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Ambiente, società e tecnologia

Leoni da tastiera e non solo: parliamo di cyberbullismo

Facciamo chiarezza sui termini

 

Il cyberbullismo è una forma di bullismo si svolge attraverso la rete (sms, email, messaggi in community, social) con lo scopo di arginare, deridere o umiliare una persona, con offese che possono riguardare l’orientamento sessuale, razzismo, bodyshaming e altro ancora.

È importante fare una distinzione fra cyberbullismo e cybermolestia: la prima, identifica una forma di molestia che avviene fra minorenni, mentre la seconda si verifica fra adulti o fra un minorenne e un soggetto adulto.

 

Non sono Leoni da tastiera: i reati del cyberbullismo

 

Il fenomeno è vasto e ricopre più reati di quanti molti di noi si immaginano, ognuno dei quali si compone di varie sfumature.

Un elenco delle categorie con il maggior numero di vittime:

Flamming: si verifica quando un soggetto innesca una discussione violenta e volgare sulla rete. L’intento è quello di generare accanimento verso una particolare persona.

Harassment: è un tipo di molestia che consiste nel tormentare un particolare soggetto preso di mira, fino ad isolarlo o cagionargli danni psicologici, simile al bullismo “tradizionale”.

CyberStalking: sono gli atti e persecuzioni volte a far sentire sotto minaccia e non al sicuro la vittima. Intimidazioni anche di violenza fisica.

Denigration: corrisponde alla divulgazione e di notizie non veritiere inerenti alla sfera personale di un soggetto, sostanzialmente una calunnia tramite rete.

Impersonation: identifica l’appropriazione da parte del cyberbullo dell’identità di un’altra persona e mette in atto delle azioni volte a minare alla sua reputazione.

Trycy: consiste nell’ingannare la vittima per guadagnarsi la sua fiducia, fino a farsi inviare da questa ultima del materiale personale che poi utilizzerà per minacciarla o diffamarla in rete.

Happing shapping: significa diffondere video in cui un soggetto viene percosso fisicamente. Questa espressione nasce dall’inglese e la sua traduzione letterale è “schiaffo divertente”.

Doxing: è la diffusione in rete di informazioni sensibili e private di soggetti terzi.

 

La situazione in Italia

Molti pensano che il cyberbullismo sia un fenomeno passeggero e più leggero rispetto al bullismo, ma non è assolutamente così: ad oggi il 34% del bullismo si svolge in rete, dati che sono inevitabilmente destinato ad aumentare.

Con l’aumento dell’utilizzo della tecnologia chiunque può facilmente pubblicare qualsiasi contenuto, in qualsiasi momento e senza controlli. Il cyberbullismo spinge le vittime all’isolamento, alla depressione e nei casi più gravi, al tentativo di suicidio.

Riuscire ad identificare i carnefici ed intervenire, è molto difficile, proprio per la portata di utenti che si possono raggiungere su Internet.

Dai dati raccolti dall’osservatorio “Indifesa”, (l’unico mezzo a disposizione per riuscire a quantificare le vittime di cyberbullismo) nato nel 2014 per raccogliere le opinioni degli adolescenti italiani attraverso un questionario somministrato online attraverso i canali Instagram, ScuolaZoo e le scuole coinvolte nella Campagna “Indifesa”, quasi il 60% dei giovani ha dichiarato di essere stato vittima di bullismo o  cyberbullismo; più del 20% è stato oggetto di cyberbullismo, di cui il 13% sono giovani donne, contro un 10% di ragazzi.

Il 30% dei casi di cyberbullismo nel nostro Paese si caratterizza da commenti a sfondo sessuale rivolti a donne.

Sei ragazzi su dieci dichiarano di sentirsi in pericolo quando navigano sul Web, temendo di subire fenomeni di cyberbullismo (in tutte le sue forme viste sopra), perdita della privacy, revenge porn e adescamento online.

Possiamo affermare con certezza che la pandemia di COVID-19 ha ulteriormente alimentato questo fenomeno: durante il Lockdown le segnalazioni di reati di bullismo online sono state sei volte maggiori rispetto alla situazione pre-pandemia (dato raccolto dalla Fondazione Carolina), e sono in continuo aumento, peggiorando le situazioni di isolamento e ansia.

 

Chi tutela le vittime?

La legge n. 71 introdotta in Italia nel 2017 ha messo in campo una serie di misure per contrastare i cyberbulli:

I genitori delle vittime con meno di 14 anni, possono rivolgere istanza al gestore dei siti internet o della pagina social, per far rimuovere e bloccare qualsiasi contenuto non autorizzato o offensivo, entro 48h dalla denuncia. Se non verranno rimossi, subentrerà il Garante della Privacy.

Il testo prevede anche una serie d’interventi a scopo educativo da svolgere all’interno delle scuole, sia per gli studenti, che per il personale scolastico: all’interno di ciascun istituto deve essere scelto un referente, che dovrà collaborare con le Forze di polizia e le altre associazioni coinvolte negli eventi; in aggiunta a una serie di misure di supporto per gli i soggetti coinvolti e l’obbligo, per il dirigente scolastico, di informare i genitori dei minori coinvolti.

Se viene presentata un’istanza in questura, nel caso in cui il cyberbullo sia compreso fra i 14 e i 18 anni, può essere applicato l’ammonimento (un richiamo verbale da parte del questore).

La scuola è il luogo in cui intervenire con provvedimenti educativi: prevenire per evitare di curare.

Rendere i ragazzi, fin dalla giovane età, consapevoli della dannosità di certi comportamenti. Educare ad un uso consapevole di internet e dei social media.

Il bullismo in rete esiste anche se non sempre si riesce ad associare un volto e un nome ai mostri da tastiera, che si nascondono dietro ad uno schermo, sfogando cattiveria e frustrazione sulle loro vittime.

Avere uno smartphone fra le mani, non significa sapere come utilizzarlo. Questo è un appello, nella speranza che i governi pongano più attenzione anche alla questione dell’Alfabetizzazione Digitale.

 

Una giornata per ricordare

Il 7 Febbraio è stata istituita la giornata nazionale del bullismo e del cyberbullismo, per ricordarci quante persone (giovani e non), ogni giorno vivono sommersi dall’odio e dalla violenza derivante dai pregiudizi.

L’invito è sempre quello di non rimanere in silenzio: denunciare è fondamentale!

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Ambiente, società e tecnologia

Rifugiato climatico – o lo status che non c’è

Lo scorso 9 agosto è stato diffuso dall’IPCC il documento “Climate Change 2021: The Physical Science Basis”. Tra i primi grafici che hanno accompagnato la sua presentazione ne è stato mostrato uno che illustra come la temperatura media globale del pianeta, nel decennio 2011-2020, sia stata di 1.09°C superiore a quella del periodo 1850-1900, con un riscaldamento più accentuato sulle terre emerse rispetto all’oceano. Il trend di ascesa delle temperature sembra ormai inarrestabile e presto sarà necessario fare i conti con le conseguenze ambientali, economiche e sociali che ne derivano. Tra queste ve ne è una ancora poco discussa: la migrazione climatica.

Le migrazioni climatiche del futuro

Ma cosa spinge i migranti climatici a lasciare i propri luoghi di origine? In realtà non vi è una sola motivazione, ma si ha a che fare con una concomitanza di diversi fattori: l’aumento della siccità, la diminuzione della produttività agricola e l’innalzamento del livello del mare. Quella appena fatta è un’elencazione, forse, striminzita ma dalla quale emerge con chiara evidenza e altrettanta drammaticità un fattore non immediatamente percepibile dalle narrazioni sulle ragioni dell’immigrazione, vale a dire come le variazioni climatiche impattino, attraverso l’influenza sui mezzi di sussistenza e sulla vivibilità dei luoghi, sulla migrazione delle popolazioni.

Secondo il quotidiano La Repubblica, degli 80 milioni di profughi del mondo, circa 25 sono migranti climatici mentre, secondo l’ultimo rapporto Groundswell della Banca mondiale, sono oltre 216 milioni le persone che potrebbero spostarsi all’interno dei loro paesi entro il 2050 in sei diverse regioni del mondo.

In particolare, i dati forniti dalle loro proiezioni parlerebbero di:

  • 86 milioni di migranti climatici interni per quel che riguarda l’Africa subsahariana
  • 49 milioni per la regione dell’Asia orientale e del Pacifico
  • 40 milioni per l’Asia meridionale
  • 19 milioni per il Nord Africa
  • 17 milioni per l’America Latina
  • 5 milioni per l’Europa orientale e Asia centrale.

Secondo gli esperti, i flussi migratori aumenteranno in maniera più o meno costante ancora per qualche decennio per poi accelerare rapidamente nella seconda metà del secolo. Sebbene i numeri parlino chiaramente di un problema che prima di tutto si presenta all’interno dei paesi che subiscono il cambiamento climatico, anziché all’interno di quelli che ne sono stati storicamente paesi che spesso, in maniera del tutto discutibile, continuano a tapparsi gli occhi innanzi all’evidenza.

Il diritto su carta

Con queste premesse non sembra azzardato affermare che le enormi cifre di cui parlano gli esperti sono un importante campanello di allarme che non può essere ignorato; è necessario iniziare a lavorare fin da ora a un piano sociale, politico e soprattutto normativo per non arrivare impreparati al 2050. Un primo passo potrebbe essere fatto proprio sul piano politico con la concessione dello status di rifugiati per i migranti climatici.

La concezione di rifugiato (o di titolare di diritto d’asilo), il cui riconoscimento di stato garantisce un’elevata tutela all’individuo in quanto obbliga lo Stato destinatario della migrazione ad accogliere il rifugiato e a tutelarne la salute, è stata pensata all’indomani della II Seconda guerra mondiale e, nel tempo, ha subito delle significative evoluzioni.

Secondo la Convenzione di Ginevra, va riconosciuto lo status di rifugiato a ogni persona che si sta avvalendo della protezione di un Paese diverso da quello di origine perché, in questo, ritiene di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale o per le sue opinioni politiche. La definizione fu poi sostanzialmente confermata nel Protocollo delle Nazioni Unite relativo ai rifugiati del 1967, ampliata, nel 1969, a quelli che sono costretti a lasciare il luogo di residenza abituale a causa di aggressioni esterne, occupazione militare, invasione straniera o eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico, e quindi, nel 1984 (delineando un concetto che sarà fatto proprio, a partire dal 2011, dallo stesso Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’UNHCR), a chi, trovandosi fuori dal proprio paese, non può farvi ritorno a causa di minacce gravi e indiscriminate alla vita, all’integrità fisica o alla libertà derivanti da violenze generalizzate o eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico.

Il fatto che sia difficile ricomprendere sotto questa definizione i migranti climatici, non può destare sorpresa, essendo le cause della migrazione sempre imputate a condotte umane, piuttosto che a eventi naturali.

Sessant’anni dopo la conclusione dalla Seconda guerra mondiale, però, i motivi che spingono le persone a migrare sono cambiati radicalmente e, per far fonte alle nuove esigenze, nel 2004, l’Europa ha introdotto la direttiva n. 2004/83/CE in materia di protezione internazionale. Per la prima volta si parla di protezione sussidiaria, che si va quindi ad aggiungere all’ipotesi di rifugiato, ampliando le possibilità di tutela per i migranti “umanitari”. Infatti, la protezione sussidiaria non riguarda più solamente le situazioni di persecuzione individuale riconosciute meritevoli del diritto d’asilo, ma opera a protezione del cittadino straniero nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno e che dunque non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese. Un’ipotesi, come detto, formulata in maniera più ampia, più elastica, più onnicomprensiva degli specifici casi previsti dal diritto internazionale.

A una prima lettura, dunque, si potrebbe pensare che questo principio possa tutelare anche i migranti climatici, ma non è così. Infatti, con “un rischio effettivo di subire un grave danno” si intende: la condanna a morte; la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine e la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Alla luce di ciò si deve concludere che il migrante climatico sia destinato a rimanere ancora fuori della porta.

Uno spiraglio sarebbe potuto essere quello del concetto di “protezione umanitaria” che in Italia si è aggiunto allo status di rifugiato e alla protezione sussidiaria di derivazione internazionale e europea, fino al 2018. La protezione umanitaria fu introdotta con la legge Turco Napolitano e prevedeva che il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno non potessero essere adottati, pur non sussistendo i presupposti dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, se ricorrevano «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano». Poteva, forse, questo bastare a tutelare i migranti climatici? Non precisamente. Ma c’è da rilevare che la dicitura “seri motivi di carattere umanitario”, non facendo riferimento a accadimenti specifici, ben si prestava a una flessibile interpretazione in grado di adattarsi a diverse circostanze.

Il diritto nelle corti

Sebbene i dati visti prima dimostrino la necessità di agire velocemente, la legge scritta presenta ancora una forte reticenza nello scegliere se e quale debba essere la protezione da accordare ai migranti climatici. Fortunatamente diversa (ma non troppo) è l’atmosfera presente nelle corti, dove i giudici sembrerebbero inclini all’elastica interpretazione della normativa a favore di una apertura verso il riconoscimento dello status di migrante ambientale.

Tali affermazioni sono sostenute da ben tre pronunce della giurisprudenza internazionale e italiana. Il primo è noto come “caso Teitiota” e riconducibile alla sentenza 2728/2016, in cui per la prima volta il Comitato Onu ha riconosciuto, a un migrante climatico, il diritto a non essere respinto. Sebbene non vi sia una vera e propria affermazione dello status di rifugiato climatico, viene comunque riconosciuta al migrante una forma di protezione che, per quanto non totalmente definita, ne impedisce comunque il rimpatrio.

In un contesto simile si inserisce il secondo caso, ossia quello riguardante la richiesta di protezione umanitaria fatta all’Italia da un cittadino nigeriano (oggetto della sentenza della Corte di Cassazione n. 5022/2021). Sebbene le corti inferiori avessero negato tale richiesta, la Corte di Cassazione ha successivamente stabilito che la terra di origine del richiedente protezione versasse in una grave condizione di dissesto ambientale, tanto da poter addirittura riconoscere una compromissione del diritto alla vita e ad un’esistenza dignitosa. Proprio quest’ultima motivazione permette al richiedente di vedersi riconosciuta la concessione della protezione umanitaria, garantendo, per la prima volta in Italia, un primordio di protezione a un migrante climatico. Purtroppo, almeno per ora, questa vicenda sembrerebbe destinata a restare un unicum essendo legata alla definizione di protezione umanitaria che dal 2018 non esiste più, essendo stata abolita – o meglio, frammentata – dalle scelte di politica legislativa del tempo.

Un germoglio di speranza, però, sembra venire dalla più recente sentenza n. 25094/2021, sempre della Corte di Cassazione. In questo caso, a richiedere la protezione umanitaria è un cittadino bengalese che aveva perso precedentemente la propria abitazione a causa di un’inondazione. La sentenza si conclude con il respingimento della richiesta in quanto la corte ha decretato che non vi erano gli estremi per garantire l’accoglienza in Italia al richiedente, ma l’importanza, e la singolarità della vicenda giuridica, risiede nel fatto che per la prima (e per ora ancora unica) volta viene utilizzato il terminerifugiato ambientale” per riferirsi a qualcuno che ha dovuto abbandonare la propria terra a causa delle conseguenze del cambiamento climatico. I più fiduciosi guardano all’impiego di questa terminologia come a un timido riconoscimento giuridico di questa figura.

 

Migranti climatici: gli invisibili del diritto

Sicuramente, nell’immediato, è difficile immaginare un arginamento delle migrazioni ambientali, visto che lo sconvolgimento dei sistemi climatici è a un punto di non ritorno e non si riuscirebbe a cambiarne la rotta neppure se si entrasse in azione a partire già da domani mattina. Se a ciò si aggiunge la lentezza con cui si evolvono le fonti del diritto, il rischio è quello di lasciare, entro il 2050, milioni di persone senza alcun tipo di protezione, né materiale né normativa. Proprio per questo, alcuni studenti dell’università di Milano-Bicocca hanno deciso di alzare la voce e lo hanno fatto lanciando una petizione affinché “la normativa italiana venga modificata, andando a concedere lo stato di rifugiato anche ai migranti climatici al fine di garantire loro fin da subito la speranza per un futuro più sicuro e dignitoso”.

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Dietro al caso Amazon Smile: pochi sorrisi e tanta strategia?

Lo scorso Dicembre 2021 il Washington post pubblica la notizia secondo cui Amazon, la più grande Internet Company del Mondo, avrebbe finanziato economicamente gruppi No-Vax.

Per chi non lo sapesse, questa azienda possiede il primo e maggiore Internet market place del mondo. Come?

 

Tramite il programma “Amazon Smile”, lanciato dal fondatore dell’azienda Jeff Bezos, che concede la possibilità agli acquirenti che effettuano gli ordini online sulla piattaforma, di donare lo 0,5% della loro spesa ad alcune organizzazioni No-profit, affiliate a questa iniziativa.

La procedura con cui si fa questa operazione è la medesima di un login tradizionale, l’unica differenza consiste nel portale di accesso, che è smile.amazon e non amazon.com; dopo aver scelto l’ente a cui donare ed effettuato l’acquisto, è Amazon ad effettuare in automatico la donazione.

Gli enti fra cui poter scegliere e a cui devolvere le donazioni sono più di un milione, “Heifer international”, “Austin pets alive” e molte altre, che vanno dall’occuparsi di animali abbandonati ad altre cause umanitarie come l’aiuto ai bambini in difficoltà.

In questo lungo elenco sono emersi anche nomi sospetti, come il “National Vaccine Information Center”, centro fondato nel 1982, diventato famoso per le sue campagne di disinformazione e fake news relative a malattie che alcuni bambini avrebbero contratto in seguito somministrazioni di vaccini (ad esempio quando collegarono il vaccino della pertosse a casi di autismo, anche dove non vi era nessun legame patologico o scientifico).

I soldi donati a queste organizzazioni, che si aggirerebbero fra i 40 e 60 mila dollari (cifre contenute) andrebbero ad arricchire il portafoglio di attività e siti produttori di fake information.

È importante sottolineare il fatto che sulla piattaforma Amazon sono presenti libri che incitano alla cultura No-Vax / No-Green Pass e altro merchandising simile, acquistabile dai più giovani (facilmente influenzabili).

 

La linea sottile fra beneficienza e greenwashing

 

Amazon Smile nasce nel 2013 per volontà di Jeff Bezos, con l’intento di unire lo shopping alla donazione e dare una svolta “verde” e sostenibile all’azienda, pur continuando ad essere la rappresentazione vivente di una società sempre più consumistica.

È davvero etico tutto questo?  Se ripensiamo agli infiniti scandali legati alle condizioni di lavoro massacranti a cui sono sottoposti i dipendenti di qualsiasi logistica Amazon del mondo, costretti a turni e orari di lavoro prolungati soprattutto durante i periodi di Natale o altre festività.

È lecito chiedersi se dietro al progetto Amazon Smile non vi sia solo l’ennesimo tentativo dell’azienda di “ripulire” l’immagine che di morale ha ben poco.

 

 

La risposta che “non risponde”

 

Da quanto riportato da più quotidiani, gli uffici legali e di pubbliche relazioni della multinazionale, hanno risposto confermando l’impegno di Amazon nella diffusione di intense campagne vaccinali interne, rivolte ai dipendenti; per quanto riguarda gli altri interrogativi l’azienda ha preferito astenersi dal prendere posizione contro gruppi No- Vax o altre frange estremiste.

Questa risposta non ha sicuramente reso meno fumosa la questione o i dubbi di molti consumatori, stanchi di sentirsi ingannati.

Inoltre, l’altra domanda che sorge spontanea è: perché in Italia non è ancora presente questa iniziativa?

 

I quesiti rimangono

 

I reali motivi di questo supporto rimangono ancora un’incognita.

Potremmo ipotizzare che siano legati ad una strategia di visibilità e fidelizzazione di alcuni gruppi numerosi, ad esempio le community No- VaX negli USA.

Sono tutte domande alla quale solo i diretti interessati possono rispondere, anche se sappiamo che per diplomazia, le grandi multinazionali evitano di parlare pubblicamente di argomenti scomodi o di mettersi in situazioni scomode che potrebbero compromettere la loro immagine e di conseguenza le vendite.

Dietro a questi comportamenti si cela della strategia di Marketing o la voglia di lasciare libertà di espressione a tutti, essendo Amazon l’immagine di una Nazione democratica e libera come l’America?

Ancora, Governi dovrebbero intervenire punendo e chiedendo maggior sensibilità da parte di questi colossi dell’industria, su certi temi?

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Piante pronte al decollo: che cos’è l’astrobotanica

Ricordate la scena in cui Mark Watney, personaggio protagonista del film “Sopravvissuto: The Martian”, scopre che la piccola serra in cui era riuscito a coltivare patate sul suolo del pianeta rosso è stata distrutta a causa di un incidente? Lo scenario evocato è senza dubbio fantascientifico, ma fenomeni e problemi non molto diversi vengono studiati oggi grazie a una particolare branca delle scienze della vita: l’astrobotanica. Grazie a contributi interdisciplinari provenienti dalla fisica, dall’ingegneria, dalla biologia e dalle biotecnologie, l’astrobotanica studia il modo in cui le piante crescono nell’ambiente apparentemente inospitale delle stazioni spaziali o in contesti che simulino le condizioni spaziali. I risultati degli esperimenti che sono stati condotti e sono in corso potrebbero portare in futuro ad un punto di svolta nell’approvvigionamento alimentare per gli astronauti, ma anche a informazioni e modelli utili per migliorare l’agricoltura terrestre.

 

“Houston, abbiamo un problema”: difficoltà e stress ambientali per le coltivazioni spaziali

 

Riuscire a coltivare molte specie vegetali permetterebbe non solo di avere ciclicamente a disposizione alimenti freschi durante viaggi spaziali molto lunghi, ma non solo. Questo sarebbe uno dei molti vantaggi derivanti dal miglioramento tecnologico di quelli che vengono definiti sistemi biorigenerativi, in cui le risorse necessarie alla vita di tutti gli organismi presenti, come ossigeno e acqua, possono essere prodotte all’interno del sistema stesso.

Le difficoltà nell’implementazione delle piante in questi sistemi non mancano: la microgravità, che secondo l’enciclopedia Treccani è la “condizione particolare nella quale un corpo è soggetto a un campo gravitazionale di basso valore”, rende complessa l’irrigazione con l’acqua, distorce l’orientamento che le radici avrebbero normalmente sulla Terra e modifica, spesso danneggiandoli, anche altri tessuti della pianta; inoltre, un’altra criticità sono le radiazioni ionizzanti, a cui le piante sono maggiormente esposte su una stazione spaziale e possono causare mutazioni dannose. Gli esperimenti nel campo dell’astrobotanica hanno come obiettivi sia il tentativo di arginare gli effetti indesiderati che possono derivare da esse, sia il loro sfruttamento per selezionare piante con caratteristiche diverse da quelle che avrebbero potuto sviluppare sulla Terra.

 

Quali esperimenti si stanno conducendo in astrobotanica?

Uno degli ultimi studi tuttora in fase di revisione è stato denominato “TICTOC”: iniziato il 3 giugno 2021 e promosso dalla ISS grazie alla ISS Cotton Sustainability Challenge, ha visto come protagonisti alcune piantine di cotone, un gene (AVP1) e la microgravità. Alcuni semi di cotone, geneticamente modificati e non, sono stati lanciati nello spazio e fatti crescere in piccole camere controllate e dotate di uno speciale substrato per la crescita dei semi a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. L’obiettivo degli scienziati è quello di scoprire come le radici delle piantine di cotone geneticamente modificate rispondano in modo differente alla microgravità, e se addirittura questa possa far sì che gli effetti positivi del gene AVP1 sulla resistenza delle piantine (già sperimentati sulla Terra) siano ancora più vantaggiosi. Come emerge dalle stesse parole di Simon Gilroy, botanico a capo del gruppo di scienziati che si è dedicato al progetto, i risultati dello studio potrebbero essere utili per comprendere come migliorare le specie e le tecniche utilizzate per la produzione del cotone sul nostro pianeta.

L’astrobotanica è un campo in evoluzione, che probabilmente non ha ancora potuto esprimere tutte le sue potenzialità: non solo come fonte di ispirazione per narrazioni fantascientifiche coinvolgenti, ma soprattutto come contributo sia all’esplorazione spaziale sia alla vita sulla Terra.

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Viaggiare digitale in giro per il mondo: Miravilius, la Netflix dei viaggi

Il settore turistico, tra i più colpiti dalla crisi derivante dalla pandemia da Coronavirus, ha dovuto rimodulare e reinventare le proprie attività per fronteggiare le complessità del nuovo contesto, caratterizzato dalla notevole difficoltà nella pianificazione di viaggi e vacanze in Italia e all’estero.

Tra gli operatori, sfruttando le opportunità offerte dalla tecnologia, c’è chi ha adattato la propria offerta e chi ha, invece, realizzato una nuova idea imprenditoriale.

È il caso di Miravilius, startup italiana nata nel maggio del 2020, che, utilizzando la piattaforma di Live streaming Zoom permette di viaggiare digitalmente da un capo all’altro del pianeta stando seduti comodamente sul proprio divano di casa.

Infatti, acquistando un Live Tour singolo o un abbonamento in stile Netflix da sette, trenta o novanta giorni, ci si collega in diretta con una delle oltre 150 guide turistiche certificate così da farsi accompagnare alla scoperta di una delle oltre 100 destinazioni sparse in giro per il mondo: magari per passeggiare tra i grattacieli di Manhattan o nella splendida Piazza Rossa di Mosca, lungo le Rambla di Barcellona, nella modernissima Tokyo, tra le splendide città d’arte italiane o, ancora, nelle mete meno conosciute e fuori dai tradizionali circuiti turistici.

Tra gli obiettivi di Miravilius, nata con l’intento di supportare e dare linfa al comparto turistico, c’è l’offrire un’ulteriore opportunità lavorativa alle guide turistiche coinvolte e la volontà di rendere il viaggio accessibile a tutti, per esempio agli anziani e alle persone che hanno difficoltà a muoversi liberamente.

C’è un aspetto legato all’utilizzo dei Live Tour a scopi educativi e didattici, come strumenti di conoscenza storica e culturale dei luoghi visitati e mezzi utili per allenare l’ascolto di una lingua straniera.

Sebbene nati come alternativa ai viaggi tradizionale, i Live Tour si candidano quindi a diventare nel prossimo futuro un utile mezzo di pianificazione e d’ispirazione per i propri viaggi e vacanze. In generale, la diffusione e l’utilizzo dello streaming, nelle strategie di sviluppo territoriale, nell’organizzazione di fiere ed eventi e nel settore alberghiero, come strumento di diffusione, valorizzazione e attrazione, oltre a rafforzare il binomio tra il turismo e le esperienze digitali, non più esigenza ma opportunità, conferma il legame sempre più stretto e inscindibile tra comparto turistico e trasformazione digitale.

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Velasca: Intervista a Jacopo Sebastio

Velasca è un’azienda italiana con al centro prodotti artigianali che oggi conta 13 botteghe in tutto il mondo.

Nata otto anni fa come una startup, oggi è una vera e propria realtà affermata a livello internazionale che porta nel mondo valori e qualità made in Italy.

Per potersi affermare in questo modo, ha utilizzato strategie innovative in merito alla distribuzione del prodotto e alla comunicazione dei propri valori.

 

Abbiamo intervistato Jacopo Sebastio, co-founder e CEO di Velasca, per farci raccontare dettagli e curiosità su questa storia affascinante e stimolante.

 

Jacopo, per iniziare, la vostra è un’azienda innovativa e di successo a livello internazionale che ha al centro un prodotto made in Italy prodotto da artigiani. Come è nata questa idea?

 

Velasca è una realtà che nasce ufficialmente nel 2013 con l’obiettivo di portare un prodotto di elevata artigianalità direttamente al consumatore finale adottando processi e strumenti innovativi.

L’idea però si è sviluppata nell’estate del 2012 mentre mi trovavo in viaggio con un caro amico, fratello del mio attuale socio, per andare a trovare quest’ultimo in Indonesia, dato che in quel momento lavorava a Singapore. Enrico Casati, il mio socio, aveva bisogno di un paio di scarpe eleganti che non costassero una fortuna e che avessero un bel design; l’abbiamo quindi comprato in una piccola bottega a Milano, messo poi nello zaino e consegnato successivamente su una spiaggia a Bali.

Da lì è nata l’idea: perché non provare a rendere questa azione un modello di business scalabile e raggiungere tutti gli amanti dell’italianità e dell’artigianalità in giro per il mondo, così come avevo appena fatto con il mio socio?

Così abbiamo abbandonato entrambi il nostro lavoro, trovato i primi artigiani, costruito velocemente il primo sito di e-commerce e siamo partiti con le vendite online.

Dopo un anno e mezzo di attività, era novembre del 2014, abbiamo diversificato la nostra offerta e abbiamo aperto il primo temporary store a Milano. Da allora il nostro modello di business non ha più trovato intralci ed è rimasto ben radicato.

L’idea principale era quindi di vendere un prodotto del mondo delle calzature, un prodotto artigianale made in Italy, con una logica omnicanale online e offline in tutto il mondo.

 

Come avete scelto e coinvolto gli artigiani che collaborano con voi?

 

È stato il primo grosso scoglio che abbiamo dovuto affrontare: abbiamo dovuto capire quale distretto potesse servirci. In Italia ce ne sono un bel po’: vicino a Milano, a Parabiago e a Vigevano, vicino a Padova, in Toscana, c’è quello marchigiano, quello pugliese e quello campano. Per la tipologia di prodotto che volevamo portare sul mercato quello marchigiano ci è sembrato il più adatto per noi, sia in termini di qualità che di prezzi.

Abbiamo quindi contattato il consorzio della calzatura, il cui presidente è attualmente uno dei nostri artigiani, e abbiamo provato a convincerli a produrre il primissimo ordine di scarpe Velasca di circa 125 mocassini.

Non è stato facile perché ovviamente era un periodo difficile, un periodo in cui moltissimi artigiani avevano subito la crisi del mercato russo, e quindi erano diffidenti di fronte alla proposta di due giovani alle prime armi, sia da un punto di vista di prodotto che della sua distribuzione, di volere portare un nuovo brand su Internet.

Due di loro ci hanno dato fiducia, così abbiamo iniziato con un mini-ordine e da lì in poi abbiamo scalato il business e siamo arrivati a fare i numeri di oggi.

 

Quali caratteristiche hanno i vostri prodotti e cosa li rende speciali?

 

Un prodotto che è un po’ un pezzo d’arte; la scarpa in cuoio con la doppia cucitura come la facciamo noi rimane sulla forma una settimana, la forma è l’asset sul quale si lavora la pelle e dove si inchioda e si cuce la suola. In una settimana le mani che toccano le nostre scarpe sono tantissime, dal tagliatore, all’orlatrice, a chi sistema le forme, a chi le inscatola.

Quindi è veramente un prodotto bellissimo da raccontare, un prodotto fatto a mano, quindi un prodotto vissuto e che trasuda tradizione e passione.

Inoltre, non c’è mai un prodotto uguale a un altro: le nostre scarpe e accessori non escono identici dalla fabbrica e possono esserci piccole differenze tra un prodotto e un suo gemello, ma è proprio questo il bello.

Per quanto riguarda la componente tecnica utilizziamo il pellame migliore che ci sia in circolazione, una manodopera totalmente made in Italy, persone che hanno sempre lavorato come i propri genitori e i propri nonni con grande passione, che rende il nostro prodotto veramente a chilometro zero e dove l’aspetto etico è per noi fondamentale.

Inoltre, i nostri prodotti durano negli anni sia da un punto di vista di stile, che noi definiamo “timeless”, senza tempo, che di qualità, per quanto riguarda le lavorazioni e i materiali utilizzati.

Cerchiamo di unire anche tutto ciò che non è scarpa per i nostri outfit quando facciamo gli shooting per definire un po’ quello che abbiamo in testa noi, che è un prodotto che trasuda tradizione.

 

Oggi è sempre più importante riuscire a trasmettere i propri valori e la propria passione ai potenziali clienti. Come avete sviluppato la vostra strategia di comunicazione e come siete riusciti a coinvolgere maggiormente le persone?

 

La strategia di comunicazione parte dal concetto basilare del modello di business, un modello diretto al consumatore finale, dove si creano delle situazioni di interazione importanti e molto frequenti con il cliente.

Da subito abbiamo capito che Velasca era un brand che poteva comunicare dei valori; quindi, abbiamo fatto un’analisi introspettiva di noi stessi per capire che cosa volessimo comunicare con il nostro brand e su quali basi valoriali volessimo agire.

Da lì abbiamo costruito un team che ci permettesse di distribuire questi valori e poterli comunicare ai nostri clienti, grazie alle nuove tecnologie che ai tempi erano ancora abbastanza innovative, come, per esempio, la pubblicità su Facebook.

Abbiamo quindi strutturato la parte di marketing e comunicazione in maniera molto selettiva, dove abbiamo individuato le due grosse anime della nostra comunicazione: la creazione di contenuti, dentro la quale oggi lavorano una dozzina di persone, e la parte di delivery, cioè la distribuzione precisa e puntuale, a un target a noi interessante, dei contenuti creati.

Da subito la strategia di comunicazione è stata per noi un grande obiettivo, tanto che il primo collega dopo Enrico è stato Ludovico, direttore creativo della comunicazione di Velasca, che coordina le persone che lavorano sui contenuti.

Quindi da subito abbiamo pensato che fosse fondamentale questo tipo di attività, proprio con lo scopo ultimo di condividere i valori che sono alla base della nostra visione.

 

Che ruolo hanno i contenuti all’interno della vostra strategia? Come avviene il vostro processo creativo?

 

Ovviamente hanno un ruolo fondamentale: nel nostro processo di acquisizione del cliente, nel momento in cui dobbiamo creare una domanda, dobbiamo cercare di dare qualcosa in più al nostro potenziale cliente, dato che ancora non ha provato il nostro prodotto.

Per crearli, il nostro team lavora costantemente, mentre per definire la nostra comunicazione strategica e i nuovi format che vogliamo portare, assieme al nuovo piano editoriale e la nuova calendarizzazione, ci si incontra una volta al mese.

Abbiamo iniziato a produrre contenuti anche per mostrare artigianalità ed eccellenze in settori che non sono esattamente riconducibili al nostro della calzatura, ma che trasudano i valori che il nostro brand vuole trasferire.

Abbiamo intervistato molte belle persone, perché le persone per noi sono sempre al centro, quindi dai caseifici e prosciuttifici dell’Emilia Romagna, ai coltivatori di zafferano in Abruzzo, alle aziende e vetrerie di Murano, a realtà che producono ceramica a Grottaglie in Puglia, a piccole aziende familiari che si occupano della ristrutturazione di gondole a Venezia, ad agricoltori e viticoltori abruzzesi; queste sono strategie che noi mettiamo in campo proprio perché per noi è fondamentale comunicare questi valori in una maniera reale, vera e pulita.

Per noi ovviamente è importante anche avere una comunicazione di stile, adottare anche strategie come l’influencer marketing, ma cerchiamo sempre di dare molto spazio alla comunicazione organica, per esempio, anche attraverso la newsletter informiamo tutti i nostri clienti di tutte le operazioni che facciamo sul territorio.

 

7 anni fa avete aperto la prima bottega Velasca a Milano. Quali sono state le difficoltà di aprire i primi negozi fisici e da allora quali altri importanti traguardi avete raggiunto?

 

Abbiamo aperto il primo temporary store ormai 8 anni fa perché un prodotto come il nostro, di elevata artigianalità e tradizione, ha bisogno di essere toccato con mano, annusato, e calzato.

Questa operazione è stata fondamentale per noi perché ci ha permesso di duplicare il fatturato nella città di Milano in soli quattro giorni. In realtà grazie al digital marketing avevamo raccolto quasi 6000 contatti su sul capoluogo lombardo, numero che però non sembrava rappresentare bene il nostro potenziale su questa città, soprattutto perché tutti erano curiosi del brand ma poi nessuno comprava.

Con l’apertura del negozio abbiamo avuto la possibilità sia di convertire tutte le persone che erano già entrate in contatto con noi online che di dare moltissima credibilità al brand, quindi un posizionamento molto importante, tanto che appena abbiamo aperto quel temporay store abbiamo ricevuto, me lo ricordo ancora oggi, un ordine dal Canada dove il cliente ci aveva raccontato di aver visto le foto dell’evento di inaugurazione e di aver deciso così di comprare e farsi spedire delle scarpe in Canada.

È stato ovviamente un reinventarsi, perché il business digitale si può fare da remoto, la nostra idea era quella di un giorno lavorare dalla Jamaica su una spiaggia con il computer in riva al mare, mentre in realtà poi il retail cambia i programmi: bisogna trovare i negozi, selezionare le persone giuste che facciano da un brand abbassador, bisogna arredarli, studiare dei sistemi di marketing e comunicazione importanti.

È vero anche che noi, essendo molto forti dal lato e-commerce, prima di aprire i nostri negozi abbiamo sempre testato preventivamente il mercato online della città: quando abbiamo aperto a Milano, nel frattempo stavamo già iniziando a collezionare tantissimi clienti online su Roma, clienti che a un certo punto hanno iniziato a chiedere dell’apertura nella loro città. Così quando abbiamo raggiunto i 500 di questi abbiamo deciso di aprire una bottega anche a Roma e questo ci ha permesso di avere successo dal giorno di apertura perché le persone che si sono presentate non vedevano l’ora di venirci a trovare. Questa è sempre stata la nostra strategia.

Quindi ci sono tantissime operazioni diverse rispetto a quelle di e-commerce, ed è anche vero che la conversione dei cittadini nei negozi è molto più grande, l’esperienza d’acquisto è differente rispetto a quella online, che non necessariamente deve essere migliore ma è sempre che meglio che ci sia.

 

Infine, puoi svelarci qualche progetto futuro?

 

Abbiamo da poco riscritto il nostro piano industriale, il nostro business plan, e tra i grossi progetti abbiamo sicuramente quello di scalare il business della collezione donna che abbiamo lanciato un mese fa e che sarà un pilastro importante del futuro di Velasca e del suo successo.

L’idea è quella di far leva sulle nostre competenze di creazione di calzature e dedicarle anche un target diverso rispetto a quello maschile, includendo quindi anche le donne all’interno della nostra offerta di prodotti, che in realtà apprezzavano già il nostro prodotto dato che quando accompagnavano il fidanzato, il fratello o il nonno in bottega chiedevano sempre di scarpe Velasca per loro.

Abbiamo quindi aperto la nostra collezione su un sito dedicato, un account Instagram dedicato, un negozio fisico dedicato perché l’idea è trasferire gli stessi valori di Velasca ma utilizzando un tone of voice e sfumature di comunicazione differenti, proprio per andare incontro a un target diverso senza creare confusione o inutili sovrapposizioni

L’altro progetto che abbiamo in programma è quello di massimizzare uno dei grossi valori del brand Velasca, il database clienti: sappiamo che i nostri clienti sono fedeli al nostro brand, abbiamo creato una community che abbraccia i nostri valori e di conseguenza compra i nostri prodotti e a queste persone non vogliamo semplicemente offrire un prodotto di calzature ma portare molte altre eccellenze del made in Italy, parlando in generale di un Life style italiano e di tutto ciò che è ben fatto nel nostro paese con uno stile ben riconducibile.

Stiamo quindi lavorando su come raccontare altre storie legate ad altre categorie merceologiche e ad altre eccellenze made in Italy.

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Ambiente, società e tecnologia

Marketing Espresso, il marketing spiegato in modo semplice e utile: intervista ad Alessandro Vajani

Marketing Espresso è una delle community più conosciute in Italia per quanto riguarda il tema del digital marketing; la sua mission è, infatti, quella di rendere il marketing più “democratico”, ovvero accessibile e conosciuto da tutti e spiegato in modo semplice e utile.

Per farlo, mette al centro le persone: la forte community che è riuscita a costruire in pochi anni.

Marketing Espresso si trova principalmente sui canali social, tra cui Instagram, Facebook, Youtube, LinkedIn, e anche TikTok. Inoltre, possiede un blog ricco di articoli a tema social media marketing, case studies e sui trend da seguire; una piattaforma di formazione online chiamata “Marketing Espresso AcadeME” con oltre 10k iscritti; un canale Telegram per tenere la sua community sempre aggiornata; e due canali su Spotify: il primo, “Weekly News” (Top 40 Spotify Italia) per approfondimenti di 15-20 min a settimana sulle migliori news dal mondo digital e marketing il secondo, “Less is More” è un’enciclopedia audio con le definizioni utili dal mondo marketing.

 

Da gennaio 2021 è diventata un’azienda oltre che una vera e propria agenzia di social media marketing all’interno della quale il team utilizza le proprie strategie e tecniche maturate attraverso l’esperienza con i numerosi progetti di clienti esterni.

Questa realtà ha raggiunto dei traguardi molto importanti, tra cui il fatto di avere ormai più di 165mila follower su Instagram, essere diventata un’azienda vera e propria in meno di un anno, per non parlare del fatto che sono già 10 le persone a lavorare al suo interno.

 

Abbiamo intervistato Alessandro Vajani, co-founder del progetto, per scoprire tutte le curiosità legate a Marketing Espresso, al mondo dei social e del content marketing.

 

Alessandro, per iniziare, com’è nata l’idea di creare Marketing Espresso? Qual era l’obiettivo che vi ha spinti a far partire questo progetto?

 

L’idea nasce da una passione condivisa con l’altro co-founder, Marco Onorato; ci siamo conosciuti all’università Luiss di Roma grazie ad alcuni lavori di gruppo svolti insieme, e abbiamo sempre avuto il sogno di creare un’agenzia di marketing incuriositi dal mondo e dall’ambiente della pubblicità.

Dopo più di due anni di lavoro in agenzie e in aziende abbiamo deciso di lanciarci in questo progetto.

Non abbiamo mai voluto creare una semplice agenzia: abbiamo analizzato il mercato di allora, all’interno del quale c’erano già tante agenzie di marketing, ma dove nessuna operava sui social media. Infatti, si vendeva tanto digital sui social media ma non si parlava ancora di digital sui social media, almeno nel modo in cui lo facciamo adesso. Abbiamo quindi deciso di lanciare un vero e proprio brand che rendesse questo dialogo bi-direzionale scegliendo semplicemente di parlare del nostro lavoro e di questo mondo in modo più chiaro e diretto possibile.

La parte di agenzia è diventata una parte di un qualcosa di molto più grande dove la community è la nostra anima principale in termini di: reputazione, autorità, clienti (inbound marketing), partner, sponsor ecc..

L’idea è quindi nata dal puro desiderio di metterci in gioco con un progetto sui social media per vedere se potevamo passare da una “semplice” pagina Instagram ad un’azienda vera e propria. Così in questi due anni dopo aver visto crescere la nostra community e tutti i progetti che abbiamo lanciato abbiamo deciso di creare a gennaio Marketing Espresso S.r.l.

 

 

Secondo voi, cosa vi rende riconoscibili agli occhi delle persone? Cosa vi distingue dai numerosi competitor che oggi parlano di marketing?

 

Fondamentalmente quello che ci distingue è un modo di comunicare unico e due mantra specifici: il primo è “semplice ed utile” e il secondo “less is more”.

Questo perché incarniamo una vera e propria mission; spesso chi apre e gestisce una pagina su Instagram vuole portare avanti progetti personali separati rispetto all’obiettivo della pagina. Noi, rispetto ad altri, abbiamo un vero e proprio ecosistema aziendale e la forza di Marketing Espresso è proprio quella di non essere solo una pagina Instagram.

A livello di linguaggio e di creazione di contenuti siamo unici perché ci evolviamo continuamente: la nostra azienda si basa soprattutto su una filosofia aziendale non rigida, ma molto dinamica ed è proprio in questo dinamismo che si riconosce la nostra evoluzione, perché ci stimoliamo continuamente tra di noi tramite feedback e monitoraggio continuo delle performance della pagina e dei nostri Clienti. Inoltre, portiamo avanti una formazione costante delle nostre risorse e stiamo attirando sempre più persone all’interno dell’azienda; quindi, la creatività non piove dal cielo ma è qualcosa che stimoliamo di continuo.

A livello di pagina, dal lato della community, sicuramente ci distingue il nostro linguaggio: i nostri contenuti sono semplici, utili ma anche belli grazie all’attento studio grafico, e ormai se si vuole parlare in modo generale del social media marketing siamo diventati un brand top of mind.

Se una persona volesse aprire oggi una pagina di marketing come la nostra, le consiglierei di non strutturarla nello stesso modo, ma di verticalizzarsi su un settore specifico, come, per esempio, marketing sportivo, moda o turismo.

Un’altra cosa che ci ha sempre contraddistinti è stata anche la costanza nel tempo e l’evoluzione; insieme a noi sono nate altre pagine, con le nostre stesse possibilità di crescere se non migliori, ma sono state totalmente abbandonate. La nostra costanza è stata veramente una carta vincente che ha fatto e farà ancora la differenza.

 

 

Cosa serve per creare e far crescere una community sui social?

 

Io e Marco siamo stati abbastanza fortunati da questo punto di vista perché due anni e mezzo fa, Instagram era molto più “accogliente” dal punto di vista della crescita organica; quindi, l’algoritmo, soprattutto per i contenuti organici, dava più possibilità di sognare.

Adesso se qualcuno dovesse aprire una pagina sui social media e sul marketing in generale, potrei consigliare a quella persona di avere le idee chiare e una strategia ben definita orientata al raggiungimento di determinati obiettivi SMART.

Oggi molte persone che aprono pagine sui social per sé stessi o per aziende probabilmente non conoscono nemmeno il target al quale si stanno rivolgendo o che stanno raggiungendo, proprio perché non hanno una strategia e un obiettivo.

È importante quindi avere una strategia ben definita, creare un dialogo con le persone e soprattutto dedicare tanto tempo al progetto, perché i social media, da un lato permettono a chiunque di avere una voce, dall’altro lato questa voce non è a intermittenza: se si decide di aprire una pagina per contenuti informativi di valore per poter crescere bisogna formare e formarsi di continuo. Alle volte il tempo da dedicare implica sacrifici: meno ore di sonno, un’uscita in meno la settimana, e, se va bene, anche la scelta di lasciare un posto di lavoro in azienda come successo a me e Marco per verticalizzarci al 100%..

I consigli, quindi, sono: avere le idee chiare, una strategia ben definita, trovare delle persone da includere nel team che abbiano la stessa voglia e la stessa fame, ed essere pronti a giocarsi tutto da un momento all’altro. I social media sono uno strumento “cattivo” da questo punto di vista, perché da un giorno all’altro ci mettono di fronte a una scelta: continuare a giocare o costruire qualcosa di serio dietro una community che si è riusciti a costruire.

 

 

Oggi si parla moltissimo di contenuto. Secondo voi, che cos’è un buon contenuto? Quali caratteristiche deve avere?

 

Un buon contenuto per noi è un contenuto che sia di valore: si tratta di un contenuto in grado di comunicare qualcosa di estremamente utile e importante senza chiedere nulla in cambio.

Un contenuto di valore a livello tecnico educa, informa, trasmette motivazione e ti trasforma. Può anche spingere a fare un’azione, come per esempio potrebbe accadere nel caso in cui un utente di Instagram vede una foto particolarmente bella di un ristorante ed è spinto quindi ad andarci.

Questo tipo di contenuto, secondo me, ti deve migliorare e dare la possibilità di uscire dai social media come una persona nuova; si tratta quasi del marketing trasformativo teorizzato da Pine e Gilmore, secondo i quali, prima ci trovavamo nella fase delle esperienze e adesso siamo nella fase trasformativa, e ci stiamo ancora evolvendo, superando anche questo tipo di marketing.

Per me questo significa usare i social media: aprire il telefono e chiuderlo avendo imparato qualcosa, una vera e propria trasformazione causata da un contenuto di valore. Inoltre, se si riesce a spingere una persona a fare un’azione dopo aver visto il contenuto, come approfondire su Google o sul nostro blog un argomento o spingerlo a fare delle scelte per la sua vita. Questo è il risultato di un buon contenuto.

Come creare il contenuto di valore? È necessaria una consapevolezza a livello di marketing e di studio strategico incredibile. Prima di arrivare dove siamo adesso con Marketing Espresso c’è stato un lavoro e uno studio infinito che continua tutt’ora: l’80% del nostro tempo di lavoro in azienda è utilizzato per pensare a come migliorare i nostri contenuti, su cosa parlare e a come parlarne.

Se dovessi scegliere tre cose fondamentali per la creazione di un contenuto di valore direi: cultura di marketing, cultura editoriale e sotto queste le competenze, di scrittura e grafica.

Dal punto di vista grafico invece viviamo in un mercato saturo, ci sono tanti modi per distinguersi in un mercato così e l’identità visiva è una di queste: quando si pensa a Marketing Espresso si pensa al nostro colore, che abbiamo scelto quando Pantone l’ha dichiarato nel 2019 come colore dell’anno. Questo colore è diventato un elemento distintivo, perché quando le persone lo vedono sulla loro bacheca al 99% pensano già che il contenuto sia nostro.

A livello grafico c’è anche un sistema di studio della scrittura, dei font, degli elementi primari e degli elementi secondari molto meticoloso.

In generale rendiamo le grafiche molto semplici ma ogni tanto ci piace cambiare per far evolvere i contenuti a livello di difficoltà grafica, nel senso che rendiamo il contenuto sempre più bello e sempre più efficace da un punto di vista visivo e quindi almeno una volta all’anno cambiamo alcuni dettagli della parte di graphic design dei nostri contenuti e dell’azienda stessa.

 

 

Quali sono i post che hanno conquistato la vostra community o che vi ha fatto raggiungere più persone?

 

Mi ricordo tantissimi contenuti. Tempo fa abbiamo anche pubblicato sulla nostra pagina, un caso studio che parlava di un post su Barilla che ha portato alla pagina circa 20.000 follower, un caso di successo incredibile.

 

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Marketing Espresso (@marketing_espresso)

 

Una cosa che però mi ricordo con più piacere è stato il primo contenuto   che abbiamo fatto, perché rappresenta quello che per me ha segnato il passaggio da semplice pagina Instagram a community. L’idea del carosello, infatti, non è venuta da noi ma da una persona della community che ci ha consigliato di utilizzare questo formato piuttosto che grafiche singole con troppo testo poiché erano difficili da leggere. L’abbiamo fatto e il risultato da subito è stato straordinario. Adesso i caroselli li usano tutti e a noi piace pensare di essere stati tra i primi brand che hanno sperimentato e adottato il loro utilizzo; quindi, questo format in generale ha innescato un meccanismo di co-creazione, perché un giorno una persona della nostra community ci ha dato un consiglio e ha cambiato i nostri contenuti per sempre. Dall’altra parte, noi come realtà abbiamo ascoltato quel consiglio senza offenderci e ne abbiamo poi avuto solamente vantaggi perché il carosello è ormai un nostro marchio di fabbrica.

 

 

Avete qualche progetto futuro che potete svelarci?

 

Essendo un’azienda è naturale che si voglia crescere, e al di là della crescita come fatturato vogliamo che la crescita sia soprattutto delle persone che lavorano con noi: siamo passati dall’ essere in due all’essere dieci persone in azienda e il nostro obiettivo è far sì che tutti crescano, sia da un punto di vista personale che professionale.

Un altro progetto futuro è quello di far evolvere ancora di più la nostra cultura aziendale; noi abbiamo pagine e pagine di cultura aziendale e questo significa tanto, già partire con questa idea è un grosso progetto futuro, ovvero quello di investire sempre di più nelle persone che lavorano con noi, nel farle crescere e far sì che siano veramente tutte parte di questa realtà e non solo stipendiate da essa.

Stiamo anche mettendo mano alla nostra AcadeME, la piattaforma di formazione online che oggi conta più di 10.000 iscritti tra paganti e non paganti. Stiamo rinnovando sia i corsi che vengono proposti sia il meccanismo di acquisizione degli studenti.

Vogliamo inoltre migliorare la qualità dei nostri clienti in agenzia. Abbiamo fatto molti progetti quest’anno e sono orgoglioso di noi e delle persone che hanno lavorato verticalmente su essi: abbiamo realizzato una campagna con BMW Roma e altri progetti per dei big brand Italiani. Questo può essere motivo d’orgoglio ma per noi è uno stimolo incredibile: “ok, abbiamo fatto questo, quando cominciamo con il prossimo?”. Infine, c’è anche la parte di eventi: a settembre abbiamo assunto in azienda una persona che si occupa principalmente di community management, che oltre a rispondere ai commenti e ai messaggi delle persone (cosa che in realtà fa tutta la squadra coordinata da questa figura) ha organizzato delle iniziative per la community, come gli ShareMe, occasioni all’interno delle quali abbiamo avuto modo di entrare in contatto con le persone che ci seguono, conoscerle e prendere tanti stimoli.

Anche la nuova rubrica che abbiamo creato, “askME”, dà la possibilità di fare domande in modo continuativo su Marketing Espresso alle persone che ci lavorano e si tratta sempre di un progetto per la community.

Quindi, in generale cerchiamo di sfornare nuovi progetti e idee settimanalmente in modo tale da crescere e avvicinarci sempre di più alla nostra community.

Vogliamo, in sintesi, continuare ad avere un impatto sulle persone e a creare valore in questo settore.

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Ambiente, società e tecnologia

La comunicazione sostenibile dei brand ai Digital Innovation Days tra greenwashing e realtà

La sostenibilità ambientale è ormai un aspetto fondamentale per il futuro e non più trascurabile per il presente. Il tema è stato approfondito nell’edizione phygital dei Digital Innovation Days 2021 con una sala online dedicata. Nella sala si è parlato dell’Agenda 2030 e degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, dell’economia circolare e del ruolo delle aziende nella lotta all’emergenza climatica con l’attenzione rivolta verso le persone, il capitale umano considerato un driver fondamentale per l’innovazione.

Infatti, sempre più consumatori scelgono di compiere scelte più attente e rispettose dell’ambiente nell’acquisto dei prodotti. Ma se da un lato c’è un’intenzione virtuosa da parte dei consumatori e da parte di quelle aziende che fanno della ecosostenibilità un principio fondamentale, dall’altro si sente anche parlare di greenwashing (o ambientalismo di facciata).

Greenwashing è quella “strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo”. Un esempio molto comune di greenwashing riguarda la plastica. Il problema della plastica è riconosciuto ma non tutti ne sono ben informati. Per questo motivo, è facile ritrovare scritte ingannevoli sulle confezioni di plastica quando si fanno acquisti.

Lo speech dei Digital Innovation Days

Giorgio Mennella, Advertising Director di Ciaopeople durante la sua presentazione ha illustrato l’impatto della comunicazione sostenibile delle aziende sulle persone.

Condotta da Ohga e Yougov Italia, l’indagine si fonda su due dati in particolare della ricerca di Astarea condotta nel 2020:

  • solo il 60% delle aziende che applicano principi di sostenibilità nella loro filiera produttiva che lo comunica all’esterno;
  • 1 consumatore su 5 non è in grado di capire se un’azienda è davvero sostenibile o se si tratta di greenwashing.

L’obiettivo dell’indagine è di conoscere l’opinione dei consumatori rispetto alla comunicazione delle aziende in materia di sostenibilità ambientale, quale tipo di messaggio risulti più efficace e quali siano gli aspetti che rendono tale comunicazione più credibile.

Ne emerge un quadro chiaro: la percezione degli utenti che non si considerano ambientalisti è diversa rispetto a quella delle persone più sensibili al tema ma quasi tutti concordano su alcuni aspetti. Per il 71% degli intervistati, infatti, le aziende non agiscono abbastanza in termini di sostenibilità. Tra le aziende citate come quelle più virtuose, ricorrono alcuni nomi ma vi è una netta differenza tra quelle citate dagli ambientalisti e quelle dei non. Ciò significa che il messaggio che arriva dalle pubblicità dei social e della televisione risulta molto differente rispetto a quello informato degli addetti ai lavori.

Più della metà degli intervistati ha notato comunicazioni a tema sostenibilità negli ultimi sei mesi ma l’opinione generale è indifferenza nei confronti del messaggio espresso e soltanto a pochi resta il segno, migliorando la concezione dell’azienda che ha trasmesso un messaggio. Circa il 50% dei messaggi che evocano sentimenti negativi viene ricordato dai consumatori ma un messaggio positivo e proattivo risulta più efficace quando si tratta di sostenere aziende più sostenibili. Per alcuni aspetti risulta più rilevante un messaggio negativo, mentre per altri uno positivo: si conclude quindi che occorre misurare il tono del messaggio a seconda delle informazioni che si vuole far arrivare al pubblico. Per migliorare ulteriormente la performance bisogna far parlare gli esperti ma anche le persone comuni, per far arrivare il messaggio che la questione ambientale è reale e alla portata di tutti.

In conclusione, ciò che emerge dall’indagine è che solo agendo su tutti i fronti in contemporanea è possibile far arrivare una comunicazione semplice ma corretta per un consumatore consapevole, cancellando così le strategie di greenwashing e andando verso una società realmente più equa e sostenibile perché il cambiamento è già in atto e non lo si può nascondere. L’ambientalismo di facciata risulta, così, poco credibile e poco efficace perché quando si mente prima o poi si verrà scoperti non portando nessun risultato a lungo termine.

 

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Ambiente, società e tecnologia

Qual è la situazione del food delivery in Italia?

Alzarsi dal divano, aprire il frigo per preparare la cena agli ospiti che arriveranno tra poco e accorgersi che mancano due ingredienti fondamentali. Un tempo avremmo fatto una brutta figura, oppure una corsa disperata al supermercato più vicino sperando di trovare ciò che ci serviva e fare in tempo a cuocere tutto. Oggi, in massimo mezz’ora, questi ingredienti ci vengono recapitati direttamente a casa, con due click sullo schermo dello smartphone: l’arte del food delivery.

 

Breve storia del food delivery

La possibilità di veder recapitato il cibo pronto a casa in un tempo ragionevole non è sicuramente una grande novità.

Il concetto parte dal cibo d’asporto di cui, una prima forma rudimentale si ha traccia dai cosiddetti dabbawala a Mumbai nel lontano 1890. Considerabile la prima azienda di consegne a domicilio, il termine tradotto dall’hindi significa proprio “colui che porta una scatola”. Il concetto si diffonde poi in occidente all’inizio del ‘900 che rende inevitabile, per tutte le classi di lavoratori che iniziarono ad esercitare la loro professione sempre più lontano da casa, avere dei pranzi d’asporto.

Dopo la Seconda guerra mondiale, la pratica si è diffusa oltreoceano e i ristoranti, per incrementare le vendite, cominciarono a pubblicizzare nella appena nata televisione la possibilità dei menù take away. Uno dei primi cibi facilmente “portati a casa” è stata proprio la pizza. Arrivando all’Italia il servizio delle consegne a domicilio si è sviluppato grazie all’impulso delle prime attività che effettuavano vendite per corrispondenza tramite cataloghi come la milanese Postal Market, fondata nel 1958. Successivamente l’abbiamo sempre associato al fattorino della pizza che ad oggi, ogni weekend imbandisce le tavole di milioni di italiani con delle calde pizze appena sfornate

Dobbiamo tuttavia aspettare il 1994, anno in cui, una pizzeria della catena Pizza Hut a Santa Cruz in California aprì un sito web dove era possibile ordinare la pizza online, creando di fatto il primo esempio di e-commerce al mondo.

Ad oggi le possibilità sono aumentate: non più solo cibo pronto, ma si può richiedere anche la spesa di ogni genere e prodotti farmaceutici, in un tempo sempre minore e in modo sempre più capillarizzato per le città. I motivi per cui si sceglie di farsi recapitare il cibo a casa sono molteplici: secondo un’indagine di Just Eat, ai primi posti ci sono: mancanza di tempo, comodità di non dover uscire di casa, poter provare diversi piatti facilmente e nella propria abitazione.

Il valore complessivo del mercato del digital food delivery a fine 2020 si aggirava intorno agli 800 milioni di euro, e si stima che nel 2021 possa raggiungere la quota di 1 miliardo. I maggiori player attualmente presenti sul nostro territorio sono: Just Eat, Uber Eats, Deliveroo e Glovo.

Proprio di quest’ultimo, abbiamo seguito una presentazione ai Digital Innovation Days.

 

Glovo ai Digital Innovation Days: i racconti dietro le quinte

Al webinar ha parlato Agustina Clair: Head of Q-Commerce, Food Innovation & GlovoLastMile presso Glovo, l’app che delivera quello di cui hai bisogno.

 

Ha spiegato che attualmente, in Italia, sono secondi solo a Just Eat, il loro obiettivo è quello di arrivare in tutte le città con più di 25 mila abitanti entro dicembre. Agustina ha presentato un dato interessante: ben il 53% dei millennials che hanno provato a fare acquisti tramite sito di e-commerce, ha lasciato il carrello se non ha trovato il same day delivery, dato che fa ben capire cosa stia diventando il quick commerce.

 

In futuro, infatti, si prevede una velocità del servizio sempre maggiore, con consegne di 10 minuti, e proprio per questo motivo, Glovo sta aprendo diversi dark stores, una sorta di micro-magazzini cittadini che permettono di avere sempre tutte le merci a disposizione in locale e nell’immediato, così da avvicinarsi maggiormente al consumatore.

 

L’obiettivo della startup spagnola è sempre più ambizioso: riuscire a fare retail di tutti i prodotti necessari: dal fruttivendolo ai supermercati, fino alle farmacie e i bar. Proprio a questo scopo stanno mettendo in atto collaborazioni con diversi brand come Magnum, Durex e Unilever, diventando un nuovo canale di vendita per grandi marchi.

 

Il delivery e il Covid-19

 

Com’è immaginabile e come racconta la country manager di Glovo: “è brutto dirlo, ma per noi il Covid è stata la più grande campagna di marketing” e i dati lo confermano: il delivery durante la pandemia non si è di certo fermato, bensì è incrementato, data la crescente necessità di avere dei prodotti nonostante restrizioni e quarantene. Glovo, così come altri player ha continuato a consegnare anche quando le merci scarseggiavano e le code ai supermercati si facevano di due ore. L’abitudine di ordinare non si è persa con l’allentamento delle restrizioni, anzi il panel di consumatori ha continuato ad aumentare e dal 2020 non si è ancora arrestato. Si può dire che la pandemia ha aumentato l’awareness delle persone verso la possibilità di ordinare i prodotti da far arrivare a casa.

 

Non solo grandi player: ecco i “piccoli italiani” presenti sul nostro territorio

 

I grandi leader di settore citati precedentemente, non sono gli unici presenti, molte, anche se in misura minore, sono le startup Made in Italy con le loro vantaggiose peculiarità: maggiore sostenibilità, presenza in luoghi che i grandi player spesso lasciano in secondo piano, la valorizzazione del prodotto tipico e il rispetto per i riders.

 

Tra questi troviamo Alfonsino: la startup, nata a Caserta nel 2016, che ha come mission il portare il food delivery nei piccoli centri abitati soprattutto del sud Italia, zone normalmente lasciate indietro dai big player che puntano ai ricavi e alla facilità di consegna dati dalle grandi città dense di potenziali clienti. La startup campana ha chiuso il 2020 con ricavi da 3 milioni di euro e i suoi numeri parlano chiaro: circa 300 piccoli centri abitati serviti in sette diverse regioni, 950 ristoranti affiliati e 250mila utenti attivi sulla piattaforma.

 

Assieme ad Alfonsino, startup italiane come: Mymenu, Foodracers, Giusta e Cocai Express, quest’ultima nata dall’idea di quattro ragazzi veneziani per portare il food delivery nella Serenissima, si stanno espandendo sempre di più, per far arrivare questa forma di consumazione in tutto lo Stivale valorizzando l’eccellenza italiana.

 

Criticità dietro il food delivery: la sicurezza dei riders e la questione igiene

 

Dietro al food delivery sono presenti delle criticità che spesso vengono sollevate dai media: in primis la questione dei riders.

Ad oggi, non tutti sono tutelati come la legge italiana prevede, in quanto non riconosciuti come dipendenti bensì come lavoratori autonomi. Senza assistenza nè assicurazione, lavorando a cottimo, i professionisti di questo settore rischiano tanto, tutti i giorni, soltanto per offrire un servizio, a detta di molti, “non indispensabile e dettato dalla pigrizia”.

La situazione è peggiorata con la pandemia in quanto molte delle multinazionali precedentemente citate non forniscono ai loro collaboratori su due ruote, nemmeno la mascherina per proteggersi dal Covid-19, situazione che li ha portati a scioperare lo scorso marzo.

 

Il quadro peggiora se si pensa che i ciclofattorini vivono ogni giorno una condizione simile ad uno Squid Game della vita reale: turni anche di 15 ore per soli 20 euro, rischio altissimo di incidenti mentre si vola nel traffico, “controllati” da un algoritmo che li posiziona in un ranking e se l’ordine dovesse andare male per qualsiasi motivo anche non dipendente dal lavoratore, la piattaforma segnala l’errore e questo ha serie ripercussioni.

 

Come se non bastasse, un nuovo incubo si è aggiunto: le rapine subite a causa del GPS. In alcune località si sono verificati dei veri e propri furti di soldi e mezzo di trasporto dei riders che sono stati seguiti e circondati.

Presto, tuttavia, queste piattaforme dovranno sistemare i conti: il Procuratore di Milano ha chiesto la regolarizzazione contributiva e dei contratti di 60 mila riders in tutta Italia.

 

Un’altra dubbia questione riguarda l’igiene di questi cibi trasportati. Un’indagine di Altoconsumo in collaborazione con l’Istituto Zooprofilattico del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta ha rivelato che: “al momento dell’ordine, risulta piuttosto complesso, se non a volte impossibile, individuare la presenza di allergeni nei menù: nel 25% dei casi non è presente una lista di ingredienti utilizzati per le ricette, nell’85% non è possibile deselezionare gli ingredienti solo due ristoranti evidenziano gli allergeni sul menù della piattaforma come previsto dalla legge. Sui 60 ordini, eseguiti in fase di test, in cui si è provato a segnalare le allergie a uova e soia, è stata rilevata comunque la presenza di questi prodotti, come ingredienti o in tracce per contaminazione, 18 volte. Come se non bastasse, Al momento della consegna, è stata analizzata la temperatura degli alimenti. Per una corretta conservazione, si consiglia che i piatti freddi non superino i 10°C e i caldi non dovrebbero scendere sotto i 60°C. Meno problematici i piatti caldi, che in 1/3 dei casi sono arrivati a destinazione ad una temperatura superiore ai 60°C. Tutt’altro che buoni, invece, i dati sui piatti freddi: la temperatura media delle consegne rilevata è di 23.5°C arrivando fino ad oltre 30°C in due ordini. Quanto a sicurezza microbiologica, nel 38% dei casi non è stata raggiunta la sufficienza”

 

Dove si sta andando: ristoranti online e sempre più veloci

 

La prossima generazione di food delivery sarà probabilmente quella in cui il ristorante si “dematerializza”, diventando totalmente virtuale (il metaverso di Zuckerberg giocherebbe un ruolo fondamentale), i cibi potrebbero essere preparati nei dark stores e consegnati dai riders, vivendo l’esperienza con un visore indosso.

 

Scenari distopici a parte, quello su cui si sta puntando parecchio, nonché business model del nuovissimo player Gorillas, è proprio la rapidità di consegna. Gorillas, fondata a Berlino solo un anno fa, è diventata famosa per essere la startup più veloce di sempre in Europa a raggiungere lo status di Unicorno (startup che raggiungono la valutazione di mercato di un miliardo di euro), ma soprattutto per la sua capacità di recapitare la spesa in dieci minuti contati.

 

La realtà, appena sbarcata in Italia, si sta capillarizzando velocemente, continuando ad assumere un esercito di riders pienamente tutelati. Per far ciò si basa su un’infrastruttura per la consegna più rapida di prodotti essenziali nell’ultimo chilometro. Gli utenti dell’app hanno accesso a oltre un migliaio di prodotti essenziali agli stessi prezzi del supermercato per una tariffa di consegna di 1,80 €. Le metodologie e tecnologie necessarie per il quick commerce di Gorillas sono: il modo con cui viene costruito il layout del magazzino, l’app usata internamente e l’app per i bikers che consente loro di avere sempre i tragitti più brevi e una comunicazione rapida con il cliente.

 

In futuro probabilmente continueremo a battere i record di consegna più rapida, e mentre aspettiamo il rider contando i secondi che sono passati da quando abbiamo ordinato sull’app, troveremo il tempo di chiederci se tutta questa velocità ci serve davvero?

 

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Ambiente, società e tecnologia

Toba(n)cco: la nuova frontiera della nicotina

Gli anni venti del nuovo Millennio si aprono con un’ambizione degna di Napoleone: smettere di fumare.

 

Per oltre cento anni il consumo di tabacco è passato inosservato dalle politiche pubbliche, non ritenendolo un fattore abbastanza importante da meritare attenzione nell’agenda delle priorità dei governi. La società non ha mai trattato i fumatori come dei soggetti con dei problemi di dipendenza come ad esempio chi fa uso di sostanze stupefacenti, pur consapevole che la nicotina sia LA dipendenza per eccellenza.

 

WHOOECD, l’Unione Europea e anche pubbliche istituzioni come il Ministero della salute e il U.S. Department of Health & Human Services,  ci forniscono dati precisi che dovrebbero fare riflettere riguardo la dipendenza da nicotina.

 

Il 21% della popolazione mondiale, pari ad oltre un miliardo di consumatori, fa uso di tabacco. Il mercato delle sigarette vale 818 miliardi di dollari.

 

La partita a Risiko è contesa tra i migliori cinque: China National Tobacco Corporation, Philip Morris International, British American Tobacco, Japan Tobacco International e Imperial Tobacco Group.

 

Le sigarette stanno diventando sempre meno un fenomeno di tendenza, ed è chiaramente desumibile dal netto calo dei consumi di tabacco.

 

Come spiegare ciò?

 

Entrano in gioco fattori politico-economici come il rincaro dei prezzi e la crescente regolamentazione delle sigarette: dal 2014 l’Unione Europea ha cominciato una manovra che prevede regole sempre più stringenti, come l’abolizione dei pacchetti da 10 sigarette, il divieto di utilizzare aromi particolari per la produzione di sigarette come menta ed erbe, il divieto di fumare in auto quando presente un minore o una donna in gravidanza.

 

L’aumento del prezzo delle sigarette ha causato un diretto aumento dei traffici illegali spiegati dalla correlazione diretta tra forti aumenti legati alla pressione fiscale e vendite illecite.

 

Sappiamo che l’industria del tabacco garantisce entrate stabili per i governi di tutto il mondo.

 

Ma anche cambiamenti di tipo sociale: dalla generazione Z in poi il tabagismo sembra non attirare più i ragazzi. Forse hanno imparato la lezione dalle generazioni precedenti e non sembrano voler scendere a compromessi con tutte le conseguenze, dalle più frivole come l’odore sui vestiti, al cancro ai polmoni.

 

L’ONU entra in nostro soccorso con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile in tema di salute e benessere specificando, nel terzo dei diciassette punti, di  “rafforzare l’attuazione della Convenzione quadro dell’Organizzazione mondiale della sanità sul controllo del tabacco in tutti i paesi, a seconda dei casi”.

 

Movimenti come Fridays for Future riportano in auge i valori della lotta per l’ambiente, sensibilizzando l’opinione pubblica ed incoraggiando uno stile di vita ecosostenibile a base di riduzione degli sprechi, prodotti km zero e attività fisica. Fumare si dimostra incoerente coi valori alla base di questo tipo di lifestyle.

 

Abbiamo ampiamente preso coscienza del fatto che il fumo nuoce gravemente alla salute di se stessi e degli altri. Qual è il prossimo passo verso un futuro migliore?

 

“We can see a world without cigarettes. And actually, the sooner it happens, the better it is for everyone. Cigarettes should be treated like petrol cars and banned within a decade”

 

Queste sono le parole rilasciate dal CEO di Philip Morris, Jacek Olczak, durante un’intervista rilasciata a luglio 2021, in cui l’azienda ha espresso l’intenzione di interrompere la vendita di sigarette tradizionali nel Regno Unito entro i prossimi dieci anni.

 

Il CEO parla anche di dare una possibilità alle nuove sigarette elettroniche da intendersi come un primo passo per allontanarsi dalla dipendenza dal tabacco.

 

Stiamo assistendo ad una diversificazione dell’offerta che gradualmente sta lasciando il porto sicuro dal tradizionale tabacco combustibile.

 

I prodotti a riscaldamento del tabacco (THP) e le e-cig ne sono una prova. Non a caso, IQOS è presente nelle nostro vocabolario di uso comune ed è oggetto di veri e propri dibattiti tra gli amanti dello svapo e gli assidui sostenitori del tabacco tradizionale.

 

Questi prodotti non ricreano fedelmente l’esperienza della sigaretta, ma si inseriscono come una alternativa laddove il tabacco combustibile non è più permesso o socialmente accettato.

 

Diventano un surrogato del tabacco tradizionale anche perché il percepito da parte degli utenti è la possibilità di concedersi un vizio limitandone il più possibile i rischi.

 

Il luogo comune, si troverebbe nell’assunto che le e-cig conterrebbero nicotina, ma senza tutte le altre sostanze nocive presenti all’interno delle sigarette quali il catrame.

 

Sappiamo la nicotina essere l’elemento che crea dipendenza, ma ciò che si demonizza delle sigarette tradizionali è l’azione di combustione del tabacco e tutti gli additivi presenti nel processo di fabbricazione della sigaretta come quelli utilizzati per trattare le cartine.

 

L’innovazione tecnologica permette all’utente di personalizzare l’esperienza delle e-cig in base ai propri gusti; dal colore, al packaging, al sapore, ai gadget, alle opzionali quantità di nicotina presenti.

 

Cosa si nasconde dietro alla dichiarazione di Philip Morris?

 

L’azienda nel 2016 ha subìto un cambio di purpose con un controverso slogan: “Delivering a Smoke-Free Future

 

Nel suo statement of purpose l’azienda parla di questo cambiamento come una mossa volta a convincere i fumatori a cambiare e che le alternative da loro proposte li aiuteranno. Si impegna a raggiungere questo obiettivo insieme all’aiuto dei governi che dovranno promuovere policy che vertono nella stessa direzione.

 

L’acquisizione, da parte della madre delle Marlboro, di due importanti gruppi nel settore farmaceutico: la britannica Vectura e la danese Fertin Pharma sembrano essere in linea con questi nuovi valori.

 

Così facendo il gruppo ha a disposizione tutto il know-how necessario per mettere a punto terapie inalatorie complesse, creare prodotti ibridi a metà tra un farmaco ed una e-cig, dando una forte spinta verso il futuro e dimostrare al mondo, il cambio di rotta verso il settore healthcare e wellness.

 

Philip Morris stupisce ancora una volta ponendosi come obiettivo di ottenere entro il 2025 metà dei propri ricavi tramite la vendita di prodotti senza combustione, con la “beyond nicotine” strategy.

 

Conseguenza o causalità?

 

Una vita senza sigarette è un obiettivo che la società sogna da anni; tutti sappiamo che per far sì che un cambiamento perduri nel tempo, deve avvenire tramite piccoli passi, allontanandosi il meno possibile dallo status quo.

 

Il 2003 è l’anno in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità stipula la “Convenzione Quadro sul Controllo del Tabacco (FCTC)” il cui obiettivo è fornire ai governi linee guida per ridurre l’uso del tabacco. I rappresentanti si riuniscono ogni due anni per discutere delle evoluzioni e delle strategie migliori da adottare per continuare la battaglia contro le sigarette.

 

In gergo si chiama cooperation of parties (COP) e l’ultima si è svolta lo scorso 13 novembre.

 

Durante COP9 si è parlato del calo del numero di fumatori, da 1.32 miliardi (nel 2015) a 1.30 miliardi nel 2021 e dell’esigenza di fondi per continuare la campagna contro la prima prevenibile causa di morte nel mondo. Ha scatenato non poche controversie l’ultima Cop perché l’Organizzazione Mondiale della Sanità si schiera contraria contro ogni tipo di vape.

 

Nel 2019 il Governo inglese emana il Prevention Green Paper dichiarando la UK smoke free entro il 2030.

 

Il documento pone le attività di prevenzione della salute al centro delle nuove policy inerenti alla sanità del paese, a livello locale e nazionale.

 

L’ambizione sarebbe quella di fermare sul nascere i comportamenti che provocano uno stile di vita dannoso per i cittadini, con la volontà di instillare consapevolezza dei rischi alla salute, legati all’abuso di determinate sostanze e in generale legati alla sfera del benessere individuale, anziché dare priorità al trattamento e alle cure delle malattie.

 

Appare così evidente che il mondo si sta attivando, in maniera quasi aggressiva, per bandire il tabacco dalle nostre abitudini.

 

Rimane del mistero attorno alle e-cig; sembrano un surrogato delle sigarette ma anche una via di fuga dalle stesse.

 

Alla luce di queste informazioni, come spiegare la nascente industria del vaping? Quali saranno le prossime mosse dei produttori di tabacco?

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Ambiente, società e tecnologia

Come l’innovazione digitale migliora il mondo del cibo: il “FoodTech” ai Digital Innovation Days

Che cosa ci viene in mente quando pensiamo al digitale? Dopo quasi due anni di pandemia, sicuramente il lavoro e la didattica a distanza, poi il mondo dei social media, la finanza high-tech e molto altro. Penseremmo mai alla mela che sgranocchiamo come spuntino come ad un esempio di innovazione digitale? Se la risposta è no, continuando a leggere cambierete idea: nella sala tematica dedicata al FoodTech durante i Digital Innovation Days si è parlato di come l’intelligenza artificiale (AI), l’automazione, la tecnologia blockchain e le piattaforme social possano essere messe a servizio della produzione del cibo. Queste tecnologie permetteranno sempre di più sia di assicurare qualità e sicurezza dei prodotti, sia di ottimizzare operazioni e processi per evitare gli sprechi e ridurre i consumi.

Si parte allora per un viaggio che inizia in campo aperto, per arrivare all’esperienza che i clienti ricercano nella relazione con i brand.

 

Parola d’ordine? “Dati”: dalle serre verticali ai biosensori per il latte vaccino

 

Le esigenze del settore sono chiare quanto urgenti. La popolazione mondiale aumenterà ed è auspicabile che sempre più persone possano richiedere sicurezza e qualità del cibo; tuttavia gli eventi climatici estremi sempre più frequenti e la scarsità di suolo e acqua sono ostacoli importanti posti di fronte a questo obiettivo. Una tra le soluzioni possibili è “l’agricoltura in ambienti controllati”, così come la definisce Daniele Benatoff, CEO di Planet Farms. Le piante vengono coltivate su più livelli, in un sistema caratterizzato da due elementi fondamentali: l’automazione e il controllo e il monitoraggio costante di tutte le variabili ambientali. Il digitale permette così di avere accesso a una vasta gamma di informazioni collegate alle migliori condizioni possibili di crescita (che altrimenti non potrebbero essere reperite) e di modificare di conseguenza temperatura, intensità della luce e non solo.

 

Non tutte le specie vegetali però possono essere coltivate in ambienti controllati: l’agricoltura in campo aperto rimane imprescindibile e può essere resa più produttiva e sostenibile grazie a soluzioni digitali integrabili su macchine agricole e trattrici, anche non di ultima generazione, come ha spiegato Paolo Cesana, responsabile Smart Farming e Automazione presso SDF. Queste permettono tra l’altro a chi dirige le macchine di poter fare affidamento su sistemi di guida smart che aumentano la precisione di tutte le operazioni che svolge, evitando sprechi e costi aggiuntivi.

 

Invece, come si rende digitale il settore dell’allevamento? Durante il panel Paolo Bulgarelli, responsabile qualità di Parmalat Italia, ha illustrato in cosa consiste il progetto europeo MOLOKO: alla base c’è un sensore miniaturizzato in grado di rilevare piccole concentrazioni di sostanze indicatrici della qualità del latte; grazie ai dati raccolti è possibile scartarne solamente la parte che non soddisfa i requisiti quando ancora si è in fase di mungitura, evitando così contaminazioni nel resto della produzione giornaliera.

 

Come si ottimizzano i processi e si controlla la filiera, grazie ai prodotti digitali delle startup

 

Il cibo sta per entrare in fabbrica: come prevedere i costi energetici dei processi trasformativi e così ottimizzarli? Rebecca, l’AI sviluppata dalla startup MIPU, permette di raggiungere il modello di fabbrica predittiva, unendo l’esperienza e la conoscenza di chi opera in fabbrica, i dati sui consumi energetici e la possibilità utilizzare una piattaforma di programmazione codeless. Rebecca è in grado di elaborare modelli di funzionamento delle macchine e di confrontarli con quelli costruiti sulla base dei dati raccolti in produzione: se si osserva una discrepanza, può identificarne la causa e rivelare malfunzionamenti o persino predire guasti. È proprio il caso in cui, come vuole il proverbio, “prevenire è meglio che curare”, perché la capacità predittiva concessa dal digitale è una valida alleata della sostenibilità, sia ambientale sia economica, delle aziende che su di essa fanno affidamento.

 

Il viaggio del cibo prosegue, ma chi può assicurare un controllo qualità lungo tutta la filiera? Come si può mettere in comunicazione ogni suo punto e al contempo dare certezza al consumatore? La startup ConnectingFood ha sviluppato una piattaforma condivisa basata sulla tecnologia blockchain (di cui abbiamo parlato qui) e una web app che permette alle persone che acquistano un prodotto di scannerizzare uno specifico QR presente sulla sua confezione: i dati coinvolti in tutto il processo permettono da un lato di garantire la tracciabilità dei lotti e di accorgersi rapidamente di un errore, dall’altro danno sicurezza al consumatore grazie a informazioni accessibili e trasparenti.

 

Come coinvolgere i clienti nell’era del digitale

 

Siamo arrivati finalmente ad un prodotto pronto a essere lanciato sul mercato: quali strumenti hanno i brand per comunicare la qualità e i valori nascosti nel cibo? Una strategia che integri l’interazione social e gli user generated content assieme al il desiderio di vivere esperienze fisiche, oggi urgentepiù che mai, sembra vincente a tutti i rappresentanti dei brand che hanno partecipato alla sala “FoodTech”. Aperol ha scelto di lanciare l’iniziativa “Together we can cheer”, una catena di brindisi virtuali per coinvolgere i clienti in tempo di restrizioni, per poi trasformarla in eventi in cui i visitatori potessero interagire sia fisicamente sia digitalmente con le diverse attrazioni: tutto questo ha permesso di generare più di 10000 contenuti social da parte degli utenti.

 

Il gruppo Sabelli, operante nel settore lattiero caseario, era invece consapevole di dover creare una campagna che permettesse ai clienti di potersi identificare in valori spesso difficili da ritrovare intrinsecamente in un prodotto come una mozzarella: ha quindi deciso di lanciare una nuova marca, “Natura Sincera”. Il target di questo test di mercato sono i giovani che per le prime volte si trovano ad essere indipendenti dalla famiglia e che per questo devono occuparsi della spesa e della cucina, pur essendo alle prime armi: per ingaggiarli hanno deciso di sfruttare post su Instagram molto simili ai meme.

 

La “rivoluzione culturale” e il valore delle soluzioni tradizionali

 

Il cibo è ormai pronto per essere comprato e gustato, ma occorre fare molti passi indietro per riflettere sui presupposti che dovrebbero esserci alla base di un’efficace integrazione del digitale nel settore. Come ha affermato Paolo Cesana durante il panel “AgriTech”, è necessaria una “rivoluzione culturale”, in parte già in atto. La filiera agroalimentare dovrà infatti essere sempre più supportata e guidata da grandi quantità di dati puri, affidabili e ben organizzati, perché saranno indispensabili per prendere decisioni dall’impatto positivo, più di quanto potrebbero esserlo se l’unico metro di giudizio fossero le sensazioni e le impressioni dei singoli produttori. Per far sì che ciò accada saranno proprio questi ultimi a dover comprendere il valore dell’innovazione digitale e investire nella loro implementazione. Parallelamente dovranno essere valorizzate nuove figure professionali, come quella del data scientist e dello sviluppatore blockchain.

 

Non bisogna dimenticare però, travolti dal giusto entusiasmo per il digitale, il valore dei prodotti che già esistono e che potrebbero entrare a far parte della rivoluzione produttiva: l’intervento di Alessandro Nasini, cofondatore di FOODENDI, ha fatto riflettere su come la maggior parte delle startup italiane nel settore FoodTech non sia basata sul prodotto e su come il riconoscimento e lo sfruttamento di varietà vegetali dalle particolari caratteristiche (per esempio, la resistenza a un clima molto caldo) possano essere una delle soluzioni applicabili, assieme a una migliore gestione del territorio.

 

Il digitale rappresenta lo strumento per la rivoluzione del settore agroalimentare, mentre i suoi obiettivi devono continuare a essere le persone e la loro relazione con il cibo.

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Ambiente, società e tecnologia

Il ruolo della marca nel mondo post digitale: intervista a Giuseppe Mayer

Oggi come non mai in molti contesti vengono utilizzati termini come brand strategy, brand identity, personal brand e altre espressioni simili. Confusione? È comprensibile, motivo per il quale se oggi si vuole lavorare nel mondo del marketing, dell’economia e del commercio (ma non solo) è necessario fare chiarezza su cosa si intende quando si parla di brand.

 

Giuseppe Mayer, partner di Antifragile, ha alle spalle moltissimi anni di esperienza nel mondo delle agenzie pubblicitarie: tra le aziende con cui ha collaborato in passato possiamo citare Wpp, Publicis, Dentsu e Gruppo Armando Testa.

Oggi è imprenditore, digital advisor, autore e investitore con 20 anni di esperienza nel mondo delle strategie di brand e marketing digitale.

Ha scritto dei libri, tra cui l’ultimo intitolato “Branding by Design” – gli otto caratteri della marca nel mondo post digitale” di cui potrete scoprire qualche dettaglio nel corso dell’articolo.

Lo abbiamo intervistato e abbiamo parlato di marca, transizione e trasformazione nel mondo digitale, tendenze del mondo digitale e molto altro.

 

Giuseppe, per iniziare, perché oggi più che mai il brand è tornato a essere così importante?

“Questa è già una domanda che ne contiene altre ventimila! La premessa che va sempre fatta non è per quale motivo oggi il brand è importante, ma per quale motivo il brand esiste: le marche esistono nella vita delle persone per ridurre il loro livello di incertezza. Il motivo per cui per gli esseri umani è fondamentale avere a che fare con gli elementi che noi chiamiamo marca è perché viviamo in un mondo estremamente complesso, ricco di alternative e di scelte.

Ci sono infatti delle statistiche molto interessanti degli Stati Uniti che indicano quanto la capacità di scelta delle persone durante il giorno sia limitata; ecco che la marca ha una funzione incredibile da questo punto di vista perché permette alle persone di navigare in un contesto di grande incertezza e in un mare dove ci sono infinite alternative e di orientare le proprie scelte.

Nel mondo in cui viviamo oggi i segnali esterni sono estremamente ricchi perché abbiamo tantissime opportunità di scelta: si dice che siamo passati da ricevere e visionare 4.000 messaggi al giorno a visionarne almeno 40.000, per cui è chiaro che la quantità di stimoli sia diventata ancora più alta e quindi il ruolo della marca, di conseguenza, sia diventato ancora più importante

Il motivo per cui oggi è più importante che in passato è dovuto al cambiamento degli strumenti che servono per creare una marca di valore.

Se la marca è il sistema che permette alle persone di ridurre il loro livello di incertezza, qual è il ruolo delle persone? Il ruolo è riuscire a creare quelle associazioni intangibili che permettono di dire “riconosco quella particolare offerta, mi piace e quindi la preferisco rispetto a un’altra”.

Prima del digitale, per costruire queste associazioni bastava guardare la televisione, ascoltare la radio o leggere il giornale, e quindi le aziende dovevano creare messaggi di comunicazione che fossero il più possibile efficaci e impattanti e veicolare quei messaggi e storie su questi canali. Oggi invece le persone utilizzano maggiormente lo smartphone, oggetto che permette di fare molto di più, come commentare, interagire e partecipare al messaggio di marca delle aziende.

Non basta più creare delle storie e metterle a disposizione delle persone, ma bisogna trovare dei modi intelligenti per far parte della vita delle persone.

Quello che infatti fanno le aziende non è più solo raccontare storie ma anche permettere alle persone e abilitare le persone a vivere la promessa di marca, non soltanto trasmettendo un racconto generico ma diffondendo qualcosa di molto più concreto.

Nonostante il fatto che negli ultimi 20 anni ci siano state delle realtà che molto di più delle marche tradizionali hanno aiutato a ridurre i livelli di certezza, come per esempio il motore d ricerca di Google o i social network, c’è ancora un enorme spazio per le marche per avere un ruolo impattante nella vita delle persone, ma solo se riusciranno a capire che ormai il loro ruolo non è più solo quello di raccontare delle storie ma far partecipare attivamente le persone”.

 

 

Quali sono gli otto caratteri della marca post digitale di cui ha parlato nel suo ultimo libro?

“L’idea segue il ragionamento di prima: le marche oggi sono ancora importanti, anche in un contesto dove c’è un utilizzo maggiore del digitale e in cui ci sono Facebook e Google che semplificano notevolmente molte attività, ma per esserlo devono trovare il loro modo per diventare parte integrante della vita delle persone.

La differenza tra il mondo che precede il digitale e quello che lo succede è che mentre prima bastava creare e raccontare una storia che impattasse la vita delle persone, adesso l’obiettivo è creare una relazione con le persone, cosa che gli strumenti digitali permettono di fare.

Un altro aspetto interessante che oggi dà un’enorme opportunità dal punto di vista della marca è puntare non più allo share of voice ma allo share of time, cioè trovare gli strumenti digitali che permettono di aumentare la quantità di tempo che le persone passano con la marca anche indipendentemente dal momento del consumo.

Prima del digitale il mondo era fatto in modo tale per cui il ruolo della marca nella vita del cliente era quello di vederlo come un consumatore e nulla di più; quindi, il motivo per cui si comunicava con esso era quello di convincerlo a consumare il prodotto, ma questo perché prima del digitale non c’erano altre opportunità per entrare io relazione con lui. Oggi invece è possibile, anche prima di cominciare a pensare il prodotto, chiedere al consumatore di che cosa ha bisogno, accompagnarlo durante l’esperienza d’acquisto e infine rafforzare la convinzione che l’offerta sia la migliore del mondo con dei i servizi post-vendita.

Il punto è che ormai non ci si focalizza soltanto sulla creazione di esperienze di valore nella fase precedente alla pubblicità, ma si cerca attraverso il digitale di creare delle relazioni di lungo periodo.

È lì che entrano in gioco i caratteri della marca.

Gli 8 caratteri della marca, quattro razionali e quattro emozionali, servono a identificare quel carattere unico, distintivo, speciale che la marca ha, per cui crea un rapporto quasi umano con le persone mediato dal digitale.

Il paradosso è che il digitale con i suoi strumenti, con la sua possibilità di tracciare le informazioni, e con la possibilità di creare delle narrazioni One to One che sembrano veramente dei dialoghi, permette di creare un rapporto più umano con i clienti.

Ci sono tanti esempi che vengono fatti con gli otto caratteri, che non vanno visti come uno alternativo all’altro, ma di fatto è come se fossero in un grande mixer in cui bisogna capire qual è la miscela unica, speciale e particolare che la marca vuole mettere in funzione.

Per esempio, uno dei caratteri è l’empatia: essere empatici vuol dire saper ascoltare e condividere la propria visione del mondo. Il digitale con l’ascolto delle conversazioni permette in tempo reale di ascoltare quello che le persone dicono della marca, di percepire quali sono i loro bisogni e sulla base di questo chiaramente di entrare nella conversazione

Un altro carattere che c’è nel libro, uno dei primi che poteva essere realizzato con il mondo del digitale, è quello personale, perché, per esempio, con il digitale si possono inviare 10 milioni di mail a tutti i clienti ma ognuna potrebbe iniziare con un “ciao” seguito dal nome della persona. Oggi è possibile personalizzare ancora di più il messaggio ma anche il prodotto, per esempio mostrando un prodotto diverso a seconda del cliente.

Un altro carattere fondamentale è l’empowering: un esempio è Nike, il quale non vende solo prodotti, abbigliamento e scarpe sportive ma per esempio ha creato un’applicazione all’interno della quale inserisce contenuti e informazioni per migliorare le proprie performance, e per scaricarla non serve una prova d’acquisto, questo perché quello che Nike vuole è una relazione di lungo periodo e il tempo che la persona condividerà con lui.

Gli otto gli 8 caratteri servono quindi proprio a capire come è possibile creare una personalità distintiva, unica e riconoscibile per la marca attraverso il digitale. Una personalità riconoscibile con cui le persone hanno voglia di passare del tempo al di là del momento del consumo”.

 

In questo periodo di continua trasformazione digitale, i brand stanno cercando di sviluppare diverse strategie di comunicazione innovative, come crede che ci si debba muovere in un contesto del genere per potersi distinguere dai competitor? Conosce qualche azienda che secondo lei sta facendo un buon lavoro?

Il digitale è diventato ormai parte integrante del nostro modo di pensare, non si può più pensare che ci siano ambiti in cui non esista il digitale.

Una delle caratteristiche del mondo post digitale è che le aziende si mischiano sempre di più, non ci sono più categorie fisse.

Questo è possibile in tutti i settori, per esempio, nel mondo dell’agenzia di comunicazione, dato che una volta c’erano le agenzie di pubblicità e le società di consulenza, oggi invece le agenzie di pubblicità fanno anche consulenza.

Anche nel mondo dello sport: Nike dovrebbe vendere scarpe, ma in realtà fa molto di più perché accompagna le persone anche in un percorso di miglioramento delle performance. Stessa cosa per quanto riguarda Apple che dovrebbe vendere semplicemente computer, strumenti che ci monitorano e ci offrono altri servizi, ma invece per i suoi messaggi di marca fa leva sulle emozioni.

In un mondo post digitale i confini tra le aziende si ridefiniscono.

Un esempio è il mondo dei social media, all’interno del quale tutti competono con tutti.

Le aziende che vogliono essere su un social devono competere non solo con i competitor diretti all’interno della propria area di riferimento, come potrebbe essere una banca con un’altra banca, ma competono con i contenuti creati da altre persone per guadagnare l’attenzione degli utenti.

Dobbiamo renderci conto che la voce delle aziende non viene più ascoltata in quanto brand, di conseguenza più interessante rispetto alle persone. Anzi, su Tik Tok, ma ormai su tutti i social, la voce delle persone è più importante rispetto alla voce dei brand.

Molte aziende, infatti, oggi fanno partecipare le persone nel loro messaggio di marca, un esempio è WeRoad: questa realtà si occupa di realizzare viaggi, ha un prodotto che di per sé piace molto, ma soprattutto ha scelto di mettere al centro del proprio messaggio di comunicazione e attività di branding non solo contenuti creati da loro, ma quelli creati dai loro clienti. Le foto che fanno gli utenti diventano gli oggetti della campagna di comunicazione fatta da WeRoad.

Il digitale può essere anche utilizzato per allargare la propria sfera di competenza, dato che secondo me nei prossimi anni avremo due tipologie di aziende: le data managed company o le data company.

Le data managed company sono le aziende che usano i dati per migliorare il proprio lavoro, quindi, tutte le aziende che riescono a recuperare i dati dei loro clienti per poi migliorare il proprio modo di lavorare e i processi operativi.

Le data company sono invece le aziende che riuscendo a capire il valore della trasformazione digitale mettono i dati al centro del proprio business.

Un esempio è Deliveroo, che non è semplicemente un’azienda che vende servizi di trasporto portando i beni e i prodotti da un punto A a un punto B, ma è un’azienda che è in grado di “vendere” ai propri clienti finali il servizio di consegna a domicilio nel modo più efficace ed efficiente possibile, cioè facendo in modo che il cliente non ordini da ristoranti troppo lontani e che il prodotto arrivi a casa in buono stato e pronto da mangiare. È una data company anche a lato ristorante perché fornisce ai ristoranti informazioni, dati e intelligence che servono ad essi per migliorare le proprie performance.

Quindi, credo che in questo momento di transizione del digitale i dati saranno al centro di ogni attività e nel futuro avremo due tipologie di aziende: le aziende che saranno in grado di ottimizzare il proprio business attraverso i dati e quelle che metteranno il dato al centro del proprio modello di business”.

 

Quali sono i trend che secondo lei stanno funzionando oggi? E quelli che vedremo in futuro?

“Ce ne sarebbero decine ma secondo me i più importanti sono due.

Una prima tendenza molto interessante è quella della transizione dai social media a social commerce.

In passato era necessario coinvolgere interessare gli utenti attraverso i social media ma oggi con essi è possibile fare molto di più: gli strumenti che social network come Facebook e Instagram mettono a disposizione sono delle vere e proprie piazze virtuali in cui oggi si può anche acquistare dei prodotti. Si parla infatti di passaggio dalla conversazione alla conversione. Questo trend è molto interessante soprattutto in Italia perché riguarda le PMI e le realtà che hanno bisogno di provare nuovi strumenti per riuscire a convertire.

Un domani si potrebbe iniziare a conversare e contattare influencer in base alla loro capacità di vendere un prodotto.

Un’altra tendenza molto importante su cui secondo me in Italia si è un po’ in ritardo è il trend del gaming; il mondo di Twitch ma soprattutto il mondo di Roblox che è secondo me un esempio molto interessante, perché per certi versi ricorda Instagram qualche anno fa, dato che anche Roblox è in grado di raccogliere una quantità molto grande di ricchezza informativa.

 

Io ho approcciato il mondo della pubblicità ormai vent’anni fa e all’epoca le persone potevano essere trovate principalmente attraverso la televisione; oggi invece le persone sono su queste piattaforme, per cui per raggiungerle è fondamentale per le aziende esservi presenti”.

Quali sono le figure professionali che oggi non possono mancare in un’azienda per poter sviluppare una brand strategy efficace?

“Riprendendo il discorso di prima, sicuramente un data manager o un data insightuna persona che si occupi di dati, capace non soltanto di raccogliere quelli che arrivano tramite il digitale ma anche tutti quelli che arrivano attraverso altri possibili touch point.

Fare branding significa occuparsi delle esperienze, e le esperienze sono la somma delle interazioni delle relazioni che hanno con le tecnologie delle marche.

Per tracciare nel modo corretto queste interazioni, c’è bisogno di qualcuno che sappia analizzare i dati e ascoltare ogni singola interazione.

Un’altra persona fondamentale è il social media manager che è una figura in evoluzione, una persona capace di utilizzare i social, fare contenuto e molto di più.

Anni fa, inoltre, in una mia agenzia avevo dato spazio a un antropologo; secondo me oggi c’è spazio per essere più creativi nei profili che inseriamo all’interno delle aziende; prima abbiamo parlato del fatto che oggi bisogna raggiungere le persone sulle piattaforme di gaming e che il loro modo di interagire con i contenuti è cambiato, credo quindi che sia fondamentale cercare di capire i loro comportamenti da un punto di vista antropologico, e per farlo abbiamo bisogno di una figura in grado di capire questi comportamenti.

Tante figure che in passato abbiamo visto poco interessanti poco rilevanti potrebbero tornare molto di moda ed essere estremamente utili, tra questi sicuramente anche l’antropologo.

Per concludere, anche il mondo delle STEM è importante.

Io faccio sempre l’esempio del dolore provocato da un dente e del medico che può fare due cose: far passare il dolore e sistemare il dente attraverso un metodo e degli strumenti oppure con un pugno in faccia.

Ecco che anche i programmatori devono avere una strategia chiara del brand e dell’azienda, per non fare solo succedere le cose ma fare in modo che le situazioni vengano risolte nel modo più sano e possibilmente indolore possibile”.