouTube, il passaggio potrebbe non essere scontatoe magari avere una sovrapposizione. Non so quanto sarà funzionale dal punto di vista commerciale, è un po’ complicato e ci sono dubbi su quale potrebbe essere il vero il valore aggiunto della televisione. Probabilmente il valore aggiunto televisivo sta nel fatto che questo mezzo comunicativo dovrebbe diventare, più che un emittente, un produttore con i propri format come in parte sta già facendo. Rispetto a quello che potrebbe fare una persona in casa con la sua telecamera, il vantaggio è che la televisione può fornire, attraverso un sostegno economico, dei mezzi per il quale anche io posso fare lo show di Raffaella Carrà. Secondo me, in futuro, l’edutaiment sbarcherà in televisione in un momento in cui la televisione dovrà essere in grado di produrre cose che sui social i ragazzi non fanno più, questo è il mio punto di vista.

 
Arrivando a TikTok, cosa la rende davvero unica in termini di divulgazione e cosa consiglieresti a chi sta pensando di iniziare come edutainer?

TikTok va molto forte anche e soprattutto in materia di divulgazione. C’è una facilità nel montaggio e la produzione di contenuti è efficace grazie all’approccio dei video sintetici di massimo un minuto. Da pochissimo hanno fornito la possibilità di aumentare la durata dei contenuti fino a tre minuti. Però, devo dire la verità, non li ho quasi mai sfruttati perché ho da subito apprezzato questo social per il fatto di dover essere sintetico, devi saper spiegare in un minuto concetti a volte molto complessi. La sintesi in questo periodo storico è essenziale più che mai, perché la gente ha poco tempo per ascoltarti e ridotta capacità di mantenere l’attenzione, purtroppo non è un bene ma un dato di fatto. Riassumendo credo che questa combo video più sintesi è il punto forte.

Per quanto riguarda il “cosa fare per essere efficaci”, secondo me, è essere riconoscibili, darsi un format in modo tale che tutti ti riconoscano subito. Altro aspetto fondamentale: essere comunicativi, guardando in camera come se davanti ci fosse una persona. Terzo punto, come dicevamo, è essere preparati, se dici una cosa sbagliata una volta, può capitare, ti puoi permettere di dire qualcosa che non è perfettamente giusto, ma se cominci ad accumularne troppe c’è il rischio di perdere di credibilità.

 
Un’ultima domanda, qual è il più grande insegnamento che ti porti a casa ad oggi dalla tua attività e guardando indietro cosa diresti al te del passato che sta iniziando?

Bella domanda, sicuramente il fatto che l’esperienza mi ha portato a misurare meglio le parole. La mia professoressa di greco e latino me lo diceva sempre, e io non ci credevo: “le parole sono pietre e danno un grande peso sia sulle persone che ti ascoltano sia sulla formazione del tuo futuro”, nel senso che ripetere certe cose nella testa o dirle alle persone ha un grande peso sul tuo futuro e su come lo realizzerai. A volte guardando indietro, in buona fede ho delle cose che magari qualcuno può aver travisato e questo può aver fatto male sia a me che a loro ma anche proprio nella divulgazione stessa, bisogna stare molto attenti.

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Tra Twitch, YouTube e Spotify: intervista a Rick DuFer

YouTuber, streamer e podcaster ma anche filosofo, scrittore e divulgatore, Rick DuFer è, decisamente, una figura poliedrica. È host di Daily Cogito (podcast quotidiano che tratta di attualità, politica e cultura che viene trasmesso prima in diretta su Twitch per poi essere ricaricato su YouTube e in formato podcast), conduce, ogni giorno, la rassegna “Rassegnato Stampa” e tiene, di tanto in tanto, live monografiche di stampo filosofico-divulgativo. Insomma, probabilmente uno dei creator più attivi sul web. Noi di iWrite abbiamo avuto il piacere di intervistarlo, durante il Web Marketing Festival, riguardo la sua esperienza online e il futuro delle piattaforme di streaming.

 

Ciao Rick, dato che sei presente ed attivo su diverse piattaforme, con quale ti trovi meglio? Quale ritieni essere la più efficace? Infine, come hai trovato un equilibrio tra le dirette, i video e i podcast?

Dipende dall’obiettivo che uno si dà. Se vuoi costruire un pubblico da zero, la piattaforma ancor’oggi migliore rimane YouTube perché, essendo anche un motore di ricerca in cui la gente trova video consigliati, correlati e via dicendo, è un ottimo modo per costruire il primo nucleo di community e farsi conoscere da un pubblico “casual”. Il punto, però, è che, una volta costruita una piccola community su YouTube, bisogna cominciare ad individuare quelli che sono gli zoccoli duri, le persone veramente interessate. E, quindi, non gli utenti che ascoltano tre minuti di ciò che dici ma quelli che sarebbero disposti a seguirti un quarto d’ora al giorno o di più. Questo lo si fa, attraverso YouTube, pubblicando contenuti di qualitàche possono convincere le persone a seguirti con dedizione. Dall’altra parte, però, lo si fa anche creando dei “filtri”. Uno di questi, per me è, stato Patreon, grazie al quale una parte della mia community ha iniziato a sostenere economicamente il progetto. Un’altra parte è stato il podcast, che è diverso da YouTube perché l’esperienza d’ascolto è più focalizzata e si va incontro ad un’utenza molto più interessata ai contenuti piuttosto che è ciò che scatenano. E, poi, Twitch che è entrato in un terzo momento ed è diventato un altro modo per filtrare quella parte di community che può essere interessata a seguire due ore di live, anche di argomenti complessi e non solo di intrattenimento. Quindi, questo è il modo con cui ho costruito il mio equilibrio. Diciamo che la cosa fondamentale per me è che, all’inizio di un progetto, è necessario individuare la piattaforma su cui puntare per poi, anche imparando dai propri errori, cercare di differenziare sulle altre.

 

Nell’era dei video “alla TikTok” e dell’utenza sempre più abituata a contenuti veloci, sarebbe ancora possibile un percorso come il tuo?

Certo. Perché, in realtà, non bisogna arrendersi ai trend e sapere che sono sempre un’illusione. È vero che “laggente” è più propensa ad ascoltare contenuti brevi. Ma il vero problema è: tu sei interessato a un pubblico del genere? È evidente che la risposta è no. Oggi i contenuti lunghi vivono e sopravvivono. Ricordiamoci che Twitch, durante il periodo pandemico, ha avuto una crescita incredibile e propone live lunghissime. Live che possono essere assimilate ai contenuti radio degli anni ’60 e ’70. La gente ascoltava la radio in quegli anni, quando c’erano le radio pirata, e le trasmissioni duravano moltissimo. Per me, la frase “il pubblico è abituato a contenuti brevi” è parte integrante di una miopia che non capisce il pubblico. Sei tu che devi individuare chi è propenso ad ascoltarti per ore, tutto qui. Hai la forza di individuarlo? Bene, ce la fai. Hai sbagliato? Impari senza usare la scusa secondo cui è la gente a volere contenuti brevi perché, altrimenti, non farai mai un passo avanti.

 

E se, invece, volessimo provare a “convertire” chi non è propenso a video lunghi, magari partendo dai social, su quale formato – audio, video o dirette – consiglieresti di puntare?

Questo dipende da ciò a cui si punta. Ci sono canali YouTube che non puntano sulle live, canali che fanno anche live oppure canali che fanno podcast. Quindi è molto difficile dare una risposta valida in generale. Io, nell’ultimo anno, ho cercato di indirizzare le persone a Twitch perché il mio intento era di individuare un pubblico interessato a spendere tempo seguendo quel che faccio. Senza contare che avevo avevo già differenziato la community nel corso degli anni, tra YouTube e podcast, ed è stato più facile aggiungere anche Twitch. Quindi la cosa più importante è avere consapevolezza del tipo di pubblico che indirizziamo verso una o l’altra piattaforma.

 

Credi che, dopo tutti questi anni di “broadcast your self”, siano ancora rimasti argomenti non trattati? C’è ancora spazio per nuovi divulgatori?

C’è sempre spazio per la divulgazione. Anzi, c’è spazio ora più che mai perché il pubblico ha scoperto un mondo incredibile. E io continuo a ripetere che le cose miglioreranno quando non saremo più in cinquecento a fare video divulgativi e culturali ma saremo in cinquemila. Là fuori è pieno di persone di talento ma che non iniziano un percorso sul web per paura del pubblico o di essere visti come “quelli che fanno le cose online”… Questi ragionamenti devono sparire, credo ci sia un bisogno immane di persone che fanno di più e meglio divulgazione. Oggi, rendiamocene conto, siamo ancora in pochi a farlo. Spero che un domani saremo molti di più.

 

Per concludere guardando al domani, cosa vedi nel futuro delle piattaforme di video in streaming come YouTube?

Secondo me, sono piattaforme che si struttureranno sempre di più e creeranno dei criteri di selezione dei contenuti. Questo perché – cosa che sto notando negli ultimi tempi – stiamo assistendo, non dico al fallimento, ma all’evidenza secondo cui il web orizzontale, del “broadcast yourself”, ha perso di importanza. Non funziona più perché l’esubero di contenuti, anche di scarsa qualità, sta rendendo difficile al pubblico trovare i contenuti che il pubblico vuole. E, quindi, le piattaforme si struttureranno di conseguenza. Basti pensare a Wikipedia. Quest’ultima è diventata sempre più strutturata perché al suo interno ci sono gli editor che creano i criteri e le gerarchie dei contenuti: non si può più entrare su Wikipedia e cambiare una voce, bisogna seguire certi passaggi. Questa cosa succederà anche con le piattaforme e questa andrà verso una migliore fruizione dei contenuti. Dobbiamo stare attenti, però, che i criteri che verranno scelti di volta in volta siano utili, consapevoli e giusti.

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Data driven marketing: intervista a Mauro Lupi

Durante la seconda giornata di Web Marketing Festival a Rimini ho avuto il piacere di intervistare Mauro Lupi, insegnante ed esperto di digital marketing, riguardo il data driven marketing e il suo futuro. Non sapete di cosa stiamo parlando? Non vi resta che leggere l’intervista qui di seguito allora!

 
Buongiorno Mauro, per iniziare, potrebbe spiegare ai nostri lettori cosa si ingente con “data driven marketing”?

Essenzialmente si tratta di affiancare alle strategie di marketing un’analisi dei dati. Detto così, sembrerebbe abbastanza banale ma, concettualmente, significa fare in modo che alcune decisioni strategiche ed operative siano basate sull’analisi di dati empirici e oggettivi, provenienti da una serie di elementi come, per esempio, l’analisi dei comportamenti dei clienti, dei canali digitali, delle interazioni ma anche di fattori qualitativi come preferenze, feedback e così via.

 
Facendo un passo indietro, come si è arrivati a questo nuovo approccio al marketing?

In realtà, la letteratura tradizionale e le basi del marketing prevedono la misurazione. Tuttavia, ciò che fino a ieri veniva chiamato, semplicemente, “misurazione” è passato dal “misurare ciò che è avvenuto nel passato” all’avere da una parte dati in tempo reale, che possono essere agganciati ad azioni in tempo reale, e dall’altra dei dati predittivi a cui adeguare determinate azioni. E quindi, banalmente, impostare delle regole per cui se sto notando che sul mio sito viene vista principalmente una determinata pagina, sull’homepage dovrei far comparire un’informazione specifica che reindirizza a quella pagina.

 
Perché un’impresa dovrebbe decidere di avere un approccio data driven al marketing?

È evidente che i dati, se ben analizzati, dovrebbero darci delle informazioni oggettive. Questo è fondamentale perché, spesso, non abbiamo una percezione esatta della realtà: abbiamo tanti bias personali, una cultura aziendale che a volte non è molto orientata al consumatore e molto autoreferenziale, ci basiamo troppo esclusivamente sulla creatività, sull’innovazione mentale delle persone e non su dati oggettivi. Questa è, quindi, la prima ragione: ci sono delle informazioni che ci aiutano a capire come davvero stanno le cose. Un altra ragione è legata al fatto che la relazione con i destinatari, con i clienti e con stakeholder di un’azienda deve essere il più possibile personalizzata. Questo perché ciascuno di noi dedica sempre meno tempo a tante più fonti e, allora, per conquistare il poco tempo che i clienti ci mettono a disposizione, ci giochiamo tutto in un attimo. E quell’attimo deve essere pertinente, personalizzato per il destinatario.

 
Considerando il livello di complessità che sembrerebbe avere questo genere di approccio al marketing, pensa che sia proprio solamente di grandi aziende come, per esempio, Amazon o che possa essere utilizzato anche da realtà più piccole?

Assolutamente no anche se, forse, cinque anni fa avrei risposto in modo diverso. Un esempio molto banale: una micro-impresa come un bar che manda la classica newsletter ai clienti di cui ha ottenuto l’email. Possiederà, quindi, un database con tutti i contatti dei clienti, cosa ne faranno? Manderanno delle comunicazioni uguali per tutti. Ecco, oggi, le piattaforme che inviano mail – anche le più basilari – hanno già introdotto dei sistemi di automazione basati sui dati che consentono, di conseguenza, di sviluppare degli automatismi. Per esempio, si pensi a un sistema per cui ai riceventi che cliccano su un determinato argomento, viene visualizzato, sul proprio sito, un banner relativo allo stesso. Ovviamente qualcuno dovrà dedicarci un po’ di tempo ma, una volta impostata la regola, il lavoro è concluso, senza necessità di grandi conoscenze informatiche nè di enormi investimenti.

 
Lei quali consigli darebbe a una PMI che vuole iniziare ad avere un approccio data driven?

Ogni azienda dovrebbe avere una cultura il più possibile cliente-centrica, che è un concetto con cui concordiamo tutti ma che non è così banale realizzare. Connesso a ciò, sul lato del data driven, partiamo dai dati che sviluppano i nostri clienti.

La prima domanda, la cui risposta sarà diversa da azienda ad azienda, è: nei nostri confronti, che informazioni generano i nostri clienti? I loro comportamenti e le loro scelte generano dei dati? A volte la risposta è sì e allora bisogna cercare di analizzare questi dati e di interpretarli. A volte, invece, la risposta è no e allora può essere opportuno chiedersi come fare a sviluppare delle informazioni durante le relazioni con i clienti. Per esempio, potremmo chiedere agli utenti dei feedback sui nostri prodotti oppure fare in modo che si logghino quando entrano sul nostro sito. Vanno, quindi, verificati e monitorati i dati che già si possediamo mentre andrebbero stimolati ed acquisiti quelli che non abbiamo. Infine, bisognerebbe capire cosa ci comunicano questi dati e come potrebbero essere utilizzati per migliorare il nostro servizio o prodotto.

 
Quali potrebbero essere i passi falsi o gli errori che si potrebbero commettere approcciando il data driven marketing?

Uno dei principali errori è partire dalle tecnologie, come nel caso delle piattaforme di marketing automation che, spesso, condizionano quello che l’azienda potrebbe fare. Invece, bisognerebbe partire dal capire cosa si possa fare con i dati per, poi, scegliere la piattaforma più adatta. L’altro errore che si fa quando si inizia ad implementare la parte tecnologica è farsi prendere un po’ la mano ed iniziare ad immaginare dei flussi di relazione o l’analisi di dati molto complessi. Perché, potenzialmente, di dati ce ne sono una marea – è fantastico – però, ovviamente, la quantità diventa complessità se non si è in grado di gestire le cose. La complessità va gestita gradualmente altrimenti diventa rumore, si rischia di avere troppi dati da analizzare. Di conseguenza, è fondamentale individuare degli obiettivi puntali e, magari, parziali.

 
Credo che ai più venga automatico pensare che un approccio data-driven sia tipico di un impresa online, tuttavia lei crede che diventerà fondamentale anche per le attività più tradizionali e meno legate al web?

Per forza, assolutamente. Da una parte perché tutto ciò che noi facciamo produce dei dati e questo va a creare un patrimonio informatico che, se non lo si sfrutta, andrà a vantaggio dei competitor. L’altro è che anche dei comportamenti analogici generano dei dati. Ormai ci sono delle tecnologie che, per esempio, contano le persone che entrano in un negozio e, con le mappe di calore, riescono a capire i percorsi che fanno all’interno dello stesso. Questo tipo di tecnologie sono sempre più diffuse, spesso anche nei piccoli negozi e in alcune città che monitorano, addirittura, intere vie.

 
Guardando al futuro, come crede che si evolverà il data driven marketing? E, con riferimento alle diverse sensibilità delle varie zone del mondo – pensiamo a quanto siano distanti gli approcci alle nuove tecnologie di Occidente e Cina – secondo lei andremo verso una “balcanizzazione” di queste tecnologie o, alla fine, uno degli approcci diventerà il prevalente in tutto il mondo?

Non riesco a fare una previsione. In realtà, io credo che le visioni siano tre e che la più virtuosa sia quella europea. Potremmo davvero essere un riferimento mondiale se non ci suddividiamo e polverizziamo, come succede di solito. Siamo il continente meglio attrezzato per trovare un equilibrio perché gli altri, sia Stati Uniti che Cina, sono molto polarizzati: gli americani sull’eccessiva ricerca del profitto mentre i cinesi sul controllo della popolazione civile. L’Europa ha più l’essere umano al centro, nonostante rimangano centrali gli interessi del business ma senza che siano nè gestiti in maniera statalista nè lasciando libertà assoluta ai privati.

Non so se ci sarà un atteggiamento prevalente ad un altro, la mia resta più una speranza che l’intelligenza umana, sul lungo termine, prevarrà sempre. Anche se alcuni andamenti del mondo sembrano andare verso la direzione contraria, purtroppo.

 
Anche perché, inevitabilmente, una maggior spinta verso l’automazione centralizzata “alla cinese” porta inevitabilmente certe imprese ad essere più competitive…

Assolutamente. Per esempio, il settore dell’intelligenza artificiale che è già sbilanciato verso la Cina a causa dei suoi ingenti investimenti – superiori a quelli di tutto il resto del mondo messo insiemi – nel campo. Quindi cosa ci possiamo aspettare da tutto ciò? Lo possiamo solo intuire ma, sicuramente, sarà abbastanza complicato da gestire. Per questo non mi sento sicuro nel fare previsioni di questo tipo. Di certo, penso, almeno nella cultura occidentale, la relazione coi clienti non potrà che passare da una logica win-win. Se fino a qualche decennio fa il potere negoziale era dalla parte delle aziende, oggi i giochi di potere si sono un po’ rovesciati. Per cui l’etica nel trattamento dei dati, la trasparenza con cui vengono trattate le informazioni sulle persone e la sicurezza diventeranno cruciali per stare sul mercato. Alla fine, forse, saranno le persone più che le organizzazione governative a guidare questo processo culturale e a mantenere un equilibrio più o meno sano.

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Creatività e senso community: l’Insta-ricetta di Andrea Antoni

Nella magnifica cornice del Web Marketing Festival, la redazione di iWrite ha incontrato un professionista poliedrico che è in grado di eccellere tanto nel campo dei graffiti quanto su Instagram passando per la professione grafica. Parliamo di Style1 (@stailuan), al secolo Andrea Antoni. Il viaggio di Andrea nell’arte figurativa inizia nel 1997, quando si avvicina al mondo dei graffiti da cui poi nasce l’interesse per il web design che lo conduce dapprima a conseguire la laurea in Scienze e Tecnologie Multimediali presso l’Università di Udine e poi il diploma di grafico presso il CSG-Lab. La padronanza della materia grafica diventa profetica con l’arrivo dei social, in particolare su Instagram, dove fin da subito il suo lavoro riscuote grande successo. Così abbiamo chiesto a Andrea di parlarci proprio di alcuni aspetti di questo social.

 
Ciao Andrea, benvenuto nella nostra redazione. Oggi sei qui al WMF per presentare il libro che hai scritto insieme a Orazio Spoto “”Instagram Community e Creatività”: come è nata l’idea di scrivere questo libro?

Avevo già scritto nel 2015 un libro riguardante Instagram dal titolo “Trova la tua identità su Instagram e condividi foto uniche” quando, nel 2020, l’editore mi ha contattato chiedendomi se fossi disponibile a realizzarne uno nuovo. Ritengo però la mia figura su Instagram un poco borderline, in quanto posso essere annoverato tra i creators, ma non sono un social media manager, non sono un tecnico ma, ugualmente, i numeri dicono che qualcosa so fare. Ciononostante ritengo che la mia conoscenza in materia e il mio approccio siano limitati e così ho pensato di coinvolgere il mio amico, e partner di vari progetti, Orazio Spoto che da sempre ha competenze più complete circa molti aspetti più meramente tecnici per quanto concerne la fruizione di questo social, oltre a un’esperienza enorme dal punto di vista della creazione e della gestione delle community.
Ecco quindi nascere “Instagram Community e Creatività”, che non è il classico manuale che insegna come inserire un post o come raggiungere migliaia di follower, bensì si propone di presentare una serie di esempi concreti e di portare il lettore verso una forma mentis legata maggiormente a una buona narrazione della propria persona, o della propria azienda, per farsi conoscere prima di legarsi esclusivamente alla metrica dei like.

 
Definiresti per noi i concetti di “creatività” e di “community”?

Creatività è proporre una cosa forse già vista molte volte, sotto un aspetto nuovo, tendenzialmente personale e che quindi diventi anche identitario. Una cosa che quando viene vista sembra talmente semplice che il commento standard è “avrei potuto farlo anche io”, ma per qualche motivo tu non lo avevi fatto. Maggiore è il numero dei “l’avrei potuto fare anche io”, più significa che funziona.
La community è uno degli aspetti più importanti in tutti i social network, non solo in Instagram, che è necessario formare per avere un gruppo di riferimento con cui dialogare. Senza volerlo, con Cose Brutte Impaginate Belle, sono diventato anche io un creatore e un gestore di una community gigantesca, ma la cosa non è stata semplice per uno come me, abituato a creare dei lavori e semplicemente condividerli ottenendo apprezzamenti. Diciamo che ci sono stati periodi iniziali di grossi attriti con i follower che, man mano, si sono attenuati. Ad ogni modo la community è un aspetto fondamentale in quanto fidelizza il pubblico che, allo stesso tempo, si sente parte del progetto (e effettivamente lo è), ma al contempo propone e dialoga andando a migliorarlo in modo più o meno volontario. Se non si è disposti al dialogo con una community, è probabile che il funzionamento dei social network allo stato attuale non faccia per noi. Poi che questo dialogo non sia sempre facile e spesso non sia costruttivo, è chiaramente un altro discorso.

 
Nel libro si legge “Instagram è un’applicazione in costante cambiamento (…)”. Questa trasformazione ha coinvolto moltissimi aspetti del social. Come sono evoluti i concetti di creatività e di community?

Da quando ho iniziato a usare questa app è palesemente cambiato tutto a livello di possibilità di creazione di contenuti, ma sono totalmente cambiate anche le persone che la vivono. In passato era possibile condividere solo immagini, tanto per capirci. Non c’erano i video, non c’erano le stories, non c’era IGTV, non c’erano i reels. È ovvio che si possa vivere senza a questi e che non sia obbligatorio utilizzare tutte queste tipologie di materiali messi a nostra disposizione, ma è evidente che più sono le possibilità che mi vengono date per creare qualcosa di mio, più è probabile che trovi una strada per creare qualcosa di più adatto a me. Ci sono profili che condividono solo video, altri che puntano tutto sulle stories, altri che realizzano guide, e non c’è un giusto o un sbagliato, a solo un più adatto. E questa enorme possibilità di tipologie di condivisioni è uno stimolo incredibile a dare il meglio di sé stessi, in un ipotetico progresso creativo che non può che fare bene.
Le community, invece, in passato erano quasi inesistenti, o legate esclusivamente a profili che si palesavano come community (fisiche o virtuali che fossero). Attualmente invece anche un profilo personale diventa la base su cui costruire una community, e non è semplice. Le persone hanno sempre più possibilità di interazione e amano farlo (ai tempi c’era più distacco e più riguardo nell’interagire con il prossimo), Instagram con le stories, gli stickers e tutte le possibilità di sondaggi e domande stimola a farlo. Il problema è che nei social le cose o funzionano poco, o funzionano tantissimo. Se funzionano tantissimo, gestire una community di persone diventa di una difficoltà incredibile perché io ritengo sia giusto cercare di rispondere a tutti, ma ovviamente non è così semplice.
Ad ogni modo che si guardi il lato umano, o quello meramente professionale o di business, avere una community attiva è oramai imprescindibile per avere successo e ritorno dai social e quindi è un aspetto che difficilmente può essere lasciato in secondo piano a livello del suo sviluppo.

 
Parliamo della tua esperienza personale con il progetto “CoseBrutteImpaginateBelle”, in acronimo CBIB. Questa pagina esiste dal 2018 ma la sua consacrazione è avvenuta nel 2020 quando, durante il primo lockdown, hai iniziato a chiedere quotidianamente quale fosse “La Situa” nelle case tuoi follower. Durante la pandemia, quale è stata la tua esperienza di community? E cosa ha significato per te essere a capo di una community in un periodo così particolare?

Potrei dire di sì, ma in realtà c’è un problema di percepito personale: come dicevo prima, Instagram ormai offre molti spunti creativi e ci sono profili che condividono di tutto, altri che condividono solo post, altri che puntano tutto sulle stories. CBIB viaggia su binari paralleli tra post e stories e, anche se non sembra, esistono moltissimi follower che nemmeno sanno che esiste La Situa, perché non fruiscono delle stories. Ricordiamo che “CoseBrutteImpaginateBelle” nasce come un progetto di educazione alla bellezza, tramite empatia del disagio. Prevede quindi un utilizzo di Instagram come se fosse Twitter: non vengono infatti condivise fotografie bensì delle frasi, impaginate in modo ordinato utilizzando come font l’Helvetica. Entrano così in gioco una forte ironia e lo spiazzamento derivante dalla distorsione di frasi note motivazionali, in fare demotivante. Detto questo, sicuramente, la crescita esponenziale è avvenuta dal lockdown in poi, ma sempre per discorsi legati a questa “strategia” parallela di contenuti: il profilo tratta dell’ironia sul disagio e il lockdown è stato una linfa incredibile in materia. Non è un caso che, per quanto le stories funzionino molto bene, e abbiano per l’appunto creato una community attiva enorme, l’aumento di follower è quasi sempre legato alla pubblicazione di post di successo. Con “La Situa” ho aiutato inconsapevolmente molte persone a vivere meglio un periodo terribile quale quello del lockdown, ma è stato ambivalente: la vicinanza di così tante persone ha aiutato me a vivere in un periodo che già da prima non mi vedeva particolarmente felice. Poi è oggettivo che, in un momento di crisi assoluta lavorativa nel settore della grafica, gli introiti derivati dalla vendita del libro e dei successivi gadget hanno praticamente modificato la mia attività lavorativa e mi hanno aiutato a non collassare come libero professionista. Per quanto concerne il futuro, vedremo. Concludo rispondendo al fatto che l’essere “capo” di questa community non mi scompone più di tanto, anche perché non mi ritengo tale, ma mi vedo un poco come un amico, un poco come uno smistatore/selezionatore di pensieri, oltre al fatto che imparo continuamente cose nuove grazie alla provenienza totalmente differente da parte di chi mi segue. Più volte ho risposto in questo modo: mi sono visto come il protagonista de “La leggenda del pianista sull’Oceano”, dove il pianista non era mai sceso dalla nave, ma conosceva tutte le persone, le storie e i luoghi, grazie ai racconti dei croceristi che ha incrociato nella sua vita. Allo stesso modo io, chiuso nel mio ufficio nell’estremo lembo del nord est dell’Italia, venivo a conoscenza di storie, persone e situazioni da tutta Italia e da tutto il mondo, permettendomi di creare una conoscenza condivisa che nemmeno la maggior parte dei vedi canali di informazione hanno dato. E questo è stato un onore, e questo è stato grazie alla community, che quindi anche ora ringrazio per aver avuto fiducia in me ed essersi confidata anche in storie estremamente personali.

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Influencer Virtuali: like o unfollow?

L’Influencer è diventato ormai una figura che abitualmente seguiamo sui social: si tratta di personaggi del web che attraverso la propria immagine e con il supporto di un team dedicano quotidianamente tempo e lavoro alla crescita della propria community, con lo scopo di creare contenuti in grado di coinvolgere molte persone anche ricavando somme di denaro.

Una novità che nell’ultimo periodo è diventata più frequente e non ha lasciato indifferenti è rappresentata proprio da loro, gli Influencer Virtuali, una nuova categoria di Influencer nata grazie ai progressi avvenuti nel campo della grafica computerizzata e dell’intelligenza artificiale.

Come mai questi insoliti Influencer sono tanto speciali? Se prima si metteva in dubbio la loro autenticità sui social adesso possiamo avere finalmente la certezza che questa categoria non lo sia affatto, appunto perché non si tratta nemmeno di esseri umani.

Cosa sono gli Influencer Virtuali?

Gli Influencer Virtuali a primo impatto potrebbero sembrare ragazzi e ragazze dall’aspetto perfetto, magari dovuto a qualche filtro in più, ma in realtà sono completamente diversi da quelli ai quali siamo abituati: si tratta infatti di avatar creati al computer (definiti anche CGI Influencer, ovvero computer generated imagery), identici nell’aspetto agli esseri umani e in grado di replicare alla perfezione gli stessi comportamenti ed espressioni.

Vengono creati da esperti di grafica computerizzata e resi reali e molto simili agli umani attraverso l’uso dell’Intelligenza Artificiale, sempre più utilizzata in molti ambiti.

Questi avatar sono creati per comportarsi e apparire come degli Influencer, per questo motivo sui social interpretano il ruolo di modelli e tester e si presentano come figure che possono avere un impatto positivo e influenzare i follower che li seguono.

Nel concreto sponsorizzano brand, partecipano a campagne ideate da aziende reali, mostrano o provano prodotti che gli vengono “inviati” e possono anche partecipare ad eventi.

Soprattutto su Instagram, questi nuovi e inaspettati personaggi si stanno facendo conoscere attraverso collaborazioni con grandi aziende conosciute in tutto il mondo, le quali vedono in questi nuovi protagonisti un’opportunità per attirare un target più giovane e difficile da sorprendere.

Quali sono i più seguiti?

Gli Influencer Virtuali sono già presenti in gran numero sui social, soprattutto su Instagram, ma quali sono i più conosciuti di questa nuova e inaspettata categoria?

In testa alla classifica per numero di follower, esattamente 3 milioni su Instagram, 30.000 su Twitter e 267.000 su Youtube, c’è Lil Miquela, una creazione dalla startup americana Brud, apparsa per la prima volta su Instagram nel 2016 e considerata dal Time tra le persone più influenti su internet nel 2018.

Miquela Sousa si presenta come una diciannovenne di origini spagnole e brasiliane, ed è all’apparenza una giovane ragazza con una forte personalità, appassionata di moda e musica, che nella vita è Influencer, modella e anche cantante; nel 2017 il suo singolo “Not Mine” è diventato virale su Spotify, collocandosi ottavo nella classifica dei brani più ascoltati della piattaforma.

Il suo curriculum vanta già diverse collaborazioni con brand molto importanti, tra cui Prada, Gucci, Diesel, Calvin Klein, Samsung e molti altri.

Miquela però non è solo un’artista di successo o una modella che presta la sua immagine per sponsorizzare i prodotti dei brand che chiedono di collaborare con lei, ma è innanzitutto una figura in grado di comunicare con la propria community attraverso una sua personale voce.

Su Youtube ha un canale molto attivo attraverso il quale si rivolge direttamente ai propri fans e dove discute di personaggi reali, come le Kardashian, come se il suo mondo non fosse in realtà virtuale.

Sui social ha anche postato diverse fotografie assieme a persone reali, famose e influenti come, per esempio, con la star di Netflix Millie Bobbie Brown, quasi per evidenziare il progressivo abbattimento del limite tra ciò che è reale e ciò che non lo è.

Posta con frequenza anche su Twitter e prende posizione su importanti temi di attualità, come, per esempio, il movimento Black Lives Matter.

In passato ha inoltre rilasciato diverse interviste in cui si è espressa su diversi temi proprio come se fosse un normale personaggio influente del web.

In un’intervista rilasciata a Business of Fashion, Miquela ha affermato “sono un’artista e spesso le mie opinioni personali mi hanno anche fatto perdere follower. Voglio essere tutto, anche più di quello che i miei fan si aspettano”.

Potrebbe sembrare il normale pensiero di un Influencer, se non fosse che dietro a queste parole in realtà ci sia un team di esperti di comunicazione e non semplicemente una diciannovenne di successo.

La verità è che nonostante sia una creazione finta realizzata a computer, per molti Miquela è molto più vera e autentica di molte Influencer in carne ed ossa.

Bermuda, con 287mila follower, è l’amica virtuale di Miquela, un esempio di personalità del web da non imitare per la sua superficialità e poco ammirata a causa delle sue trascorse posizioni politiche a favore dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump. È interessante dunque vedere come le agenzie si siano impegnate a realizzare degli avatar quanto più realistici possibili, e a volte con lo scopo di sfavorire un personaggio per avvantaggiarne un altro, come in questo caso rispettivamente con Bermuda e Lil Miquela.

Blawko, creato dalla stessa agenzia americana di Lil Miquela, è conosciuto invece per essere l’ex fidanzato virtuale di Bermuda e molto amico della regina degli Influencer Virtuali.

Le sue caratteristiche fisiche sono i tatuaggi che gli ricoprono tutto il corpo, lo stile e l’abbigliamento hip hop e la mascherina che gli copre sempre il volto. È diventato famoso soprattutto dopo aver partecipato a un DJ set per NTS Radio e oggi è seguito da ben 152mila persone su Instagram.

La modella Shudu ha fatto il suo debutto nel 2017 e oggi il suo profilo conta più di 200mila follower.

La creazione del fotografo di moda Cameron James-Wilson è diventata famosa dopo essere stata testimonial per Fenty Beuty, la linea di make-up firmata Rihanna.

All’inizio tanti erano convinti che fosse una modella reale, e ammaliati dalla sua bellezza hanno scoperto solo in seguito e con grande sorpresa che non lo era affatto.

Oggi collabora ancora con numerosi brand nel campo dell’alta moda.

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Infine, Imma è la creazione dell’agenzia Modeling Cafe Inc Di Tokyo, nata nel 2019 e attualmente seguita da 328mila follower. Dalla sua biografia si legge che è appassionata di arte, film e cultura giapponese, e il suo scopo come Influencer è proprio quello di condividere e mostrare attraverso i social le sue passioni.

Caratterizzata dall’acconciatura rosa a caschetto e dai tratti orientali, Imma potrebbe essere tranquillamente scambiata per una vera modella giapponese, tanto che oltre ad essere molto attiva su Instagram realizza numerosi video su TikTok nei quali si mostra sempre naturale e spontanea.

Un aspetto curioso legato a Imma è il fatto che la sua testa è virtuale mentre il corpo appartiene ad una ragazza reale: in questo modo è molto più semplice farla sembrare una vera modella e farla muovere nello spazio con più naturalezza.

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Ciò che accomuna tutti questi personaggi più o meno influenti è la capacità dei loro creatori di attribuire a loro una personalità definita e unica per renderli quanto più veri e realistici.

Ognuno ha un proprio stile, un carattere, un modo di posare differente e addirittura opinioni personali, tanto che probabilmente molti tra i loro follower non si sono ancora resi conto di seguire degli avatar creati al computer.

 

Perché le aziende sono incentivate a lavorare con loro?

I vantaggi di lavorare con gli Influencer Virtuali sono parecchi, tanto che sempre più aziende scelgono di collaborare con loro.

Innanzitutto, i costi sono decisamente inferiori rispetto a quelli reali, ciò è dovuto al fatto che le aziende non devono regalare ogni volta i prodotti ma semplicemente venderne i diritti di sfruttamento d’immagine. In più, non è necessario sostenere costi in merito a pernottamenti, viaggi o condizioni degli stessi Influencer in quanto essendo virtuali possono apparire ovunque, in qualsiasi momento e oltretutto in più posti contemporaneamente.

Inoltre, essi non sono condizionati dai bisogni fisiologici, non si ammalano mai, sono sempre in forma e non invecchiano.

Ma soprattutto fanno e dicono esattamente ciò che vuole l’agenzia, quindi il loro campo d’azione è limitato mentre il controllo da parte dell’azienda nettamente maggiore.

In un periodo di pandemia e incertezze, gli Influencer Virtuali rappresentano per le aziende la sicurezza che i propri progetti e strategie possano essere portate a termine in qualsiasi circostanza.

Le aziende che hanno creato i propri Influencer Virtuali

Molte aziende hanno deciso di non affidarsi ad agenzie esterne per l’utilizzo di Influencer Virtuali ma di creare i propri.

Tra queste, KFC ha scelto di portare in vita proprio il Colonnello Sanders, storico volto del marchio di pollo fritto. Il colonnello, ormai qualche anno fa, aveva preso il controllo dei canali social del brand, con il compito di sponsorizzare il marchio in modo originale e insolito per una catena di fast food.

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Lo stesso ha fatto Puma con Maya, modella virtuale seguita da 8mila follower.

È stata creata appositamente per l’azienda con lo scopo di rivolgersi al sud-est asiatico attraverso campagne mirate, e dato che si tratta di una regione talmente vasta, Maya è risultata la sola in grado di prestare la propria immagine senza limiti spazio-temporali legati alla sua persona fisica.

Vantaggi e perplessità

I motivi per i quali le aziende potrebbero preferire una collaborazione con gli Influencer Virtuali non sono quindi pochi, allo stesso modo sono molte le perplessità dei competitor del settore e non solo.

Alcuni li trovano addirittura inquietanti perché nonostante la somiglianza con gli esseri umani in realtà non lo sono, ma cercano solamente di imitarli alla perfezione.

I follower di un Influencer solitamente tendono a imitarlo e copiare il suo stile di vita, perciò un fattore fondamentale che dovrebbe essere presente in chi lavora in questo settore è senz’altro la capacità di ispirare fiducia e di diventare un punto di riferimento per la propria community.

Ciò che manca a questi avatar è proprio il lato umano, le emozioni che solamente una persona in carne ed ossa potrebbe trasmettere. Può essere dunque rischioso essere influenzati da avatar apparentemente perfetti che nella realtà non esistono, perché si cercherebbe di imitare qualcosa di irraggiungibile.

Inoltre, dietro agli Influencer Virtuali non c’è una persona, ma un team di esperti che hanno il compito di sfruttare l’immagine di un personaggio, in questo caso creato al computer, per ottenere collaborazioni con aziende e successivamente un guadagno economico.

Forse in futuro queste personalità verranno riconosciute per quello che secondo molti sono veramente, ovvero veri e propri strumenti di pubblicità.

In futuro seguiremo sempre più Influencer Virtuali?

I numeri parlano chiaro, nei prossimi anni le aziende utilizzeranno ancora strategie di influencer marketing per le proprie campagne sui social network.

Secondo i dati esposti nel report dell’Influencer Marketing Hub del 2021, nel corso di quest’anno è prevista una crescita dell’industria dell’influencer marketing fino a raggiungere quasi 14 miliardi di dollari, mentre il 90% degli intervistati della ricerca è convinto dell’efficacia di queste strategie sui social.

Bisogna capire quali metodi verranno scelti dalle aziende per portare avanti le proprie campagne di marketing, se attraverso l’utilizzo dei classici Influencer o meno.

Sicuramente conteranno anche le opinioni degli utilizzatori di Instagram, liberi di seguire l’una o l’altra categoria soprattutto in base all’autenticità e reputazione del personaggio stesso.

Non ci resta che attendere e vedere le reazioni degli utenti dei social, che potranno restare sempre più affascinati dagli Influencer Virtuali finti ma sempre più autentici, o rimanere fedeli a quelli umani ma facilmente considerabili più falsi.