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La controversa questione delle AI nel mondo della creatività

É sempre più ampia la diffusione di opere create con l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale in grado di generare immagini a partire da fonti testuali o visive.

Questo particolare uso delle AI è l’argomento che attualmente preoccupa maggiormente gli artisti e sceneggiatori di Hollywood, che temono di venire privati del loro lavoro e pretendono risposte anche sulla complessa questione del diritto d’autore. Un recente caso riguarda la sigla della nuova serie dei Marvel Studios “Secret Invasion”.

La sequenza presenta delle illustrazioni generate da una AI animate e accompagnate da una colonna sonora. La scelta insolita di utilizzare un’intelligenza artificiale ha portato ad un’ampia discussione sul web.

Gli utenti sui social e gli operatori nel settore dell’animazione si interrogano sul perché un’azienda che dispone di un numero così ampio di disegnatori debba ricorrere a questa strumentazione. Molti criticano la scelta considerandola come una mancanza di rispetto verso gli illustratori dei fumetti dai quali è tratta la serie e accusano la presenza di errori nella rappresentazione delle scene e dei personaggi. Il regista e produttore esecutivo della serie Ali Selim, in un’intervista a “The Polygon”, ha spiegato che il motivo della decisione è strettamente legato al tema di Secret Invasion. Infatti la trama racconta di un’invasione della Terra da parte di alieni mutaforma in grado di assumere le sembianze di chiunque e ruota attorno al mistero circa la vera identità dei personaggi.

In questo senso, l’estetica prodotta dalla AI avrebbe permesso di far immergere lo spettatore nella cupa e incerta atmosfera della serie. Altre fonti interne, invece, sostengono che la scelta di utilizzare l’intelligenza artificiale è stata perlopiù dovuta ad una esigenza di diminuire i costi e i tempi di produzione, già rallentati dall’epidemia da COVID-19.

 

Chi e come ha lavorato alla sigla?

La sigla è stata sviluppata dalla società di effetti visivi Method Studios, la quale ha fornito dei chiarimenti circa la composizione del team creativo e la produzione della sequenza. In particolare, in un comunicato a “The Hollywood Reporter” ha dichiarato che è stata richiesta la collaborazione di numerosi direttori artistici, illustratori, sviluppatori e animatori.

Il procedimento creativo è stato composto da una prima fase di storyboard, l’illustrazione, la generazione AI, l’animazione 2D e 3D e infine la fase di compositing. Tutte le tappe del processo sono state seguite da un’attenta direzione artistica.

Secondo Method Studios l’AI ha fornito risultati ottimali, ha dato alla sigla un carattere ultraterreno e alieno e ha permesso la creazione di aspetti e movimenti unici ai personaggi. Agli autori bastava descrivere ciò che volevano vedere e l’intelligenza artificiale provvedeva a generarlo utilizzando come fonte i disegni del fumetto originale e le immagini promozionali.

Tuttavia, la società tiene a specificare che l’AI è stata solo uno degli strumenti nelle mani degli sviluppatori, il quale li ha assistiti nel loro lavoro senza sostituirli. In questo senso, l’utilizzo del programma avrebbe solamente integrato e aggiunto elementi innovativi al lavoro del team creativo.

Da un punto di vista legale, però, resta ancora un importante interrogativo.

 

A chi appartiene il diritto d’autore su opere generate da AI?

La questione è molto accesa e si riferisce all’individuazione di una persona fisica titolare di diritti di proprietà intellettuale su opere create con l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale e sulla modalità di protezione.

Ad oggi possiamo prendere in considerazione due pronunce da organi di sistemi giudiziali diversi che possono aiutare a stabilire se la Marvel possa effettivamente far valere il diritto d’autore sulla sigla: la Corte di Cassazione italiana e l’Ufficio del Copyright degli Stati Uniti.

Caso dell’opera “The scent of the night”

Il 18 luglio 2018, l’architetto Chiara Biancheri ha portato davanti al Tribunale di Genova l’accusa alla Rai di violazione del proprio diritto di autore sull’opera “The scent of the night”, utilizzata come scenografia fissa per il Festival di Sanremo nel 2016.

L’artista aveva utilizzato l’editor virtuale Apophysis e, usando come fonte le tecniche di altri illustratori, ha generato dei fiori frattali che ha poi personalizzato, arricchito e dettagliato. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno riconosciuto la titolarità del diritto di proprietà intellettuale in capo all’architetto. La Corte d’Appello ha interpretato così l’art. 1 della Legge n.633 del 1942, secondo il quale il concetto giuridico di creatività si riferisce a qualunque opera in cui sia riscontrabile il seppur minimo atto di ingegno creativo suscettibile di manifestazione all’esterno e le consente di ricevere protezione.

In particolare, la Corte ha ritenuto che “The scent of the night” era frutto di un’espressione personale dell’artista e non solo la riproduzione di un fiore ad opera del software.

La Rai ha poi fatto ricorso alla Corte di Cassazione, la quale nella sentenza del 16 gennaio 2023 ha confermato la decisione della Corte d’Appello. Inoltre, l’organo giudiziale ha aggiunto che il tema dell’arte ad opera di AI costituisce un terreno ancora inesplorato dalla giurisprudenza.

Bisogna però presupporre in ogni caso la necessità della presenza di intervento umano nella creazione dell’opera in misura maggiore rispetto a quello del software impiegato.

Caso dell’opera “Zarya of the Dawn”

Per realizzare il fumetto Zarya of The Dawn, l’artista Kristina Kashtanova ha utilizzato l’AI Midjourney e ha inizialmente ottenuto la registrazione del copyright. Tuttavia, l’Ufficio del Copyright degli Stati Uniti ha condotto una successiva revisione della sua domanda di registrazione in quanto la disegnatrice non aveva dichiarato di aver usato il software.

L’artista ha sostenuto di aver utilizzato Midjourney come solo strumento di assistenza e che poteva dunque ritenersi unica autrice dell’opera. Secondo il Copyright Act, ossia la legge sul diritto d’autore americana, un’opera può essere registrata se è un opera originale, indipendente e sufficientemente creativa.

L’Ufficio, per prendere una decisione ha analizzato le modalità operative di Midjourney. Dal momento che si tratta di un software che genera immagini partendo da dei comandi iniziali dall’utente (i prompt), la reale mente creativa è, secondo l’interprete, il programma stesso mentre le istruzioni assumono il ruolo di semplici suggerimenti.

Tuttavia, l’Ufficio non esclude che per le AI che funzionano in modo diverso da Midjourney si possano trarre conclusioni diverse.

 

In base alle due pronunce possiamo stabilire che l’assegnazione del diritto d’autore sia dato dalla prevalenza del lavoro umano da quello dell’AI. In ogni caso, la tematica è molto dibattuta tutt’ora e si potrebbero verificare una molteplicità di fattispecie come queste e decisioni giudiziali diverse. Non ci resta che attendere i prossimi interventi legislativi in merito.

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Il metaverso spiegato al Web Marketing Festival

Il metaverso, come lecito aspettarsi, è stato uno dei temi caldi del Web Marketing Festival di quest’anno. Noi di iWrite abbiamo deciso di riassumere i contenuti dei principali panel sull’argomento in questo articolo speciale dedicato all’evento di Rimini.

 

Metaverso e videogiochi: sono concetti così differenti?

Nel suo panel, “Metaverso Brand e Gaming: un nuovo ecosistema”, Matteo Favarelli, CEO di AnotherReality, ha presentato diverse nozioni di base sul concetto di metaverso e come questo sia essenzialmente figlio del gaming.

Secondo Favarelli, nonostante esistano più definizioni di metaverso, il concetto fondamentale è che il metaverso è quel “luogo” in cui digitale e reale si fondono diventando un tutt’uno. Il metaverso sarà, quindi, il punto di interazione tra il digitale e il fisico, in cui saremo sempre connessi. Ciò è già possibile tramite gli smartphone ma, il passo successivo sarà la rimozione di questo intermediario tramite tecnologie immersive che avremo solo con i futuri modelli di dispositivi VR e AR. Per quanto riguarda ciò che abbiamo oggi, la base del metaverso è costituita da mondi sociali virtuali, che più semplicemente possiamo etichettare come videogiochi. Tramite questi ultimi, infatti, i brand si stanno avvicinando e stanno provando a investire nel metaverso. Esistono tre modalità tramite le quali i brand possono utilizzare commercialmente i videogiochi. La prima e più classica, è l’inserimento di un classico adv nell’ambiente virtuale. Il secondo modo è creare dei mondi dedicati o dei micro-livelli all’interno di un gioco. Mentre la terza e più dispendiosa opzione è la creazione di mondi verticali ad hoc. Dal punto di vista dei giocatori, c’è stata un’evoluzione dal pay-to-play, al free-to-play e, oggi, al play-to-earn, in cui gli utenti giocano per guadagnare. Nel momento in cui tutti saremo nel metaverso – e quindi sempre connessi – saremo giunti alla fine dell’attuale evoluzione tecnologica. Bisogna iniziare a distogliere lo sguardo dallo smartphone e iniziare a considerare che, tra una quindicina di anni, accederemo al web non piegando il collo ma guardandoci attorno.

 

Sicurezza e diritti: nuove sfide per la tutela degli “umani digitali”

Durante il loro panel dal titolo “Prossima frontiera metaverso, tra sicurezza e diritti umani”, Marco Magnano e Valentino Megale, rispettivamente presidente e vice-presidente di XRSI Europe, hanno parlato di aspetti del metaverso quali diritto e sicurezza.

 

Nella prima parte del panel, Magnano ha iniziato mettendo subito in chiaro che il metaverso non esiste ancora. Oggi, infatti, esistono singole piattaforme: isole sconnesse le une dalle altre, ognuna delle quali in competizione per diventare il metaverso di riferimento. Per definire cosa sia il metaverso bisogna, innanzitutto, definirne la base, l’ethos. Con questo termine, Magnano si riferisce all’insieme ad aspetti in comune con il “mondo reale” quali etica, diritti, politica, economia e governance. Si passa, poi, a definire le infrastrutture – e quindi gli aspetti tecnici-tecnologici legati a hardware e software – che dovrebbero portare a un’adozione di massa e un’interoperatività del metaverso. L’obiettivo finale dovrebbe essere il raggiungimento di una situazione in cui, con relativa facilità, si possa accedere a ogni metaverso tramite un client unico. Ma tutto ciò come impatterà con la nostra realtà? Per prima cosa la produzione (e condivisione) dei dati aumenterà smisuratamente, a causa della “cattura continua della realtà” che le tecnologie immersive consentono. Stando a uno studio di laboratorio condotto da XRSI, 20 minuti in VR completa generano circa 2 milioni di dati registrati tra dati tradizionali (login, percorsi di navigazione) e dati legati ai movimenti del corpo e degli occhi. Inoltre, il continuo miglioramento dell’efficienza di questi algoritmi consente di registrare dati biometrici non richiesti, quali asimmetrie corporali e, per esempio, utilizzo di droghe, ma che potrebbero essere particolarmente utili per monitorare la salute di chi utilizza tecnologie immersive. È facile intuire, quindi, quanto tutto ciò ponga delle nuove sfide in tema di sicurezza: è nata una nuova potenziale superficie di attacco per hacker e malintenzionati. Tramite VR e AR si possono, infatti, subire nuovi tipi di attacchi informatici quali:

  • Tracker attack: non esclusivo degli ambienti immersive ma particolarmente più efficace con questi, consente di sfruttare la natura permissiva dei sistemi VR e di prendere il controllo delle videocamere del dispositivo
  • Chaperone attack: fa si che si modifichino i confini virtuali della gabbia virtuale (il sistema che consente di non allontanarsi troppo dal punto di partenza mentre si usa un dispositivo VR), creando pericoli per l’utente e chi gli sta attorno
  • Human joystick attack: viene sfruttato lo scollamento tra ciò che l’utente vede e il luogo in cui si trova, l’hacker ne prende di fatto il controllo inducendo determinati movimenti tramite ciò che l’utente vede in VR
  • Overlay attack: vengono visualizzate immagini esterne sovrapposte alla visione dell’utente, di fatto sono un nuovo tipo di ransomware.

 

È abbastanza chiaro che, in questo contesto, diventa fondamentale ragionare su quali strumenti si possano usare per tutelare i diritti degli utenti nel metaverso. Per far ciò, Magnano identifica tre parole chiave su cui  basarsi: identità (quella digitale è diversa da quella fisica), proprietà (l’identità dovrebbe essere interoperabile e decentralizzata) e protezione (servono leggi e strumenti per tutelare l’identità degli “umani digitali).

 

Nella seconda parte del panel, Valentino Megale si è concentrato su un ulteriore aspetto di criticità legato alla tutela dei diritti nel metaverso: la protezione di bambini e ragazzi. Con la diffusione nel mercato di massa di visori economici, infatti, non è raro che minori entrino in contatto con tecnologie immersive. La realtà virtuale è, per definizione, meno controllabile di quanto lo siano i dispositivi che abbiamo conosciuto finora: per farla semplice, un genitore può facilmente controllare di che tipo di videogiochi fruisca o che video guardi suo figlio sul televisore o sul tablet, mentre è più complesso avere accesso a ciò che vede e fa in realtà virtuale. Le aziende si trovano, quindi, in una posizione privilegiata per monitorare i comportamenti di una fascia di popolazione particolarmente debole. Senza contare che si sta parlando di una tecnologia cognitiva che viene fornita a un pubblico ancora emotivamente e cognitivamente debole. I minori possono entrare in contatto con rischi associati al contenuto (contenuti sessuali o violenti), al contatto (abusi e stalking), alla condotta (molestie e cyberbullismo) e alle transazioni (phishing e furto di dati). Una tecnologia cognitiva come quella VR può portare, quando utilizzata da individui il cui sviluppo cognitivo è ancora in corso, a sviluppare bias cognitivi, a disturbi quali il Proteus Effect, in cui il minore tende a comportarsi come il proprio avatar anche all’esterno dell’ambiente virtuale, e gli After effects che portano a distorcere i movimenti del bambino dopo l’utilizzo del visore. Tutte queste criticità possono essere limitate, principalmente, sensibilizzando genitori ed educatori, e coinvolgendo le imprese e i policy maker. XRSI sta cercando di sviluppare alcune linee guida assieme a questi soggetti attraverso il progetto Metaverse Child Safety Framework.

 

Quando il calcio incontra il Metaverso

Gabriele Bernasconi ha presentato un case study realizzato dalla sua azienda, Genuino, presentando una strategia molto interessante per una squadra di calcio italiana che si è affacciata per la prima volta al mondo degli NFT e del metaverso.

Lo speaker è partito dalla spiegazione del concetto di possesso, fondamentale in quanto la necessità  dell’uomo di possedere cose si sta trasformando da oggetti fisici a oggetti virtuali. Non a caso, le persone non comunicano solo con le parole ma lo fanno anche attraverso quello che possiedono. Neymar, per esempio, ha acquistato un NFT che ha poi utilizzato come stampa per i suoi vestiti solamente per entrare all’interno di una nuova  community.

Oggi quindi possedere questi asset digitali ha assunto molta importanza, e ha permesso di passare ufficialmente da un collezionismo fisico a uno digitale.

 

Per pensare e mettere in pratica una strategia come quella che racconteremo, è fondamentale essere consapevoli dell’importanza della connessione tra mondo fisico e digitale, e partire con l’idea di voler costruire qualcosa di nuovo finora mai visto.

Genuino, l’azienda dello speaker, ha deciso di focalizzarsi proprio su questo tipo di connessione per soddisfare la richiesta della squadra di calcio.

 

Il progetto in questione ha visto protagonista la squadra di calcio della Fiorentina ed è stato realizzato in occasione dei 95 anni dalla fondazione del club. Per celebrare questo traguardo sono state pensate tre strategie specifiche che hanno visto come obiettivo principale la costruzione di una collezione di oggetti digitali collegati a quelli fisici da vendere ai tifosi della squadra.

Il primo obiettivo è stato la ricostruzione da zero in 3D di tutte le maglie realizzate dalla squadra dal 1926 ad oggi, un numero non indifferente. In seguito, è stata avviata una collaborazione con una scuola di comics di Firenze. Attraverso i loro artisti sono state create delle opere che sono diventate poi degli NFT. Infine, è stato curato e sviluppato il lato della soddisfazione del cliente.

In pratica, sono stati realizzati più di mille contenuti digitalizzati e sono stati inseriti all’interno di pacchetti online da vendere agli utenti.

Ma perché un tifoso avrebbe dovuto acquistare un NFT della sua squadra di calcio? La risposta è stata per stare più vicino alla propria squadra e avervi un accesso più diretto.

Il risultato di questo progetto? I pacchetti hanno riscontrato un successo enorme, il tasso di conversione è stato molto alto, tanto che il 15% degli utenti della piattaforma hanno acquistato i pacchetti. Ma l’aspetto più interessante di questa storia è il fatto che la maggior parte degli utenti che hanno acquistato questi pacchetti appartenevano ancora al web 2.0, quindi non avevano mai avuto a che fare con queste nuove tecnologie.

Il successo di questo progetto e la lezione da imparare è il fatto che è possibile abbattere limiti ancora evidenti che separano le persone da NFT e Metaverso.

La chiave per riuscire a portare questi utenti all’interno di una piattaforma così diversa è stata  il processo di educazione, in quanto è necessario come prima cosa spiegare in maniera chiara all’utente come funziona.

Per contrastare il fatto che solo l’1% della popolazione sa cosa siano gli NFT, hanno deciso di lavorare sull’autenticazione utente, ovvero utilizzando il metodo tradizionale di username e password per entrare nella piattaforma e successivamente hanno creato un ponte per permettere agli utenti di acquistare con una carta di credito la criptovaluta della piattaforma per acquistare gli NFT. In questo modo è stato molto più semplice per loro raggiungere un target ancora poco pratico con queste tecnologie.

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Cosa si aspettano i genZ dai brand? Intervista a Daniele Chieffi

Durante il Web Marketing Festival di quest’anno a Rimini, Daniele Chieffi ha tenuto, assieme a Nicolò Cappelletti, un panel dal titolo “In Brand veritas. Strategie e linguaggi di branding a misura di GenZ”. Il panel in questione presentava i risultati di uno studio su ciò che si aspettano e desiderano gli appartenenti alla GenZ – ovvero coloro nati tra il 1995 e il 2010 – dai brand. Abbiamo avuto modo di intervistare Chieffi, giornalista, saggista, docente universitario e fondatore dell’agenzia di comunicazione strategica Bi Wise, e di discutere con lui alcuni dei punti salienti dello speech.

 

Che genere di consumatori sono i GenZ, cosa si aspettano, cosa prediligono e cosa pretendono dai brand?

Questa è la domanda focale da porsi. Dalla ricerca che abbiamo presentato al Web Marketing Festival, emergono alcuni movimenti molto forti che sono un po’ la risposta a questa domanda che si pongono tutti i brand. Gli appartenenti alla GenZ amano i brand che parlano in maniera semplice e ironica. Con semplicità non si intende tanto il linguaggio in quanto tale, ma la struttura concettuale: non solo del singolo messaggio ma proprio del modo in cui si comunica. Semplicità vuol dire essenzialità, andare dritti al punto, essere chiari e sintetici. Ironia, invece, non è sarcasmo, ma la capacità di essere autoironici, non prendersi troppo sul serio.

Dopo di che, c’è un secondo elemento che è quello del purpose: come il brand si deve percepire ed essere percepito all’interno della società. Il brand deve, quindi, avere un impatto sociale, facendo qualcosa di concreto per la comunità che vuole presidiare. Deve, inoltre, essere sostenibile sia dal punto di vista ambientale che sociale.

La terza dimensione a cui fanno attenzione i GenZ è quella legata al modo in cui il brand viene percepito. Deve essere percepito come un brand in grado di essere accanto ai propri stakeholder quotidianamente. Tutto ciò da una visione decisamente strutturata di un brand che è fortemente soggettiva: brand che sono molto percepiti come soggetti e molto poco come aziende. Da questi tre aspetti nascono tutta una serie di aspettative.

 

Quindi, come si traduce a livello operativo l’approccio delle aziende nei confronti dei GenZ? Quali brand funzionano e perché?

L’approccio è quello di un brand che entra in comunicazione con la propria community, audience e stakeholder. Entra in conversazione partendo dall’ascolto. Quindi non partendo da ciò che è importante per l’azienda, ma da ciò che è importante per la comunità a cui si rivolge. Deve completamente cambiare approccio perché si deve sintonizzare sulle sensibilità di cui abbiamo parlato prima. Stando alla ricerca, tra i brand che spiccano tra i preferiti dai GenZ troviamo Apple, IKEA, Gucci, Durex e Coca Cola. Tutti questi brand hanno in comune l’essere stati in grado di interpretare meglio e rispondere in maniera netta e forte a queste nuove sensibilità.

 

Parlando di questo approcci conversazionale, nel panel si è parlato di passaggio dal concetto di “community” a quello di “famiglia”, cosa significa? Che implicazioni ha sulla comunicazione di marca?

Quello che abbiamo percepito è che dalla community, che era un gruppo di persone indistinto che si radunava attorno a un’esigenza o un’interessa, si è passati a qualcosa di più emozionale, di più vicino. Il concetto di famiglia non è, ovviamente, legato alla classica concezione della famiglia nucleare ma, piuttosto, vuole rappresentare una dimensione di sostegno reciproco. C’è proprio una sensazione di voler essere parte di una comunità che va oltre all’avere un interesse in comune ma che implica anche il supportarsi a vicenda. Ciò implica, secondo me, che i brand devono essere attivi, fare qualcosa di concreto per sostenere sia i propri clienti che la società tutta.

 

Una criticità che è emersa durante il panel è legata alla idiosincrasia tra la preferenza per i brand attivi nel campo della sostenibilità ambientale e sociale e l’assenza di enti che si occupino esclusivamente di queste tematiche (come, ad esempio, Emergency). Crede che possa essere una problematica? Come se la spiega?

Secondo me, i concetti di sostenibilità e di impatto sociale sono ciò che viene richiesto un po’ a chiunque. Tuttavia, chi ne fa un business o una missione viene percepito differentemente. Questo significa che, in realtà, ciò che importa è come i brand riescono a costruire la propria identità all’interno della comunità. Evidentemente, gli enti no-profit e le ONG non sono riusciti e non stanno riuscendo ad interpretare al meglio questo tipo di posizionamento. Ciò, inevitabilmente, li porta un po’ fuori dal percepito della GenZ.

 

Guardando ancora oltre: le imprese hanno già iniziato a studiare i comportamenti della generazione successiva, alpha? Sono già riscontrabili differenze nei comportamenti tra GenZ e GenAlpha? Quanta fatica stanno facendo le imprese per cercare di capire queste due generazioni?

È ancora molto presto per dirlo. Sicuramente la GenAlpha è molto diversa perché molto più calata in una dimensione di infosfera di quanto lo sia la GenZ. Mentre, quest’ultima, ha vissuto il digitale nel suo sviluppo, la GenAlpha è nata in un mondo in cui il digitale è stato fin da subito un tutt’uno col mondo in cui vivono. E, quindi, la prima differenza che possiamo riscontrare è con percepisco la differenza tra digitale e analogico come la percepiamo noi generazioni precedenti. Le aziende stanno facendo, già, molta fatica nel capire come comunicare con la GenZ a causa del radicale cambiamento percettivo. Non si tratta più di comunicazione ma di relazione. Tutte le aziende stanno investendo in questo anche se, ancora, non si giunti a una soluzione definitiva. Per quanto riguarda la GenAlpha, invece, l’impegno da parte delle aziende è ancora a bassa intensità nonostante, sicuramente, le più all’avanguardia stanno iniziando a porsi il tema del metaverso che, probabilmente, sarà il modo per intercettare quella generazione che nel metaverso ci crescerà.

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Netflix crolla in borsa: come reagirà il colosso dello streaming?

Lo scorso 20 aprile, Netflix ha perso il 35.1% in borsa e ha visto andare in fumo circa 58 milioni di capitalizzazione di mercato. Considerando che, nel corso del primo trimestre di quest’anno, Netflix aveva già perso 200 mila abbonati (il calo atteso per questo secondo trimestre è di 2 milioni), sembrerebbe sia iniziata la fase di declino per la grande N dello streaming. Ma a cosa è stato dovuto questo crollo? E come ha intenzione di reagire il colosso dello streaming? Ne parliamo in questo articolo.

 

Le cause del crollo

Netflix, ufficialmente, ha addotto come causa di questo crollo la perdita di circa 700 mila utenti in Russia dovuta al ritiro della piattaforma dal paese a seguito della guerra in Ucraina. Ma, in realtà, le cause che possono spiegare questa perdita di valore in borsa sono ben altre. In primo luogo, va considerato il fatto che Netflix ha aumentato il prezzo dei suoi abbonamenti nell’ultimo anno  (di 1 euro per l’abbonamento standard e di 2 per il premium) e ciò, specialmente in un momento di crisi economica come questo, avrebbe potuto portare molti utenti a scegliere di rinunciare alla piattaforma. Inoltre, ulteriori aumenti di prezzo sono previsti nei prossimi mesi: in Irlanda e Regno Unito il prezzo è già ulteriormente aumentato di 2 sterline. Bisogna, poi, considerare che negli ultimi anni la concorrenza nel mercato dello streaming si è fatta sempre più forte. Disney+ e Amazon Prime Video offrono servizi che poco hanno da invidiare a Netflix e decisamente più economici (8.99 euro al mese per Disney+ e 36 euro annuali per l’abbonamento Prime di Amazon). L’effetto Pandemia potrebbe aver anche giocato un ruolo non irrilevante: ora che le politiche restrittive stanno pian piano scomparendo, molti utenti iscritti alla piattaforma durante i vari lockdown potrebbero non sentirne più la necessità. Infine, piaga che da sempre affligge Netflix, è la condivisione degli account. Sebbene, infatti, inizialmente il colosso dello streaming avesse scelto di far “buon viso a cattivo gioco” e consentire la pratica, oggi Netflix si ritrova con circa 320 milioni di fruitori di contenuti a fronte di “soli” 222 milioni di iscritti. Un utente su tre sarebbe, quindi, “a scrocco” di altri utenti e risulterebbe non pagante per Netflix.

 

Le prossime mosse di Netflix

Per cercare di risolvere il problema degli utenti non paganti, Netflix sta già sperimentando in Cile, Perù e Costa Rica l’introduzione di un pagamento aggiuntivo di circa 2 euro per accedere al proprio account fuori casa, a far fede dovrebbe essere l’indirizzo IP. Inoltre, Reed Hastings, ad e co-fondatore di Netflix, ha dichiarato che la compagnia ha intenzione di introdurre un abbonamento low cost con pubblicità, come avviene con le piattaforme rivali Hulu e HBO Max che in media propongono circa 6 minuti all’ora di pubblicità a chi sottoscrive l’abbonamento più economico. Dal punto di vista più aziendale, per contenere i costi, purtroppo, Netflix si è vista costretta a tagliare circa 150 posti di lavoro negli Stati Uniti. Per lo stesso motivo diversi contenuti annunciati sono stati cancellati – per lo più nel campo dell’animazione – tra cui la prevista serie animata di Meghan Markle. Resta, inoltre, da vedere quanto la neonata sezione videogame di Netflix influirà sugli abbonati anche se, al momento, non sembrerebbe aver avuto un impatto positivo sugli iscritti.

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La divulgazione scientifica in Italia tra tradizione e innovazione: il caso di SuperQuark+

Parlare di scienza non è semplice, a maggior ragione in un ecosistema comunicativo dove si sono accelerati i processi di fruizione del contenuto: come si può approfondire discipline come la medicina, la geologia o l’astronomia, quando si è abituati a guardare video da 30”?

Eppure, se si scava più a fondo, si scopre che l’interesse anche fra i più giovani c’è: ad esempio, su Instagram gli hashtag #divulgazione e #divulgazionescientifica sono rispettivamente citati 115 mila e 66 mila volte, mentre su TikTok hanno ottenuto rispettivamente 41,3 milioni e 10,5 milioni di visualizzazioni.

Non solo: come racconta l’osservatorio di etnografia digitale BeUnsocial, sono molti i casi di YouTuber scienziati, che sui propri canali scelgono parlare di temi altamente complessi, con risultati di tutto rispetto.

Come intercettare quindi un pubblico sempre più elastico e poco fidelizzato, ormai abituato a reperire online ciò che fino a pochi anni fa era tradizionalmente legato ai cosiddetti old media?

I tentativi sono stati diversi. Uno dei più interessanti è quello fatto da un’istituzione della tv italiana, SuperQuark, il format ideato da Piero Angela e che sta progressivamente riacquistando molti consensi, anche dai più giovani.

Nel 2019 la redazione del programma ha introdotto per RayPlay SuperQuark+, uno “spinoff” di SuperQuark rivolto al pubblico dove lo storico conduttore è affiancato a turno da cinque divulgatori: Davide Coero Borga (laureato in filosofia della scienza), Giuliana Galati (dottore di ricerca in fisica delle particelle), Luca Perri (dottore di ricerca in fisica e astrofisica), Edwige Pezzulli (dottore di ricerca in astrofisica) e Ruggero Rollini (laureato in chimica): un incontro insomma fra una voce “classica” e una più “innovativa”, che punta a creare un mix attrattivo anche per chi ormai non concepisce più di guardare i documentari in prima serata.

Il programma, reperibile in esclusiva in streaming sulla piattaforma della rete di stato, punta a intercettare l’interesse verso le scienze, parlando però un linguaggio più fresco e coinvolgente.

Pe farci spiegare come si possa lavorare a una divulgazione scientifica che sia più innovativa e cammini nel solco della tradizione abbiamo intervistato Paolo Magliocco, giornalista e autore televisivo in RAI dove si occupa di SuperQuark e SuperQuark+.

 

Come è nata l’idea di Superquark+?

È un’idea maturata poco alla volta: a Piero Angela è stato proposto di creare una versione sul web di Superquark per rafforzare RaiPlay. La strategia della Rai era creare un prodotto dedicato esclusivamente al web. Piero Angela mi ha chiesto in particolare di seguire l’elaborazione del progetto ed è nata l’idea di coinvolgere dei divulgatori più giovani rispetto alla squadra storica di Superquark e di cambiare un po’ il formato: non fare più soltanto il magazine con i servizi all’interno, ma costruire delle puntate monotematiche o addirittura, come è stato nell’ultima edizione, una serie monotematica.

Quali sono le differenze nella scrittura di un programma web rispetto a quello televisivo?

Per noi non ci sono state grandi differenze nella scrittura del programma, anche perché abbiamo mantenuto uno stile simile a quello di Superquark che ci ha permesso di mantenere il pubblico affezionato e contemporaneamente trovare un pubblico nuovo che difficilmente guarda la TV tradizionale.
La breve durata dei singoli video di SuperQuark+ costringe a focalizzarsi su un numero minore di informazioni, centrando immediatamente l’obiettivo, al contrario di un servizio televisivo che in sei-sette minuti permette di avere una premessa, uno svolgimento e una conclusione.
Rispetto al prodotto televisivo che è un magazine e dunque strettamente collegato con l’attualità, per Superquark+ abbiamo deciso di non partire dalle scoperte più recenti, ma di concentrarci su un campo più ampio che permettesse alle puntate di rimanere attuali per un periodo di tempo più lungo.
Per quanto riguarda invece la regia invece bisogna concepire le riprese da un punto di vista diverso, perché bisogno tener conto che il programma sarà visualizzato da uno schermo più piccolo.

Quali saranno i cambiamenti della divulgazione scientifica sul web, a tuo parere?

Per molto tempo non è stato chiaro quale direzione avrebbe preso il web, sono state tentate molte strade diverse e si è avuto molto spazio per sperimentare.
Per il futuro è difficile dirlo, il web evolve molto velocemente e in direzioni diverse. C’è spazio per la sperimentazione: per esempio SuperQuark+ è passato da avere in ogni stagione puntate su argomenti diverse collegate da un fil rouge ad avere una stagione monotematica sull’amore, argomento che raggiunge un pubblico trasversale.
Secondo me, una tendenza di cui bisognerà tenere conto è la propensione del pubblico a rimanere connesso sempre più a lungo: non c’è più solo una fruizione compulsiva alla fermata della metropolitana, ma il web sta ormai divenendo un’abitudine, basti pensare alla durata delle puntate dei podcast scientifici (generalmente da trenta a sessanta minuti, ndr.) e che sono molto seguiti.

Se siete curiosi di scoprire come sia SuperQuark+, tutte le stagioni sono disponibili sui RaiPlay.

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Academy Awards: un declino inevitabile?

Gli Academy Awards – meglio noti come gli Oscar – sono da sempre un evento con un prestigio e una rilevanza internazionale, eppure, da qualche anno sembrano aver perso il loro appeal. Se sommiamo gli spettatori dell’evento degli ultimi due anni, infatti, si raggiunge a stento la metà degli spettatori che seguivano lo show in un anno qualsiasi del primo decennio di questo secolo. A cosa è dovuta questa perdita di interesse verso l’evento live? Cosa sta cercando di fare l’Academy per riconquistare pubblico e attirare gli spettatori più giovani? Ne parliamo in questo articolo.

Come sono andati gli ultimi anni?

Gli Oscar, oltre ad essere il premio più prestigioso in ambito cinematografico, sono anche il più antico e la prima edizione dell’evento risale al 16 maggio 1929, con una piccola cerimonia durata circa 5 minuti e a cui assistettero 250 spettatori. Negli anni, le iconiche statuine d’oro con cui vengono premiati film, attori, registri e altri artisti da ormai 93 anni sono diventate un simbolo riconoscibile anche da chi non segue il mondo del cinema. Per questo parlare di “declino” in senso stretto potrebbe risultare un po’ fuorviante. Gli Oscar, infatti, mantengono tutt’ora la loro massima importanza nel settore. Ciò nonostante gli andamenti degli ascolti negli ultimi anni parlano chiaro.

 

grafico statista

Come si può facilmente vedere dal grafico di Statista, dal 2014 in poi è iniziata una lenta dispersione degli spettatori che sono scesi da quasi 44 milioni a circa 10 milioni nel 2021. Certo, quest’anno abbiamo visto una crescita di più del 50% rispetto allo scorso che, probabilmente, è stata in parte dovuta all’ormai tristemente famoso schiaffo di Will Smith. Certo è, però che 15 milioni di spettatori restano una miseria per un evento storico ed internazionale come gli Academy Awards. Per capire meglio quanto questo numero sia basso, basti considerare che la finale del Festival di Sanremo 2022 (evento in lingua italiana e per questo, checché se ne dica, con meno appeal internazionale) è stata seguita da più di 13 milioni di telespettatori. Ma a cosa può essere dovuto questa perdita di interesse?

Le critiche all’Academy

Senza considerare che l’audience televisiva sta diminuendo in generale a favore del web, questa perdita di pubblico può essere stata dovuta alle diverse critiche che hanno colpito l’Academy negli ultimi anni. Gli organizzatori degli Oscar sono stati, infatti, spesso accusati di prediligere la valorizzazione di argomenti percepiti come politici, quali la diversità e l’uguaglianza, all’effettiva qualità del film premiato. Lo show in sé è stato, inoltre, spesso criticato per l’eccessiva lunghezza, la lentezza del ritmo, la pochezza di contenuti di intrattenimento e, più in generale, per essere poco “giovanile”. Spesso, inoltre, vengono celebrati agli Oscar film che hanno poco appeal verso il pubblico generalista e che, quindi, rendono la premiazione poco interessante e coinvolgente.

Oscar 2022: salvare il salvabile?

Nell’ultima edizione, dopo i disastrosi dati d’ascolto del 2021 (probabilmente causati anche dalla Pandemia), l’Academy ha tentato di “ringiovanire” lo show presentando diverse novità. Innanzitutto, dopo tre edizioni prive di conduzione, si è deciso di affidare la presentazione degli Oscar a un cast tutto femminile affiancate da nomi storici dell’industria televisivo-cinematografica per tutta la serata. Per rendere più veloci i tempi, si è scelto di tagliare dalla diretta televisiva la premiazione di 8 delle categorie meno seguite (miglior cortometraggio documentario, miglior montaggio, miglior trucco e acconciatura, miglior scenografia, miglior cortometraggio d’animazione, miglior cortometraggio, miglior sonoro), mostrandone solo delle brevi clip dell’assegnazione dei premi. È stato, infine, introdotto il premio al film “fan favorite” per aumentare le interazioni con il pubblico giovane online. Per questa categoria, infatti, è stato possibile votare via Twitter il proprio film preferito tra dieci candidati.

Queste mosse hanno funzionato? . Se da un lato l’Oscar al film preferito del pubblico ha generato dibattito online e interazione tra gli utenti, c’è anche da dire che, di fatto, la questione si è risolta in una lotta tra fan-base e che , per qualche giorno, ha messo in ridicolo l’iniziativa quando Cenerentola di Key Cannon (non certo un “filmone”) risultò essere in testa al sondaggio. Pure la decisione di tagliare dalla cerimonia la premiazione di 8 categorie non sembra aver avuto particolarmente senso dato che l’evento ha finito, comunque, per sforare le tre ore previste. Alla luce di tutto ciò, pare, davvero, che il buzz creato attorno all’eccessiva reazione di Will Smith possa essere l’unica spiegazione per la migliore performance d’ascolti rispetto lo scorso anno. Edizione del 2021 che, è bene notarlo, si svolse, tra l’altro, in versione ridotta e ridimensionata a causa del covid.

Insomma, sembrerebbe che l’Academy dovrà prendere scelte decisamente più radicali e innovative per tornare ai fasti di un tempo, gli Oscar riusciranno a risollevarsi?

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Microsoft e Sony: le grandi del mercato console si espandono

Negli ultimi mesi, Microsoft e Sony, i due principali player del mercato console, hanno iniziato una “campagna acquisti” che mira ad espandere le line-up di titoli in esclusiva delle due rispettive console competitor, Xbox Series X e PlayStation 5. In particolare, per ora, si parla di “sole” due grandi operazioni ma che, tuttavia, lasciano intravvedere grossi cambiamenti nel mercato, soprattutto tra gli studi medio-grandi.

Microsoft acquista Activision-Blizzard: un affare storico

Il 18 gennaio, con una mossa che ha stupito molti nell’industria videoludica, Microsoft ha acquisito, con un investimento di circa 70 miliardi di dollari, Activision-Blizzard, la terza società di gaming al mondo per vendite dopo Tencent e Sony.

In questo modo, la compagnia di Redmond è entrata in possesso non solo degli enormi studios della compagnia americana ma anche di tutte le sue celebri proprietà intellettuali. Tra i giochi che in un futuro non troppo lontano potrebbero diventare esclusiva Xbox ci sono quelli delle serie Call of Duty, Crash Bandicoot, Warcraft e Overwatch. Senza considerare che Activision-Blizzard aveva già assorbito, a sua volta, King Digital Entertainment, compagnia dietro i successi mobile di Candy Crush Saga e Bubble Witch Saga. Certo, resta il fatto che al momento Microsoft ha affermato di non rendere i giochi Activision-Blizzard sue esclusive console, ma sembra chiaro che la prospettiva di avere un parco titoli dedicato alle sole console Xbox non può che far gola alla compagnia fondata da Bill Gates. Soprattutto ora che punta sempre di più sul suo Game Pass, di cui vi abbiamo brevemente parlato in questo articolo.

Sony rilancia comprando Bungie: è abbastanza?

Poche settimane dopo la mossa di Microsoft, Sony annuncia di aver acquistato lo studio Bungie, autori del celebre sparatutto-RPG online Destiny e dei primi Halo. L’operazione è costata alla compagnia giapponese circa 4 miliardi di dollari e, nonostante Bungie manterrà la sua indipendenza creativa, renderà tutti i futuri titoli dello studio esclusiva PlayStation.

Ovviamente, l’acquisto di una software house come Bungie non può minimamente essere paragonato all’acquisizione di Activision-Blizzard. Tuttavia rende chiaro come Sony non abbia intenzione di restare a guardare e intenda espandere il suo parco titoli acquisendo altri studios. Tant’è che a Sony, pare, risultino ancora altri 10 miliardi di dollari pronti per essere investiti in altre acquisizioni da qui al 2023. Secondo molti analisti ed esperti, i prossimi obiettivi nel mirino di Sony potrebbero essere le due compagnie giapponesi Capcom, famosa per le serie Street Fighter e Monster Hunter, e Konami, che nonostante il “basso profilo” degli ultimi anni resta un nome storico e altisonante nel settore.

Nintendo resta all’angolo?

In tutto questo qualcuno potrebbe lecitamente chiedersi se anche Nintendo abbia intenzione di fare acquisizioni importanti a breve. Infatti, anche se sarebbe una forzatura definire la Nintendo di oggi una competitor diretta di Sony e Microsoft, non si può ignorare il fatto che Nintendo Switch è attualmente una delle console più vendute della storia. Nintendo cercherà dunque di seguire la strada tracciata da Sony e Microsoft acquisendo studi di terze parti? Per ora la risposta sembrerebbe negativa. Shuntaro Furukawa, presidente della compagnia di Kyoto, ha infatti dichiarato che “il nostro brand è stato costruito sulla base di prodotti realizzati con dedizione da parte dei nostri dipendenti, avere sotto il nostro controllo un grande numero di persone che non possiedono il DNA Nintendo non sarebbe un vantaggio per la nostra azienda”. Posizione comprensibile se si considera che Nintendo ha già uno sconfinato numero di proprietà intellettuali a cui ricorrere per produrre i propri videogiochi first-party.

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Pokémon: cronaca di un successo decennale

Con ben 110 miliardi di dollari incassati dal 1996 a oggi, Pokémon è il franchise mediatico di maggior successo della storia. Il dato potrebbe stupire, considerando che nella classifica rientrano marchi come Topolino e Winnie The Pooh, ma solo fino ad un certo punto: d’altronde chi non conosce almeno il nome di un Pokémon? Pikachu è, ormai da anni, considerato da molti il “Topolino giapponese”. Ma come è nata la mania dei mostriciattoli tascabili negli anni ’90 e come ha ritrovato nuova linfa nell’ultimo decennio? In questo articolo cercheremo di esaminare tutta la storia del brand, dalle origini ai giorni nostri.

 

Insetti e sale giochi: le origini

 

Il brand Pokémon nacque dalle menti di Satoshi Tajiri, un uomo giapponese con la passione per gli insetti, e del suo amico Ken Sugimuri, illustratore che diede vita alla maggior parte dei design delle prime creature tascabili. I due si conobbero in una sala giochi nel 1982 e fondarono la rivista di videogiochi “Game Freak”. Nome, quest’ultimo, che verrò riutilizzato sette anni più tardi da Tajiri per la sua software house.

Tajiri vide per la prima volta un Game Boy nel 1991 e, notando il cavo Game Link (NDR, accessorio necessario per consentire il gioco multiplayer tra due Game Boy), immaginò degli insetti passare da una console all’altra. Così nacque l’idea dei mostriciattoli tascabili e Game Freak si dedicò completamente allo sviluppo dei primi due storici titoli della saga – Pokémon Rosso e Pokémon Verde – per i sei anni successivi.

 

Il successo tra gli anni ’90 e i primi anni 2000

 

Nonostante le iniziali perplessità della publisher Nintendo, Pokémon Rosso e Verde furono pubblicati in Giappone il 27 febbraio 1996 riscuotendo un discreto successo. Per quanto possa sembrare assurdo, infatti, le vendite dei due titoli per Game Boy ebbero un vero e proprio boom quando fu resa nota l’esistenza nei giochi del Pokémon Mew, ottenibile solamente attraverso un concorso della celebre rivista giapponese per ragazzi Coro Coro. Questo concorso ebbe un enorme successo e contribuì a far conoscere i Pokémon nel Paese del Sol Levante. Determinante fu anche la scelta di distribuire il gioco in due versioni parallele – Rosso e Verde per l’appunto – con lo scopo di invogliare i giocatori a incontrarsi e scambiarsi i Pokémon non ottenibili nella propria versione tramite Game Link.

Con l’aumento vertiginoso delle vendite dovute al concorso, Game Freak decise di pubblicare subito Pokémon Blu, una versione leggermente corretta dei titoli originali. Quest’ultima versione è, poi, quella che è stata pubblicata in Nord America nel settembre 1998 e in Europa nell’ottobre 1999, con i titoli di Pokémon Rosso e Pokémon Blu.

 

La serie principale: come funzionano i giochi Pokémon?

 

Ma facciamo un passo indietro, come funzionano i giochi Pokémon della saga principale? Essenzialmente si tratta di una serie di giochi di ruolo in cui il giocatore impersonifica un “allenatore di Pokémon” con lo scopo di diventare il Campione (sconfiggendo i vari personaggi che dovrà affrontare nel corso dell’avventura) e di collezionare tutte le creature tascabili. Nonostante non fossero il “core” dell’idea originale di Tajiri, le lotte a turni tra Pokémon hanno, vista la loro stratificazione strategica, originato un vivace ambiente competitivo che ha portato, nel 2004, alla nascita della prima Pokémon World Championships. Competizione che ha visto, nel 2021, trionfare l’Italia con la vittoria di Leonardo Bonanomi.

Questa struttura doppia – lotte e collezionismo – è rimasta, con le dovute evoluzioni, essenzialmente intatta fino ad oggi. Tant’è che chiunque abbia giocato a un titolo Pokémon negli anni ’90 difficilmente avrà problemi ad ambientarsi in una delle ultime iterazioni del franchise. Questo rispetto verso i fan storici, forse, è un’altra delle chiavi del duraturo successo dei Pokémon.

 

Variare è la regola, gli spin-off

 

Nonostante i giochi della serie principale siano sempre stati i più venduti (basti pensare che il recente Pokémon Legends Arceus ha già surclassato le vendite dello spin-off non free-to-play di maggiore successo, Pokémon Stadium del 1999), The Pokémon Company, la compagnia che gestisce tutto ciò che porta il marchio Pokémon dal 1998, ha sempre distribuito anche videogiochi che si discostano dalle dinamiche classiche dei giochi Pokémon di cui abbiamo parlato nel precedente paragrafo. Tra questi spin-off, senza dubbio, quello che ha avuto più visibilità, anche sui mass media, è Pokémon GO. Quest’ultimo, è disponibile come free-to-play per dispositivi mobile dal 2016 e, anche grazie ai suoi continui aggiornamenti, è riuscito a superare il miliardo di download in tutto il mondo. Nonostante l’attenzione del pubblico generalista sia, come è naturale dopo sei anni, scemata, Pokémon GO può ancora contare su un gran numero di giocatori attivi. Tant’è che il 2020 e il 2021 sono stati gli anni più remunerativi per Niantic, casa sviluppatrice del gioco, e The Pokémon Company, con rispettivamente 917 e 904 milioni di dollari incassati.

Tra gli spin-off, merita menzione anche il recente Pokémon Unite, disponibile, anch’esso come free-to-play, per Nintendo Switch e smartphone dalla scorsa estate. Unite è una rivisitazione in salsa Pokémon dei MOBA come League of Legends e sta già riscuotendo un notevole successo, soprattutto tra i giocatori più competitivi e dediti agli eSport. In questi giorni, infatti, si sono appena tenuti i primi campionati ufficiali regionali che porteranno al mondiale di Londra a fine anno.

 

Pokèmon: il Re Mida del merchandise

 

Nonostante Pokémon nasca come videogioco, se dovessimo guardare un ipotetico bilancio dei ventisei anni di vita del brand, la voce più remunerativa, con i suoi 82 miliardi di dollari, risulterebbe essere il merchandise. D’altronde quando hai più di un migliaio di mostriciattoli e decine di personaggi resi celebri dalla seguitissima (dai più piccoli) serie anime di cui vendere peluche, action-figure e giocattoli, perché non approfittarne? Per non parlare, poi, dell’immenso successo che ha ottenuto il gioco di carte collezionabili Pokémon. Fenomeno letteralmente esploso, soprattutto dal punto di vista collezionistico, nel corso degli ultimi due anni. Soprattutto le prime espansioni del gioco hanno raggiunto valori altissimi, come successo ai box del primo set che attualmente hanno un valore medio che oscilla attorno agli 11000 euro.

 

Insomma, Pokémon ha dimostrato, nel suo quarto di secolo d’esistenza, di avere tantissime frecce al suo arco, dimostrando di sapersi innovare e di puntare a più mercati contemporaneamente. Difficilmente – fortuna aggiungerei io – ce ne “libereremo” nei prossimi anni, e chissà che il brand non possa trovare nuova linfa grazie al metaverso e alle nuove tecnologie di cui vi parliamo spesso qui su iWrite.

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Fantasanremo: il lato bello del “pubblico ludibrio” – intervista a Giacomo Piccinini

Durante la scorsa settimana si è tenuto il settantaduesimo Festival di Sanremo. Sembrava un’edizione come le altre fino a che uno dei protagonisti in gara non ha concluso la sua performance al grido di “Fantasanremo”. Per alcuni telespettatori deve essere sembrata la recitazione di una strana formula magica mentre per altri è stato solo l’inizio di un emozionante campionato che ha visto scendere in campo, o meglio sul palco, quasi 500.000 fantasquadre che si sono dimostrate pronte a tutto per conquistare la gloria.

A quasi una settimana dalla conclusione del Festival, la redazione di iBicocca ha intervistato Giacomo Piccinini, uno dei creatori del fantagioco del momento.

Come è nata l’idea?

Fantasanremo nasce da un gruppo di musicisti, tecnici, fonici, insomma lavoratori del mondo dello spettacolo, che già da tempo si riuniva ogni anno per vedere il Festival di Sanremo al bar “Corva da Papalina in una piccola cittadina del fermano, nelle Marche. Più che altro ci piace definirci come “un piccolo ma gioioso manipolo di appassionati del Festivàl” e proprio animati da questa passione nel 2019 abbiamo costituito “la Giuria Microscopica” una commissione che, dopo una serie di attentissimi ascolti dei brani in gara, era chiamata a esprimersi sugli artisti prendendo in considerazione vari aspetti delle esibizioni che spaziavano dall’esibizione canora, all’abbigliamento e ai gesti compiuti sul palco. Nel 2020, abbiamo deciso di tentare un “upgrade” di questo punto di ascolto. Da una costola della Giuria Microscopica nasce la Commissione FIF (Federazione Italiana Fantasanremo) che, per l’appunto, elabora il regolamento del Fantasanremo ossia una specie di fantacalcio a tema Festival. Il primo anno era un gioco riservato ai frequentatori del bar, in tutto avevamo una cinquantina di iscritti, ma l’anno dopo a causa del covid siamo stati costretti a sbarcare sul web. All’epoca ci sembrava un bel segnale vista la difficoltà del momento: volevamo poter continuare a sfidarci tra amici pur rimanendo ciascuno a casa propria. In pochissimo tempo, anche grazie al potere dei social, il Fantasanremo è diventato virale e dalle 50 squadre dell’anno precedente sono diventate 50 mila fino a raggiungere il record nel 2022, anno in cui il numero dei partecipanti è praticamente decuplicato.

 

E per chi non lo conoscesse, puoi dirci un po’ come funziona questo Fantasanremo?

Il meccanismo non è diverso da quello degli altri fantagiochi come ad esempio il fantacalcio. Nel nostro caso i giocatori sono gli artisti in gara all’Ariston e ciascun fantallenatore deve comprare cinque artisti con un budget massimo di 100 Baudi, moneta di fantasia dedicata a Pippo Baudo.  Le azioni svolte dall’artista, durante la performance ma anche durante tutta la settimana della rassegna musicale, fanno guadagnare (bonus) o perdere (malus) punti al fantallenatore che lo ha inserito nella propria rosa. I bonus e i malus possono essere legati sia alla prestazione musicale sia a fatti goliardici che possono accadere dipendentemente o indipendentemente dalla volontà dell’artista. Al termine della rassegna vince il fantallenatore che ha totalizzato più punti.

Vi aspettavate tutto questo coinvolgimento da parte degli artisti, sia giovani che meno giovani?

Sicuramente un po’ di coinvolgimento da parte degli artisti ce lo aspettavamo soprattutto perché già lo scorso anno 25 artisti su 26 avevano nominato il Fantasanremo durante le loro interviste e alcuni come Lo Stato Sociale, Random e Colapesce e Dimartino avevano “recitato” la parola magica direttamente in eurovisione. Quest’anno c’è stata una vera e propria esplosione del fenomeno Fantasanremo e crediamo che almeno in parte la “colpa” sia da attribuire a Gianni Morandi che è stato il primo a nominarci sul palco dell’Ariston dimostrando a tutti che era possibile rompere gli schemi e ironizzare sul festival più importante della musica italiana. Morandi ha davvero “aperto tutte le porte” giustificando e spronando la partecipazione anche da parte dei giovanissimi concorrenti.

 

Quest’anno il Festival ha fatto registrare degli ascolti da record, sentite di aver contribuito in qualche modo al suo re-branding? E come avete reagito alle critiche di chi ha accusato di aver “rovinato” il Festival della canzone italiana?

I dati diffusi confermano la straordinarietà degli ascolti oltre al fatto che, per la prima volta, è stato registrato un enorme coinvolgimento da parte dei social. Merito nostro? Questo lo lasciamo dire agli altri. Intanto però abbiamo chi sta analizzando questi dati così da conoscere, a posteriori, se effettivamente il merito è anche di Fantasanremo. Da parte nostra siamo propensi ad affermare che molto del merito va riconosciuto a Amadeus perché grazie alle sue scelte ha avvicinato i giovani alla rassegna. La sua direzione artistica ha aperto il teatro Ariston a mondi che fino a qualche anno fa erano considerati lontani dal Festival; basti pensare che i giovanissimi sono stati inseriti nella categoria dei “big” e che sono stati coinvolti stili musicali completamente diversi da quelli a cui si era abituati. In questa grande ondata di novità il Fantasanremo potrebbe aver contribuito a rendere virale il Festival, rendendolo ancora più fruibile ai giovani attraverso il coinvolgimento social.
Per quanto riguarda le critiche fortunatamente ne abbiamo lette molto poche e quasi tutte riguardanti l’invasività del Fantasanremo: a nostra “discolpa” possiamo dire che mai ci saremmo aspettati un’adesione così importante da parte degli artisti. È vero, il regolamento in generale è stato piuttosto invasivo ma questo non ha ostacolato in alcun modo lo svolgimento delle serate e anzi, ad un certo punto lo stesso Amadeus è stato al gioco tanto da spingere gli artisti a compiere ogni sorta di goliardia potesse permettere loro di portare a casa un bel bottino di punti. Però ecco, non credo che questo abbia rovinato il clima del Festival, anzi ne sono certo, infatti in conferenza stampa sia Amadeus che il direttore di Rai 1 hanno ribadito che non si stava urtando la sensibilità di qualcuno ma anzi, Fantasanremo ha rappresentato un buon pretesto per rompere gli schemi infrangendo quell’alone di chiusura e serietà che ormai da anni caratterizzavano il festival di Sanremo. Ci dispiace sapere che qualcuno ha trovato poco opportuno il nostro gioco ma abbiamo fatto tesoro della lezione e stiamo lavorando già al prossimo regolamento. Per le future edizioni faremo in modo che il tutto sia molto meno invasivo e anche molto meno dipendente dalla volontà degli artisti. Vorremmo tornare a affidarci al caso e vorremmo che tutto sia molto più criptico così che chi non partecipa al Fantasanremo nemmeno si accorgerà di ciò che sta avvenendo sul palco mentre i fantallenatori potranno “gasarsi ancora di più”.

 

Sappiamo che anche quest’anno state già preparando per il Fantaeurovision, pensate di internazionalizzare questo gioco estendendolo anche a altri paesi?

Sì, in realtà per il Fantaeurovision è già quasi tutto pronto e il sito è già multilingua dallo scorso anno. Infatti, già nel 2021 abbiamo coinvolto diversi paesi e la stessa parola “Fantaeurovision” è stata detta da diversi altri artisti partecipanti tra cui ricordo sicuramente i tedeschi e gli islandesi. Data la “storica” rivalità siamo anche rimasti piacevolmente colpiti dall’enorme partecipazione da parte del pubblico di San Marino. Siamo molto fiduciosi nel coinvolgimento delle altre nazioni anche perché, dati alla mano, il Fantasanremo è stato giocato da tutti i continenti escluso l’Antartide e questo, insieme al fatto che lo ospiteremo in Italia, ci fa sperare in una sempre maggiore visibilità che si tradurrà per tutti in un maggiore divertimento.

 

Avete programmi per il futuro? Pensate di estendere questo modello di “fantasy play” anche ad altri eventi?

Il nostro progetto per il futuro è non avere progetti per il futuro. Per ora posso solo dire che continueremo a giocare a vita al Fantasanremo e al Fantaeurovision. Non ci poniamo limiti ma ci interessa continuare a divertire e a divertirci. Tuttavia, arrivati a questo punto è doveroso tenere conto di quanto del nostro tempo dobbiamo dedicare all’organizzazione della macchina del Fantasanremo: noi siamo musicisti e la nostra grande speranza è quella di tornare a fare anche il nostro lavoro che purtroppo attualmente non possiamo fare regolarmente a causa covid. Quindi tra gli auguri che rivolgiamo a noi stessi c’è anche quello di avere poco tempo per creare altri fantagiochi perché saremo tornati a svolgere a pieno il nostro impiego principale.

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Il lancio della biografia di Will Smith è un bell’esercizio di personal branding

L’uomo dietro il personaggio: da questo principio nasce la campagna di lancio del nuovo libro di Will Smith, una biografia che racconta non solo i suoi successi, ma anche le sue insicurezze, le paure e i traumi del passato.

 

Un libro che non si ferma alla figura dell’uomo sempre allegro, ispirato e carismatico, ma che anzi si spinge oltre, attraverso un percorso introspettivo e di auto-accettazione, che lo porterà ad esporre le sue fragilità, passate e presenti.


Un lancio che è anche una storia: come è stata presentata la biografia

 

Will Smith ha sempre cercato di mostrare quanto fosse in grado di spingersi oltre, di non porsi limiti. E dato che il nuovo libro doveva essere annunciato in maniera originale ed efficace, ha pensato di creare un format diviso in sei episodi, diffuso su YouTube in queste settimane. L’obiettivo dello show: perdere circa nove chili in venti settimane, a cinquantadue anni.

 

Performance, ambizione, delusione, distruzione, trasformazione, amore: questi i temi trattati nei sei episodi. L’attore li sviscera in maniera approfondita, sviluppandoli su un duplice piano: una sfida sia sul piano fisico, con un allenamento e un regime di dieta sempre più estenuante, sia sul piano mentale, con la rievocazione dei ricordi, le difficoltà nella scrittura e il conseguente blocco creativo.

 

Il risultato della sfida

 

Lo show ha preso una piega inaspettata soprattutto per il protagonista; trovandosi al limite delle forze, deve prendere una decisione: continuare fino allo stremo, persistendo nel mostrarsi al pubblico come un eterno vincente, o abbandonare la sfida per concentrarsi a pieno sulla stesura del libro.

La scelta fatta è stata quella migliore per la sua salute mentale: arrendersi alla sfida fisica per lavorare soltanto sul suo equilibrio interiore.

La lezione finale, quindi, è accettare il fallimento se questo risulta essere più benefico per sé stessi, sia per il corpo che per la mente.

 

Ciò che ci restituisce la campagna è una nuova immagine di Will Smith: una persona come le altre, che oltre alle innumerevoli vittorie, ha avuto di fronte anche numerosi periodi bui, da cui non vi è mai uscito del tutto. Aprendosi ad una visione più intima di sé, riesce così ad avvicinare ulteriormente la propria community, mostrandosi spontaneo e autentico come mai prima d’ora.

 

Will Smith, secondo le regole del branding

 

Grazie a questo output di assoluta qualità, è possibile evidenziare i tratti fondamentali dell’attore, che si traducono anche nel suo modo di comunicarsi: rilevanza ed emozione. Da un lato, infatti, Will Smith è riuscito a adattarsi nel corso del tempo abbracciando i cambiamenti e mantenendo l’attenzione su di sé; dall’altro i contenuti distribuiti secondo una logica seriale hanno permesso di sviluppare una forte componente empatica, in grado di fare breccia nella mente del pubblico e fidelizzare tutti coloro che lo conoscono, soprattutto, attraverso la sua filmografia.

 

Semplicità, simpatia e adattamento hanno reso la figura di Will Smith unica nel tempo: elementi di differenziazione che si sono rafforzati nel corso degli anni e hanno trovato maggiore forza in questo show, potenziando ulteriormente il suo personal branding.

Come ci mostra (anche) la sua biografia una cosa è certa: la sua carriera non è ancora al tramonto

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Pink Power o Pink Washing? Capiamolo insieme – Intervista alla ricercatrice, docente e scrittrice Anna Zinola

Anna Zinola è attualmente docente e ricercatrice dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano presso cui ha anche conseguito un in Metodologia. Si occupa di ricerche di mercato dal 1993 ed ha sviluppato nuovi strumenti di ricerca per identificare e interpretare comportamenti, bisogni ed aspirazioni umane. È editorialista del Corriere della Sera e scrittrice di numerosi libri riguardanti ricerca qualitativa e marketing trend. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo il libro “Diverso da chi – l’inclusione come strumento di marketing”, in cui affronta il controverso rapporto tra (pretesa di) inclusività e brand: in un mondo sempre più impegnato ad investire risorse nella promozione di politiche legate alla diversità, il più delle volte in ottica strumentalizzante e parassitaria, è possibile riuscire a distinguere il fake dal real?

In un intervento da lei tenuto al Web Marketing Festival di Rimini, edizione 2021, Zinola spiega come l’inclusione sia una tematica complessa e trasversale alle varie fasi lavorative di un’azienda: dalla selezione del personale allo sviluppo del prodotto, passando per la pubblicità e le strategie di comunicazione, fino al rapporto con il cliente.

Spesso però, la pretesa dell’inclusione si rivela essere un pugno di mosche: dietro a grandi slogan, infografiche arcobaleno e pubblicità travolgenti si celano aziende prive di un reale progetto di integrazione delle categorie discriminate (o semplicemente ignorate dal mondo della produzione). L’inclusività finisce con l’essere ridotta ad una mera strategia di marketing che sfrutta tematiche di interesse pubblico per attirare i consumatori, spacciando per impegno sociale la necessità di ricevere consenso (e denaro).

La pratica del social washing (ovvero il camuffamento delle aziende dietro a determinati valori etici senza un’adesione concreta alle battaglie sponsorizzate) è un’arma a doppio taglio: se da un lato rende accessibili al vasto pubblico importanti tematiche, dall’altro contribuisce a banalizzare le stesse battaglie e a svuotarle del loro significato.

Durante lo speech, Zinola affronta nello specifico la dinamica del pink washing, quel “femminismo di facciata” tanto deleterio quanto disorientante, fatto di frasi motivazionali, sfumature di rosa e poca sostanza. Sono stati analizzati vari casi mediatici che hanno destato particolarmente scalpore in relazione alle linee ideologiche dei diversi brand: dalla scelta di Ellie Goldstein, ragazza con la sindrome di Down testimonial del mascara Obscur di Gucci, alla collezione “Adaptive” di Tommy Hilfiger pensata appositamente per le persone disabili fino al fondotinta ideato da Rihanna in collaborazione con Fenty Beauty, presente in ben 50 sfumature di diverso colore (o 50 sfumature di inclusione?). In questo modo, è stato possibile aprire un dialogo critico e costruttivo su come poter tracciare un confine tra l’effettivo impegno di un brand per una determinata causa e l’adesione disinteressata ed ipocrita al trend del momento al fine di aggiudicarsi il proprio spicchio di notorietà.

Andando oltre le pubblicità, che possono adescare facilmente il consumatore con spot simpatici, travolgenti e al passo con le esigenze sociali del periodo, esistono altri modi per capire se un’azienda sia attivamente coinvolta nel supporto di determinate cause sociali. Come sottolinea Zinola, per tentare di comprendere l’engagement di un brand relativamente all’empowerment femminile è utile ricercare la percentuale di organico femminile all’interno di un’azienda e i numeri delle donne che occupano ruoli apicali, verificare la presenza di eventuali certificazioni di gender equality e notare se il brand condivide pubblicamente obiettivi volti al raggiungimento della parità sostanziale.

Nonostante i buoni propositi delle singole aziende, la strada verso la parità di genere (come ben sappiamo) è ancora lunga. Le donne CEO in Italia sono appena il 6% ed il Gender Pay Gap, cioè la differenza di retribuzione tra uomini e donne a parità di formazione e ruolo occupazionale, è del 5,5% tra i laureati e raggiunge l’8% tra i non laureati.

Abbiamo avuto l’occasione di poter intervistare Anna Zinola al Web Marketing Festival di Rimini, per approfondire con lei il complesso rapporto tra brand ed politiche sociali ed avere un confronto diretto circa il concetto di “marketing inclusivo”.

 
I brand e gli influencer (che li rappresentano) prendono sempre più parte al dibattito pubblico anche grazie alle piattaforme social che semplificano il contatto con l’ascoltatore. Alla luce dei casi mediatici degli ultimi mesi, secondo lei pubblicità e brand possono e/o devono schierarsi in merito a tematiche sociali?

Esiste un movimento che va avanti da anni che si chiama Brand Activism, che tratta proprio di questo: si chiede ai brand di prendere esplicitamente posizione in merito a specifiche battaglie sociali. Quando Donald Trump vinse le elezioni, Nike fece la campagna “Equality has no boundaries” che venne trasmessa proprio quando Trump entrò alla Casa Bianca. Il fatto che poi Kamala Harris diversi anni dopo si congratuli con il neo presidente Biden mentre indossa una tuta col logo dello swoosh ben evidente trasmette un messaggio chiaro: Nike si è schierata. Mi aspetto che un Brand come Nike lo faccia, così come mi aspetterei che Armani, notoriamente omosessuale, si esponesse sul DDL Zan in un periodo di tale sovraesposizione della tematica. Ci troviamo di fronte un brand di moda con un designer omosessuale che non ha mai sbandierato la sua omosessualità ma non l’ha neanche mai nascosta. Viene da chiedersi: da che parte sta?

 
Brand activism e social washing: è possibile, per un consumatore inesperto, distinguere il fake dal real e capire se è presente un effettivo progetto ideologico a monte di un prodotto?

Secondo me, è un po’ come con le persone: un conto sono gli statements (cioè le dichiarazioni), un altro sono i comportamenti. Nel giugno 2020, Instagram si era letteralmente riempito di post a favore del movimento Black Lives Matter (BLM). Moltissimi brand ed aziende si erano esposte riguardo la discriminazione della popolazione nera ma poi, nei fatti, non si attivavano concretamente per combattere queste ingiustizie.  Per esempio, molti brand con infografiche commoventi a supporto del movimento BLM in realtà non avevano dipendenti neri. È inutile il BLM se poi non c’è la rappresentanza effettiva nell’azienda. Il discrimine si fa secondo i comportamenti e cercando di capire se ciò che viene condiviso o promosso si tratta di un’idea, un progetto che va avanti nel tempo, oppure solo di un espediente pretestuoso.

 
Adesso le pongo una domanda un po’ provocatoria. Tirando le somme, alla fine il woke washing (declinato nelle varie accezioni quali il pink washing, green washing, rainbow washing, social washing) è davvero così negativo? Cioè, parlare ed esporsi su tematiche di interesse pubblico, anche se in ottica utilitaristica, può comunque impattare positivamente sulla società, aiutando a rompere la rete di tabù da cui certi argomenti sono circondati oppure si corre solo il rischio di appiattire la tematica e svuotarla dai contenuti?

In realtà, sono d’accordo con la tua osservazione: meglio che se ne parli così che non se ne parli affatto. Non so però quanta consapevolezza poi ci sia da parte del consumatore. È la stessa questione esplosa qualche mese per la visita sponsorizzata da Ferragni agli Uffizi: è sicuramente meglio essere incentivati ad andare agli Uffizi da Chiara Ferragni che non andarci proprio. Il rischio principale che si corre con questo meccanismo alquanto superficiale è però la possibile banalizzazione e svuotamento dei contenuti. Un altro pericoloso difetto di questo meccanismo si verifica anche quando la realtà ideale comunicata attraverso la pubblicità venga percepita come effettivamente esistente, quando non è così. Spesso si veicola l’immagine di un mondo perfetto o migliore che però non riflette le vere dinamiche sociali. Ciò è disorientante e controproducente perché le persone pensano che sia tutto rosa e fiori quando i fatti sono ben altri.

 
Al netto di tutto ciò che abbiamo detto, il marketing può essere veramente inclusivo? Secondo lei, quanto è larga la forbice dell’inclusività?

Se un’azienda è veramente inclusiva non lo si capisce dalla pubblicità ma dal prodotto. È inutile investire in uno spot pseudo-progressista che sceglie come testimonial la modella non conforme se poi chiedere una taglia 44 in un punto vendita dello stesso brand è ancora estrema fonte di disagio – cosa che succede in molte boutique o negozi di marca. È importante cosa si fa, non cosa viene affermato. Se lo fa Paul Gaultier o Vivienne Westwood allora hanno un senso, perché sono marchi davvero alternativi ed inclusivi – non una volta l’anno ma costantemente. Se invece la stessa cosa la fa Prada ma nel momento in cui chiedi una 44 in negozio ti senti inevitabilmente giudicato, allora abbiamo fallito.

Saremo davvero inclusivi quando non avremmo più bisogno di parlarne. L’inclusività sarà un concetto interiorizzato quando testimonial non conformi o spot pubblicitari con canoni diversi dallo standard verranno percepiti come normali: nessuno se ne accorgerà perché non faranno più scalpore.

Nel mio ultimo libro racconto di un episodio molto interessante che mi è accaduto con mia figlia quando aveva 4 anni. Un giorno, diversi anni fa, torna dalla scuola materna e mi dice “La mia amica Stefania è marrone”, ed era vero perché la mamma è cubana. Al che io rispondo “Ma no, tutti i bambini sono uguali”. Lei allora mi guarda in modo interrogativo, come se avessi detto qualcosa di sbagliato o del tutto fuori contesto, ed in realtà era proprio così. L’approccio di mia figlia era veramente inclusivo. Lei mi ha detto semplicemente che era marrone, ha fatto una constatazione genuina, oggettiva e del tutto disinteressata. Se mi avesse detto “Stefania ha i capelli biondi” io le avrei risposto “Certo, è vero” e non che “Tutti i bambini sono uguali”. Il mio era un approccio basato sull’integrazione, in quanto percepivo e comprendevo una differenza e perciò sentivo la necessità di integrarla, mentre quello di mia figlia era uno sguardo puramente inclusivo. Bisogna dire però che ovviamente è anche un fatto culturale perché mia figlia è cresciuta in un contesto multietnico, più aperto di quello delle mia generazione, quindi per lei l’inclusione è un dato di fatto. Ci vuole sicuramente tempo per modificare una forma mentis. Per questo motivo servono le leggi. Senza la legge sulle quote rosa per esempio non ce la faremmo a cambiare e migliorare la condizione femminile. Quando avremo introiettato a livello culturale e sociale la parità di genere, allora non avremo più bisogno di obblighi legislativi a regolarla. Adesso le leggi ci servono, sono uno step. Quando questi meccanismi contro la discriminazione di genere saranno normalizzati, allora le leggi non saranno più necessarie. Ci sono donne competenti quanto uomini o anche di più che però vengono scartate a favore di colleghi maschi solo per il loro sesso. Attenzione però: la legge sulle quote rosa non dice che le aziende devono assumere donne per il semplice fatto di essere utero-munite, ma perché bisogna garantire loro le stesse opportunità lavorative degli uomini con stesse competenze.

 
Le campagne pubblicitarie di Nuvenia ed Idealista: progetto ideologico e grande impegno sociale da un lato, probabile utilitarismo etico dall’altro. Lei cosa ne pensa?

Si tratta indubbiamente di due casi molto diversi. Nuvenia, brand di assorbenti della multinazionale svedese Essity, con la campagna per la visibilità del ciclo mestruale dello scorso anno “BloodNormal” e quella “Viva la Vulva” di quest’anno a favore di una maggior consapevolezza dell’intimità femminile, ha sicuramente scoperchiato il vaso di pandora, rendendo pubblici e fortemente espliciti eventi genuini e naturali come avere le mestruazioni o occuparsi della propria igiene intima, troppo spesso taciuti e stigmatizzati. Ciò ha scatenato reazioni sia in uomini che donne. È chiaro quindi come Nuvenia sia realmente attiva ed impegnata in cause sociali e culturali, di lotta alla discriminazione di genere ed a favore di una società più inclusiva. Al contrario, la pubblicità di Idealista, nota compagnia di compravendita e locazione di immobili, ricorda un vecchio spot gay-friendly di Findus uscito proprio a giugno 2014, nel mese del Pride Month (e non è un caso). I metodi e le circostanze decise dalla Findus però facevano ben intendere l’approccio utilitaristico dell’azienda, che voleva sfruttare la tematica Lgbtq+ per rendere la pubblicità più interessante ed innovativa. Come Findus, anche Idealista sembra approcciarsi alla causa in ottica strumentale. A che pro Idealista ha fatto questo? Per far parlare i sé, come stiamo facendo noi adesso. Idealista ha probabilmente cavalcato l’onda del Pride Month, entrando nell’occhio del ciclone ed attirando attenzione sulla piattaforma. Nuvenia ed Idealista sono due casi molto diversi.

 
Nel suo libro parla della figura del Diversity Manager. Di cosa si tratta esattamente?

Molte aziende hanno questa figura all’interno del loro organico, soprattutto negli USA dove sono più avanti rispetto al tema della diversity, perlomeno a livello cronologico, perché hanno una società secolarmente multietnica. Nel campo della moda, ma anche in industrie quali Apple o Pinterest, si è inserita questa nuova figura lavorativa che ricopre principalmente due ruoli: da un lato si occupa di favorire le pratiche di inclusione attraverso la creazione di team di supporto variegati, mentre dall’altro ha l’obiettivo di evitare che si verifichino episodi di discriminazione, in cui l’inclusione non viene promossa.

Il rapporto tra brand e attivismo è quindi ben più complesso di quello che si può immaginare. In un mondo in cui produttore e consumatore sono sempre più a stretto contatto, distinguere tra realtà e finzione quando si parla di inclusività non è affatto semplice. Per evitare di cadere nella trappola del social washing, come consumatori dobbiamo impegnarci a verificare che le politiche di un’azienda siano veramente in linea con ciò che comunicano attraverso spot pubblicitari e slogan. I brand invece dovrebbero definitivamente capire che i diritti delle persone (come quelli degli animali o relativi all’ambiente) non sono un gioco di marketing: utilizzarli a fini utilitaristici non lascerà niente di concreto alla società (e nemmeno nelle loro tasche).

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Entertainment, videogame e contenuti

Forzare la creatività: intervista a Davide Bertozzi

Copywriter, direttore creativo, formatore e imprenditore, Davide Bertozzi è autore di “Immagini VS Parole” e con le parole e la creatività, ci lavora da sempre. Al Web Marketing Festival è stato presente in qualità di relatore, il suo talk, intitolato: “Forzare la creatività” si è tenuto al mattino, e ne riporteremo il riassunto, al pomeriggio invece l’abbiamo intervistato per scoprire qualcosa in più del suo percorso e non solo.

Davide ha iniziato il discorso parlando di cosa non è la creatività, ovvero la proverbiale lampadina che si accende se si sta lì per un po’ ad aspettare. In realtà è ben altro: non si accende in nessun modo se non si fa niente, e come lui stesso dice: “La creatività è piuttosto un percorso e tra noi e la destinazione ci può essere di tutto, per trovare l’idea creativa bisogna affrontare un po’ di cose e più o meno ci si arriva”.

La creatività dunque è un’anomalia, che spesso le persone e le aziende non colgono, come in un esempio che ci ha portato: dalla home page del sito di un celebre brand italiano, ci sono 23 pulsanti con sopra scritto “scopri di più”, e questa scelta di sicuro non è creativa, bensì, come ha scherzosamente detto Davide, è “la morte della creatività”.

Ma cosa serve dunque per scrivere un testo “anomalo”? Secondo Davide: chiarezza, personalità e rispetto del tono di voce; rispondendo allo stesso tempo a tre domande fondamentali: di cosa scrivo, per chi scrivo e perché ne scrivo.

L’intervento si è concluso con numerosi consigli pratici, il resto è stato raccontato nell’intervista.

 
Davide, il tuo speech s’intitola “Forzare la creatività” e guardando al tuo lavoro, la creatività sembra essere al centro, ma cos’è per te davvero la creatività?

Per me la creatività è un’anomalia, come dicevo stamattina, ma voglio comunque partire dalla definizione classica di creatività, pronunciata dal matematico Henri Poincarè, che noi pubblicitari condividiamo essere la definizione migliore: “la creatività è la capacità di unire elementi già esistenti in modo nuovo e utile”. Ecco, è il nuovo e utile che secondo me rende una cosa creativa: non è nulla che si inventa, al contrario è un’intenzione di far qualcosa di fondamentalmente diverso. La creatività è ovunque, l’importante è impegnarsi, perché se stiamo seduti ad aspettare che si accenda la lampadina e ci venga l’idea, sicuro come l’oro che non ci viene, io dico sempre che la creatività è un percorso progettuale da percorrere: sporcarsi un po’ le mani, fare tentativi e progetti per arrivare poi al risultato finale, che si raggiunge solo dopo molta esperienza e pratica. A me non piace parlare di scrittura creativa perché autodefinirsi creativi è come autodefinirsi belli o intelligenti, dovrebbero dirtelo gli altri. Preferisco invece parlare di scrittura che funziona, è creativa quando funziona perché si possono pure scrivere cose belle, originali e divertenti, ma se queste non vengono comprese correttamente dal pubblico, non vendi, i clienti non sono contenti e quindi la creatività, a quel punto, serve a poco. La creatività poi esiste a più livelli, puoi scrivere creativamente anche un biglietto di auguri, la scrittura creativa non è solo quella che fa ridere, ma è molto di più, e ogni tipo di progetto richiede uno sforzo creativo, per questo non mi sento di dire che la creatività è una: si manifesta in molte forme.

 
Rimanendo sul tuo lavoro, sei un copywriter e direttore creativo, riusciresti a spiegare il ruolo di queste figure in poche parole per chi non ne sa nulla?

Lo spiego come se lo spiegassi ai miei genitori (mia mamma non ha ancora capito cosa faccio davvero), detto in modo brutale; il copywriter è la persona che scrive i testi pubblicitari ovvero i testi che servono a convincere qualcuno a comprare qualcosa, oppure, se l’obiettivo finale non è la conversione alla vendita diretta, può essere mantenere la reputazione del brand per impreziosire la percezione di un marchio, di un prodotto o anche di una persona e si deve sempre scrivere per valorizzare qualcosa. Questo è quello che un copywriter fa, a molti piace mettere le etichette distinguendo web copywriter, SEO copywriter, digital copywriter e via dicendo, ma secondo me sono figure che, usando canali diversi, lavorano sempre con le parole, specializzandosi, ma senza fare nulla di troppo diverso in fondo: per me il copywriter rimane uno, ovvero colui che convince le persone a comprare.

Il ruolo di direttore creativo, invece, arriva dopo un po’ di tempo. Io ho iniziato come copywriter, ho sempre scritto tantissimo e dopo la triennale ho trovato subito lavoro in uno studio grafico e non ho più ripreso a studiare, purtroppo. Dopo due anni ho aperto la partita IVA, perché sono quel tipo di persona che dopo un po’ si annoia e vuole cambiare posto. Ho pensato che se mi fossi staccato da un’unica realtà e avessi iniziato a lavorare con tutti avrei potuto vedere diverse aziende e collaborarci, sulla carta l’idea funzionava, poi c’è voluto molto alla vera attuazione. Collaborando con diverse imprese, mi sono reso conto che in moltissime di queste non vi era la figura del direttore creativo, cosa che in altre agenzie, in luoghi come Londra, è fondamentale avere. In Italia, invece, spesso non ci sono, o ci sono persone che si improvvisano tali, e quindi mi sono messo ad osservarle, notando gli errori e lasciando fare, capendo come avrei potuto farlo meglio. Solo dopo qualche anno, lo confesso, ho iniziato a improvvisarmi direttore creativo: pian piano ho imparato. É un ruolo importante perché, se non c’è qualcuno che guida la barca, la campagna pubblicitaria non viene granché. Inoltre c’è voluto un po’ per imporre questo mio modo di lavorare alle aziende con cui collaboro; spesso finisci per non star troppo simpatico se vuoi che le cose vengano fatte in un certo modo, come ritieni meglio, ma è necessario definire bene gli obiettivi del progetto e il modo di procedere per rendere la campagna efficace e avere il cliente soddisfatto. La differenza tra il ruolo del copywriter e il direttore creativo, è che il primo scrive i testi pubblicitari e a volte inventa l’idea del progetto, mentre il secondo, che può essere un copy o un art director, è quello che deve impostare la squadra, il lavoro e tenere le redini di tutto il progetto. Non sempre è colui a cui viene in mente l’idea, però è colui che indica la strada e che tutti poi devono seguire. Ho scelto questo ruolo perché è di responsabilità e non ho paura di assumermela mettendoci la faccia e andando dal cliente, l’importante è che tu sappia spiegare ogni dettaglio all’azienda con la quale stai lavorando. Mi piace particolarmente quando i progetti, se fatti bene, iniziano e finiscono che tutti sanno quello che fanno, e penso che tutti debbano essere soddisfatti, deve piacere ciò che si fa e se non piace, cerchiamo delle soluzioni assieme perché tutti i componenti del team devono metterci del loro, ponendosi la famosa domanda: “cosa ne penso”, come dicevamo questa mattina, altrimenti il progetto ne risente di qualità.

 
Sei anche un formatore e ti sei occupato di diversi progetti tra cui fondare una tua realtà, qual è l’insegnamento più grande che ti porti a casa ad oggi da tutte queste attività multidisciplinari?

Sento di star imparando un sacco, in primis come formatore: da quando insegno, mi capita almeno tre o quattro volte l’anno di incontrare qualcuno che ne sa più di me, anche se è giovanissimo, risulta molto più ferrato su un argomento e magari ha un talento talmente grande che riesce a scrivere cose che tu arrivi a creare con fatica. Da un lato è preoccupante, ma dall’altro ti incentiva a non metterti mai a sedere, perché secondo me, un problema che ha spesso chi insegna, è di adagiarsi senza aver voglia di mettersi in discussione quando si incontrano persone più in gamba. A me invece queste persone danno la carica giusta per rimanere sul pezzo e anzi, mi piace circondarmi di giovani talentuosi per restare in contatto con loro e continuare ad apprendere e migliorare senza mai pensare di essere arrivato.

Parlando di multidisciplinarietà inoltre, per me è fondamentale per comprendere a fondo le cose: persino nei miei corsi, investo delle ore parlando di tutt’altro che non sia scrittura, ad esempio partendo dalla storia dell’arte e facendo un percorso, si arriva alla fine con una maggiore consapevolezza, perché si è affrontato l’argomento a 360 gradi.

 
Secondo te, la creatività sarà importante nei cosiddetti lavori del futuro? e se sì come?

Sono dell’idea che gli strumenti con cui lavoriamo in comunicazione, riducendo all’osso, sono due: immagini e parole, ed è così da quando l’uomo ha iniziato a scrivere e ad oggi, anche se usiamo tecnologie super avanzate, alla fine utilizziamo sempre queste due per comunicare. Secondo me la creatività serve e servirà sempre, perché è la chiave che ti aiuta a fare meglio le cose al di là del mezzo, lo spunto creativo ti serve per lavorare meglio e le idee creative servono a migliorare quello che si fa.

Per quanto riguarda i lavori del futuro, noto che tutto il processo di automazione comincia a diventare complicato per chi si occupa di scrittura: innanzitutto bisogna scrivere dei testi che verranno letti e pronunciati da delle macchine e queste nuove modalità vanno testate parecchio. Pensa banalmente alla SEO: ciò che vogliamo cercare non lo digitiamo più su Google e fine, a momenti ci parliamo proprio con questi motori di ricerca. Diventa quindi necessario capire quali sono le parole che le persone utilizzano adesso e quali utilizzeranno tra dieci anni, a mio avviso bisogna conoscere e lavorare con i giovani per capirlo. In conclusione, riguardo al futuro, secondo me dovremo saper scrivere parole che verranno pronunciate da una macchina e dovremo essere pronti a dare le risposte a domande fatte con i vocali: essere in grado di incrociare questi tipi di comunicazione non è semplice, ma sarà la sfida per i copywriter dei prossimi 10 anni.

 
Parlando di comunicazione, secondo te perché ad oggi è così importante che un brand, un’azienda, comunichi bene?

É importante perché il marketing di oggi, quello 4.0 che aveva teorizzato Kotler nel suo ultimo libro, non è più il marketing anni ‘80 in cui le persone continuavano a sentirsi ripetere di dover comprare: le persone non vogliono ricevere degli ordini e con i social la distanza tra aziende e persone si è ridotta, entrambi hanno lo stesso valore, dunque persone e aziende devono parlare con lo stesso tono di voce. Le aziende dovrebbero aprirsi alla comunicazione più autentica, e per autentica intendo meno autoreferenziale, comunicando il perché queste persone possono fare cose grandi con i prodotti di quella realtà, ti devo essere utile e non darti degli ordini. Per fare questo serve un tono di voce più umano, più amichevole, più vicino, non deve essere per forza spiritoso, basta una comunicazione più vera, come dicevamo stamattina, cioè l’azienda deve capire esattamente cosa le persone vogliono ascoltare: è più importante ciò che gli altri capiscono rispetto a cosa dici.

 
Hai parlato di comunicazione più umana spiegando cosa significa e come renderla effettivamente tale, ma secondo te adesso in che direzione si sta andando? quale sarà il trend comunicativo da qui ai prossimi anni?

Mi trovo stranamente d’accordo con una frase di Mark Zuckerberg che dice: “secondo me il futuro dei social è privato”, perché se io scrivo ad un brand gigante riguardo al problema che ho con un loro prodotto e loro mi rispondono con una persona e non un robot, per me è una cosa bellissima e quindi le aziende dovrebbero aprirsi ad instaurare un rapporto vero con le singole persone che vogliono chiedere qualcosa, che hanno un problema. Questo significa aprirsi ad una comunicazione privata e non solo inviare numerose newsletter e DEM, basta con la comunicazione di massa, bisognerebbe mandare messaggi privati mirati alle singole persone.

Per quanto riguarda la direzione che sta prendendo la comunicazione, ultimamente c’è stato il fermento del real time marketing, in Italia inizialmente è stato fatto da pochissimi che hanno avuto successo e tutti quelli che sono venuti dopo di loro hanno fallito, semplicemente perché quando copi qualcuno al massimo arrivi secondo. Quando copi, in aggiunta, non riesci a capire fino in fondo il coraggio che loro hanno avuto a fare certe cose molto inusuali: il caso di Taffo, ad esempio, che ha portato la comunicazione social di un’agenzia funebre facendo black humor. Spesso le aziende non hanno il coraggio di intraprendere comunicazioni inusuali perché è lo stesso direttore marketing che blocca tutto pensando che non vada bene, che non sia classico, e io tipicamente rispondo che è quello il motivo per cui funziona. 

 
Hai scritto “Immagini VS Parole”, ci daresti un piccolo assaggio di questo libro? a livello comunicativo, come impattano diversamente queste due forme di comunicazione?

Ti cito la frase con cui inizia il libro: “le immagini sono parole e le parole sono immagini. E questo libro potrebbe anche finire qui”, questo è ciò in cui credo: le immagini e le parole sono la stessa cosa anche se il titolo è ovviamente una provocazione. Parto dal luogo comune secondo il quale un’immagine vale più di mille parole, secondo me non è vero e nel libro non faccio altro che motivare questa mia convinzione. Ti spiego subito perché le immagini sono parole e le parole sono immagini allo stesso tempo, arrivando al succo e saltando tutto il percorso che è il libro: il solo allineare un testo o scegliere un font significa che si sta considerando il testo come immagine; i font servono perché devono dare un aspetto estetico alle parole e già qui, immagini e parole iniziano ad essere la stessa cosa. Dopodiché proseguo e negli ultimi capitoli, parlando del rapporto tra visual e copy in una campagna pubblicitaria, giungo al capitolo dedicato al words hacking dove tipicamente il lettore rimane di stucco quando scrivo qualcosa del tipo: “katana” con la “a” tagliata e a quel punto chiedo: “quella adesso è un’immagine o una parola?”. Non è importante la risposta, è importante che tu abbia capito il concetto e che lo sappia applicare; chiamala immagine, chiamala parola, chiamala come preferisci ciò che conta è che le persone capiscano quello che stai cercando di comunicare.