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Ambiente, società e tecnologia

Facciamoli viaggiare bene! Le nuove raccomandazione EFSA per trasportare gli animali da reddito

L’EFSA ha pubblicato le nuove raccomandazioni per trasportare gli animali da reddito

E sembra che per bovini, ovini e pollame sarà un po’ più piacevole viaggiare

 

Vi sarà certo capitato durante un viaggio in autostrada di notare un veicolo, magari multipiano, che trasporta animali di varia specie. Vi siete mai chiesti se esistano delle regole su questo tipo di trasporto speciale che impattino sia sul benessere degli animali che su quello dell’uomo?

Ebbene, le regole esistono e come, tant’è che  giusto pochi giorni fa l’EFSA ( l’Agenzia Europea per la sicurezza alimentare) ha rilasciato un nuovo parere scientifico per il benessere degli animali durante il trasporto. Questo documento ha lo scopo di analizzare le particolarità legate al trasporto di alcune specie animali identificandone le criticità e di proporre nuovi spunti di ricerca sul tema. È organizzato in sezioni che esaminano i requisiti generali del bestiame idoneo e il management necessario per organizzare e gestire il trasporto, le raccomandazioni a cui attenersi in termini di intervalli di idratazione e alimentazione del bestiame, tempi di percorrenza, periodi di riposo e spazi necessari per il benessere delle specie trasportate.

Vediamo alcune particolarità più nel dettaglio.

Partiamo dagli equini, animali che possono essere trasportati per ragioni di diversa natura (dall’allevamento alle mostre o manifestazioni sportive) e che sebbene ritenuti socievoli, in realtà sono governati dall’istinto “flight or fight” (fuggi o combatti). Questo è proprio uno dei motivi per cui vengono trasportati in furgoni singoli: è mandatorio evitare lotte e conseguenti lesioni da morso tra animali troppo vicini l’uno all’altro. Inoltre, avendo un baricentro molto spostato in avanti, i cavalli portano buona parte del loro peso sulle zampe anteriori e questo li mette in difficoltà non solo nel mantenere la posizione in relazione alle accelerazioni e decelerazioni effettuate dal mezzo in cui vengono ospitati, ma li espone anche ad un alto rischio di infortuni durante viaggi molto lunghi. Le uniche eccezioni al viaggio singolo sono rappresentate dalle cavalle con i puledri o dai gruppi di pony abituati a vivere assieme, che tollerano la vicinanza in ambienti ristretti. Altra prescrizione importantissima riguarda la necessità di mantenere un buon ricambio d’aria all’interno dei furgoni soprattutto nella stagione estiva, visto che i cavalli termoregolano attraverso il sudore.

Per quanto riguarda i suini, recenti evidenze hanno dimostrato che a causa di una disproporzione tra massa cardiaca e massa corporea questi animali sono poco capaci di adattarsi allo stress: il loro trasporto deve tenerne conto. Le regole generali da seguire sono quindi: controllare che abbiano sufficiente spazio (in relazione ad età e dimensioni) per muoversi e sdraiarsi durante il trasporto diurno e non eccedere durante il trasporto notturno e quando le temperature sono basse, ad esempio durante i trasporti aerei (situazione in cui questi animali preferiscono rimanere accovacciati e vicini gli uni agli altri). Non è necessario invece mettere a disposizione dell’acqua durante il movimento del veicolo poiché i suini non amano abbeverarsi mentre sono in movimento; inoltre vanno nutriti prima del trasporto ed idratati durante le soste.

Gli ovini sono animali che hanno come peculiarità la ruminazione pressocché costante: è stato dimostrato che, durante un trasporto turbolento caratterizzato da eccessive accelerazioni e decelerazioni o da improvvisi cambi di marcia, manto stradale dissestato o curve strette, la ruminazione e il riposo di questi animali vengono pesantemente disturbati e aumenta il rischio di lesioni. Pertanto, viene prescritto di monitorare i percorsi degli autoveicoli con accelerometri dedicati soprattutto nei lunghi viaggi.

Il punto chiave del trasporto del pollame sembra invece essere legato al loro scarso adattamento alle alte temperature e all’elevata umidità che si viene a creare a causa della loro attività respiratoria, soprattutto se molti capi vengono trasportati contemporaneamente su veicoli commerciali. I sistemi di ventilazione passiva possono risultare insufficienti e pertanto viene raccomandato non solo di ridurre la densità di stoccaggio ma anche di mantenere una temperatura massima di 24-25°C con un tasso di umidità relativa intorno al 70% attraverso l’utilizzo di sistemi di ventilazione meccanica per ogni viaggio che superi la durata di 4 ore.

Un aspetto comune sottolineato più volte nel documento, per motivi differenti tra le varie categorie di animali, è la necessità di limitare il numero di capi che viaggiano nello stesso scomparto, sia per evitare che questi si feriscano in maniera più o meno volontaria (contatto o combattimento come nel caso di equini e suini) sia perché alcune specie regolano la vita di gruppo secondo ferree gerarchie sociali: inserire estranei rappresenta il primum movens per l’innesco di un comportamento agonistico (vedi le capre). Inoltre tutte le categorie di animali prese in esame soffrono lo stress termico, soprattutto i capi giovani, per cui per tutti la temperatura va controllata attentamente. Infine, alcune categorie di animali  (ad esempio le pecore) hanno una buona tolleranza ai lunghi viaggi (fino a 48h) e si dimostrano resistenti alla disidratazione a patto che le condizioni di trasporto siano ottimali (monitoraggio della temperatura). Tuttavia questa specie fatica a bere acqua da fonti non familiari e per questo motivo dovrebbe beneficiare di pause di almeno 24h.

Da non sottovalutare è il rischio di trasmissione di malattie infettive che risulta amplificato in relazione al trasporto di animali, soprattutto quando tutte le suddette norme non vengono rispettate.

L’attenzione verso questa specifica attività è un tema noto a livello istituzionale europeo già da molto tempo; in epoca recente assume un significato ancora più importante nell’ottica della strategia “One Health” che si propone di modificare l’approccio antropocentrico al concetto di salute identificando in un unico sistema globale l’uomo, l’ambiente e tutti gli altri esseri viventi che lo condividono.

In questo senso, appare chiaro come salvaguardare la salute animale sia indispensabile per proteggere e assicurare la salute dell’uomo.

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Il futuro sarà “bidimensionale”? Prospettive e ostacoli della ricerca sul grafene

Chi sarebbe stato certo, prima della sua scoperta, che un sottilissimo strato di atomi di carbonio avrebbe generato un enorme interesse scientifico e tecnologico? Si tratta del grafene, un materiale che, grazie alle sue particolari proprietà, potrebbe innovare prodotti e processi industriali in molti settori diversi.

Il grafene è formato da un singolo reticolo bidimensionale di atomi di carbonio, uniti assieme a formare una struttura molto simile alle cellette esagonali di un alveare. Se immaginiamo di sovrapporre moltissimi reticoli di grafene, possiamo visualizzare la struttura tridimensionale della grafite. Sebbene già dalla prima metà del XX secolo alcuni scienziati avessero teorizzato l’esistenza del grafene come sostanza isolabile dalla grafite, solo più recentemente, nel 2004, gli scienziati Geim e Novoselov hanno avuto successo nell’impresa. A questa scoperta è stato assegnato il premio Nobel nel 2010 e da essa è scaturita una vasta produzione scientifica.

Le sue potenzialità sono ampiamente riconosciute: lo testimoniano anche eventi come la 17esima edizione della “Graphene Week. Dal 5 al 9 settembre 2022, la città di Monaco ha ospitato questa conferenza parte del “Graphene Flagship”, un progetto fondato nel 2013 dalla Commissione Europea (e finanziato con 1 miliardo di euro dall’UE) che ha l’obiettivo di sostenere la ricerca sul grafene e di trasferirne i risultati al mondo industriale. Ma cosa si può fare con il grafene?

Leggendo l’ultimo report prodotto dal “Graphene Flagship”, ci si può accorgere di come la ricerca sul grafene coinvolga la bioingegneria, la generazione e lo stoccaggio dell’energia, l’elettronica, la sintesi di materiali compositi e molti altri ambiti. L’ostacolo più importante, che emerge in quasi ogni campo coperto dal progetto, è il livello di maturità tecnologica. Per misurarlo è possibile fare affidamento su una scala numerica che permette di comprendere se una tecnologia è realmente pronta e affidabile, soprattutto in un’ottica di mercato. Il livello massimo della scala, 9, è assegnato ad una tecnologia per cui sia stata prodotta una “dimostrazione completa del sistema in un ambiente operativo reale”. Secondo quest’ultimo report, con poche eccezioni, la maggior parte delle applicazioni si colloca tra il livello 3 e il livello 6: ciò significa che, come è riportato dagli stessi autori del report, gli sforzi e i finanziamenti dei prossimi anni dovranno essere dedicati alla maturazione completa delle tecnologie che si sono rivelate valide a livello industriale, affinchè possano avere un impatto effettivo sul mercato. Tra gli altri fattori che sono di ostacolo a questo ulteriore sviluppo ci sono anche il costo dei processi che permettono di ottenere un prodotto di alta qualità e la loro diffusione su larga scala.

Come si può usare il grafene per raggiungere uno sviluppo sostenibile?

Le applicazioni del grafene, quando raggiungeranno la maturità tecnologica, potranno essere d’aiuto nel raggiungimento di alcuni degli obiettivi di sviluppo sostenibile descritti dalle Nazioni Unite: in particolare, potrebbero essere utili per garantire l’accesso all’acqua potabile e la generazione di energia da fonti sostenibili. Il grafene è il materiale più sottile, leggero e resistente scoperto fino ad ora: può essere per esempio usato, assieme ad altri materiali, per costruire delle membrane che siano utili per purificare e rendere potabile l’acqua. Grazie alla sovrapposizione di diversi strati di ossido di grafene (materiale simile a quello sopra descritto, ma con in più degli atomi di ossigeno nella sua struttura), oppure grazie al design di membrane di grafene con dei piccolissimi pori nella loro struttura (chiamati nanopori), si potrebbero creare dei sistemi più efficaci di quelli esistenti sul mercato. Un ulteriore vantaggio di queste membrane potrebbe essere quello di rendere meno dispendioso a livello energetico, e quindi a livello economico, i processi di desalinizzazione dell’acqua.

Il grafene è anche un eccellente conduttore elettrico e, per questo, può essere utilizzato nell’ambito dell’elettronica e dell’energia: come si legge dal report, può essere applicato al design di semiconduttori che integrino il grafene assieme al silicio, oppure essere usato per migliorare l’efficienza dei pannelli solari e delle batterie in cui è inserito. In particolare, lo sviluppo tecnologico futuro di queste ultime sarà indispensabile per riuscire a conservare l’energia proveniente da una fonte aleatoria (dato che non è sempre disponibile) come quella solare.

Tutte le applicazioni citate non hanno ancora raggiunto il massimo livello di maturità tecnologica: dato che le fasi della ricerca di base e della validazione della tecnologia in laboratorio sono già state superate, i progressi futuri dovranno puntare al raggiungimento della loro piena operatività e competitività sul mercato.

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Non solo meteo: l’osservazione della Terra come strumento per le grandi sfide globali

L’osservazione della Terra non è una novità: sin dalla seconda metà del secolo scorso gli esseri umani hanno lanciato oggetti in orbita con successo. Perché quindi riportare l’attenzione su una tecnologia così consolidata? Possiamo distinguere almeno due principali motivi: da una parte, il progresso scientifico permette di avere apparecchiature sempre più piccole e di progettazione più rapida e l’avvento di tecnologie digitali sempre più avanzate consente oggi di studiare e sfruttare ancora meglio i dati che i satelliti artificiali raccolgono; dall’altra le urgenti sfide globali e gli obiettivi di sviluppo sostenibile possono essere meglio compresi e affrontati grazie all’osservazione della Terra dallo spazio.

I primi satelliti artificiali (e non solo)

Lo sviluppo dei satelliti artificiali non sarebbe stato possibile se non fosse stato preceduto da secoli di riflessioni teoriche e ricerca scientifica di base. Grazie ad esse e alla ricerca applicata si è arrivati nel 1957 al lancio in orbita del primo satellite artificiale (che fu anche il primo oggetto a trasmettere un segnale radio dallo spazio) lo Sputnik 1.  Questo ha rappresentato l’inizio di un’era di sperimentazioni sulle effettive possibilità di applicazione della tecnologia satellitare all’osservazione della Terra: Tiros-1, lanciato dalla NASA nell’aprile del 1960, è stato il primo di una serie di satelliti, legati all’omonimo programma, che hanno permesso per la prima volta di elaborare dati raccolti dallo spazio per ottenere previsioni del meteo corrette. Le tecnologie utili a questo scopo non si fermano ai satelliti: le informazioni raccolte dai droni, dalle stazioni di monitoraggio a terra e tramite tecniche di campionamento con sensori in situ (strumenti di rivelazione situati in prossimità del luogo di osservazione) sono integrate ai dati raccolti dallo spazio per ottenere una visione quanto più globale e accurata possibile dell’oggetto di studio.

Perché osservare la Terra oggi?

L’osservazione della Terra è fondamentale per monitorare molti altri parametri di rilevanza ambientale, sociale ed economica e per questo è ritenuta importante anche per raggiungere gli SDGs. I progetti ispirati dall’Agenda 2030 sono diversificati e numerosi: molti di essi sono volti al monitoraggio costante, all’interpretazione e alla previsione dei cambiamenti degli ecosistemi e mirano alla produzione di informazioni utili per il lavoro dei decisori politici. Un esempio è il progetto “Ocean Color Climate Change” di ESA (Agenzia Spaziale Europea): si basa sull’osservazione sperimentale del cambiamento di colore subito dagli oceani e sulla sua correlazione con la variazione della concentrazione della clorofilla nell’acqua, che a sua volta varia a causa dei cambiamenti nelle popolazioni di fitoplancton. Quest’ultimo è di vitale importanza per l’ecosistema marino, ma una sua crescita anomala o una sua drastica diminuzione danneggiano le altre specie: per questo si monitora attraverso i satelliti la variazione delle onde elettromagnetiche riflesse dalla superficie oceanica e si elaborano modelli che permettano di prevedere scenari futuri. Esistono moltissimi altri esempi di applicazione dell’osservazione tramite satelliti artificiali, integrata con misurazioni a terra o indagini statistiche locali, legati agli SDGs: è possibile misurare la concentrazione di inquinanti atmosferici, raccogliere di informazioni sulle zone del mondo in cui l’accesso a fonti di energia sicure ed affidabili non è garantito, prevedere i possibili disastri naturali ed elaborare strategie di prevenzione dei danni più gravi, in un’ottica di adattamento agli effetti del cambiamento climatico attuali e inevitabili. Anche per questo la previsione del meteo, una delle prime applicazioni della tecnologia satellitare, rimane indispensabile.

L’elaborazione dei dati satellitari

Lo sviluppo di tecnologie di intelligenza artificiale e machine learning ha permesso di rivoluzionare il mondo dell’osservazione delle Terra, consentendo l’elaborazione di un numero elevatissimo di dati in informazioni fruibili. Se prima i dati satellitari potevano essere interpretati solo dall’essere umano, oggi è possibile non solo decifrare i dati ed elaborare informazioni in tempi più brevi (sempre nel limite consentito dalle leggi fisiche) ma anche avere un’accuratezza migliore garantendo modelli di previsione più precisi.

Il numero maggiore di informazioni a disposizione e la necessità di agire su più fronti per rispondere ai problemi nel nostro secolo apre il mondo spaziale dell’osservazione terrestre a nuovi player. Sono infatti diversi i progetti attivi che raccolgono dati ed elaborano informazioni mettendoli a disposizione di tutti in modo da incentivare anche iniziative private. Tra questi, il programma di osservazione satellitare dell’Unione Europea Copernicus mette a disposizione dei suoi utenti i dati raccolti da una famiglia di satelliti dedicati e da sensori in situ. In questo modo possono nascere progetti come quello di Forestry Analyzer, che si prefigge l’obiettivo di elaborare algoritmi per il monitoraggio e la previsione dei pattern di deforestazione attraverso strumenti di intelligenza artificiale. Un’altra possibilità fornita dalle rilevazioni dei satelliti artificiali e con l’ausilio delle tecnologie di intelligenza artificiale è lo sviluppo di progetti nel settore dell’agricoltura. Con l’aumentare della temperatura sul Pianeta e con la sempre più scarsa disponibilità di acqua dolce è fondamentale mettere in atto misure per ottimizzare la quantità di acqua usata per le coltivazioni: attraverso la rivelazione da parte dei satelliti della radiazione infrarossa emessa delle piante e la sua successiva elaborazione è possibile ricavare informazioni sullo stato di stress idrico e fornire acqua nel momento più necessario.

Secondo le previsioni di Citigroup nel documento The Dawn of a New Age il valore del mercato della space economy è destinato a crescere: entro il 2040 potrebbe valere mille miliardi di dollari con un drastico calo dei costi di lancio fino a 30$/kg di carico. Sebbene le tecnologie sviluppate allo scopo di osservare la Terra siano nate molti decenni fa, non smettono di essere migliorate grazie alla ricerca scientifica e continuano a essere una risorsa importante per rispondere alle sfide contemporanee, fornendo grandi opportunità in un mercato ancora per la maggior parte inesplorato.

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Dalla ricerca di base al trasferimento tecnologico: intervista a Fabrizio Tubertini

Siamo circondati dall’innovazione digitale: abbiamo potuto constatarlo ancora una volta al Web Marketing Festival, che si è tenuto dal 16 al 18 giugno presso la fiera di Rimini. Nonostante le spinte innovative non manchino, sorgono alcuni problemi: cosa succede se queste nuove soluzioni tecnologiche non vengono recepite dall’intero mondo dell’impresa? Cosa accade se all’interno di un paese come l’Italia manca la consapevolezza del ruolo che la ricerca di base dovrebbe avere?

Abbiamo posto queste ed altre domande sul tema del trasferimento tecnologico a Fabrizio Tubertini, professionista Head of Industrial Liaison dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT).

 

Per iniziare, che cosa significa trasferimento tecnologico e come viene declinato dall’IIT?

Il trasferimento tecnologico è la traslazione dell’attività di ricerca, con diverse applicazioni, verso il mondo dell’industria. L’Istituto Italiano di Tecnologia ha due missioni istituzionali la ricerca di base e appunto il trasferimento tecnologico. Questo fa sì che noi siamo molto focalizzati sul trasferimento tecnologico: i nostri ricercatori riconoscono come punto fondamentale che la loro ricerca dovrebbe essere applicabile all’industria, pur mantenendo uno sguardo di lungo periodo e generando innovazione non sempre immediata.

 

Durante gli interventi del festival è emerso come la digitalizzazione debba diventare trasversale a tutte le scienze: a volte immaginiamo scienziati alle prese con provette e intenti a mescolare sostanze manualmente, ma sono stati fatti esempi che mostrano come le nuove metodologie stiano diventando fondamentali anche nelle discipline non prettamente informatiche o ingegneristiche. Che ruolo ha quindi la digitalizzazione?

Ci sono due livelli di cui si può discutere: il concetto di digitalizzazione più diffuso e legato al senso comune si traduce in una semplificazione dello scambio di informazioni a livello nazionale e internazionale tra laboratori diversi. Le collaborazioni scientifiche hanno sicuramente beneficiato di questo scambio di informazioni, ma la vera differenza nella digitalizzazione sarà poter disporre di un “motore” di intelligenza artificiale comune a tutte le discipline. Anche un chimico – ad esempio – oggi ha la possibilità, attraverso l’AI, di testare sinteticamente, tramite simulazioni, determinate reazioni di interesse; grazie alla capacità di calcolo che stiamo acquisendo possiamo arrivare a fare prove sperimentali o test clinici, in vitro o addirittura su animali o sull’essere umano, su un numero di campioni già selezionato, in maniera più efficiente e meno costosa. In realtà tutte le discipline oggi stanno traendo vantaggio dalle innovazioni emergenti nell’ambito del machine learning e i prossimi anni continueranno ad essere fortemente caratterizzati da questa attività.

 

Se da una parte le startup sono intrinsecamente propense a ricercare nuove soluzioni tecnologiche, come si può far arrivare l’innovazione alle piccole e medie imprese?

Questo è un argomento che meriterebbe un’enciclopedia di approfondimento! Se da una parte ci sono vari tipi e sfumature di innovazione, tra cui la ricerca e l’innovazione in azienda, la difficoltà normalmente è di natura economica. In Italia le aziende, che tendono a essere piccole e medie imprese, vedono le sfide tecnologiche dell’innovazione come investimenti di incerto ritorno. Questo le frena: quando poi incontrano l’innovazione giusta ci si pone il problema di portarle su mercati che sono sempre più globali, dove non basta essere più forte del competitor che sta dall’altra parte della strada o del paese, dato che ci si scontra subito con i colossi internazionali. Nel nostro lavoro, naturalmente, ci relazioniamo con ogni tipo di azienda e cerchiamo di cogliere tutte le occasioni, fornite da fondi pubblici sia domestici che UE a disposizione delle aziende, per agevolare la traslazione della ricerca verso l’industria.

A livello nazionale si potrebbe provare a rilanciare il tema dei distretti industriali, dato che in Italia ne esistono ancora più di 150 attivi: sono aree territoriali specializzate in determinate produzioni, che potrebbero essere già veicolo di innovazione verticale se si aggregassero nell’accesso all’innovazione, sostenendone i costi frazionati su molti soggetti e con un beneficio a favore di tutti gli attori coinvolti. Questo è un tema che non possiamo risolvere noi come come singoli promotori dell’innovazione, ma che riteniamo potrebbe essere un agente catalizzante per il processo

 

Quanto è diffusa la consapevolezza che la ricerca di base possa portare benefici anche economici alle imprese?

La consapevolezza purtroppo non è così diffusa, ma abbiamo dati importanti di una diretta correlazione tra quanto uno stato investe in innovazione ed il ritorno in termini economici e di impatto sociale. Come accennavamo durante l’intervento sul PNRR (il “Piano Nazionale Ripresa e Resilienza”) e sul Tech Transfer, anche il numero di dottorati che vengono completati in un determinato Paese è sintomo di quanto quella nazione investa in innovazione: il dottorato è un percorso di ricerca, ma – altresì – un modo, nel medio periodo, per portare conoscenza in azienda. Incentivare la ricerca dà un ritorno, solitamente di medio o lungo termine: le politiche di investimento nell’innovazione hanno bisogno di tempi adeguati per portare frutti ed il PNRR è un’occasione importante, per il nostro Paese e per l’Europa, di dare un forte impulso alla ricerca ed alla traslazione verso l’industria rilanciando la nostra competitività internazionale.

 

Quali altri elementi mancano per raggiungere l’obiettivo in Italia?

La formazione delle giovani leve del Paese è una delle chiavi di volta di lungo periodo: siamo già, per alcuni aspetti, in deficit di risorse umane specializzate per colmare la domanda crescente di profili con formazione STEM. Se pensiamo ai bambini e alle bambine delle elementari di oggi per prepararli efficacemente alle professioni del futuro dovremmo mettere inconto di insegnare inglese più metodicamente ed inserire materie come il coding: così facendo probabilmente, tra 15 anni avremmo persone neodiplomate con una formazione di base che include già degli argomenti che saranno basilari per i lavori di domani che oggi possiamo solo immaginare. Altro tema fondamentale è quello dell’educazione continua: oggi non si può più immaginare di svolgere una qualsiasi attività professionale senza che questa muti sensibilmente nel tempo – grazie all’impatto positivo delle nuove tecnologie ad esempio – senza mai aggiornarsi o, addirittura, reinventarsi, al contrario di quanto è stato per le generazioni che ci hanno preceduto. Il mondo non ci permetterà più di rimanere ancorati a dei cliché così rigidi e dovremo tutti evolverci in continuazione, con il beneficio che ci allontaneremo sempre di più dai lavori usuranti, pericolosi e noiosi, perché quei lavori saranno svolti, per noi o sotto il nostro controllo, da robot o macchine.

 

A proposito di questo, un altro tema che genera dibattito e talvolta preoccupazione è l’automazione del lavoro: ma è un timore fondato?

Mi permetto di dire che la generazione z vivrà un periodo, presumibilmente, di abbondanza di offerta lavorativa. La vera sfida sarà quanto saremo veloci tutti a convertirci sulle nuove esigenze ed eventualmente “reskillarci” e riposizionarci. Sarà possibile che vivremo anche un momento di “gap” tra le esigenze della domanda e quella dell’offerta di risorse specializzate, un tema che si sta già affacciando per affrontare le sfide del PNRR.

In conclusione, la pianificazione di lungo periodo sarà un elemento determinante per sfruttare al meglio tutte le risorse che verranno messe a disposizione del nostro Paese.

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La settimana lavorativa di quattro giorni: meno stress, più efficienza

Supponiamo per un momento che sia una normalissima domenica sera e che tu sia disteso sul divano a scrollare Instagram oppure sul balcone a goderti l’ultimo timido raggio di sole che, soffuso, accarezza gli spigoli dei palazzi.

Anche se magari è stata una bella giornata e c’è ancora un tiepido crepuscolo, senti una strana (ma nota) sensazione di affanno nel petto, che fa immediatamente svanire quella ben costruita tranquillità in cui finalmente ti illudevi di essere avvolto. Lo stesso fatto che sia domenica sera, in realtà, induce di default la tua mente a proiettarsi al lunedì mattina del giorno successivo: d’improvviso, la tua normalissima serata si carica di un clima di sospensione dal retrogusto amarognolo, in cui le angoscianti prospettive future, che caratterizzano l’inizio della nuova settimana, occupano violentemente lo spazio del presente, già oberato dal peso dell’attesa.

 

In un attimo, stai già pensando alla colazione del giorno dopo, al viaggio in treno o al traffico di ritorno dall’ufficio, e la tua tranquilla domenica sera è da buttare.

Mentre cerchi una via di fuga tra il labirintico susseguirsi di pensieri, finalmente realizzi: domani non devi andare a lavoro, perché la tua “settimana lavorativa”, in realtà, dura solo 4 giorni.

 

Partiamo da qualche dato

In Italia (preparatevi) lavoriamo molto, almeno come quantità: si stima infatti, come pubblicato dall’OCSE che una persona italiana lavori in media 33 ore alla settimana, cioè ben tre ore in più rispetto alla media europea di trenta ore. In Germania, per esempio, le ore di lavoro sono mediamente ventotto ore e nei Paesi Bassi ventinove.

Il fatto di lavorare molto però di per sé non implica affatto una buona qualità o produttività, anzi.

Le statistiche dicono che, in particolare dopo la pandemia, i casi di stress ed ansia siano notevolmente aumentati. Insieme ad essi, hanno subito una drastica impennata anche i casi di burnout, una sindrome recentemente riconosciuta dall’OSM che consiste in una condizione di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e derealizzazione personale dovuta all’azione sinergica di vari fattori, tra cui il contesto lavorativo.

A sostenere questa tesi è una ricerca condotta da BVA Doxa per Mindwork, i cui risultati sono stati riportati sul sito di Ansa.it. Dallo studio emerge che circa il 50% degli italiani soffre di malessere psicologico sul lavoro. In Giappone, per esempio, esiste il “karoshi” per indicare proprio la “morte per il troppo lavoro”.

Alla luce di queste evidenze, risulta sempre più urgente non solo comprendere la condizione lavorativa in cui si ritrova costretta una grande parte della popolazione, ma anche attivarci per cambiare le cose.

Se è innegabile che il lavoro costituisca una fetta importante (per non dire la maggior parte) della nostra vita, risulta quantomeno necessario che ognuno di noi abbia la possibilità di instaurare un rapporto sano e proficuo con la propria occupazione, senza dover essere costretto a compromettere la propria salute mentale per portare a casa la cena.

Attualmente, la settimana lavorativa di quattro giorni, senza alcun taglio allo stipendio, è stata avviata in molti paesi, rilevando complessivamente un impatto positivo per entrambe le parti implicate.

 

L’esperimento e i compromessi

I vantaggi della giornata lavorativa di 4 giorni sono molti, sia per il personale che per le audaci aziende coinvolte. In molti paesi dell’Unione Europea, tra cui Inghilterra, Belgio e Scozia (e prossimamente anche la Spagna), sono stati condotti degli esperimenti pilota della durata di almeno sei mesi in cui i dipendenti hanno avuto la possibilità di scegliere se intraprendere un percorso lavorativo di quattro giorni.

A tal proposito, Repubblica ha riportato che, all’inizio di giugno, nel Regno Unito è stato avviato il più grande esperimento al mondo per testare la settimana lavorativa ridotta, senza alcun taglio alla busta paga.
Il progetto coinvolge più di 3000 dipendenti e 70 aziende ed è condotto in collaborazione con le prestigiose Università di Oxford e del Boston College. Lo scopo dell’iniziativa è infatti proprio quello di verificare l’impatto e gli effetti che la riduzione del monte ore, a parità di retribuzione, può avere sulla produttività aziendale e sul benessere del personale.

Il concetto di base è che, lavorando per meno giorni, i dipendenti siano meno stressati e riescano a sfruttare meglio i tempo a disposizione, ottimizzando le prestazioni e risultando quindi più efficienti e produttivi.

Studi condotti in Giappone hanno già dimostrato i grandi vantaggi di questo nuovo modo di vedere ed organizzare il lavoro: al termine del progetto, i lavoratori erano più felici ed il 40% più produttivi, riscontrando un miglioramento dell’equilibrio tra lavoro e vita privata, oltre che una riduzione massiccia dei casi di stress e burnout.

É evidente quindi come la produttività non dipenda da quanto lavoriamo, ma dalla qualità e dal mindset con cui il lavoro viene affrontato.

 

La riduzione della canonica settimana lavorativa sembra quindi impattare molto positivamente sulla salute mentale dei dipendenti, migliorandone la felicità e comportandone anche un aumento della produttività durante le ore di lavoro. Lavoratori più motivati ed efficienti non possono quindi che avere un impatto positivo sull’azienda. Tra gli effetti positivi, si annovera anche un potenziale impulso al tasso di occupazione, oltre al fatto che questa possa contribuire all’eliminazione del gender-gap, cioè il divario (in primo luogo salariale) che tutt’ora esiste tra uomini e donne. Secondo il World Economic Forum infatti, l’aumento del tempo libero sia per gli uomini che per le donne garantirebbe ad entrambi i genitori di potersi occupare dei figli senza essere costretti (in particolar modo le donne) a rinunciare al lavoro o a dover ricorrere al part-time.

 

Vivere per lavorare o lavorare per vivere?

L’equilibrio tra lavoro e vita personale è di fatto il risultato di un abile gioco tra priorità e dignità della vita.

Si spendono ormai fiumi di parole per spiegare quanto la nostra esistenza sia diventata tremendamente frenetica, connessa e digitalizzata: non abbiamo un attimo per fermarci, respirare e riflettere, mentre sognamo di diventare ubiqui.

Siamo cresciuti in un contesto socioculturale che, nella maggior parte dei casi, ci ha sempre insegnato a rendere il lavoro una priorità, secondo il motto: “Prima il dovere, poi il piacere”.

Il concetto che, negli anni, abbiamo costruito del lavoro ha però progressivamente acquisito dei contorni sempre più cupi e distorti: focalizzandoci sulla necessità di trovare un’occupazione che ci garantisse di (soprav)vivere, abbiamo tralasciato la possibilità di svolgere una professione che rispecchiasse realmente noi stessi e le nostre inclinazioni. I turni opprimenti, gli orari fissi e gli straordinari sottopagati sono condizioni che certamente non migliorano questo rapporto già molto complesso ed incrinato.

Nonostante sia auspicabile riuscire a trovare un lavoro che ci renda felici, talvolta accade che le aspettative vengano deluse, costringendoci in delle realtà non sempre soddisfacenti, come testimoniano i risultati di un’analisi condotta dell’Istat. L’elemento maggiormente impattante in questa logica è il concetto di “lavoro totalizzante”, secondo cui la nostra persona dovrebbe esaurirsi completamente all’interno della mansione svolta. Spesso però, passioni, interessi ed altri slanci vitali rimangano tagliati fuori dal nostro panorama lavorativo e vengono relegati in quel famoso bacino del “tempo ibero”, che diventa sempre più esiguo e ridotto.

 

Se è chiaro che non siamo persone monolitiche, in quanto abbiamo un’anima ricca di sfaccettature in continua evoluzione, al lavoro, che costituisce gran parte della nostra esistenza, spetta il compito di accompagnarci in questo processo di crescita ed adattamento.

Se è vero che le potenzialità lavorative si stanno progressivamente ampliando e diversificando, coprendo uno spettro sempre più ampio di inclinazioni umane, è anche necessario che le modalità di erogazione del lavoro si conformino ad una società più fluida e flessibile, in continua evoluzione.

 

La macchina economica deve perciò venire in contro a queste nuove esigenze, adattandosi ad una matrice umana che altrimenti, come magma, fonderà le gabbie che attualmente gli sono imposte.

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È possibile trasformare le città italiane grazie all’innovazione digitale?

Sebbene le nuove tecnologie digitali portino benefici concreti e visibili in moltissimi ambiti, non sempre è facile implementarle: è il caso delle città italiane, di cui si è discusso durante il Web Marketing Festival, che si è tenuto a Rimini tra il 16 e 18 giugno. Durante i panel abbiamo ascoltato l’esperienza diretta di sindaci e tecnici provenienti da contesti urbani molto differenti, ma uniti nella ricerca di strategie per far diventare pervasive e fruibili da tutti le soluzioni digitali nelle città.

Perché è difficile portare l’innovazione digitale nelle città italiane?

I problemi che sono stati posti sono ancora privi di una soluzione definitiva, perché spesso sono connaturati alla struttura della tipica città italiana: nel suo intervento Maurizio Carta (potete leggere la sua intervista qui), architetto e urbanista, l’ha definita “novecentesca”. Se da una parte il patrimonio culturale e artistico italiano è intrinsecamente legato ai centri urbani e c’è accordo nell’intento di preservarlo e valorizzarlo, dall’altra è difficile, in un contesto simile, rivoluzionare l’infrastruttura di una città per farla diventare davvero smart. Si rischia perciò di limitare le innovazioni possibili a “protesi digitali” sul corpo di una città che non diventa digitale a sua volta.

Inoltre bisogna creare l’infrastruttura necessaria per organizzare, interpretare e sfruttare al meglio i dati. Per questo è fondamentale che le grandi città, che hanno già visto avviare progetti di digitalizzazione, guidino i piccoli comuni nel percorso dell’innovazione. Un esempio in questa direzione è stato portato da Massimo Bugani, assessore all’agenda digitale di Bologna: l’inaugurazione annunciata di un nuovo percorso formativo I.T.S. (cioè di istruzione tecnica superiore) sulla cyber-sicurezza ha portato alla nascita di progetti pilota anche nei comuni dell’area metropolitana di Bologna.

Gemelli digitali delle città: che cosa sono e perché ne abbiamo bisogno?

Come si utilizzano grandi quantità di dati per migliorare le città? Immaginate di poter conoscere preventivamente come la realizzazione di un nuovo complesso avrà effetti sulla città (anche a livello di sostenibilità ambientale) o quali danni potrebbero verificarsi in un cantiere: questo è possibile grazie a un gemello digitale, cioè una “rappresentazione virtuale di un’entità fisica o di un sistema anche complesso”. Si tratta di un modello che può esistere e rappresentare in modo sempre aggiornato la realtà grazie alla raccolta e all’elaborazione costante dei dati provenienti dal sistema che bisogna riprodurre (nel caso delle città, da un cantiere, dalla rete stradale etc.). Grazie ai dati è possibile, con simulazioni condotte dal e sul gemello digitale stesso, predire futuri danni e così progettare interventi di manutenzione preventiva, oppure rimodulare un intervento sulla città in base alle nuove informazioni ottenute. Tutto questo non sarà però possibile se non sarà garantita l’installazione diffusa di sensori che registrino continuamente tutte le informazioni necessarie a conoscere lo stato della città e la presenza, all’interno delle amministrazioni comunali, di tecnici specializzati nel trattamento dei dati.

È possibile un “Rinascimento” per i borghi italiani?

Come è possibile valorizzare anche i centri urbani che non hanno una vocazione per la digitalizzazione paragonabile a quella delle metropoli, come i borghi? Concentrare tutti gli sforzi sul turismo tradizionale non è più sufficiente: è necessario digitalizzare i servizi culturali e turistici rivolti ai viaggiatori e fare sì che questi servizi siano connessi e condivisi tra borghi vicini, così che la possibilità di visitare territori collegati sia agevolata e incoraggiata. Ma ancora non basta: durante il Web Marketing Festival è stato proposto e discusso il tema dei borghi come meta per i nomadi digitali, cioè professionisti “che svolgono un’attività lavorativa altamente qualificata attraverso l’utilizzo di strumenti che consentono di lavorare da remoto”.

Rispetto alle grandi metropoli, i borghi potrebbero diventare il posto ideale per il loro benessere fisico e mentale, e a loro volta i nomadi digitali potrebbero portare innovazione sul territorio. È necessario però che l’infrastruttura digitale dei borghi si adegui alle loro necessità lavorative, per esempio tramite la connessione ultraveloce.

Uno dei concetti fondamentali emersi dalla riflessione sulle città al Web Marketing Festival è la specificità di ogni contesto urbano: solo adattando le soluzioni che la digitalizzazione offre caso per caso è possibile portare un’innovazione che sia utile per tutti.

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Ambiente, società e tecnologia

La blockchain come mezzo per la sostenibilità: un rapporto in evoluzione

Un approccio sostenibile nella produzione e nel consumo deve diventare un pilastro portante per la società moderna. Non esiste, infatti, futuro che non sia gentile con il Pianeta, con gli animali e le persone e la situazione attuale di siccità lo conferma. Tutti (singoli cittadini, imprese e governi) devono intraprendere azioni per raggiungere l’obiettivo comune di sviluppo sostenibile.

Piccoli segnali positivi arrivano dai consumatori: i dati raccolti dall’Osservatorio per la Coesione e l’Inclusione Sociale nell’indagine avviata nel 2018 sul consumo responsabile mostrano che più del 60% degli intervistati si dichiara consumatore responsabile; sui social cresce la sensibilità al tema e sugli scaffali l’offerta. Dall’altro lato, però, una ricerca condotta da Astarea nel 2020 mostra che 1 consumatore su 5 non è in grado di riconoscere il greenwashing (per approfondire il tema della comunicazione sostenibile e il fenomeno del greenwashing si rimanda a questo precedente articolo della nostra redazione).

Sempre più imprese, in accordo con la crescente domanda di mercato e con le direttive europee, si stanno muovendo verso una produzione responsabile, con una filiera controllata ed etica, secondo le linee dell’Agenda 2030. Le imprese che si approcciano alla sostenibilità devono compiere un percorso non necessariamente lineare e in cui sono diversi sia gli aspetti che si possono tenere in considerazione all’inizio sia gli strumenti che si possono usare.

Durante il Web Marketing Festival, noi di iWrite abbiamo assistito al talk di Walfredo della Gherardesca, CEO e co-founder di Genuine Way, una start up ticinese che attraverso la blockchain fornisce un mezzo alle imprese per certificare la propria filiera di produzione. Ma in che modo la blockchain può essere utile a un’impresa che intraprende un cammino verso la sostenibilità?

La blockchain è una raccolta di dati in blocchi, concatenati e decentralizzati, con la caratteristica unica di essere immutabili. Una volta inseriti dei dati all’interno della blockchain nessuno ha il potere unilaterale di modificarli, alterarli o rimuoverli. Queste sue caratteristiche la rendono sinonimo di trasparenza e responsabilità e può essere applicata a diversi ambiti. Per quanto riguarda la sostenibilità, la blockchain può essere utilizzata dalle imprese come ulteriore mezzo per certificare le proprie azioni positive, in modo da arrivare direttamente al consumatore, ad esempio con un QR code apposto sul prodotto stesso che, una volta scansionato, racconta la storia del prodotto stesso, dalle materie prime allo scaffale. Ovviamente mettere informazioni sulla blockchain non significa necessariamente garantire la veridicità delle informazioni ma fornisce trasparenza a lungo termine, rimanendo a disposizione come archivio. Genuine Way per evitare l’autoreferenza delle informazioni immesse si basa su operatori autenticati terzi, di cui un’impresa normalmente già si avvale: fornitori, fornitori dei fornitori, provider dell’energia elettrica e altri. Questo approccio si fonda sulla teoria della multiplication of accountability, per cui moltiplicare le responsabilità diminuisce la possibilità di fare greenwashing.

 

Il legame tra blockchain e sostenibilità è in evoluzione, sia per la blockchain stessa che è un sistema molto energivoro, sia per il legame con le realtà presenti. Questo è solo uno dei modi in cui blockchain e sostenibilità si fondono ma il loro rapporto è destinato a modificarsi con il radicarsi di questi due aspetti nella nostra società.

 

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Ambiente, società e tecnologia

Il consumo è sempre più green: spunti di riflessione dal Web Marketing Festival

Se si interrogasse il dizionario online dei sinonimi e dei contrari, i primissimi termini suggeriti al posto di “sostenibilità” sono tollerabilità e sopportabilità.  Non è un caso che il concetto di sviluppo sostenibile sia stato anticipato di qualche anno dal “Rapporto sui limiti dello sviluppo”.  All’interno di questo libro veniva descritto, per la prima volta, l’esito di una simulazione al computer che aveva lo scopo di valutare le interazioni fra popolazione mondiale, industrializzazione, inquinamento, produzione alimentare e consumo di risorse. In particolare, veniva messo in evidenza che la crescita produttiva illimitata avrebbe portato allo smodato consumo delle risorse energetiche e ambientali con un irreversibile deterioramento del pianeta.

Quindi, il concetto di sostenibilità nasce dall’esigenza di individuare un prima, caratterizzato da un modello di sviluppo che se perpetuato avrebbe reso la nostra presenza nel mondo intollerabile, e delineare un dopo che, auspicabilmente, doveva essere basato su di un nuovo paradigma di sviluppo non solo diverso ma, per certi versi, opposto a quello antecedente.

 

La rivoluzione dal basso

Consumate quasi tutte le risorse a disposizione del genere umano e giunti al punto di pagarne le drammatiche conseguenze, lo sviluppo sostenibile, inteso come processo in grado di assicurare «il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri», è diventato una necessità. Oggi tutte le aziende sono chiamate a muoversi in tale direzione. Proprio in quest’ottica, nel 2015, le Nazioni Unite hanno pubblicato l’Agenda 2030, “un piano d’azione per le persone, il Pianeta e la prosperità”, che possa fungere da faro per le persone, per le aziende e per le nazioni.

La pandemia ha modificato la sensibilità dei primi anelli di questa catena. I consumatori, ora più attenti verso le tematiche ambientali e sociali, vogliono essere sempre più protagonisti del cambiamento. La conferma arriva anche dai dati citati da Americo Bazzoffia durante il suo intervento al WMF: in Italia, 7 consumatori su 10 hanno rivalutato il proprio modo di fare acquisti e addirittura il 39% dei consumatori è disposto a pagare fino a un 10% di più per prodotti sostenibili. Questo nuovo interesse spinge le aziende non solo a intraprendere una strada sempre più “green” ma anche a comunicare sempre meglio la loro sostenibilità.

 

Attenzione al greenwashing

Diversi studi dimostrano che il consumatore odierno è più sensibile, più competente e quindi più attento. Questo significa che la comunicazione della sostenibilità deve essere corretta, veritiera, attendibile, chiara, rilevante e coerente. Nasce per questo l’esigenza dell’affermazione del “claim etico” che si discosta dal playoff emozionale che negli anni scorsi tanto è stato utilizzato e che per lungo tempo ha generato grandi fenomeni di greenwashing.

Ad oggi, anche se non è presente ancora una normativa puntuale sull’argomento, è richiesto che i messaggi contenuti nella comunicazione siano sostenuti da evidenze e il produttore deve sempre consentire al consumatore di effettuare la verifica delle asserzioni con cui presenta il prodotto, per evitare di essere chiamato a rispondere davanti all’autorità nazionale a ciò designata di essere protagonista di una pratica commerciale sleale, con tutte le conseguenze negative sull’immagine aziendale che ciò può comportare. Qualora si ritenga di essere dinanzi a un sospetto caso di greenwashing, in Italia, è possibile rivolgersi all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, successivamente instaurare un giudizio civile e segnalare il caso all’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria. Almeno questo è l’iter perseguito lo scorso novembre nella prima sentenza per greenwashing in Italia.

 

Costruire la sostenibilità

Come visto in precedenza, il principio di sostenibilità si basa non solo sul rispetto intragenerazionale ma anche su quello intergenerazionale. Dunque ciascuno è chiamato ad agire secondo le proprie possibilità. L’aumento del fenomeno consumo-sostenibile sprona le aziende a una maggiore attenzione verso determinati temi e le spinge a competere non solo attraverso il prodotto o servizio fornito ma anche sulla capacità di comunicare e rendere verificabile il loro operato.

Proprio a questo punto entrano in azione gli enti di certificazione e le agenzie comunicative. Ai primi viene chiesto di controllare che i beni e i servizi siano prodotti o distribuiti secondo norma di legge mentre ai secondi viene chiesto di generare claim etici che non solo muovano il consumatore all’azione ma che siano in grado di informare correttamente e di comunicare la correlazione positiva che intercorre tra l’acquisto di un determinato bene o servizio e il suo impatto all’interno dell’ecosistema economico, sociale e ambientale.

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Ambiente, società e tecnologia

Come dovranno essere le città del futuro? Intervista al Professor Maurizio Carta

Il termine Antropocene è un neologismo coniato negli anni ottanta del novecento ma che è diventato celebre nei primi anni 2000 quando Paul J. Crutzen, premio Nobel per la chimica, durante un intervento esclamò: “Benvenuti nell’Antropocene”. Il sostantivo tanto dirompente quanto intuitivo piacque subito sia alla comunità scientifica che al grande pubblico.

 

Negli anni successivi la letteratura attorno al tema dell’antropocene fece registrare un’enorme proliferazione così, se volessimo farne un’estrema sintesi, potremmo dire che l’Antropocene è l’era geologica attuale che si contraddistingue dalle precedenti per via delle alterazioni ambientali causate dalla specie Homo Sapiens.

 

Questi argomenti hanno trovato spazio anche nella cornice del Web Marketing Festival di quest’anno” dove abbiamo incontrato Maurizio Carta, urbanista, architetto e docente dell’Università di Palermo che, in un’intervista, ci ha spiegato come dovrebbero essere le città del futuro per fare in modo che il Pianeta rimanga ancora abitabile per la nostra specie.

 

Salve Professore e benvenuto nella redazione di #iWrite, durante il suo intervento al WMF ha introdotto il termine “Antropocalisse”, le andrebbe di approfondire con noi questo concetto?

 

Intanto, volevo ringraziare e sono molto contento di partecipare a questo dialogo con la vostra redazione. Ora, tornando alla domanda, inizio col dire che per me Antropocalisse è un termine necessario. Vent’anni fa Crutzen ha parlato per la prima volta di “Antropocene”, una parola dirompente che andava a segnalare, non solo alla comunità scientifica ma anche al grande pubblico, che stavamo entrando dentro una nuova era tanto dal punto di vista geologico che da quello culturale, sociale ed economico. In questa nuova fase, l’Homo sapiens si presenta come la specie più trasformativa del pianeta. Tuttavia, come accade spesso nella terminologia tecnica, Antropocene si presenta come un termine ampiamente descrittivo ma al contempo potenzialmente neutro: è come se fosse lì per designare una condizione ineluttabile dell’evoluzione umana in cui siamo entrati e non possono essere presenti alternative. Proprio per questo, io preferisco utilizzare “Antropocalisse” che, invece, è volutamente provocatorio. Antropocalisse dichiara esplicitamente qual è il problema da affrontare; rende evidente, fin da subito, che ci troviamo in una condizione di apocalisse antropica. Siamo sull’orlo di un collasso, sul ciglio di un baratro e non solo per la salute del pianeta ma anche per la nostra esistenza. È l’umanità, che essendo diventata la specie più trasformativa della Terra, mette a rischio se stessa producendo effetti nefasti sul pianeta che lo rendono inabitabile per la specie umana. Per questo ritengo sia utile chiarire che ci si trova in una condizione da cui dobbiamo uscire: non ci possiamo limitare a contemplarla con sgomento, a guardarla con timore, siamo chiamati ad agire per cercare di porvi rimedio.

 

Per l’Italia quali sono i dati relativi?

 

L’Italia, come tutto il mondo del resto, è coinvolta dagli effetti dell’Antropocalisse e si trova in una condizione in cui è assolutamente necessario entrare in azione. Ad esempio, ogni persona che nasce nel nostro paese ha “in dote” 135 m2 di cemento. Potrebbero non sembrare molti, in fondo non è una cifra enorme, ma il vero problema è che questo cemento spesso non è rappresentato da superfici occupate da infrastrutture sicure e servizi utili o teatri, musei e altri luoghi che possano in qualche modo contribuire al miglioramento della qualità della vita. Anzi, spesso si tratta di cemento che pesa sulla sicurezza della popolazione e a dircelo sono i dati: ad esempio, l’8% delle scuole non è conforme alla normativa antisismica. Invece, sono 7.300.000 le persone che vivono dentro case esposte a un altissimo rischio idrogeologico. Questo è il cemento che pesa, cemento che per poter migliorare la qualità della vita dovrebbe essere ridotto o per lo meno trasformato. In Italia, abbiamo 15 m2 di verde urbano per ciascun abitante contro i 45 che ha mediamente un cittadino europeo, questo a sottolineare come nel nostro paese ci sia un’evidente mancata proporzione tra le strutture antropiche e quelle naturali. E ancora, il 33% delle persone abita in zone a forte vulnerabilità materiale e sociale: questi sono quartieri che mineralizzano e impermeabilizzano il territorio senza offrire nulla. Oggi le città sono i luoghi in cui sono (stati) resi tangibili gli effetti dell’Antropocalisse e per questo c’è necessità di ripensarle. Si aggiunga, inoltre, che dinanzi a questi numeri drammatici che indicano una condizione di criticità urbana, infrastrutturale e sociale l’Italia spende ancora pochissimo in termini percentuali di PIL (0.41%) per azioni di contrasto a questi fenomeni. Una cifra ancor più irrisoria se confrontata con quella investita da paesi con economie non dissimili che sono in grado di destinare alla causa quasi il quadruplo delle risorse. Quindi, se da un lato dovremmo aumentare le risorse economiche (e questo non è né semplice né veloce) dall’altro possiamo iniziare a agire fin da ora per ridurre il nostro consumo di suolo efficientando l’utilizzo di quella porzione che non possiamo fare a meno di consumare.

 

Quali sono le soluzioni possibili per uscire da questa situazione?

 

Per uscire dall’Antropocalisse, e sottrarsi dalla soglia del baratro, è necessario affrontare cinque rivoluzioni. La prima riguarda il contrasto al cambiamento climatico. Questo significa agire per mitigarne gli effetti e contemporaneamente per ridurre le cause che lo generano, trasformando profondamente i modi con i quali conduciamo la nostra esistenza. La seconda rivoluzione è la necessaria accelerazione della trasformazione digitale, cosa che ci permetterà di utilizzare in maniera ottimale i dati. Sarebbe utile poter costruire, per ciascuna città, un “gemello digitale” che permetta di simulare le trasformazioni calcolando effetti e impatti delle nostre azioni ancora prima di compierle. Un’altra rivoluzione è quella di far tornare le nostre città ad essere policentriche, una tendenza ancestrale ma completamente inversa a quella che si è affermata negli ultimi anni. Le città oggi sono eccessivamente monocentriche, ossia presentano un affollamento di servizi solo in determinate aree con conseguente periferizzazione di tutto il resto. Le città, e in particolare quelle italiane, non sono nate così. Infatti, le nostre città sono fatte di quartieri ciascuno con la propria autonomia e le proprie peculiarità. Questo forniva al nostro sistema socio-economico diversità, equilibrio e ricchezza e per questo faremmo bene a tornare a questi modelli. La quarta rivoluzione è quella legata alla capacità di riattivare il riciclo permanente della città. Parlo di riattivare perché in parte abbiamo mantenuto questa capacità ma il tempo che intercorre tra la dismissione e il riutilizzo della funzione è un tempo decisamente troppo lungo. In questo intervallo temporale vengono accumulati scarti che sono occasione di degrado dei contesti urbani oltre a rappresentare un costo al momento dello smaltimento. La soluzione, in questo senso, potrebbe essere un riciclo programmato: pensare alle funzioni della città perché siano immediatamente e facilmente riutilizzabili. Per fare ciò è necessario non solo sconvolgere la fase di progetto ma anche ammodernare le normative relative. L’ultima rivoluzione è quella per cui dobbiamo rendere le nostre città più femminili e plurali. Dobbiamo iniziare a guardarle con gli occhi delle esigenze delle ragazze, è necessario essere attenti a tutte le esigenze disegnando città conformi a tutte le forme di affettività familiare. Ecco queste sono le cinque rivoluzioni necessarie ma la loro attuazione presuppone un cambiamento poderoso non solo dal punto di vista urbanistico ma anche politico, sociale e culturale.

 

Secondo lei, ci sono già dei progetti, in Italia e all’estero, che possono essere utilizzati come modello positivo?

 

Sì, in realtà ce ne sono molti. Queste città io le chiamo “città aumentate” perché sono città che amplificano le possibilità e le opportunità oltre che aumentare la qualità della vita di chi vi risiede. In giro per il mondo ci sono davvero molti prototipi. Alcuni nomi possono essere Amsterdam, Copenaghen e Barcellona. Quest’ultima sta facendo un enorme lavoro sul policentrismo, invece, Parigi è molto attiva nel costruire “la città dei quindici minuti”. In Germania abbiamo interi quartieri costruiti affinché siano completamente indipendenti dalle fonti fossili per la generazione di energia. Anche in Italia abbiamo esempi virtuosi come ad esempio Milano che in questo momento sta sperimentando l’urbanistica tattica con attenzione alla qualità degli spazi aperti. Bologna, invece, è molto avanzata nel campo della trasformazione digitale. Inoltre ci sono una serie di esempi interessanti anche dal sud come Napoli, Palermo o alcuni esempi di città pugliesi che stanno lavorando nel mettere insieme la rigenerazione urbana e quella sociale. L’unico problema è che questi esperimenti sono ancora troppo pochi per essere incisivi e soprattutto si presentano come fenomeni episodici nati più dall’azione di amministrazioni particolarmente visionarie o dall’entusiasmo di una vivace comunità che da strategie adottate nella gestione sistematica delle città. Ecco, il mio auspicio è che non si tratti più di qualcosa di sporadico, di una serie di esperimenti di avanguardia, ma che il tutto sia trasformato ne “il modo” con cui vengono progettate tutte le città. Solo questo ci permette di entrare in una nuova epoca che io chiamo “Neoantropocene” in cui l’Homo sapiens rimane ancora la specie trasformante ma si trasforma in “Homo urbanus” che apre la strada evolutiva a una nuova umanità che assume su di sé il peso dell’urbanità ma le dà una nuova veste in cui è presente un equilibrio tra le sue esigenze e la natura

 

Può lasciarci qualche consiglio su come ciascuno di può contribuire alle cinque rivoluzioni nominate in precedenza?

 

Molto volentieri, il primo suggerimento è quello di iniziare a pensare in una dimensione che guardi al futuro. Questo significa che è necessario avere uno sguardo lungo e consapevole: alcuni processi hanno bisogno di tempo ma capire da cosa si deve iniziare perché il processo e la lungimiranza hanno bisogno della quotidianità. È necessario pensare con quello che a me piace chiamare “il pensiero dei costruttori di cattedrali medievali” che avevano la lungimiranza dello sguardo quando progettavano la cattedrale ma avevano anche la consapevolezza che quella cattedrale sarebbe stata costruita giorno per giorno da un’intera comunità che nel tempo magari avrebbe anche cambiato un po’ il progetto iniziale per adattarlo alla città e alla cittadinanza. Ecco abbiamo la necessità di imparare a tenere insieme il tempo lungo del progetto e la capacità di realizzarlo. Un altro suggerimento per l’evoluzione verso l’”Homo urbanus” è acquisire una poderosa capacità di cooperazione: tutti dobbiamo essere capaci di coprogettare, cogestire perché questo non è più il tempo dei recinti di competenza. Dobbiamo tornare a esercitare il governo e l’amministrazione del bene comune e dobbiamo iniziare a riprogettare le città proprio dallo spazio pubblico e con spazio pubblico non intendo solo quello di proprietà pubblica ma proprio quello che indipendentemente dalla proprietà rappresenta uno spazio in cui le persone si incontrano e si riconoscono. È necessario tornare alla dimensione della città pubblica ossia quella in cui la comunità esce dalla sua dimensione domestica e agisce nella dimensione propriamente urbana.

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Ambiente, società e tecnologia

Sport e tutela dell’ambiente: alla scoperta del Plogging

Se durante una corsetta all’aperto vi è capitato qualche volta di raccogliere dei rifiuti abbandonati lungo la strada, sappiate che, oltre ad aver compiuto una buona azione per l’ambiente, vi siete cimentati nel Plogging, una disciplina sportiva che consiste nel raccogliere i rifiuti mentre si corre.

Presente in Italia già da alcuni anni, nel 2015 si è svolta la prima edizione della Keep Clean and Run, la maratona sportivo-ambientale di sensibilizzazione al littering, l’abbandono di rifiuti di piccole dimensioni in spazi aperti e pubblici. Tuttavia, è nel 2016 che l’atleta svedese Erik Ahlström coniò il neologismo Plogging, formato dalla crasi tra la parola inglese jogging (correre) e il termine svedese plocka upp (raccogliere); il corridore scandinavo, infatti, stanco dei rifiuti presenti sul suo percorso d’allenamento, decise di ripulire il tragitto mentre si allenava, documentando la sua attività sui social network.

Da quel momento la disciplina si è diffusa a livello internazionale, venendo praticata sia in forma individuale che riunendosi in gruppi e associazioni per l’organizzazione di manifestazioni ed eventi sportivi locali, dove integrare i benefici psico-fisici derivanti dal praticare sport con l’obiettivo di fare qualcosa di utile per l’ambiente e per l’intera collettività, ripulendo strade, parchi, sentieri di montagna, fiumi e tutti i luoghi e gli spazi dove si vive e ci si allena.

Ogni anno vengono organizzati eventi locali, ma anche internazionali, come il World Plogging Championship, il primo campionato del Mondo, organizzato dal Comitato Internazionale di Plogging, che si è tenuto lo scorso ottobre in Val Pellice sulle Alpi torinesi; un territorio, quello torinese, scelto per ospitare anche la seconda edizione, in programma sempre in autunno dal 30 settembre al 2 ottobre prossimi, quando nelle Valli Olimpiche un centinaio di atleti si sfideranno per raccogliere il maggior numero di rifiuti trovati lungo il percorso di gara.

L’attività e le iniziative sportive, quindi, sono sempre più utilizzate per comunicare e sensibilizzare al rispetto dell’ambiente e alla lotta all’inquinamento come testimoniato anche dalla stipula nel 2019 della “Carta Internazionale per gli eventi sportivi sostenibili”, un vero e proprio impegno a realizzare e promuovere manifestazioni sportive meno impattanti e più rispettose per la natura. Sono, poi, aumentati anche gli atleti professionisti, tra gli altri la sciatrice olimpionica Federica Brignone o il calciatore norvegese Morten Thorsby, che tramite le loro azioni e iniziative si uniscono a quanti nella società si battono contro l’inquinamento, stimolando sempre più persone ad adottare scelte e comportamenti eco-sostenibili e rispettosi per l’ambiente.

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Ambiente, società e tecnologia

Desertificazione: cosa significa e una possibile soluzione per combatterla

Negli ultimi anni il cambiamento climatico ha guadagnato ampio spazio all’interno dei media soprattutto quando si è trattato di illustrare i catastrofici scenari che ci si appresterà a vivere in assenza di un significativo cambio di rotta. Tra le conseguenze meno citate dalla carta stampata vi è la desertificazione. Anche se un po’ controintuitivo, la desertificazione non è esattamente la generazione di nuovi deserti (il termine giusto in quel caso è desertizzazione) ma il “degrado delle terre nelle aree aride, semi-aride e sub-umide secche, attribuibile a varie cause, fra le quali le variazioni climatiche e le attività antropiche”.

Le cause

La definizione ufficiale è stata proposta dalla Convenzione delle Nazioni Unite per la Lotta contro la Siccità e la Desertificazione e pone al centro la degradazione fisica, chimica e biologica della matrice ambientale come conseguenza di una serie di alterazioni siano esse naturali o inflitte dall’azione dell’uomo. Tra le cause naturali vengono ricordate l’aridità, la siccità e l’aumento dell’erosività dei fenomeni precipitosi invece tra le cause antropiche annoveriamo principalmente lo sconsiderato uso del suolo e il sovrasfruttamento della risorsa idrica. Tra i driver antropici principali troviamo sia i danni generati dal settore primario che quelli dovuti all’urbanizzazione.

Quando parliamo delle cause naturali è necessaria una precisazione. Infatti, sebbene nell’uso comune aridità e siccità sono termini spesso utilizzati come sinonimi, nelle scienze hanno significati diversi. La prima, ossia l’aridità, è una caratteristica climatica mentre la seconda è un vero e proprio fenomeno e può interessare anche generalmente zone non aride. Una zona è correttamente definita arida quando, nelle situazioni ordinarie, presenta contemporaneamente scarsità delle piogge e forte evaporazione, invece una zona è definita siccitosa quando, in un determinato periodo, le precipitazioni sono sensibilmente inferiori ai livelli normalmente registrati, il che fa sperare che quella della siccità sia una situazione auspicabilmente transitoria.

La situazione

Nel 2018 il Joint Research Centre (JRC), ossia il servizio della Commissione europea per la scienza e la conoscenza, ha pubblicato l’Atlante mondiale della desertificazione. I dati riportati al suo interno sono molto preoccupanti: infatti si stima che ogni anno nel mondo a causa della desertificazione vengono degradati circa 4,18 milioni di km², una superficie che, come si fa notare nell’atlante, per ordine di grandezza potrebbe essere paragonata a quasi metà dell’Unione Europea. Inoltre, si conta che mantenendo costanti questi tassi, nel 2050, il 90% dei territori terresti potrebbe essere già degradato.

I dati illustrati non destano preoccupazione solo a livello ambientale ma anche a livello sociale e economico. Infatti, l’impoverimento e la degradazione delle terre genereranno importanti ondate migratorie: all’interno del documento sopra citato si stima che nel 2050 fino a 700 milioni di persone saranno sfollate a causa di problemi legati alla scarsità delle risorse del suolo ed entro la fine del secolo questa cifra potrebbe toccare addirittura i 10 miliardi. Le notizie non sono migliori per chi decide di restare in queste zone in quanto l’aumento della povertà incentiva situazioni di instabilità politica che si sommano alle difficoltà ambientali.

Secondo Ibrahim Thiaw, segretario esecutivo dell’United Nations Convention to Combat Desertification, il costo globale della desertificazione potrebbe aggirarsi addirittura sui 15 mila miliardi di dollari all’anno mentre per la sola Unione Europea il costo economico della degradazione del suolo è stimato nell’ordine di decine di miliardi di euro all’anno.

Un progetto per difenderci dalla desertificazione

Nel tempo sono sorti moltissimi progetti per poter rallentare la corsa alla desertificazione, tra i più importanti c’è quello della Great Green Wall. La grande muraglia verde non è altro che un’enorme operazione di forestazione che attraverserà ben 11 stati africani e si estenderà per 7000 Km di lunghezza e 15 Km di larghezza. La piantumazione proposta ha come obiettivo quello di arrestare l’avanzamento della degradazione della savana africana oltre che quello di porre un freno sulla accelerazione del cambiamento climatico.

Pur essendo stato lanciato nel 2007 quello della Grande muraglia verde è ancora un progetto in continuo divenire ed è difficile poter parlare già di risultati ma i primi timidi segnali positivi arrivano dal Burkina Faso dove in questi anni è stata riforestata una superficie pari a 30.000 km².

L’inizio dei lavori per l’installazione della muraglia verde è simbolo del fatto che non è più possibile limitarsi a leggere e commentare i dati climatici, è necessario entrare in azione e cercare di profondere tutte le energie possibili perché la rotta non può più essere invertita e per questo non ci resta che limitare i danni.

 

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Legge “Salvamare”: tutto quello che c’è da sapere

L’11 maggio è stata definitivamente approvata al Senato la “Legge Salvamare” che promette di avere un impatto significativo sulla salute di fiumi, laghi e mari del nostro paese.

 

Iniziamo con qualche numero per comprendere la dimensione del problema. Ogni anno nel mondo vengono prodotte circa 300 milioni di tonnellate di materie plastiche e di queste 8 milioni vanno a finire nelle acque di tutto il globo, rappresentando l’85% dei rifiuti ritrovati lungo le coste, sulla superficie e sui fondali marini. Il Mar Mediterraneo ne ospita circa 230 mila tonnellate, mentre nelle acque tirreniche è stata riscontrata la più alta concentrazione di microplastiche mai misurata nelle profondità: 1,9 milioni di frammenti per metro quadrato.

 

Le conseguenze di questo elevato inquinamento si riflettono sulla fauna marina, la quale può arrivare a modificare la propria catena alimentare con ripercussioni su moltissime specie viventi o addirittura venire danneggiata talvolta fino alla morte. Ovviamente il pescato contaminato può giungere nei nostri piatti e già numerose evidenze scientifiche suggeriscono un impatto nocivo delle microplastiche sull’apparato endocrino umano.

 

Veniamo al DDL approvato pochi giorni fa dalle nostre Camere. Cosa prevede? La sostanziale modifica rispetto alla legislazione precedente riguarda l’inquadramento dei “rifiuti accidentalmente pescati” (RAP) ovvero “i rifiuti raccolti in mare, nei laghi, nei fiumi e nelle lagune dalle reti durante le operazioni di pesca”. Questi vengono infatti adesso equiparati a veri e propri rifiuti delle navi, quindi a comuni rifiuti solidi urbani. In precedenza i RAP, essendo inquadrati come rifiuti speciali, dovevano essere scaricati nuovamente in mare per non incorrere in pesanti sanzioni o peggio ancora nel reato di trasporto illecito di rifiuti. Quindi, da oggi, i comandanti di pescherecci o natanti che raccoglieranno plastica con le loro imbarcazioni potranno tranquillamente conferirla ai centri di raccolta portuali.

Qualche ombra però si aggira su questa preziosa legge, la prima legata al fatto che il comma 9 dell’art 2 “demanda ad un apposito decreto ministeriale [ … ] l’individuazione di misure premiali, […], nei confronti dei comandanti dei pescherecci soggetti al rispetto degli obblighi di conferimento disposti”. Tale decreto ministeriale verrà emanato entro quattro mesi dall’entrata in vigore della legge e attendiamo di conoscere esattamente che tipo di misure individuerà. La seconda ombra è invece attualmente solo speculativa e deriva da alcune considerazioni legate alla pesca a strascico, probabilmente la tecnica di pesca migliore per raccogliere rifiuti dai fondali, sicuramente la meno costosa e quindi molto redditizia ma al contempo la più dannosa per l’ecosistema marino. Questo tipo di attività è regolamentata da norme abbastanza stringenti ma quello che alcuni gruppi di ambientalisti auspicano è che non ne venga derogata la sua non sostenibilità a favore di una più rapida pulizia ambientale.

La legge “Salvamare” agisce sostanzialmente nell’attuare misure per contrastare i danni già apportati ai nostri mari, ma non affronta il problema alla radice cioè non si pone l’obiettivo di diminuire drasticamente la produzione di tutto ciò che si trasforma nei secoli in materiale inquinante e che possiamo facilmente identificare non solo nella plastica da imballaggi ma anche in quanto viene spesso prodotto dall’industria cosmetica, dalla moda,  dall’usura dei pneumatici e dalle stesse attività commerciali e non legate al trasporto marittimo. A proposito del settore moda e tessuti, non è stata approvata dalla Camera dei Deputati la misura proposta dal Senato sull’etichettatura dei prodotti tessili che rilasciano microfibre.