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Ambiente, società e tecnologia

I Reel sbarcano anche su Facebook: i brevi video di cui i social non fanno più a meno

Sapevamo che prima o poi sarebbe successo e Facebook non si è fatto troppo attendere: lo scorso 29 settembre il social network di Mark Zuckerberg ha ufficialmente introdotto i Reel sia per iOS che per Android, per il momento solamente negli Stati Uniti.

 

Questi formati video, ormai indispensabili per aziende e creator che vogliono farsi conoscere sui social, sono stati introdotti per la prima volta su Instagram il 5 agosto 2020, considerati all’inizio come una brutta copia dei famosi video di un altro social di successo, Tik Tok.

 

In questa occasione Instagram aveva presentato il nuovo format come dei brevi video, inizialmente lunghi non più di 15 secondi, come le Instagram stories, attraverso i quali si potevano caricare i propri filmati o crearne di nuovi direttamente da Instagram aggiungendo effetti attraverso diversi tool.

 

Il vantaggio che avrebbero ricavato gli utenti dall’utilizzo di questi Reel era ed è tuttora soprattutto uno: la possibilità di aumentare in maniera esponenziale la copertura dei propri video, ovvero il numero di visualizzazionie di finire così nella sezione “Esplora” di Instagram, quella che permette a chiunque di essere scoperto da molte più persone sulla base dei temi dei contenuti e degli interessi di chi li vede.

 

Quindi, quali sono gli ulteriori vantaggi che dovrebbero spingere le persone a utilizzare i Reel e per quale motivo questo format funziona così tanto?

 

Il motivo principale che ha spinto innanzitutto Facebook a introdurre recentemente i Reel è stato svelato dall’azienda stessa in un articolo del suo blog, e consiste proprio nell’aiutare i creator di Instagram, coloro che avevano già iniziato o stanno iniziando a creare contenuti con questo format e soprattutto su questo social, ad aumentare le visualizzazioni, raggiungere nuovi utenti e aumentare così la propria audience.

 

I Reel di Facebook come strumento per connettersi con più persone

 

Secondo Facebook, i Reel sono uno strumento che qualsiasi utente della piattaforma dovrebbe essere incentivato a utilizzare per esprimere la propria creatività e raggiungere più persone possibili.

 

Questi video sono infatti particolarmente amati dagli utenti dalla piattaforma e apprezzati sempre di più proprio per la loro caratteristica principale che consiste nel raggiungimento di un numero esponenziale di persone, magari anche grazie all’utilizzo di qualche trucchetto in più come gli hashtag specifici e coerenti con il contenuto o la scelta di una canzone di tendenza come sottofondo del video.

 

Ma soprattutto come spiegato da Facebook, i Reel sono fondamentali non solo per essere scoperti da nuove persone, ma soprattutto da utenti in target con quello che si sta comunicando nel video: infatti è molto probabile che chi guardi un determinato Reel creato per parlare di uno specifico argomento o tema, sia veramente interessato ad esso, e quindi abbia un maggiore interesse nel consumare il contenuto.

 

Facebook ha previsto altri due strumenti molto utili per aiutare gli utenti che vorranno creare i Reel: il primo è la creazione di gruppi che avranno in comune interessi e temi dedicati però solo ai Reel, all’interno dei quali gli utenti della piattaforma avranno la possibilità di entrare in contatto soltanto con contenuti formato video coerenti con i propri interessi, in modo tale che gradualmente si creino delle vere e proprie community. È stato specificato da Facebook che sarà possibile parlare di un unico tema, in modo tale da non creare confusione soprattutto all’algoritmo.

 

Sarà inoltre molto più semplice raggiungere nuove persone grazie alla multicanalità tra Instagram e Facebook, dato che sarà possibile condividere anche i propri Reel da una piattaforma all’altra, così com’è sempre stato possibile anche per post e video normali da quando Facebook e Instagram appartengono alla stessa società.

 

Le altre piattaforme che hanno adottato questo formato (cioè tutte)

 

Facebook è in realtà una delle ultime piattaforme ad aver introdotto i Reel.

Il primo è stato appunto Tik Tok, social network competitor dell’ecosistema Meta che proprio nelle ultime settimane ha raggiunto l’importante traguardo di 1 miliardo di iscritti.

 

Anche Youtube, piattaforma dedicata ai video per eccellenza, ci aveva già pensato ormai due anni fa quando in seguito all’introduzione delle storie ha deciso di inserire questo formato di video.

 

Si chiamano Shorts e sono praticamente identici ai Reel o ai Tik Tok.

 

Erano stati introdotti in seguito alle storie come video simili ma con la differenza che non sarebbero spariti dopo 24 ore ma sarebbero rimasti sui profili degli utenti.

 

Facebook e Instagram hanno imitato il format dei brevi video su Tik Tok così come anni fa avevano copiato le stories di Snapchat, proprio per riuscire a contrastare il successo dei suoi principali competitor, che al giorno d’oggi hanno il video come format centrale, e che ogni giorno crescono sempre di più.

 

Guadagnare facendo Reel? Facebook dà la possibilità di farlo

 

Era già successo la scorsa estate con Instagram, il quale aveva deciso di premiare i creatori di Reel della piattaforma regalando una percentuale in denaro in base alle visualizzazioni raccolte dei Reel, in modo tale da sostenerli economicamente per la loro creatività e il loro lavoro per popolare la piattaforma di contenuti virali. Questa scelta ha sicuramente incentivato la creazione e il conseguente maggiore utilizzo dei Reel.

 

In seguito al nuovo lancio, Facebook ha annunciato di aver previsto un ulteriore programma per aiutare i creator e farli guadagnare somme di denaro in base alle visualizzazioni dei Reel: l’obiettivo è infatti quello di investire oltre un miliardo di dollari nei creator di Instagram o Facebook durante il 2022 e anche ulteriori bonus. Lo scopo? Semplicemente far crescere la quantità di contenuti sul social.

 

Facebook, inoltre, si sta impegnando sempre di più nell’elaborazione di nuovi metodi per aiutare i creator di tutto il mondo a monetizzare i propri contenuti, come, per esempio, l’introduzione di sticker ads e banner ads all’interno degli stessi Reel.

 

Un altro metodo pensato sempre da Facebook per incentivare l’utilizzo dei Reel e permettere la loro monetizzazione è quello di introdurre l’advertising tra un Reel e l’altro in modo tale da dare la possibilità alle aziende di sfruttare lo spazio tra i video, che gli utenti vedranno sicuramente durante lo scorrimento, questo allo scopo di raggiungere molti più utenti e di conseguenza potenziali clienti.

 

Tik Tok ha già ideato in passato queste strategie di monetizzazione, per cui tutto ciò che Facebook sta introducendo adesso possiamo affermare che sia già stato creato e testato da altri, e che funzioni.

 

Ma per quale motivo Facebook e altri social network pagano letteralmente i creatori di contenuti in modo tale da incentivarne la realizzazione?

 

Yari Brugnoni, founder di Not Just Analytics, ha spiegato che l’obiettivo principale di queste piattaforme è quello di far trascorrere più tempo possibile agli utenti sui social, in modo tale da poter vendere spazio pubblicitario.

 

I Reel, infatti, permettono di aumentare il tempo di permanenza degli utenti sulla piattaforma, in quanto lo scorrimento dei video ad essere attaccati al telefono in quanto mentre si guardano i video di questa sezione, non ci si può aspettare quale sarà il contenuto successivo, motivo per il quale facilmente si perde la cognizione del tempo.

 

I video non lasceranno più spazio alle immagini?

 

Ormai qualche mese fa, nello specifico lo scorso 30 giugno 2021, Adam Mosseri, head of Instagram che regolarmente condivide sulle sociali informazioni riguardanti la piattaforma per cui lavora, ha annunciato sul suo profilo che quest’ultimo si sta spostando sempre di più verso una piattaforma che darà più spazio ai formati video piuttosto che alle immagini, questo a causa della forte competizione con le altre due principali piattaforme, ovvero TikTok e Youtube.

 

Proprio questo mese, l’8 ottobre, ha pubblicato anche un altro video per parlare di una novità riguardante Instagram, secondo la quale i video IGTV e i video dei feed entreranno in un’unica categoria chiamata Instagram Video.

 

 

 

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Il motivo? Secondo Instagram i video sono contenuti attraverso i quali è possibile esprimersi maggiormente: i video infatti, secondo Mosseri, sono puro intrattenimento ed è ciò che in questo momento le persone cercano ed è ciò di cui hanno bisogno.

 

I Reel di Instagram, e di conseguenza quelli di Facebook, sono immersivi, occupano tutto lo schermo del telefono e sono divertenti.

 

Al momento i formati video stanno facendo crescere moltissimo le piattaforme online e dietro vi è un enorme potenziale che dovrebbe essere sfruttato, ed è proprio per questo motivo che Instagram e Facebook non possono fare altro che cercare di adattarsi a questo cambiamento.

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Ambiente, società e tecnologia

Agricoltura intensiva e sostenibile: è davvero un paradosso?

Immaginate un contadino che, con il solo supporto della sua esperienza e seguendo i cicli stagionali, autoproduca le risorse necessarie per lui e per la sua piccola comunità. Collochiamo quest’immagine mentale in un paesaggio minimamente modificato dall’intervento umano: se vi dicessero che questo modelloelevato ad unico paradigma produttivo, non sarebbe affatto sostenibile? L’agricoltura contemporanea, e ancora di più quella futura, non potrà prescindere dal garantire benessere alimentare ad una popolazione in rapida crescita, che si stima potrebbe raggiungere i 10.9 abitanti entro il 2100, ma che non potrà contare su un aumento altrettanto significativo della terra coltivata e coltivabile. L’insieme di concetti, tecniche e soluzioni possibili che cercano sia di far fronte al problema di garantire un maggior numero risorse sicure per tutti in modo efficiente, sia di arrecare il minor danno possibile all’ambiente, viene definito intensificazione sostenibile.

 

Qual è il significato di “intensificazione” e di “sostenibilità”?

 

Il concetto di sostenibilità ha almeno tre risvolti fondamentali: l’impatto ambientale di una certa tecnologiale esigenze economiche alla radice del suo impiego e il suo impatto sulla vita delle persone. L’intensificazione agricola risponde in primo luogo alla seconda, e in parte alla terza, tra queste necessità: come afferma AISSA in un paper redatto nel 2019 e incentrato su questo tema, mette in campo grandi risorse, sia materiali sia energetiche, concentrandole in uno spazio e in un arco temporale ristretti, per ottenere grandi rese. La sfida, che riguarda soprattutto la sostenibilità ambientale, è raggiungere ciò senza alterare l’equilibrio, già precario, dell’ecosistema in cui una pratica agricola è inserita.

 

Non basta però aumentare l’energia e le sostanze utili alla crescita e alla salute delle piante, perché ciò che deve essere intensificata è anche la raccolta di informazioni per unità di superficie coltivata, cioè di dati che possano poi usati per definire indicatori utili a uno sfruttamento intelligente delle risorse. Conoscere nel dettaglio la composizione di porzioni sempre più piccole di suolo, e non solo la media di quelle in un intero campo, consentirebbe infatti di prevedere quali zone saranno più povere di nutrienti, e così di fertilizzare in modo differenziato.

 

Il miglioramento genetico a servizio della sostenibilità

 

Intensificare significa anche scegliere tipi genetici ad alto potenziale, ovvero con elevate produzioni del singolo organismo” (AISSA). La genetica però non influenza solo questo aspetto: anche se in Italia non è ancora possibile coltivare organismi GM, ovvero geneticamente modificati tramite l’utilizzo di tecniche di ingegneria genetica, l’intervento mirato dell’essere umano nella scelta delle piante da incrociare e delle proprietà più utili da selezionare è indispensabile per proteggerle da parassiti e da condizioni climatiche sfavorevoli. Se si riduce l’uso dei prodotti fitosanitari, sia per risparmiare materiale e denaro, sia per evitare imprevedibili danni alle altre specie, è necessario che alle piante sia fornita “un’armatura” alternativa altrettanto efficace, se non migliore. Questa potrebbe essere costituita proprio da specifici geni, piccole porzioni di DNA che vengono attentamente studiate per essere, per esempio, inserite nel patrimonio genetico di un’altra pianta e che le permetterebbero di esprimere resistenza agli attacchi di altri essere viventi, al caldo e alla siccità o al freddo.

 

Una strada per certi versi più complessa è la coltivazione in un sistema chiuso e perfettamente controllato, come una serra che sfrutti la coltivazione in verticale: si possono escludere dall’ambiente in cui le piante vivono quasi tutti i rischi citati precedentemente, si può ridurre al minimo la dispersione di acqua e massimizzare la resa risparmiando suolo prezioso, ma a costo di un grande dispendio energetico, particolarmente problematico se sostenuto da fonti ad alte emissioni.

 

Due modelli di intensificazione sostenibile: l’agro-silvicoltura multistrato e i sistemi integrati agro-silvo-pastorali

 

L’agro-silvicoltura a più strati, più tipica delle zone tropicali, è una tecnica tramite cui si cerca di ricreare i diversi strati tipici di una foresta: procedendo dal basso verso l’alto, i primi sono occupati da uno o più tipi di piante direttamente coltivate per fornire cibo alle persone (in particolare, vengono cresciute in questo modo piante di caffè e di cacao), poste all’ombra di alberi più alti che formeranno la cupola di una vera e propria foresta artificiale. Può essere aggiunto un ulteriore strato grazie all’allevamento e alle colture destinate all’alimentazione animale per avere un sistema ancora più completo, chiamato agro-silvo-pastorale.

 

Il suo scopo è riuscire a coniugare i bisogni degli esseri umani e quelli di tutti gli altri abitanti dell’ecosistema, conservandolo il più possibile: la foresta artificiale può essere un habitat adatto per tante specie di uccelli (e non solo) che altrimenti non avrebbero un posto dove nidificare. Siccome il terreno può perdere parte dei suoi nutrienti se sfruttato per monocolture intensive, un sistema che riunisca molte specie diverse argina il problema. Inoltre è economicamente vantaggioso perché permette, a chi se ne occupa, di disporre di risorse tanto diversificate quanto più numerosi sono gli elementi che entrano a far parte della foresta.

 

Le innovazioni applicabili non si esauriscono qui ed è auspicabile che ne vengano scoperte sempre di nuove: come spesso viene ricordato quando si parla della sfida posta dal cambiamento climatico, non può essere identificata una soluzione unica che risponda ad uno tra i problemi più complessi e pervasivi della nostra epoca. L’intensificazione può essere un valido aiuto, ma rimarranno comunque territori che potranno essere valorizzati al meglio solo da tecniche estensive: questi approcci differenti avranno un impatto positivo tanto più forte quanto più saranno tra loro complementari.

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Meta: l’inizio della rivoluzione di Facebook

Giovedì 28 ottobre, in occasione dell’evento annuale Facebook Connect 2021, Mark Zuckerberg, founder e CEO di Facebook, ha annunciato ufficialmente il nuovo nome della sua società: Meta.

 

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Per fare chiarezza, Meta è il nome della società, non di Facebook in quanto social network, e nemmeno delle altre piattaforme come Instagram, Whatsapp e Messenger, come viene spiegato brevemente anche da Whatsapp in un ironico post su Facebook:

 

 

Ma perché Meta è il nuovo nome e che cosa significa? Questa parola deriva da metaverso, ovvero la nuova ambiziosa direzione nella quale la società ha intenzione di muoversi nei prossimi anni, attraverso la creazione e l’utilizzo di una realtà parallela alla nostra, quella virtuale.

 

Che cos’è il Metaverso?

 

Metaverso è una parola che potrebbe far venire in mente un film fantascientifico, ma si tratta in realtà di qualcosa al quale si sta già lavorando da diverso tempo. Ne avevamo già parlato in questo articolo focalizzato sulle opportunità e gli utilizzi futuri della realtà immersiva.

Il metaverso è una dimensione, uno spazio all’interno del quale realtà virtuale, realtà aumentata e la nostra realtà convergono e formano qualcosa di unico.

Le persone pensano che sia qualcosa di astratto solamente perché si tratta di una dimensione diversa dalla nostra, ovvero quella virtuale, con la quale non possiamo interagire fisicamente, ma questo non significa che non sia reale, al contrario.

 

Lavorare con i propri colleghi o fare un gioco da tavolo con amici che si trovano in quel momento in luoghi diversi nel mondo ma con la possibilità di ritrovarsi tutti riuniti nella stessa stanza; brevemente è questo quello che dobbiamo aspettarci dall’era del metaverso.

“Immaginate di poter comunicare con un vostro familiare che abita dall’altra parte del mondo, di guardare insieme un film e di poter interagire non attraverso uno schermo piatto, ma avendo l’altra persona accanto a voi sul divano, con la possibilità di commentare le scene e anche di vedere le sue reazioni durante la visione del film”.

Non si tratta della descrizione di un episodio di Black Mirror, famosa serie televisiva che racconta episodi immaginari di un futuro distopico legati alle perplessità sul mondo della tecnologia, ma di quello che Adam Mosseri, head of Instagram, ha detto che in un futuro ormai non troppo lontano saremo veramente in grado di fare. 

 

Il cambiamento sostanziale che porterebbe questa dimensione virtuale sarebbe quello di abbattere ulteriormente il divario tra realtà fisica e quella digitale, permettendo così agli utenti di avere la sensazione di trovarsi quasi fisicamente a contatto con una persona, avendola veramente nella propria stanza e senza la barriera rappresentata dallo schermo piatto di uno smartphone.

 

Come più volte è stato sottolineato nel corso del Connect 2021 durante il quale è stato annunciata ufficialmente la nuova direzione di Facebook, passeremo sempre di più da stare su Internet a stare in Internet.

Come? Grazie ai nostri avatar che “abiteranno” nei feed su Facebook e su Instagram e che potranno interagire con gli altri come se si trovassero all’interno di un videogioco. Il risultato sarebbe sicuramente un’esperienza ancora più immersiva rispetto a quella che siamo abituati a vivere oggi sui social network, tanto che forse il mondo virtuale potrebbe sembrarci reale quasi quanto l’unico che conosciamo oggi.

 

Rebranding e l’inizio di una nuova era

 

Quello che è accaduto si tratta di un’attività di rebrandingovvero l’azione che un’azienda compie nel momento in cui decide di cambiare il proprio nome o dare una nuova identità al proprio brand.

Per quali motivi una società sceglie di adottare un nuovo nome? Le ragioni sono numerose: per mostrare un cambiamento di direzione, posizionarsi in modo diverso rispetto al passato, riportare l’attenzione su di essa, dichiarare in maniera marcata l’inizio di un nuovo percorso, guardare al futuro.

 

L’insieme di tutte queste motivazioni ha sicuramente spinto Facebook a ideare e creare un logo e un nome completamente nuovi e soprattutto coerenti con quello che ha intenzione di fare in futuro.

La società però non è cambiata completamente, infatti la mission di Facebook “dare alle persone il potere di costruire community e portare il mondo più vicino” è rimasta la stessa; è cambiato “solamente” l’approccio con il quale Facebook vuole lavorare per raggiungere la propria mission, ovvero per connettere le persone si impegnerà a sviluppare e portare in vita questa nuova dimensione e realtà chiamata metaverso.

 

La scelta del logo e del nome sono state studiate in maniera molto accurata e il risultato è sicuramente efficace: il nuovo logo, infatti, simbolizza la connessione infinita e senza limiti tra le persone, mentre la parola “meta” in greco antico significa oltre.

Per Zuckerberg, questa parola è simbolo del fatto che ci sia sempre qualcosa di più da costruire e che c’è sempre un nuovo capitolo nella storia di qualcosa, in questo caso di Facebook. Il founder del colosso mondiale ha inoltre spiegato che Meta ha intenzione di lavorare “oltre i limiti imposti dagli schermi, oltre i limiti spaziali e fisici e verso un futuro in cui tutti potranno essere più connessi gli uni con gli altri, per creare nuove opportunità ed esperienze e costruire un futuro che va oltre un’azienda e che sarà formato da tutti noi”.

Ha inoltre sottolineato il suo coinvolgimento totale nel progetto e ha promesso che il futuro che ci aspetta sarà al di là dell’immaginabile.

 

Cosa cambierà con il metaverso?

 

 

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Il commento di Adam Mosseri non si è fatto attendere, ed è partito con un appello a tutti gli utenti ma soprattutto ai creator di Instagram, coloro che creano abitualmente contenuti sui social, per aiutare a costruire tutti insieme il metaverso.  

Secondo Mosseri, in passato e al giorno d’oggi le persone riescono a connettersi tra di loro in maniera letteralmente piatta, a causa del limite fisico imposto dallo schermo materiale degli smartphone.

Grazie all’ispirazione presa soprattutto dal mondo del gaming, quindi grazie a piattaforme come Fortnite e Roblox, si è capita la necessità di creare esperienze ancora più immersive e di conseguenza più ricche per gli utenti.

Le due ragioni principali per cui le persone oggi usano Instagram sono per trovare intrattenimento nei contenuti e per connettersi con le persone: Whatsapp e Instagram danno la possibilità alle persone di restare collegate attraverso le videochiamate, ma rimane sempre il problema dello schermo piatto che non permette un vero contatto con gli altri; in futuro, invece, sarà possibile parlare e interagire con i propri cari trovandosi tutti insieme in una stanza.

Sempre secondo Mosseri, indipendentemente dal cambiamento di nome della società il mondo sta andando in questa direzione, e nei prossimi 10 o 5 anni Internet potrebbe essere completamente diverso da come lo conosciamo oggi.

 

Anche Mark Zuckerberg oltre ad aver organizzato la diretta ha deciso di comunicare con gli utenti scrivendo una lettera per spiegare ulteriormente l’introduzione di Meta, e ne ha parlato come l’inizio di un nuovo importante capitolo per la società ma anche per Internet.

La piattaforma che Zuckerberg sogna di realizzare permetterà di rendere ulteriormente gli utenti i veri protagonisti dell’esperienza sui social e non solo degli spettatori. L’unica differenza sarà che il mondo immaginato da Zuckerberg non avrà al suo interno corpi e oggetti costituiti da materia, ma da ologrammi: le persone diventeranno infatti avatar personalizzabili e gli oggetti con cui si potrà interagire saranno sempre degli ologrammi creati da creator e aziende di tutto il mondo.

Questo sarà possibile attraverso una serie di strumenti fisici che permetteranno di farlo, come, per esempio, potrebbero esserlo degli occhiali che grazie alla realtà aumentata e alla realtà virtuale faranno vivere le persone sia nel mondo fisico che in quello virtuale nello stesso momento.

 

L’importante è che tutte le persone vengano coinvolte all’interno di questo percorso di sviluppo del metaverso, e per farlo dovranno essere a conoscenza delle modalità con le quali questo avverrà, motivo per il quale Facebook si impegna sempre a rendere note tutte le informazioni attraverso gli articoli del proprio sito.

 

Vantaggi per aziende e soprattutto per i creator

 

Le reazioni delle persone in seguito alla scoperta della notizia si sono divise tra entusiasmo e perplessità, ma la verità è soltanto una: questa rivoluzione è già in atto e ormai non c’è alcuna possibilità di retrocedere.

L’unica cosa da fare è reagire, adattarsi a questo nuovo approccio tecnologico e cercare di costruire insieme questa nuova dimensione, dato che farlo non è un’opzione ma una necessità se si vuole avere successo o almeno essere presenti nel mondo del lavoro in futuro e per non restare tagliati fuori.

 

Secondo Zuckerberg i creator, creatori di contenuti, e gli sviluppatori informatici saranno fondamentali per questo processo di costruzione del metaverso: Facebook e tutti gli altri social sono infatti costituiti da persone e sono proprio le persone a dare vita alle piattaforme, dato che in caso contrario morirebbero.

I creator inoltre serviranno soprattutto per rendere un po’ più reale una dimensione completamente diversa dalla nostra realtà e alla quale non siamo ancora abituati, e dato che di reale ci sarà poco, gli utenti si sentiranno sicuramente rassicurati dal fatto che le piattaforme verranno almeno popolate da persone in carne ed ossa come loro.

 

Il metaverso sarà quindi principalmente costituito da avatar, che proprio come quelli di Fortnite, probabilmente avranno anche essi bisogno delle loro “skin” personalizzate.

Si potrebbe quindi pensare a numerose possibili collaborazioni anche tra brand di abbigliamento e Facebook in modo tale da poter costruire un business attorno a questa necessità. Magari in futuro, si potrebbe pensare a un maggiore acquisto di abbigliamento digitale anziché di quello materiale.

Anche in moltissimi altri settori ci saranno importanti cambiamenti: è probabile che nascano nuovi mercati, nuovi prodotti, nuovi servizi e che molti di quelli attualmente esistenti cessino di esistere.

Inutile dire che Facebook abbia oltretutto voluto sottolineare il positivo impatto ambientale che questo metaverso sarebbe in grado di portare, soprattutto grazie al fatto che in questo modo diminuirebbero numerosi consumi di beni materiali e di conseguenza sprechi e utilizzo di risorse limitate.

 

Trend e sviluppi futuri

 

Durante il Facebook Connect 2021 non si è parlato soltanto del cambio di nome della società, ma Zuckerberg e i suoi collaboratori hanno presentato diversi strumenti di supporto a questo mondo virtuale che stanno costruendo, tra cui Horizon Home, una piattaforma utile per aiutare le persone a interagire tra di loro all’interno del metaverso; si tratta di un primo sguardo a come potrebbe essere il mondo virtuale all’interno del quale le persone in futuro potrebbero trascorrere gran parte del loro tempo.

 

 

Oltre agli strumenti, ci sono diversi trend e contesti che Meta ha intenzione di sviluppare attraverso il metaverso, come, per esempio, il mondo del gaming, una tendenza che sta diventando sempre più importante e che nei prossimi anni ci accompagnerà sempre di più, il fitness, attività che presto verrà svolta maggiormente soprattutto da casa, il modo di lavorare e molti altri che Facebook ha raccontato in maniera completa all’interno di un articolo.

 

Che cosa ci possiamo aspettare dal futuro più prossimo? In questo articolo abbiamo spiegato che già qualche mese fa Zuckerberg aveva annunciato con entusiasmo la collaborazione tra Ray-Ban e EssilorLuxottica per la creazione di occhiali intelligenti utili a supportare e introdurre il mondo virtuale nelle nostre vite, cosa che però non è ancora accaduta dato il metaverso è ancora in costruzione.

 

La realtà è che la direzione in cui ci stiamo muovendo è questa e che il cambiamento è imminente.

In passato le persone si sono dovute adattare a cambiamenti importanti dovuti all’introduzione di innovazioni tecnologiche, come la radio, la televisione e lo smartphone, e quindi il metaverso non è altro che uno step successivo verso un ulteriore sviluppo tecnologico che nessuno può fermare.

 

Dobbiamo quindi attendere nuovi sviluppi, oppure, come vorrebbe Facebook, prendere parte a questo cambiamento e prepararci al fatto che molto presto saremo costretti non solo a navigare su Internet, ma a vivere in Internet.


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Ambiente, società e tecnologia

Che cos’è la COP26? Storia, protagonisti e obiettivi della conferenza di Glasgow

Rinviata al 2021 a causa della pandemia, la COP26 si sta svolgendo in questi giorni a Glasgow: è iniziata il 31 ottobre e terminerà il 12 novembre. Ma perché è un evento così importante? COP è acronimo di Conference Of Parties, ovvero la Conferenza delle Parti sul clima che riunisce tutti i leader mondiali, gli attivisti e i maggiori esponenti esperti di tematiche ambientali all’interno della comunità scientifica. L’obiettivo ultimo della COP26 è raggiungere un accordo sulle strategie da adottare per riuscire a contrastare gli effetti del cambiamento climatico da qui fino al 2030 e poi fino al 2050: questo decennio sarà determinante per il futuro del pianeta, perché rappresenta l’ultima possibilità per l’umanità di agire prima che sia troppo tardi.

 

Alla presidenza della COP quest’anno c’è il Regno Unito che insieme all’Italia si è posto come guida per contrastare l’emergenza climatica assumendo la presidenza anche di G7 e G20. L’accordo di partenariato tra la Presidenza italiana e la Presidenza britannica per la COP26 si è tradotto con l’organizzazione della pre-COP e dell’evento Youth4ClimateDriving Ambition a Milano tra il 28 settembre e 2 ottobre.

 

Ma come si è arrivati alla COP26?

La prima edizione della COP si tenne a Berlino nel 1995 e da allora rappresenta il principale strumento attraverso cui le parti dell’UNFCCC discutono e prendono decisioni riguardanti il cambiamento climatico. Durante la COP3, due anni dopo, venne adottato il Protocollo di Kyoto: fu uno dei primi tentativi di stabilire degli obiettivi chiari, condivisi e a lungo termine (dato che il periodo entro cui raggiungerli avrebbe dovuto essere il 2012) per i paesi industrializzati, a cui veniva attribuita una responsabilità maggiore nella riduzione delle proprie emissioni rispetto a quella dei paesi in via di sviluppo.

Nonostante queste premesse, il possibile impatto di questo strumento giuridico e politico è stato smorzato sia dalla decisione presa dagli USA di non ratificarlo, sia dalla sua entrata in vigore effettiva diversi anni più tardi, nel 2005. I problemi a cui bisogna rispondere sono in parte cambiati nel tempo: oggi un accordo del tutto simile a quello di Kyoto non attribuirebbe la giusta responsabilità ai paesi che hanno iniziato solo in tempi recenti a sfruttare intensivamente le fonti fossili per la loro industrializzazione, come la Cina, ma le cui emissioni annue rappresentano una fetta consistente del totale (il tema della “responsabilità condivisa ma differenziata” e della sua interpretazione attuale, soprattutto per quanto riguarda la Cina, è stato trattato anche qui).

 

Negli anni l’esigenza di un cambiamento radicale nel sistema produttivo per la riduzione delle emissioni e per il contrasto all’emergenza ormai in atto si era fatta sempre più evidente. Solo nel 2015 però, la COP21 adottò l’accordo di Parigi, poi entrato in vigore nel 2016, che sancisce l’impegno, anche a livello giuridico, nel contenere l’aumento della temperatura al di sotto dei 2°C, con l’obiettivo di limitare l’aumento non oltre 1,5°C. Uno strumento importante adottato insieme all’accordo è il GFC, il Green Climate Fund: un fondo destinato a raccogliere e indirizzare risorse finanziarie indispensabili per i paesi in via di sviluppo in vista di una crescita industriale, economica e sociale che sappia adattarsi ai cambiamenti in atto e a quelli ancora più destabilizzanti che avverranno nei prossimi anni. Per ora sono sotto implementazione progetti per 6,1 miliardi di dollari, ma l’obiettivo è arrivare a raccoglierne 10 miliardi.

 

Appuntamento a Glasgow: i grandi protagonisti

 

L’ultima Conferenza delle Parti, la COP25, si è tenuta nel dicembre del 2019, in un clima pre pandemico completamente differente da quello odierno. Allora, erano poco più di 190 i Paesi riuniti a Madrid e anche quest’anno c’è stata una conferma circa i numeri dei partecipanti; ciò che è cambiato è il ruolo e l’impegno degli Stati.

 

Nonostante il ben nutrito gruppo di rappresentanti, la scorsa COP si è conclusa con un nulla di fatto, complici anche le tensioni interne presenti all’interno di Cina, Cile, Francia e India: le prime tre erano alle prese con delle proteste civili mentre l’India, per la prima volta dopo molto tempo, si trovava a fronteggiare un momento di stallo economico.

 

Tra i partecipanti, quelli che si sono messi maggiormente in risalto sono stati gli Stati Uniti. La loro rilevanza è legata  alle dichiarazioni sul rientro degli USA nella High Ambition Coalition ossia un gruppo informale di circa 61 paesi sviluppati e in via di sviluppo che all’interno della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici si dichiara impegnato a portare avanti proposte più ambiziose rispetto ai target comunemente stabiliti. Altro protagonista indiscusso sarà il Regno Unito che annovera nella sua schiera sia Boris Johnson che il Principe Carlo. Il Regno Unito, essendo il paese ospitante, avrà un ruolo di spicco in tutta la rassegna e sarà chiamato a smussare i disaccordi in modo da poter scongiurare un nuovo fallimento.

 

All’appuntamento di Glasgow ci saranno anche dei grandi assenti. Non hanno risposto all’appello la Cina e la Russia che hanno mancato anche il G20 tenutosi nella settimana precedente alla COP. Tuttavia, fonti vicine ai rispettivi presidenti hanno fatto sapere che, sebbene i loro leader non saranno presenti fisicamente, entrambe le nazioni hanno inviato a Glasgow, in rappresentanza, alcuni delegati. Inoltre, pur non sedendo ai tavoli di discussione, il presidente cinese ha fatto pervenire in sede le proprie considerazioni in forma scritta.

 

La parziale assenza di questi due grandi del mondo incute timore in tutti coloro che guardano alla COP26 come l’ultima chiamata all’azione contro l’ormai imminente crisi climatica. Timore non infondato dato che sia la Cina che la Russia, in passato, hanno assunto dei comportamenti atti ad ostacolare il fronte comune internazionale.

 

Gli obiettivi della COP26

 

Le strategie di azione possono essere ricondotte a due principi nella lotta all’emergenza climatica: adattamento e mitigazione. Come due facce della stessa medaglia, sono interconnessi tra loro. Introdotto con l’Accordo di Parigi adattamento significa mettere in atto azioni che mirino a limitare i danni causati dal cambiamento climatico, agendo direttamente sul problema adeguandosi ad esso. Il termine mitigazione, invece, fu introdotto nel Protocollo di Kyoto, e significa attuare misure affinché si possa contrastare questo cambiamento.

 

Questi principi sono ispiratori dei punti per cui dovranno essere negoziati accordi e strategie durante la COP26:

 

  • Azzerare le emissioni nette a livello globale e limitare l’aumento delle temperature 1,5 °C entro il 2050. Per fare questo tutti i Paesi dovranno impegnarsi nella riduzione della deforestazione, accelerare la transizione ecologica, abbandonando le fonti fossili e investendo in quelle rinnovabili.
  • Salvaguardare gli ecosistemi e le comunità umane nei luoghi dove il cambiamento climatico sta avendo il suo maggiore impatto e anche nei luoghi in cui avrà conseguenze in futuro: il cambiamento, infatti, è già in atto e provocherà effetti devastanti anche “azzerando le emissioni domani”. Bisogna dunque mettere i paesi colpiti nelle condizioni di essere in grado di proteggere e ripristinare gli ecosistemi ma anche costruire strutture più resilienti, per contrastare la perdita di infrastrutture, mezzi di sussistenza e vite umane e per limitare le migrazioni climatiche.
  • Mantenere la promessa, fatta dai Paesi sviluppati, di mobilitare almeno 100 miliardi di dollari l’anno tra finanza pubblica e privata per il clima entro il 2020 affinché si possano raggiungere i primi due obiettivi.
  • Lavorare insieme, adottando il “Libro delle Regole” per rendere realmente operativo l’Accordo di Parigi e rafforzando gli impegni tra tutti i membri della società, i governi ma anche i singoli cittadini.

 

La collaborazione tra tutti i componenti della società è anche ciò che chiedono le nuove generazioni. Durante l’incontro Youth4Climate, più di quattrocento giovani rappresentanti hanno redatto il manifesto per il clima consegnato poi ai leader mondiali. Dal manifesto emerge il tema della partecipazione dei giovani e in particolare, anche di tutti gli organi non statali della società, che dovrà essere sempre più consapevole dell’emergenza climatica e impegnata in una ripresa sostenibile dopo la pandemia. I  giovani sono infatti quelli più minacciati dal cambiamento climatico poiché il loro futuro è a rischio.

 

Quelli della COP26 sono obiettivi molto ambiziosi, ma non è più possibile che l’Homo Sapiens si sottragga dalle responsabilità che ha verso il Pianeta. Le conseguenze dei cambiamenti climatici, che conosciamo bene, riempiono già i notiziari e non possiamo lasciar correre altro tempo, perché  i “BLA BLA BLA” non salveranno la vita di miliardi di persone: occorre agire e occorre farlo ora.

 

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Ambiente, società e tecnologia

Perché si dovrebbe continuare ad essere contro il nucleare. Intervista a Gian Piero Godio

Il tema del nucleare in Italia potrebbe essere assimilato all’immagine di un fuoco che continua a bruciare sotto le ceneri. Sono due i referendum che nella storia del nostro paese hanno bocciato sonoramente l’energia dell’atomo eppure, di tanto in tanto, questa tematica torna a conquistare le luci della ribalta spaccando in due fazioni nette l’opinione pubblica.

 

Da qualche mese l’argomento è tornato ad essere particolarmente caldo soprattutto a seguito di una serie di dichiarazioni, poi in parte ritrattate, fatte dal Ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani. In particolare, l’invito del Ministro è stato quello di accantonare le vecchie ideologie e di guardare alle nuove tecnologie nucleari come al mezzo per raggiungere gli obiettivi europei di neutralità climatica. Per fare chiarezza sull’argomento abbiamo invitato nella nostra redazione Gian Piero Godio di Legambiente e Pro Natura del Vercellese, la zona più nuclearizzata di tutta Italia.

 

Gian Piero Godio, benvenuto nella nostra redazione, la prima domanda che le faccio arriva direttamente dal discorso del Ministro Cingolani. Può il nucleare essere la chiave di volta per il raggiungimento degli obiettivi internazionali di azzeramento delle emissioni?

 

Innanzitutto oggi in Italia non abbiamo certo bisogno di cercare i pro e i contro del nucleare sull’enciclopedia.

 

Infatti è di dominio pubblico che le quattro centrali nucleari italiane di Trino (VC), Caorso (PC), Latina, e Sessa Aurunca (CS), in tutta la loro esistenza, hanno complessivamente prodotto energia elettrica per 91 miliardi di chilowattora. Sembrano tanti, ma occorre tenere presente che gli impianti fotovoltaici esistenti in Italia, solo negli ultimi quattro anni, ne hanno prodotti oltre 95 miliardi.

 

In compenso queste quattro centrali nucleari hanno lasciato rifiuti radioattivi che resteranno tali per migliaia di anni e che ad oggi nessuno sa ancora dove collocare in condizioni di relativa sicurezza: anche le prime risultanze del seminario organizzato da Sogin attualmente in corso per l’individuazione del Deposito nazionale per le scorie testimoniano che nessuno, in Italia, vuole avere materiale radioattivo sul proprio territorio.

 

Per non parlare delle emissioni climalteranti e dei costi dovuti a quei pochi chilowattora di origine nucleare, perché, per ogni chilowattora, vanno calcolati il costo e l’inquinamento dovuti all’estrazione del minerale contenente uranio, quelli dovuti alla sua raffinazione, all’arricchimento, alla costruzione e gestione della centrale, al suo smantellamento, e infine, alla conservazione delle scorie radioattive per migliaia di anni.

 

Insomma, il nucleare, di qualsiasi tipo, è l’alternativa peggiore!

 

Introdurre oggi il nucleare in Italia sarebbe una scelta economicamente sostenibile?

 

Non è questo l’aspetto che più mi interessa, ma in ogni caso l’esigenza di dotare il nucleare di un numero sempre maggiore di dispositivi al fine di cercare di contenere almeno in parte i rischi che ne derivano ha fatto sì che i costi siano saliti a livelli tali da rendere il nucleare insoddisfacente persino dal punto di vista economico, come dimostra la scarsa penetrazione di questa tecnologia il cui contributo in termini di energia primaria a livello mondiale nel 2020 è stato del solo 4,31%, come si rileva dalla prestigiosa pubblicazione, non certo di fonte ambientalista.

 

 

Partendo dal presupposto reale che il “rischio zero” non esiste. C’è davvero un problema di sicurezza legato alle centrali nucleari? E qual è il rischio legato al conferimento delle scorie?

 

Non è solo questione del pessimo rapporto tra i benefici (pochi) e i rischi e i costi (tanti, in proporzione). Infatti, come scriveva Giuliano Martignetti nel suo Dizionario dell’Ambiente (ISEDI 1995), “il “nucleare”, al di là della sua realtà concreta, è venuto assumendo nel corso degli anni un valore fortemente simbolico, discriminante fra due idee antitetiche dell’uomo e del suo futuro nel mondo: da un lato l’uomo faustiano, teso al dominio dell’ambiente naturale, convinto di potere, con la sua tecnica e la sua industria, forzare indefinitamente i limiti dello sviluppo, dall’altra l’“uomo nuovo” ecologico che prende atto della sua appartenenza alla natura e della necessità di ristrutturare in armonia con essa la propria società e la propria economia”.

 

Specificamente poi per quanto riguarda i problemi di sicurezza delle centrali e dei depositi nucleari basterebbe pensare che il territorio italiano è stato recentemente esaminato sulla base dei criteri di esclusione fissati da ISPRA, per ragioni appunto di sicurezza, sulla base della esperienza internazionale, e dall’esame è risultato già escluso da subito oltre il 99% dei Comuni.

 

Poiché l’uranio presente in Italia sarebbe insufficiente per sostenere un apparato nucleare. Ha senso parlare di fine della dipendenza dai paesi esteri?

 

Forse chi parla di “fine della dipendenza dai paesi esteri” si riferisce alla fusione nucleare, cosa fisicamente completamente diversa dalla “fissione nucleare” utilizzata fino ad ora, ma non per questo tanto migliore per quanto riguarda il problema dei costi, dei rischi e del potenziale utilizzo militare.

 

Effettivamente questa tecnologia non utilizza l’uranio, ma non è per nulla esente da problemi di radioattività, in quanto i neutroni generati dalla fusione renderebbero radioattive le strutture e genererebbero quindi scorie radioattive, certamente diverse da quelle derivanti dalla fissione, ma pur sempre radioattive per tempi dell’ordine di “solo” trecento anni, e che dentro la centrale nucleare  a fusione si riformerebbero giorno per giorno mettendo quindi in continuazione a rischio i trecento anni successivi.

 

C’è davvero la possibilità, secondo lei, di aprire nuovamente un referendum per il nucleare? E qualora avvenisse quali sono i suoi motivi per ribadire il no?

 

In Italia la contrarietà all’utilizzo del nucleare è stata democraticamente e ufficialmente stabilita in ben due referendum, che si sono svolti nel 1987 e nel 2011, in occasione dei quali, proprio nei luoghi dove il nucleare era ben conosciuto e rappresentava anche una rilevante fonte di occupazione, quali Saluggia e Trino, in Piemonte, la maggioranza assoluta dei cittadini aventi diritto al voto si è pronunciata contro questa tecnologia.

 

In risposta a chi – anche allora – proponeva il nucleare per contrastare l’alterazione del clima, l’inquinamento dell’aria ed i conflitti dovuti al controllo sul petrolio in esaurimento, i volantini di Pro Natura e di Legambiente dicevano testualmente: “Diciamo SÌ all’efficienza, SÌ all’energia solare, ma diciamo NO al nucleare, perché le centrali nucleari:

 

  • rappresentano la soluzione più pericolosa ai problemi creati dai combustibili fossili, sia in termini di sostanze tossiche che vengono create per ogni chilowattora di energia elettrica prodotta, sia ancor più in termini di sostanze tossiche che vengono create per ogni chilogrammo di CO2 evitata;
  • nell’azione di rallentamento dei cambiamenti climatici sono poco tempestive e scarsamente efficaci, a causa dei lunghi tempi di realizzazione e delle notevoli emissioni prodotte nella costruzione, nello smantellamento ed anche nell’approvvigionamento dell’uranio, specie se si dovrà utilizzare minerale povero;
  • le riserve di uranio vantaggiose sono limitate, mentre l’utilizzo del minerale povero comporta alte emissioni e alti costi; il riciclo dell’uranio comporta il riprocessamento con alti rischi ambientali e pericolo di proliferazione del plutonio per le bombe; l’autofertilizzazione comporta un ulteriore aumento dei rischi ambientali e di proliferazione;
  • durante il funzionamento producono al loro interno rifiuti altamente radioattivi che in caso di incidenti possono essere proiettati all’esterno e che, in ogni caso, rimangono pericolosi per migliaia di anni;
  • emettono, durante il loro normale funzionamento, rifiuti radioattivi liquidi e gassosi che sottopongono i cittadini ad esposizioni ufficialmente definite “basse”, ma non per questo meno pericolose in termini collettivi;
  • possono, insieme ai depositi nucleari e agli impianti di riprocessamento, essere un tragico bersaglio per atti terroristici devastanti;
  • comportano la produzione di plutonio e uranio impoverito, che possono avere impiego nel settore militare;
  • non hanno un costo competitivo, specie se il minerale da cui si ricaverà l’uranio sarà sempre più povero, se si dovranno costruire gli impianti di riprocessamento e di autofertilizzazione, e se si considera anche il costo dello smantellamento e della custodia millenaria delle scorie radioattive;
  • sottraggono ai cittadini la possibilità di essere essi stessi produttori di energia, relegandoli ad essere solo consumatori passivi di energia prodotta centralmente;
  • subordinano la sicurezza di approvvigionamento elettrico alle disponibilità di Uranio e, anche in caso di riprocessamento e/o di autofertilizzazione, a tecnologie complesse di difficile controllo democratico e di difficile mantenimento in situazioni di difficoltà sociali o belliche;
  • costringono ad una militarizzazione del territorio, per prevenire i terribili effetti di eventuali atti terroristici;
  • richiedono investimenti ingentissimi, che vengono così sottratti alle fonti energetiche rinnovabili e pulite, quali l’efficienza e il solare”.

Continuiamo a pensarla così anche oggi!

 

Uno slogan molto in voga è “se non sei a favore del nucleare non sei davvero ambientalista”, come replicherebbe?

 

Per prima cosa chiederei al mio interlocutore di qualificarsi e di spiegare la ragione per la quale si sente abilitato a conferire patenti di ambientalismo!

 

Oggi si vede bene che, come ricorda il professor Angelo Tartaglia, fisico e ingegnere, già docente del Politecnico di Torino, “dietro questi ritorni di fiamma verso il nucleare c’è la mitica aspirazione a una fonte d’energia a buon mercato e soprattutto “inesauribile”, cioè il sogno di chi preferisce inseguire le favole, travestite da miracolo tecnologico, piuttosto che dismettere il dogma dell’assoluta priorità dell’egoismo individuale come motore di un mitico progresso fondato sulla infinita crescita di qualsiasi cosa”.

 

E pur di non rinunciare a questo mito, ecco comparire nuovi tipi di nucleare, a partire da quello originale, detto di prima generazione, per passare a quello di seconda generazione, poi di terza, e oggi di quarta generazione, in una sorta di accanimento terapeutico che tenta di tenere in vita una tecnologia che è ormai deceduta a causa dei suoi problemi di sicurezza, di costi e di possibile utilizzo in campo militare.

 

Così vengono via via proposti vari reattori che sono, ad esempio:

 

  • di taglia più piccola (così però ne sarebbero necessari più tanti, con un rischio complessivo maggiore);
  • raffreddati con una miscela di bismuto e piombo fusi (che vedrebbe inevitabilmente il bismuto trasformarsi nel pericolosissimo polonio radioattivo);
  • a fusione, anziché a fissione (ma i neutroni generati dalla fusione renderebbero radioattive le strutture e genererebbero quindi scorie radioattive, certamente diverse da quelle derivanti dalla fissione, ma pur sempre radioattive per tempi dell’ordine di “solo” trecento anni, e che dentro la centrale si riformerebbero giorno per giorno mettendo quindi in continuazione a rischio i trecento anni successivi);
  • oppure quelli le cui scorie radioattive verrebbero trasmutate in prodotti a rapido decadimento (con processi però molto complessi che aumenterebbero rischi e costi).

 

Insomma, il nucleare sicuro, pulito, pacifico ed economico è un vero e proprio ossimoro, ossia una contraddizione in termini, come il SUV ecologico, l’inceneritore pulito, la caccia sostenibile, eccetera.

 

In questo ci conforta anche il parere del professor Giorgio Parisi, proclamato Premio Nobel per la fisica pochi giorni fa, il quale da sempre ha fatto rilevare l’inadeguatezza e la pericolosità del nucleare, come possiamo vedere nelle interviste da lui rilasciate ad esempio in occasione del referendum sul nucleare del 2011.

 

Infine gli farei notare che forse è meglio lasciare il nucleare sul Sole, dove la fusione avviene naturalmente e senza rischi per gli abitanti della Terra, e utilizzare invece l’energia solare nelle sue varie forme, dirette e indirette, che da qualche anno sono diventate convenienti anche dal punto di vista economico.

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Ambiente, società e tecnologia

Perché l’energia nucleare è una risorsa per un futuro sostenibile

Intervista a Luca Romano, fisico e divulgatore scientifico pro-nucleare

A favore dell’energia nucleare, contro l’energia nucleare: se da una parte c’è consenso sui vantaggi che questa fonte potrebbe portare come forte contributo alla decarbonizzazione del settore energetico e di molti sistemi produttivi, dall’altra persistono forti dubbi sulla sua fattibilità in Italia e sulla sua accettazione da parte dell’opinione pubblica.

 

Le ragioni per essere pro-nucleare stanno emergendo nell’ambito della comunicazione della scienza grazie anche a progetti come “l’Avvocato dell’Atomo”: abbiamo intervistato Luca Romano, fisico e divulgatore scientifico, per parlare del perché si dovrebbe ricominciare a discutere un progetto di sviluppo nucleare per l’Italia e del perché non sia troppo tardi per ripensare la nostra posizione collettiva sul tema, anche a seguito dei due referendum del 1987 e del 2011.

 

Partiamo da uno dei dubbi che più suscita preoccupazione tra chi si avvicina a questo tema: qual è la probabilità reale che incidenti gravi come quelli di Chernobyl e Fukushima possano ripetersi?

Ci sono dei rischi legati alle centrali, anche minori, che non possiamo escludere e che vanno necessariamente considerati nella valutazione dei costi e dei benefici?

La probabilità è molto difficile da calcolare, ma posso darti un numero: i reattori di ultima generazione hanno delle core damage frequencies di circa  eventi per anno, il che significa che un incidente in grado di danneggiare il nocciolo del reattore si verificherebbe, in media, ogni dieci milioni di anni. Questo però non significa ancora un danno grave all’esterno: ci sono stati casi di reattori che hanno avuto problemi al core che non hanno causato alcuna dispersione radioattiva (come quello di Lucerna o di Three Mile Island) per cui ci si attesta su probabilità infinitesime. Questa percezione alterata del rischio potrebbe essere paragonata a quella di chi nel passato si preoccupava di poter entrare in contatto con il virus Ebola, ma fumava venti sigarette al giorno.

 

L’energia nucleare è sostenibile da un punto di vista economico, in particolare in Italia?

 

La sostenibilità dal punto di vista economico dipende in larghissima parte dal meccanismo con cui si decide di finanziare la costruzione di una centrale: il nucleare ha i suoi costi distribuiti in maniera molto diversa rispetto ad altre forme di energia. In sostanza, quando costruisci una centrale nucleare si paga “tutto” subito perché il costo della centrale e gli interessi del finanziamento costituiscono quella che sarà poi la grandissima parte del costo dell’energia. I costi operativi invece sono molto bassi, principalmente perché l’uranio costa molto poco rispetto all’energia che produce: dipende tutto dall’avere un buon piano di finanziamento e un buon piano di rientro degli investimenti.

 

Il nucleare richiede stabilità e convergenza politica: se oggi decidiamo di costruire una centrale, significa investire parecchi soldi; se questa centrale viene terminata dopo aver fornito energia per sessanta o settant’anni, si può rientrare nei costi e anzi, questa fonte diventa molto redditizia. Se invece il governo successivo cambia direzione e la centrale chiude dopo soli cinque anni di operatività, si perdono miliardi. Allo stesso modo, se lo Stato garantisce o finanzia parte della costruzione i tassi di interesse si abbassano, mentre se l’investimento è lasciato tutto ai privati c’è un profilo di rischio più alto e i tassi di interesse si alzano. Sono questi gli aspetti che rendono il nucleare costoso e moltissimo dipende da quanto un paese è serio nelle sue prospettive di investimento sul nucleare.

 

L’energia nucleare è una valida alleata per un programma di riduzione delle emissioni? Ma soprattutto, siamo in tempo per contribuire alla decarbonizzazione con le centrali nucleari, in vista dell’obiettivo “Net 0”?

 

L’energia nucleare è tra le fonti energetiche a emissioni più basse e generalmente ad impatto ambientale più basso di tutte. A differenza delle fonti rinnovabili è in grado di fornire energia in maniera continua, con un capacity factor molto alto, superiore al 90%. Questo la rende ideale per fare da complemento, assieme alle rinnovabili, per la parte fissa del carico di rete, che viene definita carico di base.

 

Abbiamo tempo? La risposta è sì: una centrale richiede tra i cinque e i sei anni per essere costruita (alcune hanno richiesto più tempo, ma sono state l’eccezione e non la regola). L’energia nucleare ha assolutamente un ruolo da giocare: lo si può vedere guardando l’elenco dei paesi europei che emettono di meno, perché sono sostanzialmente quelli che utilizzano più nucleare (Francia, Svezia, Finlandia e Norvegia, che può contare molto sull’idroelettrico e quindi riesce a fare a meno del nucleare). Guardando le emissioni per punto di PIL si nota che, rispetto agli altri paesi occidentali, la Francia si distacca nettamente verso il basso proprio perché utilizza moltissimo il nucleare, dato che possiede quasi un reattore per ogni milione di abitanti. Il nucleare deve far parte delle strategie per arrivare a Net 0 nel 2050, e per questo abbiamo tempo. Se invece parliamo delle strategie per il 2030, allora no, non potremo contare troppo sul nucleare, soprattutto qui in Italia.

 

La domanda precedente nasce proprio dal fatto che anche chi è a favore del nucleare come fonte di energia sostenibile pensa che ormai sia troppo tardi per l’Italia…

 

Al momento non ci sono molte alternative. Se una persona non vuole il nucleare perché “non abbiamo tempo”, che cosa propone? Le energie rinnovabili non bastano perché ad oggi la loro tecnologia non è sufficiente a coprire il carico di base. La scelta è tra provarci con il nucleare, magari arrivando in ritardo, o non provarci neppure. Per il 2030 abbiamo obiettivi di riduzione di più del 50% rispetto alle emissioni del 1990 e che si possono raggiungere anche senza il nucleare, in parte sfruttando le rinnovabili, ma soprattutto puntando su un significativo efficientamento energetico e sulla conversione della mobilità verso l’elettrico. Dal 55% all’azzeramento delle emissioni nette, per cui la data è fissata al 2050, il tempo per il nucleare c’è e in abbondanza.

 

Quale dovrebbe essere il ruolo ideale per questo tipo di energia?

 

Il suo ruolo primario inizialmente sarà la produzione di energia elettrica per il soddisfacimento del carico di base, ma potrà essere utilizzata per il teleriscaldamento, per produrre idrogeno, per decarbonizzare una altri settori che oggi sono ancora molto carbon-intensive, ovvero ad altissime emissioni (come quello dell’acciaio e del cemento). Abbiamo energia nucleare da circa settant’anni, un domani le possibilità potrebbero essere moltissime. Pensiamo ai combustibili fossili: oggi riusciamo a sfruttarli in modi che nel diciottesimo secolo non saremmo mai riusciti a immaginare. Per il nucleare vale lo stesso discorso: siamo all’inizio della sua “era” e non possiamo ancora immaginare le sue possibilità. Potrei fare un elenco di applicazioni, ma chissà per che cosa verrà utilizzato tra 100 anni!

 

In quali nuove forme potremmo fruirne?

 

Potremmo parlare di SMR, ovvero di small modular reactors: all’inizio della storia del nucleare un reattore piccolo richiedeva lo stesso tempo di costruzione, ma non costituiva un vantaggio economico rispetto a uno grande. Oggi li stiamo riscoprendo perché abbiamo la possibilità di produrli in serie in fabbrica, trasportarli dove serve e assemblarli. La serialità e la standardizzazione dei processi produttivi costituiscono allora un vantaggio economico. Il nucleare promette di poter essere una tecnologia meno imponente e più fruibile, ma attenzione: quando si parla di SMR si parla di centinaia di Megawatt di potenza, non potremmo certamente metterli in cantina e alimentare con essi un condominio. Invece di avere una grande centrale da sei o sette Gigawatt, avremmo una serie di centrali più piccole in grado di alimentare una città grande come Torino, Milano o anche Bergamo o Brescia. Avere un reattore più piccolo consente di seguire meglio il carico, di averlo più vicino alla città e quindi di usare il calore di scarto per il teleriscaldamento, oltre ad una serie di altre applicazioni che la centrale grossa non consente. La serialità e l’accorciamento dei tempi consentono modelli di finanziamento diversi che abbattono i costi capitali: invece di impiegare cinque anni per costruire un reattore da 1 GW, ne impiegheremmo uno per costruire un reattore da 200 MW che inizierebbe a produrre energia e aiuterebbe a pagare i costi per gli altri SMR. Per ogni Megawatt di potenza costa meno il reattore grande, ma con gli SMR si finisce per avere un costo minore, perché inizi a ripagare prima gli interessi che in questo modo non si accumulano.

 

Tornando a parlare dell’Italia, il rischio sismico, l’eventuale mancanza di luoghi in cui stoccare i rifiuti, una possibile intrusione della criminalità organizzata sono problemi concreti?

 

Posso darti qualche dato: in Italia, zona sismica, la massima PGA (Peak ground acceleration, ovvero la “misura della massima accelerazione subita dal suolo durante un terremoto”) prevista sulle mappe sismiche è 0.35 g, ciò significa che durante un terremoto la sollecitazione del terreno a cui viene sottoposto il terreno è pari a circa un terzo di quella dell’accelerazione di gravità. Consideriamo che a 0.3 g crolla la maggior parte degli edifici e che a 0.5 g crollano gli edifici antisismici; le centrali nucleari moderne sono fatte per resistere a 0.8 g, con un nocciolo fatto per resistere a 1 g. Praticamente nessun terremoto in Italia sarebbe in grado di impensierire una centrale nucleare, ma se ne arrivasse uno di tale entità il rischio legato alle centrali sarebbe l’ultimo dei nostri problemi, perché crollerebbe tutto il resto nel raggio di centinaia di chilometri dall’epicentro.

 

I siti per il deposito dei rifiuti radioattivi, con le giuste condizioni geologiche e idrogeologiche, ci sono: Sogin, la Società Gestione impianti nucleari, ne ha individuati 67 e il fatto che non si riesca a sceglierne uno è dovuto all’opposizione dell’opinione pubblica. Una condizione che una centrale deve soddisfare è quella di essere situata vicino al mare o vicino a un grande corso d’acqua per il raffreddamento, ma dato che siamo circondati dal mare non si pone il problema.

 

Per quanto riguarda la mafia, questa è un’obiezione difficile da scalfire: dimostrare che non farebbe qualcosa, proprio perché logicamente non si può provare, è impossibile. Si può dire però che il rischio di un’infiltrazione è tutto sommato basso. Una centrale nucleare, essendo una tecnologia complessa, richiede moltissima collaborazione, diversi players e controlli nazionali e internazionali; dunque è improbabile che la criminalità organizzata possa infiltrarsi con la stessa facilità con cui lo fa, per esempio, nella costruzione di un palazzo abusivo, controllata da ditte locali. Se dovessimo costruire in Italia ci rivolgeremmo a EDF, che costruisce i reattori francesi, che a sua volta fa produrre i componenti a diverse parti in tutto il mondo. Credo sia difficile che la mafia possa inserirsi e corrompere centinaia di agenzie internazionali, come IAEA, l’Agenzia Internazionale per l’energia atomica, e commissioni regolatrici italiane ed europee. Per quanto riguarda i rifiuti radioattivi, se venissero seppelliti abusivamente verrebbero rilevati molto più facilmente rispetto ad altri tipi di rifiuti tossici proprio a causa della maggiore concentrazione di radioattività.

 

Quanto pesano i dubbi scientifici degli esperti rispetto a quelli generati dalla diffidenza, dalla disinformazione, dalle opinioni personali? E da divulgatore scientifico, come pensi si stia evolvendo la consapevolezza del pubblico?

 

Oggi l’ostacolo ad avere un dialogo politico sul nucleare è dovuto alla presenza di un terrore atavico attorno a questo tema. Un tecnico o uno scienziato contrario al nucleare solitamente non pone la questione sul piano del rischio o della produzione delle scorie, ma soprattutto su quello economico. Le persone spaventate da questo tipo di energia costituiscono però una base elettorale larga a cui nessun politico vuole rinunciare, dunque si tende a parlarne poco.

 

Osservo però, da divulgatore, che la situazione sta cambiando, sempre più persone cominciano a guardare i numeri e a considerare il nucleare come un’opzione: questo si traduce nel fatto che i politici inizino a parlarne; fino a 6 mesi fa ne parlavo io su Facebook, ora se ne dibatte in un ambito più mainstream. La posizione pro nucleare non è ancora vincente ed è portata avanti, secondo me, per le ragioni sbagliate, soprattutto dai partiti di destra: parlo di un discorso di sovranità energetica, che seppur legittimo, è meno importante dell’aspetto ambientale. Con la pazienza e la divulgazione fondata sui dati non si convincono tutti, ma pian piano si convincono sempre più persone.

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Ambiente, società e tecnologia

Il mondo del lavoro è in continuo mutamento: la risposta è nell’evoluzione sociale

La società moderna, come afferma lo stesso Zygmunt Bauman (sociologo e filosofo del lavoro e della modernità), è come “un mondo che cambia continuamente, rifiutando la verità della conoscenza esistente“.

 

Ne consegue che tale visione interessi anche la sfera lavorativa stessa, al punto che “l’etica del lavoro si svuota del proprio significato, tanto che si perde l’attenzione nei confronti del lavoratore e a sua volta il capitalista viene divorato dal meccanismo della competizione“.

 

Per capire come si è giunti a questo risultato “globale” e così comprendere le dinamiche dietro il cambiamento del settore lavorativo, di seguito verranno analizzati i processi economici, politici e sociali che hanno interessato l’uomo nel momento in cui si è costituito in gruppi di persone.

 

 

In principio: la causa

 

Il periodo interessante per il ragionamento sociologico in atto, si può far risalire a quando gli uomini iniziarono a stabilire delle gerarchie “territoriali” (in base alla supremazia intellettuale o fisica) e a costituirsi in società (per prevenire rappresaglie con uomini dello stesso luogo). Iniziano a condividere le stesse paure e gli stessi pensieri, pena l’esclusione dal gruppo. La paura di cui si parla è quella “cosmica“, coniata dal filosofo russo Michail Bachtin. Si tratta di una paura che nasce in funzione dei limiti umani (cognitivi e pragmatici) e dei fenomeni naturali (ancora inspiegabili); condizioni che innescano reazioni o necessità di sicurezza nelle coscienze degli uomini, appoggiandosi ai poteri forti, gli unici in grado di trovare delle soluzioni ad hoc (anche se la soluzione è plasmare le loro menti e obbligarli a vivere in situazioni di restrizioni).

 

È lo stesso principio su cui viene costruito il paradigma del taylorismo: non a caso la sua attuazione nel campo dell’industria porta il nome di fordismo (ove la stabilità economica, tra l’altro, è ritrovata nel maggior legame tra capitale e lavoro).

 

Ma è proprio la catena di montaggio, questa innovazione tecnologica, a preannunciare l’inizio di uno sviluppo del terziario inarrestabile. Il passaggio dalla modernità alla postmodernitàa causa della globalizzazioneporta con sé nuovi cambiamenti ma anche nuove necessità: “La compressione dell’obbligo spazio e del tempo racchiude le multiformi trasformazioni che stanno investendo le condizioni dell’uomo oggi“.

 

In conclusione: l’effetto

 

E dato che l’uomo si deve adeguare agli avvenimenti che si susseguono e alle possibilità desiderate o meno che l’interazione con l’estero può dare, si aziona una gara al migliore. Da un punto di vista sociale e psicologico si passa anche ad una “paura ufficiale” ovvero ad una paura progettata e costruita a misura d’uomoper portarlo all’individualismol’uomo ha perso ed è stato privato di ogni punto di riferimento, si sente vivere in uno stato di rischio perenne e senza alcuna tutela degli organi preposti.

Per mantenere viva questa paura, viene concessa una libertà mai assaporata prima: i lavoratori, nel caso in esame, diventano arbitri liberi ovvero uomini responsabili della risoluzione di problemi generati da circostanze in continuo cambiamento e responsabili, quindi, delle scelte che ne deriveranno. Una forma di libertà mai assaporata prima, una forma di libertà che viene vista anche come un nuovo modo per mantenere viva la paura ufficiale.

E ovviamente non esistono ricette che sia possibile seguire e che consentano di evitare errori o a cui sia possibile attribuire la colpa in caso di insuccesso.

 

Tutto questo porta alla nascita di lavoratori precari, di “elementi” più facilmente sostituibili nel sistema economico; di conseguenza, non vi è alcun motivo di sviluppare un attaccamento al lavoro o di instaurare rapporti duraturi con i colleghi. Anche le abitudini e i ricordi passati devono venir meno. Devono sempre mutare il ruolo, avere capacità di learning ability; infatti, secondo il report del 2020 del World Economic Forum i lavoratori si sarebbero visti costretti a fare azioni di upskilling e reskilling.

Nel privato si respira la stessa aria: l’incertezza lavorativa non viene condivisa e viene meno la volontà di lottare per una causa comune. Gli stessi legami interpersonali sono fugaci, fluidi, privi di profondità e lo scenario entro cui si realizzano è la rete.

 

Una causa (conseguente e concatenata), la si ritrova nella sfera politica: dal punto di vista politico, il potere diventa extraterritoriale in quanto si sposta in un ambiente globale, lontano dal controllo politico. “Al contrario, le istituzioni politiche rimangono relegate nei propri confini locali restando incapaci di agire a livello planetario. E questa perdita di potere genera le linee di una qualsivoglia azione collettiva, minando le fondamenta sociali della solidarietà“.

 

L’ultimo passaggio chiave dello studio sul cambiamento del mondo del lavoro, risiede nella sfera economica dei suoi strumenti di scambiosi è passati, nel corso delle varie “vicissitudini”, da un capitale solido (che vede uno stretto legame col lavoratore) ad un capitale liquido ove sussiste uno stretto e controverso legame tra capitale e consumatore, più libertà economica degli azionisti ma anche più rischio di esposizione alla concorrenza.

 

Non si parla più di Postmodernità ma, appunto, di Modernità liquida (dall’omonimo libro di Bauman) dove le parole chiave sono velocità, narcisismo, sensation seeking, ambiguità e non definizione, rinuncia al futuro, precarietà, procrastinazione (brevità delle riflessioni e ritardo della gratificazione), consumismo e frustrazione (soprattutto per il povero che cerca di standardizzarsi agli schemi comuni ma non ci riesce).

 

Le aziende di oggi quali azioni compiono?

 

Le aziende, come i lavoratori, a causa della rete e della globalizzazione, si sono trovate di fronte ad un mercato del lavoro sempre più ampio, quasi privo di confini.

Se si aggiungono a ciò, le necessità sorte con l’arrivo della pandemia, la distanza si è ulteriormente estesa arrivando ad interessare  la presenza fisica in sé di aziende e persone: vuoi per i costi, vuoi per praticità o adattamento, il lavoro da remoto è diventato l’unica soluzione (gradita) in questo cambiamento.

 

Ma da remoto è vero anche che viene meno la capacità di cogliere l’essenza vera e propria del candidato (lo schermo, come detto precedentemente, rende tutto impersonale, come se fosse un filtro) e non si può essere certi dell’effettiva veridicità delle parole del candidato (anche in qualità delle capacità tecniche decantate).

 

Così le aziende si sono dovute affidare a prove pratiche quali progetti o game da remoto (riuscendo, tralaltro, a fare una scrematura iniziale).

È innegabile che dall’ingresso della tecnologia, le nuove invenzioni, pensate per far fronte ai cambiamenti in atto, finiscono per produrre soltanto nuovi cambiamenti.

 

 

Ed è possibile che esista già un nuovo modo di fare, cercare e trovare lavoro?

 

È ancora in fase di sperimentazione ma si ipotizza che questa intuizione possa aiutare aziende e lavoratori senza troppi stravolgimenti: l’aiuto arriva proprio da TikTok con la sua estensione “TikTok Resumes“; avente lo scopo di raggiungere il target odierno dei nuovi lavoratori (quelli della Generazione Z). L’idea nasce dal numero sempre più crescente di video dall’#CareerTok, contenenti TIPS e consigli su tutto il mondo del lavoro (dalla creazione di CV originali a come sostenere un colloquio di lavoro).

Questa iniziativa è stata portata avanti solo negli Stati Uniti e aveva come scadenza il 31 Luglio.

 

Il processo di candidatura prevedeva che gli interessati esaminassero su www.tiktokresumes.com le offerte di lavoro delle aziende aderenti al programma (tra le quali TargetSony e NBA) e, una volta scelta la job alert, visionassero esempi di spicco di curriculum video su TikTokprofili di creator con contenuti relativi alla carriera o al lavoro. Infine, una volta creato il video da 3 minuti (con tutte le funzionalità offerte da TikTok), i candidati dovevano aggiungere  l’#TikTokResumes e caricarlo sia su TikTok che sulla pagina della job alert.

 

Lo stesso Nick TranGlobal Head of Marketing di Tiktok, ha ammesso che questa idea voleva rispondere ai cambiamenti tradizionali dei processi di selezione in un modo del tutto nuovo e più affidabile, mostrando direttamente (non solo a parole) capacità di comunicazione, intrattenimento, Problem Solving, competenze tecniche nuove (montaggio video e grafica) e creatività. La risposta al problema, sopra citato, delle aziende.

 

Nonostante le adesioni siano state tante non sono mancate le “polemiche”: la privacy dell’utente non è tutelata; infatti se quest’ultimo ha già un lavoro e vuole cambiarlo, con questa soluzione potrebbe non riuscire a nascondere la candidatura al suo datore di lavoro. Inoltre, ci potrebbero essere discriminazioni di genere e di “popolarità” legate al doversi mostrare (aspetto fisico e orientamento) e al numero di seguito sul proprio profilo.

 

Vantaggi o svantaggi, tale novità è stata solo un test localizzato e il sito non è neanche più disponibile;  voci provenienti dai vertici dicono di aspettare nuove perché ci sarà il prossimo round (infatti il sito ufficiale utilizzato mesi fa, non è più agibile).

 

 

Ma esiste un modo concreto per aiutare aziende e lavoratori a prevenire questi cambiamenti, senza trovarsi sempre impreparati?

 

Come in ogni cosa, ci sarà sempre qualcuno più abile e veloce di altri, che risponde subito al cambiamento e non rimane indietro, ma questo non deve essere motivo di indifferenza.

 

Alla luce dei fatti e come sosteneva Bauman, la chiave è la creazione di un vero dialogo e di una comunicazione più efficace. Parlando e ascoltando con coscienza e attenzione, è possibile rendersi conto e riconoscere il problema: si vive in una società che procede con ritmi malati e che genera irrimediabilmente uno scontro tra infelici, in cui a trarne giovamento sono soltanto i capi politici e i sostenitori dell’odio (da qui anche la cancel culture).

 

Una consapevolezza che deve partire dalla formazione sui banchi di scuola. E il passo verso una trasformazione culturale e locale e la creazione di un nuovo umanesimo, sarà breve: ogni uomo si troverà al centro di ogni decisione e le differenze di ciascuno costituiranno le fondamenta per un nuovo futuro.

 

E per il lavoro? Sarà come ritornare al passato, ai tempi del taylorismo: le aziende dovranno fermarsi ad esaminare e raccogliere tutte le conoscenze presenti in azienda (comprese quelle tradizionali), perché rappresentano il patrimonio aziendale (la riflessione tornerà ad essere un’azione fondamentale). Comprese le conoscenze teoriche, sarà necessario analizzare e osservare  il comportamento dei lavoratori, le loro capacità tecniche, le loro attitudini, oltre che il loro rendimento individuale.

 

Da questi aggiustamenti nelle varie sfere sociali, si arriverà ad una nuova attenzione alla persona, ad un’osservazione interna vera (non solo teorica) e ad un dialogo intenso, empatico.

 

Ma sarà davvero possibile? E quanto tempo potrà richiedere?

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Ambiente, società e tecnologia

Un’introduzione al mondo delle biotecnologie industriali: intervista a Stefano Bertacchi

“La divulgazione nel campo delle biotecnologie sta acquisendo una risonanza sempre maggiore, soprattutto per quanto riguarda le sue applicazioni nell’ambito medico. Oltre a queste c’è però un mondo vasto e diversificato, forse meno conosciuto, ma altrettanto ricco di risvolti interessanti e coinvolgenti. Una parte di esso è rappresentata dalle biotecnologie industriali: abbiamo chiesto a Stefano Bertacchi, biotecnologo industriale, Dottore di ricerca presso il dipartimento di Biotecnologie e Bioscienze dell’Università di Milano-Bicocca e divulgatore scientifico, di rispondere ad alcune domande e curiosità su questa branca scientifica.”

 

 

Per iniziare, che cosa sono e di cosa si occupano le biotecnologie e, nello specifico, le biotecnologie industriali?

 

“Le biotecnologie si occupano dello sviluppo di processi basati sull’impiego di esseri viventi o parti di essi, come gli enzimi. Nello specifico, le biotecnologie industriali (o bianche) hanno lo scopo di produrre molecole di interesse merceologico, dai biocarburanti alle bioplastiche, passando per farmaci e additivi alimentari.”

 

 

Le biotecnologie tradizionali vengono sfruttate dall’essere umano da moltissimo tempo: le biotecnologie industriali, invece, sono un campo scientifico di recente sviluppo?

 

“Spesso le persone restano sorprese dal sapere che le biotecnologie nascono molto tempo fa, con lo sviluppo dei processi per fare la birra, il pane e lo yogurt, per fare alcuni esempi accumunati dall’uso di microrganismi. Potremmo considerare questi esempi parte delle biotecnologie industriali, ma se ci limitiamo al coinvolgimento della microbiologia, quest’ultima è una scienza molto nuova rispetto alla zoologia e alla botanica. A questo dobbiamo sommare l’accumulo di conoscenze in altri settori scientifici, biologia e chimica su tutti, che ci hanno permesso di diventare dei biotecnologi più consapevoli di quello che accade.”

 

 

Le biotecnologie riguardano la nostra vita quotidiana? Quanto ne siamo effettivamente consapevoli?

 

“Assolutamente sì: il cibo è uno degli esempi principali, ma anche molti farmaci, come l’insulina, o i vaccini ricombinanti, a base virale o meno, sono frutto delle biotecnologie. La percezione da parte del grande pubblico è ancora parziale, per questo motivo affianco la mia attività di ricerca scientifica a quella di divulgazione, in modo da far capire che anche i detersivi che utilizziamo hanno a che fare con le biotecnologie.”

 

 

Quanto è conosciuto questo ambito e quanto attira interesse, soprattutto da parte di chi non si occupa di scienza?

 

“Sicuramente c’è interesse in questo ambito, soprattutto quando sentiamo parlare di OGM, staminali, terapia genetica eccetera. La pandemia ha anche reso più “famosi” alcuni aspetti prima poco noti, come l’uso di tecniche molecolari come la PCR e lo sviluppo di vaccini ricombinanti a base di virus OGM.”

 

 

Quali sono, al giorno d’oggi, gli ambiti più innovativi e interessanti della ricerca e quale potrebbe essere il loro futuro? A quali sfide cercano di rispondere?

 

“Aspetti molto innovativi riguardano, dal punto di vista tecnico, l’implementazione della biologia sintetica e dell’editing genetico, coinvolgendo non solo microrganismi. Lo sviluppo di bioprocessi basati su biomasse rinnovabili come alternativa al petrolio potrebbe rispondere alle crescenti pressioni per una maggiore sostenibilità.

 

L’emergenza climatica e l’inquinamento sono temi centrali. Come dicevo in precedenza c’è la spinta per lo sviluppo di processi innovativi basati su materie prime di scarto, o che possano sfruttare la CO2 in atmosfera. Allo stesso tempo possiamo anche sviluppare cellule capaci di degradare sostanze inquinanti, come la plastica e la gomma.”

 

 

L’Italia valorizza abbastanza la ricerca in questo ambito, oppure c’è un clima di diffidenza?

 

“Alla luce delle nuove politiche, si spera, sempre più green da parte dell’Italia e dell’Unione Europea, non possiamo che valorizzare la ricerca in questo settore. La diffidenza c’è sempre in relazione alla ricerca, che spesso non viene compresa come qualcosa che necessita tempo per mostrare i propri frutti. In aggiunta, le biotecnologie non godono di una grande fama in Italia a causa del forte pregiudizio nei confronti degli OGM, che tuttavia si sta pian piano assottigliando di fronte a nuove metodiche come l’editing genetico, che dimostrano come di fatto è nella natura umana manipolare il DNA delle piante e animali intorno a noi.”

 

Dalle parole di Stefano Bertacchi emergono le potenzialità che ha la ricerca scientifica in questo campo, così come la necessità che la divulgazione e il dibattito informato su di esso siano sempre più diffusi.

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Ambiente, società e tecnologia

Le nuove mete del marketing: intervista doppia ad Ilaria Mundula e Dario Berti

Il marketing per essere efficace in un mondo dove la migrazione è ormai un fenomeno in forte crescita, deve tener conto della cultura delle “nuove comunità”. Tale argomento è stato trattato al Web Marketing Festival durante l’intervento “Il marketing oggi è marketing interculturale?”, per mostrare come enti privati e pubblici possano creare strategie per il bene comune, per l’integrazione e il soddisfacimento personale di ogni membro della comunità.

 

La speaker è stata Ilaria MundulaSinologa ed esperta di marketing interculturale e di comunicazione strategica, con esperienza diretta in Cina e con le comunità locali cinesi in Italia (prima come insegnante di italiano per studenti cinesi e poi come consulente marketing); assieme a Danio BertiCEO di WeM_Park, è riuscita ad approfondire le dinamiche interne ed esterne di questa innovazione interculturale.

 

 

Dove e con chi tutto ebbe inizio…

 

Il WeM_Park, Laboratorio Universitario per il Marketing e le tecnologie IC” dell’Università degli Studi di Firenze, spiega Berti, nasce 6 anni fa all’interno di PIN. L’intuizione dietro alla nascita del laboratorio, deriva dalla necessità di offrire una conoscenza parallela all’Università e una consulenza applicata, per rafforzare la parte di Digital marketing degli studenti del corso di laurea in Economia aziendale. Negli ultimi anni siamo riusciti  ad adeguare il laboratorio a quello che è il sistema di base di PIN:  è stato introdotto, infatti, un osservatorio per la ricerca scientifica e di mercato chiamato Chinese Digital Scenario, così da poter offrire soluzioni empiriche e strategie di marketing alle imprese e agli Enti Pubblici; e, infine, è stata migliorata la parte di Education per fungere da supporto all’osservatorio e per permettere la divulgazione della conoscenza digitale verso gli studenti e verso l’esterno con corsi di specializzazione extracurricolari.

 

Nel contesto della ricerca e dell’attività strategica opera Ilaria Mundula, insieme ad un team multietnico e multiculturale (cinesi o di origine cinese laureati in economia o in scienze della comunicazione). E ci spiega così il progetto:

 

 

Nel titolo del tuo intervento parli di marketing interculturale, cosa intendi davvero con questa espressione? Quali caratteristiche deve avere il marketing per essere tale?

 

Il marketing interculturale è una variante del marketing che tiene conto delle diversità culturali cioè del fatto che ogni persona, quindi ogni consumatore o utente, sia portatore di valori. Di valori che fanno appello alla cultura.

La globalizzazione ci ha portato a credere che non ci fosse fluidità culturale al punto che i valori di ciascuna cultura avessero perso identità e si fossero uniformati tra loro; in realtà, i dati provenienti da diversi Istituti di Ricerca Internazionali dimostrano il contrario e, non solo, mostrano quanto ciascuna cultura abbia preservato la sua natura lasciando segni indelebili in ciascuno dei suoi membri, sia nelle scelte più personali che in quelle d’acquisto.

 

Di conseguenza, il marketing per essere definito interculturaledeve tener conto delle differenti culture di riferimento e deve saper cogliere il flusso storico di una cultura; così agendo, sarà possibile creare delle strategie che si adattino alla versione linguistica e visiva di una data comunità. Con la classica traduzione letterale, infatti, non si faceva altro che riportare i propri schemi mentali in un’altra cultura.

 

Questo a livello generale e teorico; per vedere come si concretizza tutto ciò, ti porto l’esempio dello studio e dei risultati ottenuti guardando l’Italia e, in particolare, la comunità cinese di Prato. Partiamo dal fatto, non trascurabile, che l’Italia sta misurando una sempre più crescente interazione e commistione con nuove culture e nuove identità per via dell’alta immigrazione. Questo aspetto, infatti, condiziona il ruolo della scuola, il rapporto con le istituzioni e con la religione, fino ad interessare i rapporti sociali, lavorativi e familiari.

La concentrazione di immigrati in determinate aree, secondo quanto affermato dalla Idos, è poi dovuta alla necessità di stare vicino a parenti e compatrioti, per trovare appoggio e opportunità di socializzazione e per ottenere impieghi lavorativi.

 

Arrivo dunque alla comunità cinese di Prato, su cui si basa il mio focus; in tale luogo risiede una delle comunità cinesi più dense d’Europa26.300 cittadini cinesi su 195.000 residenti totali; non solo, si tratta anche di una comunità molto giovane dove appunto il 30% ha un’età compresa tra 0-17 anni.

 

Osservando e interagendo con i suoi membri, poi, si scopre che, nonostante siano giovani, i valori della cultura cinese permangono molto forti in loro, quindi significa che le persone sono influenzate dalla cultura cinese anche quando non vivono in Cina (ma all’estero).

 

 

Le strategie di ricerche che utilizzate? Le best practice? Come si struttura il vostro piano d’azione.

 

Partiamo dalla teoria: le best practice non sono altro che linee guida a cui attenersi per formulare delle strategie. In senso più lato, bisogna attenersi al concetto di multidimensionalità ovvero di strutturare una campagna marketing aziendale su due livelli: offline e online. In senso stretto, invece, è necessario condurre un’osservazione più diretta attraverso ricerche quali/quantitative e strumenti di survey online cinese. Grazie ad esse, abbiamo scoperto che i cinesi hanno un comportamento digitale diverso dal nostro in quanto il loro ecosistema digitale è molto più evoluto, hanno una forte vocazione imprenditorialesono mediamente disposti a spendere di più su certe categorie merceologiche e sono anche attratti dal settore del lusso (importanti sono le ricerche di mercato prodotte in tal senso da Silvia Ranfagni), sono portati ad acquistare tramite live streaming (come avviene in Cina), si tratta di persone che tengono alla loro immagine pubblica (quindi evitano situazioni che facciano perdere loro la faccia), sono curiosi, attenti e precisi. Riguardo a questi tre aspetti in particolare, risulta rilevante una ricerca che avevamo fatto sui prodotti di skincare venduti online: sull’e-commerce cinese Taobao vi erano tantissime informazioni tra foto, lunghe descrizioni e tutorial, mentre su Amazon, lo stesso prodotto, era accompagnato da una sola foto con una riga di descrizione:

 

 

Le strategie si muovono attorno a domande come: Quali app usano i cinesi in Italia? Quali sono le loro preferite? Per quanto tempo le usano? Quali sono le app indispensabili? Se devono fare x azioni, ad esempio cercare un prodotto, cercare un indirizzo, chattare, comprare online, lo fanno con le app occidentali, con quelle italiane o con quelle cinesi?

 

Per rispondere a questa domanda si è scoperto che le App considerate indispensabili per i cinesi in Italia siano le app di comunicazione e marketing Weibo e WeChat (il 40% degli intervistati lo usa per 4 ore al giorno), la Xiaohangshu (Little Red Book) che è un mix tra Pinterest e Instagram e la gemella di Titk Tok ovvero Douyin.

 

Tra le app occidentali più usate, invece, ci sono YouTube Instagram; di contro, il 30% non usa mai Whatsapp e il 50% non usa mai Facebook.

 

Ora, all’atto pratico ti indico quali strategie sono state svolte e che hanno avuto successo:

 

  • il comune di Prato ha aperto un canale WeChat dedicato alla comunicazione di notizie di interesse pubblico in lingua cinese ed italiana (ad esempio campagne sulle iscrizioni scolastiche). Tale azione a livello locale, ha permesso una maggiore integrazione della comunità cinese;
  • in una farmacia di Prato è stato attivato, all’esterno, un display in cui venivano mostrati, in lingua cinese, i prodotti che potevano interessare quel target ed, inoltre, è stato inserito personale cinese tra i farmacisti. Tutto questo ha permesso di attrarre un consistente numero di clienti cinesi (una consistente fetta di popolazione della città).

 

 

Abbiamo visto in quale ottica le aziende e le istituzioni pubbliche agiscono; adesso è necessario capire come noi possiamo agire per permettere un inserimento ovunque, grazie all’interazione tra autoctoni e migranti:

 

Come afferma lo stesso Niklas Luhmann nella teoria dei sistemi sociali e come si è compreso con quanto appena detto, i sistemi sociali non sono altro che processi di comunicazione intrecciati fra loro e che spesso entrano in conflitto per due ragioni:

 

  • la prima consiste nell’errata interpretazione dell’atto comunicativo o, addirittura, nella mancata interpretazione di tale atto (bisogna essere in possesso di determinate capacità derivanti dalla conoscenza pregressa e diretta di quei rapporti);
  • la seconda consiste nella mancata osservazione di quell’atto da parte di chi dovrebbe riceverlo. Questo è un problema che potrebbe essere risolto dalla «compresenza fisica» del soggetto con cui stiamo comunicando (attualmente resa possibile dalla tecnologia).

 

Infatti, io stessa, una volta entrata in contatto con le persone, ho capito quali fossero i problemi e le necessità della comunità. Il modo migliore per aiutarli è, quindi, condividere la nostra esperienza e la nostra conoscenza della cultura e della lingua cinese, oltre che tutte le informazioni che si conoscono (fungendo da mediatori nell’incontro con l’altro).

 

Ho così deciso di affiancare il mio lavoro nel privato e nel pubblico, con uno più personale aprendo un profilo Instagram “ilaria_mundula”, in cui tratto di ogni aspetto della loro cultura: dalle loro superstizioni, ai valori legati alla famiglia, fino alla loro cucina, ai flop di mercato; il tutto accompagnato da fonti autorevoli, articoli e menzione dei luoghi e delle strutture ove è possibile incontrarsi ma fare anche formazione (cinese) su più punti di vista.

 

 

Un viaggio che spiega i retroscena di una comunità che è riuscita ad influenzare il mercato italiano ed inserirsi nel panorama pubblico e privato con modalità distanti dai nostri modi di agire e dalla nostra comprensione. E’ proprio questo che vuole insegnarci il talk: allargare la nostra mente e aprirla a nuovi schemi mentali, per una migliore convivenza tra culture diverse, pur mantenendo intatte le nostri origini.

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Ambiente, società e tecnologia

La VR e l’AI nel sociale: intervista ad Andrea Zingoni

È ormai noto come le nuove tecnologie possano rispondere ad esigenze anche di tipo sociale, portando le istituzioni a prevedere piani specifici a favore di categorie che manifestano problemi fisici e mentali più o meno gravi.

 

Ne è un esempio l’Erasmus+, un programma dell’Unione Europea “per l’Istruzione, la Formazione, la Gioventù e lo Sport”; la novità, però, risiede nell’azione che porta il nome di “Strategic Partnership for Higher Education”, volta a concedere finanziamenti a progetti che garantiscano le cosiddette “alleanze della conoscenza” e le “alleanze delle abilità settoriali”.

 

I principali obiettivi rispondono all’esigenza “di garantire un apprendimento per tutto il ciclo di vita, migliorare la qualità e l’efficacia dell’istruzione e della formazione (con metodi di insegnamento innovativi, grazie anche all’ausilio della tecnologia), di promuovere l’equità, la coesione sociale e la cittadinanza attiva e incoraggiare la creatività, l’innovazione e l’imprenditorialità  (valorizzando la centralità della persona e consentendo un più agevole dialogo con il mondo del lavoro)”.

 

Tra i progetti vincitori dell’Erasmus+ 2020 vi è proprio VRAILEXIA, presentato durante il Web Marketing Festival di Rimini dall’Ingegnere e Ricercatore dell’Università della Tuscia Andrea Zingoni (in seguito intervistato da me sull’argomento).

Tale progetto nasce con l’obiettivo di combinare la Realtà Virtuale e l’Intelligenza Artificiale per sostenere gli studenti universitari (nelle facoltà umanistiche) dislessici che non hanno ricevuto un adeguato supporto e tutoraggio e arrivano nell’ambito accademico con evidenti problemi (tanto che, come mostra uno studio condotto dal MIUR nel 2019, solo l’1,6% degli studenti dislessici continua con l’istruzione superiore). Da qui l’uso del nome VRAILEXIA (composto appunto da VR – AI – lexia, desinenza della parola dislexia ovvero dislessia).

 

 

Il problema al centro del progetto

 

Perché il profilo esterno ed interno di un progetto sia chiaro, Zingoni ha voluto dare una spiegazione esaustiva della dislessia e del focus del progetto; infatti, egli afferma che: la dislessia è un disturbo specifico della lettura che crea delle difficoltà proprio nella decodifica dei testi.

 

La dislessia, poi, rientra in quelli che vengono chiamati “Disturbi Specifici dell’Apprendimento” (DSA) e in Italia ne sono stati riconosciuti 4: dislessiadisortografiadiscalculia e disgrafia.

 

Purtroppo non è così per tutti i Paesi, in quanto non esiste un accordo a livello mondiale che riconosca univocamente i disturbi dell’apprendimento: addirittura l’OMS fa rientrare nei DSA solo la dislessia, la disortografia, la disgrafia e poi un quarto gruppo di altri disturbi.

 

Al problema evidente che porta con sé la dislessia, si aggiunge il fatto che essa presenti una comorbidità con altri disturbi specifici dell’apprendimento: un dislessico, spesso, è anche disgrafico e discalculico (quindi al problema della lettura si aggiunge quello legato al prendere appunti e all’organizzazione del proprio lavoro); ne conseguiranno, una mancanza di motivazione, ansia e un calo dell’autostima.

 

Ma diversamente da quello che si può pensare, tali difficoltà non sono correlate a deficit di intelligenza o deficit legati ai sensi (è un fenomeno a sé stante). Infatti, la dislessia porta lo studente stesso a cercare nuovi modi, anche creativi, di apprendere, che diventano per lui una risorsa. Come per i non dislessici, le metodologie e gli strumenti devono essere pensati rispettando anche la loro tipologia di intelligenza (linguistica, matematica, intrapersonale, interpersonale, cinestetica, musicale, visivo-spaziale, naturalistica ed esistenziale) e non solo i limiti e le difficoltà di base. Ad esempio, se uno studente dislessico riesce a comprendere più facilmente un testo con un approccio visivo, si penserà ad un software che riproduca, cliccando sopra la parola, la relativa immagine.

 

 

Delineando il progetto in tal modo, è stato poi più semplice spiegare ai presenti quanto fosse necessario orientare il progetto verso un’ottica di parzialità, focalizzandosi su un problema alla volta; solo grazie all’esperienza fatta, sarà possibile ampliare il progetto e farlo anche bene.

 

 

Quali figure professionali e quali istituzioni lavorano al progetto?

 

Il background dei vari team abbraccia l’ambito ingegneristicopsicologicopedagogico e, infine, quello sociologico, così da permettere ai futuri processi tecnici, di ricerca e di disseminazione dei risultati e dei progetti, di procedere a pari passo.

 

In particolare, l’Università della Tuscia, nonché il Project leader, ha costituito un team che potesse essere coinvolto in ogni parte del progetto. In tal modo è riuscita a coordinare e lavorare con i team dei vari membri del partenariato, responsabili ognuno del settore in cui eccellono; infatti:

 

  • l’Università degli Studi di Perugia si è focalizzata sulla parte psicologica e psicometrica;
  • l’università francese CentraleSupélec e l’Université Paris Nanterre rappresentano le istituzioni più orientate all’ambito dell’ingegneria e della ricerca;
  • la greca Panteion University promuove e gestisce i progetti di cooperazione e di ricerca europea/internazionale volte a migliorare lo scambio e la conoscenza reciproca tra professori e scienziati di diversi laboratori (riuscendo a rispondere ai bisogni sociali ed economici dei paesi interessati);
  • la spagnola Universidad de Córdoba si occupa di tutto quanto è collegato alla Realtà Virtuale;
  • l’associazione no-profit TUCEP (nata nell’ambito del programma europeo COMETT) e l’Università Vzw UC Limburg, similmente, si pongono come missione la promozione dell’occupazione, il trasferimento tecnologico (a livello di formazione e di digital skills) e di innovazione per e verso il mercato regionale, nazionale ed europeo;
  • l’organizzazione no-profit portoghese AEVA svolge il medesimo ruolo delle due figure precedenti ma a livello locale;
  • la Giunti Psycomethrics Srl collabora per fornire test psicometrici nonché servizi base come istruzione e formazioneconsulenza in ambito informatico ed e-learningvalutazione delle competenzeselezione e orientamento. In ambito più di ICT, Giunti offre, tra i tanti, AppScenari virtualiProblem based learning e Info grafiche.

 

 

 

Tali indicazioni di base, definiscono la parte esterna del progetto; ora, però, serve capire quali siano i primi step che deve realizzare VRAILEXIA.

 

La prima parte del progetto, come spiega Zingoni, vede l’ausilio di tre input, realizzabili andando per gradi; sono input volti a raccogliere dati utili da implementare nelle tecnologie di VR e di IA.

 

Il primo dei tre è rappresentato dal questionario autovalutativo creato sulla base di interviste esplorative e sottoposto agli studenti con dislessia nelle Università italiane. Tale questionario (svolto da 1300 studenti) verteva e verte su domande demografichedomande sulla storia della propria dislessia (sulla diagnosi e sulla familiarità col disturbo), sulle problematiche che essi hanno incontrato durante il loro percorso di apprendimento e sugli strumenti e sulle strategie risultati più utili. Le risposte sono di tipo numerico perché vanno da uno score che parte da 0 (problematiche non presenti, supporto non utile) e arriva a 5 (problematica molto sentita e supporto molto utile).

A tale input, segue il secondo (non ancora testato) e si basa su dati di valutazione specialistica, ottenuti attraverso i report clinici di dislessia redatti dai medici esperti (ove figurano informazioni sulle problematiche e sui tipi di supporto utili).

E infine si giunge al terzo input, che nel panorama italiano si realizza attraverso test psicometrici usati, appunto, per definire la diagnosi del soggetto interessato. Si tratta di test che valutano l’abilità di scrittura, di lettura e di comprensione del testo, ma anche di tutte gli aspetti psicologici correlati come l’ansia, gli aspetti cognitivi, motivazionali, metacognitivi e anche di autostima e di autoaccettazione. I dati ottenuti grazie a questi test sono di tipo quantitativo-oggettivo.

 

Per quanto si tratti di input volti a raccogliere dati, essi stessi sono stati realizzati e verranno realizzati con l’ausilio della tecnologia: il questionario autovalutativo, infatti, è stato digitalizzato in una forma che non fosse pesante da compilare per lo studente dislessico e di chiara lettura visiva, in quanto ha difficoltà con task lunghi e ripetitivi; per quanto riguarda i test psicometrici, essendo questi molto lunghi e un po’ noiosi, possono risultare particolarmente ostici per uno studente dislessico quindi abbiamo pensato di renderli un po’ più accattivanti rivolgendoci alla realtà virtuale e in particolare alla Display Virtual Reality.

 

 

Hai parlato, appunto, di Realtà Virtuale e di Intelligenza Artificiale, ma come utilizzerete e implementerete, concretamente, queste tecnologie (all’interno del progetto)?

 

Per quanto riguarda la prima tecnologia citata, abbiamo pensato di usare quella che porta il nome di Display Virtual Realitycaratterizzata da immagini virtuali che appaiono su un tablet o su uno smartphone; una tipologia di Realtà Virtuale più semplice e intuitiva da utilizzare, soprattutto nella somministrazione dei test psicometrici agli studenti dislessici. Nel momento in cui avremo ottenuto i feedback (o comunque il materiale finale) necessari per allenare l’Intelligenza Artificiale, i test che effettueremo risulteranno più complessi per gli studenti dislessici e, quindi, sarà necessario usare la Immersive Virtual Reality.

 

Nel caso dell’Intelligenza Artificiale, invece, il suo utilizzo avverrà per fasi: una che farà capo alle buone pratiche e un’altra agli strumenti e alle strategie di supporto.

 

Per le buone pratiche abbiamo ragionato e ci siamo basati sulle tecniche di cluster analysis e a partire dai questionari e dai test psicometrici vogliamo creare gruppi omogenei per definire delle buone pratiche (anche specifiche) per ciascuno di loro. Per quanto riguarda la fase sugli strumenti abbiamo utilizzato un approccio (all’IA) misto (in parte è data driven e in parte è human driven) ove ci baseremo, in parte, su dati recenti e, in parte, sulle conoscenze pregresse (sulla dislessia), così da evitare collegamenti inesatti e affinare quelli che sono i risultati del nostro algoritmo di Intelligenza Artificiale.

 

L’idea finale sarà poi quella di arrivare ad avere un predittore dei migliori strumenti e delle migliori strategie di aiuto.

 

Questi due approcci innovativi, vengono applicati in quello che viene definito “output intellettuale, un percorso di realizzazione pratica dei dati ottenuti; si compone di 5 punti consecutivi, realizzati l’uno in funzione dell’altro (in modo da permettere un miglioramento graduale del progetto).

 

Tali output sono:

 

  • INTO THE BOX che vede l’implementazione dei test VR (come accennato precedentemente) per la valutazione della dislessia;
  • BE-SPECIAL che consiste nello sviluppo di una piattaforma digitale basata sull’Intelligenza Artificiale perché in grado di creare relazioni e definire algoritmi rispondenti ad una determinata esigenza. A questo si arriverà, come già anticipato, dopo averla “allenata” mediante input derivanti dai dati dei test e dei questionari e dal corpus delle conoscenze pregresse. L’Intelligenza Artificiale, per esempio, potrà suggerire la metodologia di supporto più appropriata per ogni studente dislessico o fascia di studenti (esempi di possibili utility possono essere le mappe concettuali e le “tavole” da disegno);
  • TOOLBOX che funge da raccoglitore online di tutti i moduli digitali, delle risorse, degli strumenti e di qualsiasi tipo di materiale utile (sulla base dei risultati ottenuti con l’IA e in seguito a test) per guidare il professore nella scelta di un determinato metodo di insegnamento (agevolando così il professore nella definizione ed erogazione di piani di studio specifici per ogni studente). Esempi di possibili strumenti sono il tutoraggio o le associazioni studentesche per dislessici;
  • ToC & ToT che consiste nella creazione di una rete di esperti di varie discipline affinché condividano le proprie conoscenze e così espandere il progetto oltre il campo umanistico. Si arriverà a creare delle strategie comuni di inclusione tra gli istituti europei di istruzione superiore, previste nell’ultima fase del progetto ovvero l’OUTSIDE THE BOX. In quest’ottica, infatti, si darà vita a vere e proprie attività di formazione per docenti e studenti (per un aggiornamento continuo) e servizi di orientamento e sostegno di quest’ultimi per tutta la loro carriera universitaria.

 

In aggiunta agli obiettivi futuri menzionati lungo tutto l’articolo, “il progetto vuole arrivare a rendere il questionario multilingua (impresa resa difficile da alcuni idiomi, come il francese e l’inglese, che essendo opachi sono di più difficile comprensione per i dislessici), a trattare tutti i tipi di DSA e a cogliere lo stato cognitivo di ogni persona per creare supporti e strumenti ad hoc.

 

 

Per quanto il progetto sia ad un terzo del percorso, ha già avuto un riscontro positivo da parte degli studenti universitari e grazie anche a ciò, ha potuto spingere sulla creazione dei primi strumenti didattici in formato digital (lavoro ad opera della startup genovese Estro technologies); non solo, il team di VRAILEXIA è già riuscito a rilasciare un primo articolo sui risultati raggiunti e sugli sviluppi futuri dell’Intelligenza Artificiale.

 

Questo è un progetto che avrà tanto da offrire e sul quale vi terrò e ci terranno costantemente aggiornati.

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Ambiente, società e tecnologia

Lo sporco che fa notizia: intervista a Lercio

Vero o Lercio? Questo è il dilemma.

In un mondo in cui siamo sempre più circondati da fake news e titoli ingannevoli dai quali stare alla larga, Lercio fa parte di coloro che non prediligono questa modalità di diffondere informazioni e comunicare, anche se tutto ciò che si può leggere sul suo seguitissimo blog o canali social è tutt’altro che vero.

Lercio è vincitore di moltissimi premi, tra cui miglior sito e miglior sito di satira.

Su Instagram conta più di 700.000 follower che ogni giorno seguono le insolite e inaspettate notizie di cronaca che fanno nascere risate ma talvolta anche qualche riflessione.

Durante la presentazione del loro ultimo libro “Mock’n’Troll”, al Web Marketing Festival di Rimini, hanno raccontato numerosi aneddoti ed episodi legati alla loro storia che ormai dura da quasi dieci anni.

Per esempio, la notizia che li ha resi virali? Si tratta di: “Cina, liberato pozzo ostruito da un bambino”.

Notizia che scritta in questa chiave poneva rilevanza sull’importanza di aver reso accessibile il pozzo e non della presenza del bambino al suo interno.

Con il progressivo seguito suscitato dal blog e con la conquista di qualche nemico famoso, tra cui anche lo chef pluristellato Carlo Cracco, Lercio sta riscontrando sempre più successo.

Per scoprire altre curiosità sulla sua storia abbiamo intervistato tre componenti della redazione: Andrea Sesta, Davide Paolino e Mattia Pappalardo.

 
Lercio è un progetto che oggi è diventato un vero e proprio punto di riferimento della satira online. Potreste raccontarci come è nato e soprattutto l’obiettivo principale che avevate intenzione di raggiungere?

“All’inizio avevamo una case history di successo, ovvero: se un comico apre un blog, poi riesce a fondare un partito e infine finisce al governo. Il nostro obiettivo era questo, che è anche quello che succederà tra qualche anno con “partito Lercio”, dacci tempo!

Lercio è un progetto nato nel 2012 come parodia di un free press: avevamo come idea iniziale The Onion, un sito americano di parodia che a noi piace identificare come il “Lercio americano”.

Il creatore è Michele Incollu che ringraziamo sempre anche se non è più con noi in redazione”.

 
Dove trovate l’ispirazione per raccontare le vostre insolite notizie? Qual è il processo creativo che vi porta a trasformare fatti di cronaca reali in messaggi ironici?

“L’ispirazione nasce letteralmente dalla vita di tutti i giorni.

Quello che facciamo noi è un esercizio satirico, e l’obiettivo della satira è il potere. Ovviamente, il potere è un concetto molto esteso: quando sei un bambino o un ragazzo il potere sono i tuoi genitori o gli insegnanti, mentre nella vita di tutti i giorni i poteri sono tanti, possono esserlo il tuo capo o il sindaco, il parlamento e il governo, e queste sono le cose che ognuno di noi vive tutti i giorni.

Quando si mischia la frustrazione nei confronti del potere con la passione per l’informazione e per quello che si legge online, e si unisce una dose di intuizione e spirito comico, l’insieme produce i post di Lercio”.

 
Come avete reagito quando anche testate giornalistiche importanti come “la Repubblica” e molti altri hanno confuso i vostri post come veri?

“I nostri articoli in realtà da un punto di vista di tecnica giornalistica non sono nemmeno articoli, perché Lercio non è una testata o una rivista, ma un sito. Noi, infatti, le definiamo battute travestite da notizie.

Succedeva molto di più all’inizio che le nostre notizie venissero fraintese, adesso più raramente.

Quando oggi succede ancora ci viene un po’ da ridere perché in realtà noi non scriviamo neanche fake news; quello che pubblichiamo non deve essere preso per vero, noi scriviamo per prendere in giro, non i nostri lettori, ma l’argomento della nostra battuta, il potere in generale.

Scriviamo articoli fittizi che parlano della realtà: inventando e parlando di qualcosa che non esiste stiamo in realtà facendo satira su quello che accade.

Per esempio, l’Egitto, che è un regime totalitario, ha il suo Lercio, che scrive articoli pesantissimi, ma in qualche modo cerca di far capire la sua vera intenzione e di arrivare al risultato.

Ci fa ridere quando veniamo fraintesi ma non è ciò che ci piace e non è affatto il main focus di quello che facciamo”.

 
C’è stato un particolare argomento che è stato frainteso perché le persone non vi conoscevano? Ancora oggi, ci sono persone che non capiscono che i vostri post sono falsi?

“Purtroppo sì, e ciò è connaturato alla distrazione con cui viviamo.

L’altro giorno abbiamo scritto una notizia su Papa Francesco, secondo la quale egli ringraziava Dio per un trattamento medico assurdo, ovviamente una battuta comica, che però è stata condivisa da una pagina; leggendo i commenti sotto al post ci siamo resi conto che gli utenti ci erano cascati.

Questa non è solo una questione di credulità, ma è un modo con cui ci si pone di fronte alla notizia.

È infatti una cosa in cui ci possono cascare tutti, può succedere anche a noi.

L’unico antidoto contro le fake news è lo spirito critico; è importante impiegarci più tempo prima di condividere, rileggere, farsi domande e capire a fondo cosa sta succedendo”.

 
Nel vostro libro “Vero o Lercio?” avete inserito una serie di post sia veri che falsi che il lettore ha avuto il compito di identificare nel corso della lettura. È stato sconcertante vedere quanto moltissime notizie apparentemente false fossero in realtà vere. È mai successo che abbiate predetto involontariamente una notizia?

“Sì, è successo ed è una cosa che spesso portiamo nei live.

C’è proprio una rubrica che abbiamo chiamato “Te l’avevo Lercio”, in cui abbiamo inserito tutto quello che abbiamo scritto in passato e che successivamente si è avverato.

Ci sono tanti esempi: noi avevamo scritto “Cina, giornata lavorativa ridotta a 24 ore” e abbiamo scoperto mesi dopo che qui in Italia facevano lavorare le persone per 26 ore di seguito.

Un altro esempio, abbastanza divertente, è stata questa notizia: “Calo di adesioni, il Ku Klux Klan apre ad altre etnie”; qualche mese dopo ha veramente aperto ad altre etnie, ma anche ad altre religioni e ad altri generi, quindi per assurdo siamo stati superati a sinistra dal Klux klux Klan, perché noi avevamo parlato solo di etnie mentre loro sono stati molto più inclusivi di noi”. 

 
Qualche mese fa, Facebook ha annunciato che introdurrà una politica che prevede la segnalazione automatica di utenti che condividono abitualmente fake news in piattaforma. Vi siete posti il problema di un eventuale fraintendimento da parte di Facebook?

“È capitato in passato, adesso è più raro che accada perché abbiamo anche il badge sia di pagina certificata su Facebook che di pagina satirica.

Essendo una modalità di comunicare che non abbiamo inventato noi ma che esiste anche in altri Stati, si tratta di un problema condiviso, quindi sui social è stata creata questa opzione.

È successo che la pagina sia stata sospesa per qualche giorno quando abbiamo scritto una notizia, e c’è stato anche un periodo in cui abbiamo avuto una reach bassissima, uno Shadow Ban praticamente, ed è stato molto tragico perché non sapevamo come risolverlo.

Purtroppo, era proprio quel primo periodo in cui Facebook aveva appena introdotto il blocco per chi diffondeva le fake news, il quale però non riusciva a comprendere che la nostra fosse una pagina di satira.

Poi da quando abbiamo ottenuto il badge il problema si è presentato con meno frequenza”.

 
 Quante persone collaborano a questo progetto? Quali sono i criteri di selezione dei redattori che decidete di includere nel team?

Il team di Lercio è composto da 22 autori. Non c’è un criterio di selezione, perché ci siamo selezionati all’inizio e nel corso del tempo.

All’inizio eravamo una trentina, siamo andati poi diminuendo e ormai siamo chiusi; al momento non facciamo entrare nessuno in redazione perché abbiamo iniziato insieme questo percorso prima ancora sul blog di Daniele Luttazzi, e successivamente dal 2009 su Lercio, e avendo fatto questo percorso insieme ci conosciamo, abbiamo uno stile comune, siamo molto eterogenei, e quindi ci teniamo così.

Lasciamo sempre la possibilità ai lettori di inviarci le loro battute, e se funzionano per il nostro blog le pubblichiamo chiamando queste notizie “I lerci vostri”.

L’altro giorno ci ha scritto anche uno scrittore per chiederci se potesse inviarci un articolo da pubblicare, noi l’abbiamo letto, ci è piaciuto e quindi l’abbiamo pubblicato il giorno stesso.

Abbiamo creato anche una rubrica apposita per i contributi di autori famosi, scrittori o altri componenti del mondo dello spettacolo e l’abbiamo chiamata “Lercio d’autore”.

 
Avete qualche progetto futuro per la vostra pagina? Per esempio, avete mai pensato di aprire anche un account TikTok dato che oggi questo social è molto utilizzato?

In realtà abbiamo già aperto l’account TikTok ma non ne abbiamo fatto assolutamente nulla, l’abbiamo creato solo per non farci rubare il nome!

Siamo molto eterogenei, quindi già Instagram è stato un processo innovativo, per aprire il canale TikTok ci vorrà ancora un po’ di tempo.

Possiamo svelarvi che forse nella seconda parte dell’anno ci sarà la TV; noi invece che andare avanti con i social torniamo indietro!

C’è un progetto in corso, speriamo veda la luce!

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Ambiente, società e tecnologia

L’istruzione innovativa: intervista a Carlo Mariani

La Ricerca per il Futuro si inserisce anche nel panorama educativo e formativo con lo scopo di re-immaginare la scuola, ideando metodologie e processi educativi innovativi. A tal proposito, il Web Marketing Festival ha dato spazio al progetto portato avanti dall’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (INDIRE), nel contesto delle Avanguardie Educative.

Il programma in oggetto porta il nome di “The Futures of Education: Learning to Become”, pensato dall’UNESCO per definire un quadro generale su come poter guardare agli sviluppi futuri e su come potersi preparare ad essi già durante l’istruzione di primo e di secondo grado.

Di tutto questo ne ha parlato Carlo Mariani, ricercatore dell’INDIRE che ha realizzato i documenti attuativi al programma.

 
L’UNESCO non è nuovo nel panorama dell’istruzione; quindi, com’è arrivato a pensare “Learning to Become”? 

L’UNESCO si inserisce in questo contesto di rinnovamento scolastico con il rapportoLearning to Be: the world of education today and tomorrow” sviluppato tra il 1971 e il 1972 da una commissione presieduta da Edgar Faure (ex ministro dell’Istruzione francese). Il focus di base fu quello di ridefinire il sistema scolastico nel rispetto degli stili cognitivi ed economici di ciascun studente e così ridurre sempre di più le evidenti disuguaglianze e privazioni.

Una nuova commissione guidata da Jacques Delors (ex Presidente della Commissione Europea ed ex Ministro francese dell’Economia e delle Finanze) si è occupata, tra il 1993 e il 1996, della stesura di un nuovo rapporto dal titolo “Learning: The Treasure Within”, centrato su quattro linee guida per l’educazione per arrivare ad un approccio più umanistico: imparare ad essere, imparare a conoscere, imparare a fare e imparare a vivere assieme.

Si arriva, così, alla penultima pubblicazione, quella del 2015Rethinking Education: towards a global common good?“ Questa particolare riformulazione del contesto educativo, come spiegò l’UNESCO, nacque da un’osservazione diretta sulla dimensione globale: con l’aumento dei Paesi che praticavano la democrazia e con la conseguente facilità di accesso alla conoscenza, sempre più persone partecipavano alle questioni pubbliche e private (anche se distanti tra loro). Di conseguenza si rese necessario prevedere un diverso orientamento nelle politiche curriculari, sui materiali scolastici e sulle politiche di discriminazione.

Sulla base di questi lavori e di questa tradizione, nasce l’ultima iniziativa dell’UNESCO, “The Futures of Education: Learning to Become”, appunto.

 
Quindi, in cosa consiste questo progetto e come si è mosso l’INDIRE a tal proposito?

Questo quadro di riferimento, questa visione, dovrebbe aprire una fase da qui al 2050 di nuova attenzione ai temi del pianeta (transizione ecologica e cambiamento climatico), per re-immaginare come l’apprendimento e la conoscenza possano plasmare il futuro del pianeta. Importante e necessario sarà, quindi, rendere gli alunni consapevoli dando un significato e un senso a ciò che studieranno, che impareranno a scuola (raggiungendo, così, quello che io chiamo l’orizzonte di senso, il sensemaking).

Arrivo così alla seconda parte della tua domanda. L’INDIRE si è inserito nella rete formativa del Learning to Become attraverso la rete di Avanguardie Educative in quanto quest’ultimo opera come movimento di innovazione volto ad individuare, supportare, diffondere e portare a sistema pratiche e modelli educativi che rielaborino la Didattica, il Tempo e lo Spazio del fare scuola nel panorama italiano.

Grazie all’esperienza che ne deriva e seguendo i 7 punti del rapporto dell’UNESCO, ho redatto alcuni documenti che tengono conto dei diversi istituti scolastici esistenti (nel target scuola secondaria di primo e secondo grado) e anche della tipologia di approccio all’insegnamento del professore (senza così effettuare eccessivi stravolgimenti); infatti, abbiamo creato delle proposte scalabili che potessero dare alle scuole piena autonomia di sviluppo dei temi del curricolo su quelle che sono le curvature e gli interessi delle stesse.

Per ridefinire il curricolo, quindi, sono partito dalla storica classificazione delle materie, Humanities da una parte e STEMdall’altra. Per ogni materia ho poi cercato di capire quali fossero i punti di snodo e di appoggio alla realtà del XXI secolo.

 
Oltre alla tua figura, quali persone sono state la chiave nell’avvio della sperimentazione? E quali conoscenze mettono in campo?

Prima fra tutte vi è Elisabetta Mughini, Dirigente di ricerca dell’INDIRE.

Seguono, poi, altri ricercatori e i relatori scientifici, le nostre guide in questa sperimentazione, che sono:

  • lo scrittore Alessandro Baricco, il quale mette a disposizione le conoscenze nell’ambito della letteratura, dei linguaggi e dello storytelling;
  • il responsabile della didattica e della divulgazione dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), Stefano Sandrelli;
  • Giacomo Stella, psicologo dell’apprendimento;
  • il professor Roberto Poli con le sue competenze sui sistemi anticipanti;
  • la professoressa Luigina Mortari che darà un contributo sui temi legati all’epistemologia della cura, della comunità educativa ed dell’educazione ecologica;
  • il professor Pier Cesare Rivoltella, esperto di didattica e tecnologie dell’educazione.

 
Mi hai parlato del progetto e di chi ha già dato conferma della sua presenza come esperto e relatore, ma veniamo alla parte più difficile: come avete trovato le scuole in cui avviare la sperimentazione e come implementerete il progetto in esse?

Inizialmente, si è pensato di coinvolgere un minimo di 30 scuole, affinché il progetto potesse dare i suoi frutti, ma forse arriveranno altre adesioni quando daremo il via al progetto il 2 settembre con una Lectio magistralis di Alessandro Baricco che terrà nella Summer School di Avanguardie Educative.

Alcune di queste sono tra le scuole fondatrici di Avanguardie Educative, altre ancora sono state coinvolte perché inserite come gruppo di consulenza alla Fiera Didacta Italia (tenutasi dal 16 al 19 marzo). Ci sono state anche scuole che sono state individuate attraverso i nostri legami, in seguito ad iniziative come gli incontri di divulgazione della Fiera Didacta e gli incontri di Laboratori di Futuro portati avanti dalla startup Skopìa dell’Università di Trento.

Nelle date successive al 2 settembre, abbiamo pensato di calendarizzare una serie di webinar per illustrare gli sviluppi futuri di ciascuna materia.

Poi, con il nuovo anno scolastico, svilupperemo dei percorsi di sperimentazione curricolare pensati per andare incontro alle esigenze di scuole e professori: alcuni vorranno lavorare più sulle discipline umanistiche, altri su progetti orizzontali come i PCTO, la didattica orientativa o altro ancora. Le modalità di lavoro risponderanno comunque a metodologie innovative quali Debate, Flipped Classroom, Didattica per scenari e MLTV.

Quindi ci sarà una fase di formazione per i docenti e una di messa in atto attraverso dei percorsi curriculari con gli esperti, per dare vita ad una fase più operativa con 3 o 4 incontri e vedere cosa succederà nelle classi e nelle scuole. Di contro, le scuole hanno già individuato dei consigli di classe sperimentali per predisporre dei gruppi di docenti che possano lavorare insieme agli esperti (dando vita ad un lavoro interdisciplinare).

Un’impresa che sta andando a grande velocità, nonostante rientri in un progetto triennale.

Da ciò si coglie la profondità del lavoro e di chi lo svolge ma anche l’urgenza di far crescere l’Italia, di portarla al pari degli altri paesi europei. E per farlo è necessario partire dalle fondamenta: i giovani.