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Ambiente, società e tecnologia

Alla ricerca di equilibrio: è possibile riconsiderare le 8 ore di lavoro standard in Italia?

Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) è identificato dal diritto italiano come la principale fonte normativa in cui i sindacati dei lavoratori e le associazioni dei datori di lavoro concordano le regole che regolamentano il rapporto di lavoro. Si tratta di contratti volti a trattare sia gli aspetti normativi che quelli economici, senza ignorare le disposizioni adatte a regolare le relazioni sindacali.

Le finalità fondamentali di questo contratto, ad ogni modo, riguardano la definizione delle regole per i rapporti di lavoro in specifici settori (che si tratti, ad esempio, dei trasporti o del pubblico impiego) e la disciplina delle relazioni tra le parti firmatarie dell’accordo.

 

Da Owen a Ford: la rivoluzione delle 8 ore

 

L’instaurarsi della giornata lavorativa di 8 ore fu il risultato, nei primi anni del XX secolo, di numerose lotte sindacali, originariamente proposte su un modello di 48 ore settimanali distribuite su 6 giorni.

Nei primi anni della rivoluzione industriale, gli operai potevano arrivare a lavorare fino a 100 ore a settimana. Robert Owen, un influente sindacalista gallese del XIX secolo, introdusse allora il concetto della riduzione delle ore di lavoro giornaliere, con l’obiettivo di dividere la giornata in tre parti uguali: lavoro, svago e riposo.

Fu solo nel gennaio 1914 che questo standard originario venne modificato. Si trattò del momento in cui Henry Ford adattò questa formula a degli studi sperimentali sulla produttività: riducendo le ore lavorate a 40 a settimana su 5 giorni, Ford notò un aumento significativo della produttività, dimostrando che meno ore potevano portare a risultati migliori. Ford ridusse la giornata lavorativa dei suoi dipendenti da 9 a 8 ore, incrementando il salario giornaliero da 3 a 5 dollari.

Cinque dollari per una giornata lavorativa di otto ore è stata una delle più efficaci strategie di riduzione dei costi che abbiamo mai messo in atto”: così Ford giustificò la propria mossa imprenditoriale, dichiarando che l’investimento in salari più elevati avrebbe creato una base solida per lo sviluppo aziendale.

La decisione di pagare salari più alti si rivelò un successo: numerosi storici e analisti, tra i quali Gregory Mankiw, dimostrarono che questa mossa contribuì a consolidare la disciplina, la lealtà e l’efficienza dei lavoratori.

Tuttavia, è evidente che la decisione di introdurre una settimana lavorativa non è nata in virtù di ragioni come la giustizia o il benessere, ma come risposta alla necessità di massimizzare la produttività; l’iniziale benessere dei lavoratori, in quel contesto storico, è emerso come un mero effetto collaterale.

 

L’Italia oggi

 

Ancora oggi, la connessione tra retribuzione e produttività rimane un elemento cruciale per stimolare la competitività dell’Italia. Nel contesto del dibattito sulla riforma del mercato del lavoro è emersa, nel 2011, la proposta di favorire la contrattazione aziendale come strumento chiave per stringere questa connessione, contribuendo così al rilancio della competitività nazionale.

Dal 2013 il contratto collettivo aziendale (CCIA) rappresenta un accordo stipulato dal datore di lavoro e dai rappresentanti dei lavoratori, avente spesso l’obiettivo di modificare le disposizioni del CCNL in base alle proprie esigenze.

Le disposizioni di tali contratti non possono prevedere, di norma, delle condizioni meno favorevoli rispetto a quelle stabilite dalla Legge. Il rapporto tra contratti aziendali e quelli di livello superiore è stato delineato dagli Accordi interconfederali, stabilendo che il contratto di categoria rimane centrale, mentre quello aziendale deve limitarsi a disciplinare argomenti già individuati dal CCNL e a garantire aumenti retributivi legati a miglioramenti di produttività e organizzazione del lavoro.

La produttività e la retribuzione rimangono degli elementi imprescindibili. Ma la domanda rimane sempre la stessa: e il benessere dei lavoratori?

 

Pandemia e nuove esigenze: la nascita dello smart working

 

Il recente fenomeno dello smart working, che rappresenta la possibilità, in determinati settori, di lavorare da casa, ha registrato un aumento della produttività del 15-20%. Ha sollevato, tuttavia, molti interrogativi riguardanti la sostenibilità e l’impatto sul benessere dei lavoratori.

La questione principale, oggetto di numerosi dibattiti successivi al lockdown nazionale provocato dal fenomeno della pandemia, era una: sarebbe stato giusto sfruttare questo “plusvalore” in maniera capitalistica o sarebbe stato opportuno tradurlo, invece, in benefici per i dipendenti, riscontrabili in un’ulteriore riduzione dell’orario lavorativo?

In poco tempo, questo dibattito ha assunto una rilevanza significativa. Uno studio, pubblicato il 12 giugno 2021 sull’European Journal of Investigation in Health, Psychology and Education, offre una visione approfondita su tre aspetti principali: la dedizione al lavoro, il fenomeno del cosiddetto technostress e la mediazione del rapporto tra smart working e benessere.

 

Smart working e dedizione al lavoro

 

L’indagine rivela che durante la pandemia il coinvolgimento attivo dei responsabili delle risorse umane ha influenzato positivamente l’impegno dei lavoratori.

La partecipazione attiva ai cambiamenti organizzativi ha fatto sì che questi ultimi venissero percepiti come il risultato del proprio impegno e non più degli ordini imposti dall’alto: questo fenomeno è emerso come un vero e proprio antidoto alla demotivazione. La ricerca ha evidenziato, inoltre, che una cultura organizzativa positiva potrebbe proteggere da sintomi come lo stress, l’ansia e la depressione. Il desiderio, nel 2021 e in base a tali presupposti, era quello di trasformare una situazione di emergenza in un’opportunità di crescita.

 

Smart working e technostress

 

Technostress è una terminologia che comprende, in maniera simultanea, una varietà di problematiche significative: il sovraccarico tecnologico, la complessità, l’insicurezza lavorativa e l’incertezza. I livelli più elevati  di technostress sono osservabili tra coloro che sono costretti a fare un uso intensivo di dispositivi digitali e di applicazioni di messaggistica istantanea, oltre che tra gli addetti alla gestione delle attività lavorative durante le pause. L’indagine, in questo contesto, sottolinea il ruolo critico della gestione equilibrata tra vita professionale e vita privata, in un’ottica volta a salvaguardare la salute mentale dei lavoratori.

 

I mediatori del rapporto tra smart working e benessere

 

L’autonomia nella scelta di pratiche di lavoro a distanza, le competenze personali e organizzative e la fiducia da parte dell’azienda sono caratteristiche identificate come i mediatori chiave tra smart working e benessere. Tuttavia, anche in questo caso la problematica principale risiede nella gestione dei confini tra tempo personale e orario di lavoro: la necessità è quella di promuovere una comunicazione efficace, delle crescenti relazioni al di fuori dell’orario di lavoro e un vero e proprio supporto psicologico per i dipendenti.

Ne conviene che l’iperconnettività abbia portato anche lo smart working, nei settori in cui questo fenomeno è presente e possibile, verso numerosi ed evidenti effetti negativi: un esempio sono le comunicazioni prolungate fino a tarda notte nel contesto lavorativo.

Questo fenomeno è stato descritto da alcuni come un nuovo presenzialismo, caratterizzato dall’incessante motto “always on“, che può minare la qualità della vita e il benessere dei lavoratori. La riflessione critica si concentra sull’importanza di bilanciare l’efficienza lavorativa con il rispetto per il tempo personale e la salute mentale. Perché non esplorare, quindi, la possibilità di ridurre l’orario di lavoro in maniera da mantenere attive l’efficacia e la produttività?

Secondo le statistiche Istat, in Italia la settimana lavorativa moderna corrisponde, laddove regolamentata, a 33 ore; questo dato supera di 3 ore la media europea, di 4 ore quella francese e di 7 ore quella tedesca. Nonostante ciò, la produttività italiana si posiziona come la penultima in Europa, con un rendimento superiore solo alla Grecia.

Uno studio, condotto da Domenico De Masi e commissionato da Mercedes Italia, riflette a pieno questa dinamica: i dirigenti tedeschi dell’azienda automobilistica, sebbene abbiano un carico di obiettivi superiore del 30% rispetto ai loro omologhi italiani, riescono a lavorare il 30% in meno, ottenendo, al contempo, il 30% di obiettivi in più.

Dal 2014, la Ducati, grazie a un referendum vinto con il 75% dei voti e in collaborazione con i sindacati, ha implementato un piano che impegna i dipendenti per circa 30 ore settimanali (compresi gli eventuali turni nei weekend) e con una quasi totale saturazione degli impianti. Secondo Mario Morgese, il responsabile delle risorse umane dell’azienda, questa iniziativa ha portato a un aumento del 40% nella produttività e a una riduzione dell’assenteismo.

Nel 2019, Microsoft ha effettuato, in Giappone, una prova della settimana lavorativa di 4 giorni. Durante questo periodo, ha concesso ai suoi 2300 dipendenti ben 5 venerdì liberi ad agosto, senza però ridurre gli stipendi. I risultati sono stati sorprendenti: non solo il 92% degli impiegati si è dichiarato più soddisfatto, ma la produttività è aumentata del 40%. Inoltre, è stato registrato un calo del 25% nelle pause, una diminuzione del 23% nell’uso dell’elettricità e una riduzione del 59% nel consumo di carta/stampe.

 

Nuova Zelanda: un passo verso il futuro dei lavoratori?

 

L’esempio più importante e significativo ha avuto sede in Nuova Zelanda, dove il movimento ‘Four Day Week’ ha condotto uno studio sperimentale sulla tattica utilizzata da Microsoft nel 2019.

I risultati hanno mostrato un aumento della produttività, una diminuzione dello stress, un miglioramento dell’equilibrio tra vita e lavoro, un maggiore coinvolgimento e benessere dei lavoratori, un aumento della fiducia e una diminuzione dell’assenteismo, in un’ottica in cui gli stessi manager continuano a sottolineare la priorità del mantenimento della produttività e del raggiungimento degli obiettivi.

 

Verso una rivoluzione lavorativa: sperimentare la riduzione dell’orario per un futuro migliore

Sperimentare queste soluzioni su larga scala, mediante un approccio temporaneo che coinvolga sia il settore profit che il settore non profit, potrebbe rappresentare una strategia ottimale per il benessere dei dipendenti. Davvero non siamo pronti a intraprendere questo cammino?

Fonti

 

Wikilabour – Il CCNL

Indagine: quale relazione esiste tra smart working e benessere del lavoratore?

Wikilabour – il CCIA

Smart working e produttività

Microsoft – Work Life Choice Challenge Summer 2019

The four-day week guidelines for an outcome-based trial – Raising productivity and engagement

Agende piene di impegni: fenomeno dell’always on

Domenico De Masi e la riduzione dell’orario di lavoro

Nuova Zelanda e la settimana lavorativa di 4 giorni

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Ambiente, società e tecnologia

Inganni etici nell’automazione industriale. I robot minacciano davvero le nostre occupazioni?

Il processo di automazione industriale, intrinsecamente propenso a un’evoluzione continua, affonda le sue radici nell’introduzione pionieristica dei primi dispositivi autonomi nelle fabbriche tessili britanniche; si tratta di una metamorfosi che ha attraversato secoli di sviluppo, culminando, poi, in una fase attuale, in cui la tecnologia si fonde sinergicamente con la produzione industriale. Il focus è posto, in questo caso, sul dibattito riguardante l’impatto occupazionale delle tecnologie di automazione, che costituisce un tema di notevole complessità.

 

Da una parte, la letteratura scientifica presenta numerosi studi che corroborano l’esistenza di una correlazione positiva tra gli investimenti delle imprese in automazione e l’incremento del tasso di disoccupazione. La condizione italiana, per esempio, è stata oggetto di un’analisi approfondita in uno studio, diffuso nel numero di dicembre 2021 della rivista “Stato e Mercato” e intitolato “Rischi di automazione delle occupazioni: una stima per l’Italia”, in base al quale il numero di lavoratori italiani a rischio si collocherebbe tra i 4 e i 7 milioni.

 

In base a questo scenario, che rimane prettamente teorico, l’intento ergonomico di questo processo, cioè quello di sollevare l’uomo da azioni usuranti e abitudinarie, potrebbe essere cambiato. L’automazione odierna non costituirebbe più un mero ausilio all’attività umana, ma anche, molto spesso, un sistema di strumenti in grado di renderla superflua. Tuttavia, la questione in oggetto riveste uno spettro molto più ampio: il mondo del lavoro italiano si confronta con delle sfide diverse, quali la carenza di competenze e la discrepanza tra quelle richieste e quelle disponibili.

 

 

Si tratterebbe, quindi, di una preoccupazione infondata se riguardante la realtà italiana: un altro studio, condotto dall’INAPP nel 2021 e intitolato “Stop worrying and love the robot: An activity-based approach to assess the impact of robotization on employment dynamics”, ha rivelato che in Italia l’introduzione di robot industriali non ha influenzato negativamente il tasso di occupazione, ma ha contribuito a ridurre, seppur in misura contenuta, quello di disoccupazione. Ad aver subito un aumento è stata, invece, la domanda di professionisti legati al ciclo di vita dei robot, che va dalla loro progettazione all’utilizzo effettivo negli stabilimenti.

 

Contrariamente alle ipotesi, quindi, l’obiettivo originario continua a esistere: nei Paesi sviluppati le attività fisiche ripetitive sono state automatizzate, in maniera tale da ridurre il rischio per la salute degli operatori, mentre le attività a contenuto cognitivo elevato continuano a registrare un aumento favorevole.

 

Ad ogni modo, l’obiettivo principale di questo articolo non è esaminare contesti come quello italiano, dove il settore dell’automazione ha avuto uno sviluppo adeguato nel tempo, in linea con le necessità umane. Oltretutto, in questi contesti è necessario evidenziare un aspetto fondamentale, seppur spesso trascurato, che prescinde dalle visioni in merito, siano esse ottimistiche o pessimistiche: nonostante l’applicazione avanzata dell’apprendimento automatico, i posti di lavoro non sono scomparsi. E, probabilmente, sulla base di molti studi, non lo faranno neanche nel prossimo futuro.

 

“Robots and Organization Studies: Why Robots Might Not Want to Steal Your Job” è il titolo di uno studio condotto nel 2019 da Peter Fleming, che  considera la necessità di affrontare delle questioni più ampie, riguardanti la giustizia sociale nella realtà globale. Nello specifico Fleming, nel corso del suo studio, affronta le condizioni di Devi Lal, un uomo residente a Delhi, in India, la cui mansione era stata individuata, in un report del 2012 (Miller, 2012) come il lavoro peggiore del mondo.

 

L’occupazione di Devi era quella del “manual scavenger”. Si tratta di una figura addetta a calarsi senza corde nelle fogne e pulire a mani nude le fogne intasate, immergendosi nudo e per diverse ore tra i rifiuti e i gas tossici. Per questo lavoro Devi veniva pagato l’equivalente in rupie di 3.50 euro al giorno.

 

In base a quanto riporta Fleming, in città come Londra e Oslo la pulizia manuale delle fogne è relativamente rara. E, se una persona venisse incaricata di immergersi in un ambiente tanto deplorevole, si tratterebbe di un tecnico specializzato, adeguatamente equipaggiato e soggetto a degli specifici protocolli di sicurezza e igiene. Questo fenomeno indica una vera e propria discrepanza: “la differenza tra Delhi e Londra -sottolinea Fleming- è il costo della manodopera di Devi: il suo tasso salariale è decisamente inferiore al costo che si potrebbe investire in una macchina”.

 

Tuttavia, la stessa logica caratterizza anche i Paesi più ricchi; si tratta del motivo per il quale un robot, almeno per il breve periodo, non si preoccuperà di pulire le nostre case. L’impiego di persone è semplicemente più economico, soprattutto a causa della presenza di lavoratori di minoranza etnica, che sono sovra-rappresentati nella forza di lavoro sottopagata. I costi di capitale e manutenzione per investire in attrezzature di intelligenza artificiale sono considerevoli e, a tal proposito, le aziende valutano non solo la possibilità di meccanizzare un lavoro, ma, data la disponibilità di manodopera a basso costo, anche l’eventuale vantaggio economico.

 

Una delle principali cause di lavoro precario e stagnazione salariale è stata individuata nella de-sindacalizzazione (Kalleberg, 2011): i datori di lavoro che operano in luoghi che sono rimasti fortemente sindacalizzati hanno un forte interesse nei confronti dell’automazione, soprattutto laddove il sindacato è (o minaccia di essere) militante. È necessario, quindi, analizzare anche quei contesti in cui la sindacalizzazione non esiste.

 

Un esempio è l’azienda di ride-hailing Uber, che ingloba una serie di aspetti fondamentali. Innanzitutto, l’applicazione di Uber comporta un’automazione parziale della mansione, in quanto riduce il livello di competenze necessarie ai tassisti tradizionali, che ricevono una formazione. Inoltre i conducenti, individuati come lavoratori autonomi, ricevono salari significativamente più bassi. Questo accade sia in Europa che negli Stati Uniti ed è il motivo principale per cui i lavoratori di Uber si sono rapidamente sindacalizzati, chiedendo pieni diritti lavorativi.

 

Prendendo in considerazione delle realtà diverse da quelle europee e statunitensi, come l’Egitto, in cui la contrattazione tra commerciante e cliente è molto forte e, in generale, le condizioni dei lavoratori sono peggiori, il rapporto tra paga e soddisfazione dei lavoratori è inversamente proporzionale. Nonostante la paga sia molto bassa, i conducenti di Uber svolgono con piacere il proprio lavoro. Al tempo stesso, dato il particolare rapporto qualità-prezzo, Uber è preferito dai turisti rispetto ai sistemi tradizionali, in quanto è l’alternativa più economica e l’unica soggetta a una regolamentazione.

 

Non sorprende, quindi, il fatto che Uber abbia annunciato un significativo investimento nella tecnologia delle auto a guida autonoma solo nei Paesi in cui i conducenti hanno portato avanti delle rivolte (Morris, 2017).

 

In conclusione, non si può affermare con certezza che il ruolo dell’intelligenza artificiale non avrà alcuna influenza sulle occupazioni in futuro. Rimane però costante la tendenza di alcune aziende, soprattutto quelle che operano nei Paesi più poveri, a voler rimanere ancorate al proprio status quo unicamente a causa del vantaggio economico fornito dalla persistenza dei lavoratori sottopagati.

FONTI

rivisteweb.it

fortune.com

jstor.org

dailymail.co.uk

journals.sagepub.com

oa.inapp.org

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Punti quantici: un premio Nobel dalle molte applicazioni in medicina

Il premio Nobel per la chimica di quest’anno è stato assegnato il 4 ottobre a Moungi G. Bawendi, Louis E. Brus e Alexei I. Ekimov “per la scoperta e la sintesi dei punti quantici”, ottenuti per la prima volta negli anni 80. Si tratta di strutture artificiali, cristalline, semi-conduttrici ed estremamente piccole: le loro dimensioni vanno da alcune unità fino a poche decine di nanometri, che corrispondono a un miliardesimo di metro. Dalle loro dimensioni e struttura dipendono le loro peculiari proprietà, che li rendono potenzialmente utili in moltissimi settori tra cui l’ottica, l’elettronica, l’energia e la medicina.

I punti quantici rientrano a pieno titolo tra le nanotecnologie: uno dei principi teorici fondamentali di questo campo scientifico è il cambiamento osservabile nelle proprietà di un composto a seconda della sua dimensione. Se in una grande porzione di materia notiamo certi fenomeni, a scale molto piccole ne emergeranno altri, principalmente dovuti a effetti quantistici. Molte proprietà possono essere modificate solamente variando la dimensione delle particelle: tra queste, quella di maggiore interesse per i punti quantici è la fluorescenza. In questo fenomeno, una sostanza emette luce a una lunghezza d’onda diversa da quella che ha ricevuto in precedenza. I punti quantici possono dunque assorbire radiazione elettromagnetica ultravioletta e riemettere luce visibile di differenti colori a seconda delle loro dimensioni.

Questa loro caratteristica, assieme alla capacità di trasportare elettroni, li rende utili come componenti all’interno dei moderni display, dei LED o come strumento per il bioimaging (un insieme di tecniche utilizzate per ottenere immagini di tessuti e organi di organismi viventi), dato che la loro fluorescenza può essere molto più intensa di quella di altre sostanze. Ad oggi è possibile ottenere punti quantici di dimensioni desiderate in modo accurato e con tecniche chimico-fisiche relativamente poco costose.

Quantum dots e nanomedicina: quali sono le applicazioni possibili?

Queste strutture cristalline sono spesso formate da metalli pesanti, come il cadmio; sono dunque tossici per le cellule e per gli organismi. Esistono però dei punti quantici formati da strutture di grafene, potenzialmente combinate con altri tipi di composti (procedura che viene chiamata “funzionalizzazione”), che attualmente rappresentano la variante più biocompatibile. Si apre quindi la strada a numerose applicazioni nella branca della nanomedicina, cioè “l’applicazione della nanotecnologia in campo medico”.

Questi punti quantici sono in grado di superare la barriera ematoencefalica (la struttura che “regola selettivamente il passaggio sanguigno di sostanze chimiche da e verso il cervello”), caratteristica che li rende potenzialmente utili nel trattamento di alcune malattie neurodegenerative, come il morbo di Alzheimer. È stato osservato che i punti quantici di grafene possono funzionare come inibitori dell’aggregazione all’esterno dei neuroni della proteina amiloide, responsabile del decorso della malattia.

Un’altra applicazione per i punti quantici di grafene è il drug delivery: queste nanostrutture possono diventare dei veri e propri trasportatori di farmaci affinché essi vengano rilasciati esattamente nel punto desiderato del corpo. La loro stabilità una volta entrati a contatto con i fluidi corporei e la capacità che hanno di conservare i farmaci che trasportano li rendono dei buoni candidati per questa applicazione. Grazie a questo si potrebbe diventare così in grado, per esempio, di rilasciare molecole nelle cellule tumorali senza intaccare quelle normali. Un vantaggio dei punti quantici rispetto ad altri tipi di molecole usate come trasportatori dipende dall’intensa fluorescenza prima descritta: è possibile infatti monitorarne il comportamento all’interno dell’organismo grazie a tecniche di bioimaging.

Tutte queste applicazioni sono ancora in fase di studio e sperimentazione: i punti quantici hanno e potranno avere un grande potenziale tecnologico in molte applicazioni biomediche, così come in altri ambiti.

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Come valorizzare le biomasse di scarto grazie alle bioraffinerie

E se la buccia delle patate e altre biomasse di scarto diventassero una materia prima preziosa da cui ricavare prodotti chimici, combustibili e altri materiali? La valorizzazione delle biomasse di scarto è possibile anche grazie a una serie di approcci sperimentali e industriali che possono essere raggruppati sotto il nome di “bioraffineria”.

Per capire meglio di cosa si tratta, prendiamo come riferimento la definizione data da IEA: “una bioraffineria è un insieme di processi sostenibili volti a trasformare le biomasse in uno spettro di prodotti commercialmente rilevanti”. Le biomasse che possono essere utilizzate vanno da scarti di lavorazione del legno, paglia, amido, fino ad alghe e altri sottoprodotti dell’industria agroalimentare. Queste possono essere trasformate in prodotti chimici di alto valore o combustibili utili per i trasporti ed energia.

Ma quali sono i processi più sfruttati? Le materie prime possono, per esempio, essere gassificate (cioè portate allo stato gassoso), trasformazione che permette la loro scissione in componenti più piccoli, che saranno poi necessari per la sintesi di molecole più complesse. Un altro processo molto sfruttato è la pirolisi, che consente la decomposizione chimica delle materie prime unicamente grazie al calore fornito. Si possono altrimenti condurre una serie di reazioni chimiche che permettano la separazione di tutti i componenti di interesse. Un’ultima via disponibile è quella della fermentazione, che sfrutta la capacità di microrganismi (come batteri) di trasformare grazie al loro metabolismo sostanze come gli zuccheri: in quest’ottica è e sarà molto importante la ricerca su microrganismi GM (geneticamente modificati), il cui metabolismo può essere modificato per ottenere prodotti altrimenti difficilmente raggiungibili con una sintesi chimica.

Come valorizzare la buccia delle patate

A livello teorico, moltissimi tipi di biomasse potrebbero essere processate grazie alle bioraffinerie. Ne esistono però alcune più interessanti e studiate di altre: per esempio, la buccia delle patate. Questo tipo di scarto largamente prodotto a livello industriale può essere fonte di composti interessanti in vari ambiti. Può essere usato non solo come mangime per animali da allevamento o come materia per compostaggio: dalla buccia di patata possono essere estratti, grazie a solventi chimici, delle molecole antiossidanti naturali utili alla conservazione dei cibi (normalmente, antiossidanti sintetici vengono addizionati per garantirne la durata). Si può produrre bioetanolo come combustibile da fonti rinnovabili (si tratta di etanolo in tutto e per tutto, per cui il prefisso “bio” indica solamente la sua provenienza): attualmente la maggior parte del bioetanolo (circa il 60%) deriva dalla fermentazione della scorza della canna da zucchero, ma esiste una domanda in crescita data dalla spinta ad emanciparsi sempre di più dai combustibili fossili. Infine, a partire dalla buccia di patata e dai suoi nanocristalli di cellulosa si sta cercando di produrre una bioplastica, un altro tipo di manufatto concepito per diminuire la dipendenza odierna dai combustibili fossili: ad oggi le sue proprietà meccaniche però non sono ancora ottimali.

L’approccio delle bioraffinerie è quindi utile per valorizzare biomasse di scarto non solo riutilizzandole, ma trasformandole in prodotti ad alto valore aggiunto.

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Perché non dobbiamo preoccuparci per lo sversamento delle acque di Fukushima

Il 24 agosto 2023 in Giappone è iniziato il rilascio delle acque della centrale nucleare in dismissione di Fukushima Dai-ichi. A seguito dell’incidente avvenuto a marzo 2011, che ha causato la fusione del combustibile all’interno del reattore, ne è stato effettuato il raffreddamento con acqua, che ne è rimasta contaminata. In riposta a questa notizia non sono mancati titoli allarmistici, polemiche e dichiarazioni contrarie: ma questi sono davvero giustificati alla luce dei fatti scientifici?

Perché non bisogna preoccuparsi

L’acqua entrata in contatto con il combustibile fuso è stata filtrata grazie a un sistema chiamato “ALPS” (Advanced Liquid Processing System): questa operazione ha reso possibile, grazie a dei processi chimici, la rimozione di 62 radionuclidi, cioè “nuclei atomici instabili che decadono emettendo energia sottoforma di radiazioni”. L’unica specie chimica che non è stato possibile rimuovere è il trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno. Non dobbiamo però allarmarci: infatti la sua concentrazione nell’acqua di Fukushima è circa 7 volte inferiore al limite fissato dall’OMS per l’acqua potabile, risultato che è stato possibile raggiungere diluendo l’acqua precedentemente contaminata con acqua di mare. L’intero procedimento è stato costantemente monitorato dalla IAEA, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, che ha dichiarato tramite un report scientifico che le misurazioni condotte sull’acqua in Giappone sono state “accurate e precise”. Inoltre, lo sversamento di circa 1 milione di tonnellate di acqua iniziato il 24 agosto durerà circa 30 anni e sarà ulteriormente seguito da IAEA.

Alla luce di tutti i sistemi di sicurezza e delle precauzioni messi in atto, si può affermare che l’impatto di questa operazione sull’ecosistema marino e sulla salute umana sarà del tutto trascurabile e non causerà dunque alcun danno.

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Com’è fatto un metaborgo?

Le possibilità connesse all’avvento delle tecnologie digitali coinvolgono sempre più ambiti, sia economici che sociali: dal gaming alla medicina, dall’industria al settore turistico, in particolare quest’ultimo, dove il metaverso ha trasformato un piccolo paese della Valtellina nel primo Metaborgo d’Italia.

Questo grazie a un progetto innovativo, presentato a Bruxelles in occasione dell’European Tourism Day e inaugurato lo scorso 3 giugno ad Albaredo San Marco, piccolo comune di 300 abitanti in provincia di Sondrio.

Sviluppato dall’azienda Carraro Lab in collaborazione con l’Università di Milano Bicocca, il Metaborgo consentirà ai visitatori, grazie a visori VR da noleggiare in loco o  utilizzando semplicemente il proprio smartphone, di immergersi nella storia di questo piccolo borgo montano; infatti, percorrendo 12 tappe di un tour interattivo, che alterna realtà virtuale e realtà aumentata, si potranno osservare scene di vita quotidiana passata e conoscere le  vicende storiche di Albaredo, con la possibilità, per gli utenti, di incontrare gli abitanti dell’epoca, scoprirne usi e costumi e apprezzare le tradizioni che caratterizzano quest’angolo della Valtellina.

 

L’iniziativa del Metaborgo, secondo Barbara Mazzali, assessore al Turismo della regione Lombardia, “può rappresentare una parte della nuova frontiera del turismo”.

Sono numerose, infatti, le strutture alberghiere, le destinazioni turistiche e le istituzioni museali, tra cui un autentico Museo delle Esperienze di Realtà Virtuale, “La Macchina del Tempo” di Bologna, che, implementando queste soluzioni tecnologiche nelle loro strategie commerciali e di valorizzazione, hanno come obiettivo il miglioramento dell’ambiente di riferimento e la volontà di rendere indimenticabile l’esperienza di turisti e visitatori.

 

Metatourism, inoltre, è stato l’argomento principale anche di convegni e fiere di settore, tra cui l’edizione 2022 della BTO (Buy Tourism Online) di Firenze, dove molti interventi si sono concentrati sulle opportunità e le possibilità offerte dal legame tra turismo e metaverso.

Sono esempi significativi che testimoniano come le tecnologie VR e AR stiano rivoluzionando sempre di più il settore dei viaggi e del turismo.

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Ahi ahi, AI! Le criticità dell’Intelligenza Artificiale

Il 2 giugno ha fatto il giro del mondo la notizia secondo cui, durante una simulazione digitale, l’intelligenza artificiale creata per i droni dell’esercito avrebbe ucciso il proprio operatore, reo di limitarne l’efficacia.

Dagli approfondimenti è emerso che in realtà il colonnello Tucker Hamilton, responsabile delle attività di test sulle AI per l’Aeronautica militare statunitense, aveva raccontato uno scenario ipotetico: un’IA impostata con l’obiettivo di abbattere missili terra-aria, non prima di aver ricevuto l’approvazione da parte di un operatore, potrebbe secondo il colonnello interpretare l’uomo come un ostacolo al raggiungimento dello scopo, e quindi decidere di eliminarlo.

Sebbene il clamore della notizia si sia poi sgonfiato grazie alle dichiarazioni di Hamilton, il pericolo che questa nuova tecnologia possa essere una minaccia per l’essere umano non è certo una novità.

Il 30 maggio 2023 il Center for AI Safety, una nonprofit che si occupa dei rischi che l’intelligenza artificiale porta alla società, ha pubblicato un comunicato secondo cui “mitigare il rischio di estinzione da parte dell’IA dovrebbe essere una priorità globale insieme ad altri rischi su scala sociale come le pandemie e la guerra nucleare”. La sintetica dichiarazione è stata sottoscritta da più di 350 esperti del campo e scienziati, tra cui Bill Gates e diversi membri di società internazionali, come OpenAI e Google DeepMind, ma mancano i rappresentanti di Meta.

Sul sito della nonprofit è presente anche un comunicato stampa collegato in cui la dichiarazione viene paragonata per importanza a quella sui potenziali effetti della bomba atomica fatta da Oppenheimer nel 1949.

Secondo diversi addetti ai lavori, non si tratta di altro che di un’operazione di marketing a basso costo al fine di sviare l’attenzione dalle attuali criticità dell’IA, così come la lettera aperta firmata da diversi operatori del settore, tra cui Elon Musk, in cui viene chiesta una pausa di sei mesi allo sviluppo di tecnologie più sofisticate di GPT-4: se pensano che sia necessario un periodo di stop perché non lo fanno?

Gli attuali problemi legati a IA sono per lo più imputabili alle caratteristiche della tecnologia stessa e all’uso improprio che se ne fa, come l’amplificazione di pregiudizi.

Vediamone alcuni.

In Amazon era stata sviluppata una tecnologia per valutare i curriculum, basata sui profili delle persone assunte negli ultimi dieci anni, secondo un sistema a stelline, analogamente ai punteggi dati ai prodotti dell’e-commerce.  Nel corso del primo anno, l’azienda ha notato come il sistema preferisse gli uomini alle donne: era naturale che fosse così, visto che l’azienda stessa nei dieci anni precedenti aveva preferito candidati maschili.

Gli appassionati di The good wife ricorderanno la puntata in cui una nuova tecnologia che doveva categorizzare le immagini (indicando se rappresentavano una persona, un animale, un oggetto…), classificava i soggetti afroamericani come scimmie: al software era stato insegnato molto bene come individuare un caucasico, ma non altrettanto come farlo con le persone di colore.

Questi sono solo alcuni esempi di come l’IA non possa essere definita di per sè maschilista o razzista: prende decisioni in base agli input ricevuti, che possono avere bias ab initio.

Un professore universitario in Texas ha bloccato la laurea di tutti i suoi studenti perché ChatGPT aveva affermato che tutte le tesi fossero frutto del lavoro di ChatGPT stesso. L’ironia è che sottoponendo all’IA la tesi del professore, anche questa viene classificata come prodotto dell’IA: la tecnologia, infatti, tende a compiacere lo scrivente e a seconda di come è impostato il prompt dà feedback opposti e/o non veritieri (è possibile far affermare che 1+1 fa 5).

Analogamente, negli Stati Uniti la NEDA (National Eating Disorder Association) aveva annunciato il licenziamento del personale che si dedicava alle linee telefoniche di supporto, sostituendo il servizio con un chatbot apposito, Tessa. L’operazione è poi stata bloccata perché l’IA dava risposte pericolose che incoraggiavano per esempio diete restrittive. Non proprio quello che ci si aspetterebbe contattando un’organizzazione che supporta le persone con disordini alimentari.

Insomma, problemi con l’intelligenza artificiale ne abbiamo già da ora, li risolveremo prima di estinguerci?

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“Hey Magi!”: in arrivo l’ultima novità targata Google

Magi, acronimo per Meta-Learning Agent for Human Instruction, si appresta a diventare l’integrazione AI (artificial intelligence) del motore di ricerca più utilizzato al mondo.

Recentemente gli sviluppi della ricerca sull’AI hanno portato alla ribalta ChatGPT, una chatbox in grado di scrivere testi complessi e fornire risposte articolate a moltissimi quesiti. Tutti i colossi del web stanno quindi correndo ai ripari per tenere il passo; Microsoft e Google non potevano essere da meno. Quest’ultimo in particolare negli ultimi mesi ha impiegato a tempo pieno circa 160 sviluppatori per poter presentare alla conferenza sviluppatori I/O 2023 dello scorso 10 maggio buona parte delle novità sulla sua AI. In realtà l’intero progetto di Google prende il nome di Bard, dalla figura del poeta-cantore di gesta epiche della tradizione celtica (soprannome tra l’altro utilizzato per Shakespeare), mentre la sua estensione all’esperienza di ricerca è stata chiamata appunto Magi. Ma vediamo un po’ più nel dettaglio di che cosa si tratta.

L’implementazione dell’AI nella web search engine dovrebbe fornire all’utente un’esperienza più personalizzata di quella attuale andando ad anticipare le sue esigenze attraverso l’integrazione contemporanea di più piattaforme. Un esempio di quanto appena detto, secondo numerose fonti web, potrebbe essere quello che riguarda il settore turismo. Inserendo nella chatbox i termini della ricerca, Google dovrebbe essere in grado di rispondere in un’unica schermata a tutte le domande dell’utente, riportando le migliori offerte per biglietti aerei, hotel, esperienze di viaggio come city tour e ristoranti senza neanche rendere necessario l’utilizzo di altre url. Allo stesso modo, un acquisto on line potrebbe essere effettuato già attraverso Google e senza la necessità di visitare l’e-commerce di un qualsiasi brand. In pratica l’esperienza di ricerca diventerà più una conversazione che un semplice botta e risposta.

E non finisce qui: Google lancerà altri servizi collegati all’AI che andranno a modificare e potenziare quanto già offerto da alcune delle sue APP più gettonate: Earth vedrà un miglioramento delle sue mappe attraverso l’implementazione di una navigazione immersiva che renderà molto più precisi i percorsi. Google Foto verrà invece integrato con Magic Editor, cioè una sorta di Photoshop molto semplificato. Tivoli Tutor sbarcherà sul mercato dei corsi di lingua offrendo la possibilità di conversazioni virtuali e, sempre nella macroarea delle lingue straniere, sarà possibile tradurre una frase parlata in tempo reale grazie ad un traduttore simultaneo virtuale.

Le funzionalità di Magi dovrebbero essere disponibili entro l’estate per buona parte degli utenti degli Stati Uniti e per il resto del globo entro fine anno. Non ci resta che attendere!

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Come l’intelligenza artificiale sta cambiando i lavori creativi

Che l’intelligenza artificiale sia già largamente presente nelle nostre vite è evidente: basti pensare agli assistenti vocali, tra cui Siri, Cortana, Google Assistant e Alexa, ai marketplace online come Amazon, che in base al nostro comportamento online è in grado di capire a quali prodotti potremmo essere interessati e indirizzarci al loro acquisto, alle piattaforme streaming come Netflix, che, sempre in base alle azioni che effettuiamo sulla piattaforma, impara quali sono i contenuti di nostro gradimento per proporcene di simili e agli assistenti alla guida (ADAS) – presenti sulla maggior parte delle vetture oggi in commercio – i quali aiutano a prevenire gli incidenti. Proprio a partire da questi ultimi si evolve la guida autonoma, il cui graduale perfezionamento spinge il mondo a interrogarsi sull’impatto che questa avrà in futuro sui trasporti, nonché sulle problematiche che potrebbe generare nel mondo del lavoro se andasse a sostituire gli autisti di taxi, mezzi pesanti e mezzi agricoli. Questo interrogativo si inserisce in un dibattito più ampio, che, in tempi recenti, ha iniziato a interessare anche i cosiddetti lavori creativi; oggi, infatti, si può chiedere ai vari sistemi in circolazione – tra cui ChatGPT, Midjourney, Dall-e, Crayon, Imagen ed altri – di scrivere testi o generare immagini a partire dalle richieste degli utenti. Ma che cosa sono di preciso i lavori creativi?

Con il termine “creativi” si indicano tutti quei lavori riconducibili alla capacità espressiva dell’individuo, come il grafico, il fotografo, il designer e in generale l’artista. Tra i fattori che hanno contribuito a dare risonanza mediatica al dibattito sulla sostituibilità di queste figure da parte dell’intelligenza artificiale, significativo è stato il disclaimer che ha accompagnato ad aprile 2022 il lancio del servizio Dall-E 2 da parte della società OpenAI (che ha lanciato anche ChatGPT), il quale, tra le altre cose, afferma che “il modello potrebbe aumentare l’efficienza nell’esecuzione di alcuni compiti come l’editing o la produzione di fotografie d’archivio, che potrebbe soppiantare il lavoro di designer, fotografi, modelli, editor e artisti”. Allo stesso modo, tra gli altri eventi, ha creato preoccupazione nel settore la vincita di un concorso artistico negli Stati Uniti da parte di un quadro prodotto con Midjourney (“Théâtre D’opéra Spatial”).

Il mondo degli artisti è diviso sulla questione: una parte vede con scetticismo l’avvento di strumenti come Dall-E e Midjourney, l’altra al contrario apprezza queste piattaforme, in quanto ritiene che siano in grado di trasformare operazioni fino a ieri laboriose e che richiedevano precise competenze per essere svolte, in operazioni alla portata di tutti. Di questo parere è, ad esempio, lo scultore canadese Benjamin Von Wong, che afferma di non saper disegnare e dunque di affidarsi a Dall-E – dove basta inserire una stringa di testo per vedere realizzata l’immagine che si desidera – per visualizzare idee che successivamente trasformerà lui stesso in sculture.

L’utilizzo creativo dell’intelligenza artificiale non riguarda però solo il singolo artista nel processo di creazione di un’opera, bensì anche un altro ambiente dove l’AI è già largamente utilizzata per svolgere svariate operazioni: l’azienda. Questa, a seconda del tipo, ospita al suo interno diverse mansioni creative, per ciascuna delle quali esiste o sta nascendo una risposta del tutto digitale.

Nel caso degli organi di informazione, alcune testate giornalistiche tra cui Forbes e il Washington Post si affidano a strumenti come Heliograph e Synthesia per l’individuazione delle notizie di tendenza, l’ottimizzazione delle immagini e la stesura di titoli, altre come il DailyMirror e Express pubblicano articoli redatti dall’IA o vi inseriscono immagini da questa generate (più economiche rispetto a quelle di un fotografo), mentre altre ancora, tra cui Wired e Slow News, hanno scritto policy che impediscono a loro stesse di ricorrere a immagini o articoli frutto dell’IA. Alla base di quest’ultima decisione stanno ragioni di carattere etico, infatti, scrive Wired: “Vogliamo essere in prima linea nell’uso di nuove tecnologie, ma anche farlo in maniera etica e con una certa attenzione”.

A vedere la presenza sempre più massiccia dell’intelligenza artificiale in chiave creativa è anche l’area marketing. La piattaforma Contents.com è in grado di ricoprire diverse delle mansioni tipiche del social media manager, promettendo di “generare qualsiasi tipo di contenuto in pochi secondi” e, basandosi su un approccio data driven, dichiara di poter produrre qualsiasi tipo di testo – dalle schede prodotto ai post per social media, dai siti web agli e-commerce – e ha già collaborato con diversi marchi noti, come Ikea e Allianz. Ghost Writer AI viene utilizzato dalla casa di videogiochi Ubisoft per scrivere i dialoghi tra personaggi non giocanti. Ad aprile 2023, Levi’s ha annunciato la collaborazione con la startup olandese Lalaland per la realizzazione di avatar iperrealistici generati dall’intelligenza artificiale che saranno utili a presentare i prodotti rispecchiando più fedelmente le caratteristiche dei consumatori. Uno dei casi più eclatanti è, infine, quello di Beck’s, che a breve metterà in commercio in edizione limitata la birra Autonomous, interamente sviluppata dall’IA; in particolare, Beck’s si è affidata a ChatGPT e Midjourney per la creazione della ricetta, del branding e della campagna marketing a supporto della birra, mettendo tutte le scelte in mano alla tecnologia. Sebbene si tratti di un prodotto ideato per celebrare il 150esimo anniversario dell’azienda, è chiaro che questo progetto contribuisca a segnare la strada per un futuro sempre maggiore coinvolgimento dell’IA nei piani aziendali anche per i ruoli creativi; non a caso, Beck’s ha annunciato che introdurrà nel corso del 2023 nuovi design per i suoi pack disegnati collaborando con sistemi come quelli già citati.

I casi fin qui analizzati ci mostrano come l’intelligenza artificiale sia destinata a divenire sempre più parte integrante delle professioni creative, con la conseguente necessità per le autorità pubbliche di intervenire normativamente laddove questo fenomeno possa creare problemi (ad es. deep fake, diritto d’autore…) e per coloro che svolgono lavori creativi di possedere le conoscenze base tecnologiche, di programmazione e di analisi.

Ad ogni modo, fino al momento in cui sarà possibile “insegnare la creatività ai computer” – qualcosa che il dottor Stephen Thaler ha tentato di fare con DABUS (sistema che ha dato vita autonomamente a due idee di prodotti dopo essere stato “allenato” dall’umano) – la capacità di guardare fuori dagli schemi, il senso critico e la motivazione ad approfondire un aspetto della realtà invece che un altro saranno prerogative dell’umano, che darà l’input all’intelligenza artificiale affinché trasformi il pensiero in realtà.

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La crisi idrica: le soluzioni da mettere in campo

La storia sembra ripetersi. Come l’anno scorso, è arrivata la primavera e lo stato dei fiumi, torrenti e laghi italiani non è dei più piacevoli. I livelli dei più grandi corsi d’acqua sono ai limiti storici: si cominciano a scorgere i letti dei fiumi, fondali fatti di sassi, sabbia e detriti. Bisogna fare i conti con un problema che gran parte della popolazione mondiale vive quotidianamente: la siccità. Le conseguenze? Ci sono a livello economico e sociale. Quindi serve agire per una gestione migliore e più attenta della risorsa. Ma le soluzioni ci sono e sono diverse: dalla conservazione, riduzione degli sprechi investendo nelle infrastrutture fino a coinvolgere la nanotecnologia per adottare soluzioni molto particolari per una desalinizzazione efficace dell’acqua marina.

 

Scarsità di acqua: un problema mondiale che stanno sperimentando sempre più paesi

L’acqua ricopre quasi il 70% della superficie del pianeta Terra e costituisce la risorsa per il benessere, la vita e la sicurezza per l’uomo e per il resto della biodiversità. L’acqua, lungo il ciclo idrogeologico la troviamo distribuita in superficie, atmosfera e nel sottosuolo. L’acqua salata di mari e oceani costituisce circa il 96%  e il restante è all’interno dei ghiacciai o a diverse profondità sottoterra . È proprio negli acquiferi profondi che troviamo l’acqua di qualità e utilizzabile per essere bevuta ed equivale a circa l’1%. A causa del cambiamento climatico antropogenico, l’intero ciclo idrogeologico e così l’accessibilità dell’acqua per l’uomo è sempre più a rischio. L’aumento delle temperature accelera la fusione dei ghiacciai e il fenomeno dell’evaporazione aggravando l’impatto dei periodi di siccità e rendendo la disponibilità di acqua meno prevedibile. A questo si aggiunge l’incremento della presenza  di agenti inquinanti(da pratiche agricole e sversamenti industriali) che ne riduce in generale la qualità e l’accessibilità. Il risultato? Un incremento di gravi stress sulle gestione e controllo dell’acqua  e una vera a propria crisi idrica per un numero sempre maggiore di paesi nel mondo anche in quelle zone tipicamente ricche di acqua. Parliamo di crisi idrica perché l’acqua oltre che essere una questione di sanità pubblica è una fonte essenziale per i principali settori economici di un paese. In Europa, un terzo delle risorse idriche sono destinate all’agricoltura, seguita dal settore industriale e poi quello energetico.

Nonostante l’importanza di questa risorsa, una gestione corretta e sostenibile dell’acqua risulta ancora difficile. Ma le possibili conseguenze,  tra perdite economiche e crisi sociali sono sempre più visibili e possono solo che inasprirsi. Si stima che i conflitti a livello locale per l’acqua siano destinati ad aumentare e che solo nel periodo dal 1983 al 2009 le perdite agricole a livello globale  per riduzione della produzione siano state di più di 100 miliardi di dollari. La riduzione di precipitazioni per esempio diminuisce la produzione idroelettrica  e termoelettrica, impattando su alcune delle principali fonti primarie di energia rinnovabile per molti paesi Europei. Un problema che è presente da tempo e che ora si ripresenta più spesso e con impatti solo più evidenti e tangibili. Alla luce di questa situazione c’è bisogno di definire soluzioni di adattamento e mitigazione degli impatti della crisi climatica per ridurre sprechi e migliorare la gestione dell’acqua. Questo implica agire sul rafforzamento e miglioramento le infrastrutture oltre che pensare a politiche territoriali lungimiranti.

 

Attualmente in Italia che si fa?

Ad oggi in Italia, si punta a soluzioni come la conservazione e stoccaggio, cioè la raccolta dell’acqua piovana attraverso diverse tecniche. Nelle aree urbane purtroppo ne riusciamo a raccogliere meno del 15% prima che tocchi terra e venga contaminata. Tutto il resto viene perso per evaporazione o finisce nei tombini. Certo si potrebbe puntare su un recupero maggiore delle risorsa sfruttando tecnologie per la captazione, filtraggio e accumulo di acqua piovana non potabile proveniente dalle coperture degli edifici. Ma oggi le soluzioni adottate sono dighe o vasche di contenimento a cui magari abbinare impianti fotovoltaici galleggianti da cui ricavare potenza elettrica.  Sebbene sia una delle soluzioni più diffuse in Italia, Il Centro italiano per la riqualificazione fluviale ne sottolinea le criticità.  La costruzione di nuove dighe lungo i corsi d’acqua esercita un forte impatto sui sistemi idrografici perché con lo scavo si crea un deficit di sedimenti su estese porzioni di terra oltre che determinare un’accelerazione dell’erosione costiera.  Meno impattanti invece risultano i piccoli invasi collinari e  ancora migliore la soluzione dello stoccaggio diretto nella falda.

È da ricordare come, oltre al recupero dell’acqua piovana, sia da stimolare un miglioramento ed efficientamento delle infrastrutture per ridurre quelli che ad oggi sono le importanti perdite dovute a tubazioni che sono a tutti gli effetti dei colabrodo. Secondo i dati ISTAT in Italia su un totale di 8,2 miliardi di metri cubi di acqua immessa nel sistema la perdita è di circa il 42%, quasi 150 litri di acqua sprecata al giorno per abitante.

Inoltre, si stanno inserendo nella pianificazione strategica delle amministrazioni locali progetti per sfruttare la superficie dei tetti. Per esempio con la creazione di giardini pensili e serre aeroponiche che andrebbero ad avere duplice funzione: mitigare flussi d’acqua abbondanti che si riversano sulle strade(specie durante i forti temporali) e grazie alla presenza della vegetazione  ridurre gli  inquinanti e l’effetto delle isole di calore.

 

La biomimetica per risolvere la crisi idrica? Desalinizzare l’acqua guardando alle proteine

Un’altra soluzione è quella di sfruttare l’immensa risorsa d’acqua salata dei mari attraverso la tecnica della dissalazione che può avvenire per evaporazione, con membrane e per scambio ionico. In questo modo si riesce a trattare l’acqua marina e renderla utile per scopo alimentare e agricolo riducendone il contenuto di sali, che non devono scomparire del tutto perché sono importanti! Oggi la dissalazione è praticata in 183 paesi e la scienza su questo fronte corre veloce, l’interesse nel settore c’è e la volontà di innovazione anche. In Italia, oggi lo sviluppo di questa tecnologia  è limitato a impianti di piccole dimensioni in Sicilia, Toscana e Liguria. Il potenziale della dissalazione in Italia è enorme e grazie allo sviluppo di nuovi materiali sarà possibile incrementare la presenza di questa tecnologia sul territorio.

Ad oggi, negli impianti più utilizzati, quelli a membrane l’acqua viene pompata e direzionata verso diversi step di filtraggio per l’eliminazione di detriti prima, batteri, nanoparticelle e sali poi.

Da diversi anni ormai la ricerca  si concentra sulla sintesi di membrane filtranti biomimetiche per la riduzione dei sali ispirandosi ad alcuni processi biologici altamente efficienti. Un gruppo variegato di ricercatori da diverse parti del mondo, con un lavoro pubblicato su Nature Nanotechnology ha esplorato la possibilità di creare delle membrane di poliammide a matrice nanometrica ispirate alle proteine biologiche chiamate acquaporine sfruttando il fenomeno dell’osmosi inversa. Le acquaporine sono naturali proteine che hanno la funzione di creare canali nelle membrane cellulari e regolare il flusso di acqua nel corpo umano. Il gruppo ne ha preso ispirazione ricreando canali artificiali altamente permeabili all’acqua e non ai sali.  La creazione di queste membrane permette di dissalare  in modo più efficace la stessa quantità di acqua rispetto all’utilizzo delle tradizionali membrane a film polimerici riducendo molto i costi energetici.

Per quanto sia un’ottima soluzione per aumentare la disponibilità di acqua, la desalinizzazione porta con sé una serie di criticità.  Sono ben noti i problemi ambientali che questa tecnologia comporta. Infatti, è un processo fortemente energivoro che viene alimentato da combustibili fossili che va a contribuire all’aumento delle emissioni. A questo si aggiunge, negli impianti che sfruttano l’evaporazione, la produzione della cosi detta “salamoia” ovvero il residuo altamente tossico (le concentrazioni di rame e sale sono elevate), che viene rilasciato in mare andando a impattare sugli ecosistemi costieri.

In conclusione, la scarsità di acqua è un’emergenza che non dobbiamo sottovalutare. Per risolvere questo problema non possiamo solo affidarci alla tecnologia, che ci offre soluzioni sempre più interessanti, ma pensare bene di ottimizzare e valorizzare ciò che abbiamo oltre che pianificare una riduzione degli sprechi e dei consumi in eccesso.

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ChatGPT: ritorno al futuro?

Nelle ultime settimane si sta parlando molto della sospensione in Italia di ChatGPT, software di intelligenza artificiale relazionale, disposta da OpenAI L.L.C., società sviluppatrice del servizio.

La misura è la risposta all’apertura di un’istruttoria in cui si contesta la raccolta illecita dei dati degli utenti italiani, che ha portato al provvedimento del Garante per la Protezione dei dati personali, il quale prevedeva di limitare provvisoriamente il servizio fino a che non fosse tornato a norma il trattamento delle informazioni personali degli utenti utilizzatori.

 

L’evento che ha spinto il Garante a prendere tale decisione risale allo scorso 20 marzo quando, a causa di un problema tecnico, si è verificato un data breach in cui è stata mostrata oltre alla cronologia delle domande degli utenti con i loro dati, anche parte dei dettagli sui metodi di pagamento utilizzati per l’abbonamento al servizio ChatGPT Plus, che offre funzionalità extra.

Ma cerchiamo di comprendere meglio le cause che hanno portato a tale blocco e le azioni che deve intraprendere la società per superarlo.

 

Lacune della OpenAI sulla protezione dei dati

Numerose sono le contestazioni mosse all’organizzazione, in quanto questa non rispetterebbe diversi parametri previsti dalle normative che tutelano la privacy dei dati personali, in particolare dal General Data Protection Regulation (GDPR) – regolamento (UE) 2016/679.

Il Garante ha rilevato anzitutto l’assenza di informazioni agli utenti e agli interessati sulla raccolta dei dati personali da parte della società e su come questi vengano trattati. Un altro problema riscontrato è l’assenza di una base giuridica che giustifichi la raccolta e la conservazione massiccia di dati personali, allo scopo di addestrare gli algoritmi sottesi al funzionamento della piattaforma. In pratica, se un utente inserisce i propri dati all’interno della chat, il servizio non ha nessun sistema che permette di filtrarli, e in più il trattamento di questi risulta inesatto in quanto non sempre le informazioni fornite corrispondono poi alla procedura corretta, perché aggiornate al 2021. Un ulteriore elemento critico è rappresentato dal fatto che, nonostante il servizio sia rivolto ai maggiori di 13 anni, l’assenza di filtri che permettano di verificare l’età degli utenti esponga i minori a risposte inidonee rispetto al loro grado di sviluppo e autoconsapevolezza.

 

Cosa deve fare OpenAI per tornare operativa in Italia?

L’organizzazione deve adempiere entro il 30 aprile alle prescrizioni imposte dal Garante, pena una sanzione fino a 20 milioni di euro o fino al 4% del fatturato globale annuo.

Innanzitutto, deve rendere disponibile un’informativa trasparente sul proprio sito che deve essere presentata agli utenti che si collegano dall’Italia, prima del completamento della registrazione, o qualora siano già iscritti deve essere sottoposta al primo accesso conseguente alla riattivazione.

Per la base giuridica sulla raccolta e la conservazione delle informazioni soggette a privacy, il Garante ha ordinato di indicare il consenso o il legittimo interesse come presupposto per l’utilizzo lecito delle stesse.

Inoltre, OpenAI deve permettere agli interessati di poter richiedere la rettifica o qualora questa non sia possibile, la cancellazione delle informazioni lasciate a ChatGPT.

Infine, per superare l’ostacolo riguardante i minori di tredici anni la società deve sviluppare un sistema che consenta di richiedere l’età ai fini della registrazione al servizio.

 

Quello Italiano è il primo intervento di questo tipo a livello mondiale nei confronti di ChatGPT.

Il 5 aprile però si è aperto un dialogo tra OpenAI, che ha confermato la volontà di collaborare, pur essendo convinta di attenersi alle norme in tema di privacy, e il Garante della Protezione dei dati personali che ha assicurato sul fatto che “non vi sia alcuna intenzione di porre un freno allo sviluppo dell’AI e dell’innovazione tecnologica”*. Sembra quindi che si stia andando nella direzione della cooperazione per far si che ci possa essere una convivenza tra innovazione, progresso tecnologico e rispetto dei diritti fondamentali degli individui cosicché si possa dare la possibilità a ChatGPT, con le adeguate modifiche, di tornare operativo in Italia e di farci cavalcare l’onda del futuro.

 

*Garante per la Protezione dei dati personali, Comunicato del 6 aprile 2023.

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Tourism Leakage: dove finiscono i soldi dei turisti?

Il turismo, tra i settori principali dell’economia mondiale, ha un importante ruolo nello sviluppo socioeconomico dei territori, generando ricchezza e occupazione. Tuttavia, quando ciò non accade, si parla di Tourism Leakage, uno degli impatti negativi e spesso nascosti del settore turistico.

Secondo la definizione del WTO, con Tourism Leakage si intende quel “processo mediante il quale una parte delle entrate in valuta estera generate dal turismo, invece di essere trattenuta dai paesi che ricevono turisti, viene trattenuta dai paesi che generano turisti o ritorna a questi sotto forma di profitti, reddito, rimborso di prestiti esteri e importazioni di attrezzature, materiali, capitali e beni di consumo per soddisfare le esigenze del turismo internazionale e delle spese promozionali all’estero.”

Il problema è presente soprattutto nei paesi in via di sviluppo e nelle piccole mete esotiche insulari come le Maldive e gli stati caraibici, dove secondo il UNWTO il denaro speso dai turisti, ma non circolante nell’economia locale, è pari quasi all’80% del totale.

Al tempo stesso, seppure in misura minore, la dispersione di denaro si verifica anche nelle maggiori destinazioni turistiche internazionali contribuendo, anche a causa dell’overtourism, ad accrescere l’insofferenza verso i visitatori da parte dei residenti, come testimoniato da conflitti e manifestazioni che negli ultimi anni hanno interessato diverse città, tra le tante Barcellona e Venezia.

 

Tra le cause del Tourism Leakage va considerata la presenza delle grandi catene internazionali del settore alberghiero e ristorativo all’interno di questi paesi. Per la loro forza economica e organizzativa, infatti, queste possono attuare politiche di prodotto/servizio e di prezzo difficilmente pareggiabili dalle piccole attività ricettive del territorio, con il risultato che i redditi generati dai turisti vengono trasferiti all’estero.

Imprese e aziende internazionali che, soprattutto nei paesi a basso reddito, operano non solo nel comparto dell’hospitality, ma anche nella gestione di servizi di trasporto e infrastrutture. Spesso, sono gli stessi governi nazionali, per mancanza di fondi e risorse necessarie, ad attrarre tramite incentivi fiscali, le compagnie straniere sul proprio territorio, chiedendo loro di investire nel settore e generando investimenti che, se non coordinati in maniera adeguata con la comunità, disincentivano la crescita economica, culturale e sociale di quest’ultima.

Sebbene per gli esperti sia impossibile azzerare la perdita di denaro causata da questi fattori, è lo stesso importante ripensare una forma di turismo più responsabile, dove anche i singoli viaggiatori assumano con le loro scelte un ruolo centrale nel benessere della collettività e dei territori. Scegliere di soggiornare in strutture gestite dagli abitanti del posto piuttosto che nei grandi resort internazionali, acquistare cibo e artigianato del luogo, preferire destinazioni meno conosciute o viaggiare in periodi di minor affluenza, possono costituire delle buone pratiche di viaggio per garantire notevoli effetti positivi sull’intera economia locale.

È necessario quindi, come affermato dal segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres lo scorso 27 settembre in occasione della Giornata Mondiale del Turismo, “riconsiderare e reinventare il turismo per offrire un futuro più sostenibile, prospero e resiliente per tutti”.